Tre delitti borghigiani
In
passato, nemmeno tanto tempo fa, la società sammarinese era
indubbiamente meno tranquilla di quella odierna, con ricorrenti
furti, ferimenti, stupri e violenze varie di cui il vasto Archivio
Criminale, conservato presso l’Archivio di Stato, da cui si sono
ricavati gli episodi di questo saggio, può fornire miriadi di
testimonianze.
Il
Borgo, luogo di mercato, di commercio, di bettole e ubriacature, di
costante ritrovo di gente di tutti i tipi, era una località spesso
al centro di tali reati, come documentano i tre omicidi di cui si
sta per parlare, diversi tra loro per genesi e sviluppo, ma tutti
perpetrati nel corso dell’Ottocento qui da borghigiani.
Ve
ne furono anche altri, ma già i tre che si descrivono in questo
saggio sono indicativi di una società fin troppo effervescente,
irascibile e rissosa, dal senso dell’onore molto elevato.
San Marino non era peggio di altre località del suo circondario,
altrettanto violente, forse anche di più. Non appariva, però, quell‘idilliaca
isola felice, piena di quiete e letizia, che una certa storiografia
apologetica ci ha con frequenza tramandato, tralasciando senza
remore i fatti meno soavi di cui anche la nostra storia, come le
storie di tutti i popoli, è composta.
Primo delitto: Uxoricidio
In
un giorno di marzo del 1831, il dottor Madruzza, medico di Città,
Borgo e zone limitrofe, stava svolgendo l’ennesima visita alla
signora Antonia Martelli di Borgo.
Non era la prima volta che si recava in casa della donna a
controllare il suo stato di salute. Anzi, erano già sei giorni che
aveva iniziato a seguirla, ma senza riscontrare miglioramenti.
Aveva diagnosticato una cardiologia irritativa, e l'aveva curata
come andava fatto in base alle limitate conoscenze mediche
dell’epoca, prima con una bibita di limone e sale di tartaro
alcalino, poi con salassi giornalieri.
Tutto però era risultato inutile: la signora Antonia, appena
trentaquattrenne, giorno dopo giorno stava indebolendosi sempre più,
e lui non sapeva che altro fare.
Era giunto alla conclusione che non doveva essere una semplice
cardiologia irritativa, come aveva subito diagnosticato, ma
qualcos’altro di più debilitante e pericoloso.
Un
avvelenamento da qualche sostanza?
All’improvviso il medico ebbe questa illuminazione. Cominciò a
guardarsi attorno nella stanza da letto in cui la sua paziente stava
supina, alla ricerca di qualcosa che avvalorasse la sua ipotesi.
Sopra una madia qui collocata notò un bicchiere e due boccali
opachi. Si avvicinò per verificarne il contenuto. Pareva acqua,
nulla di straordinario. Esaminò meglio e con circospezione il
liquido dei due contenitori. Nel primo non vi era altro che limpida
acqua, incolore e inodore. Nel secondo, invece, notò alcuni granelli
in sospensione di una indefinibile e strana sostanza giallognola.
Nella stanza insieme a lui si trovava il marito dell’ammalata,
Assideo Grazia, e la Pagnucca, la serva di casa. Il dottore informò
entrambi che avrebbe portato via uno dei due boccali per esaminarne
il contenuto. Senza attendere risposta, se ne partì immediatamente
in direzione della vicina spezieria dei fratelli Pietro e Beniamino
Righi per far esaminare il liquido della caraffa. Dopo una trentina
di minuti, risultò palese che la sostanza presente nell’acqua era
arsenico. La signora Antonia, dissetandosi, era stata giorno dopo
giorno lentamente avvelenata da qualcuno.
Madruzza fece sigillare il boccale dai Righi e si recò
immediatamente dal bargello Mosè Maroni per denunciare il fatto, ma
non lo trovò in casa. Decise allora di tornare dalla sua paziente
per sequestrare e mettere i sigilli anche all’altro boccale, insieme
al bicchiere da cui essa beveva.
Fatto ciò, il dottore rincasò nella sua abitazione in Città per
scrivere sull'accaduto, e su quanto aveva potuto sommariamente
verificare di persona, un dettagliato resoconto da presentare al
commissario della legge Ceccovilli.
Letta la relazione, costui pensò immediatamente che autore del
misfatto dovesse essere qualcuno di casa, probabilmente il marito.
Il giorno dopo, sabato 12 Marzo, Grazia venne tradotto nella Rocca,
il carcere dell’epoca, per verificarne le eventuali responsabilità.
All'epoca le indagini e i processi erano assai sbrigativi:
s’interrogavano più volte tutti coloro che potevano avere qualche
informazione sui fatti investigati, si verbalizzavano le loro
dichiarazioni, e quando il commissario era convinto di essersi fatto
una chiara idea sull'accaduto, si svolgeva il processo a carico del
presunto colpevole, che aveva diritto ad un avvocato difensore: alla
fine tutto il materiale raccolto veniva sottoposto a un giudice che
emetteva la sentenza.
Tra il 13, 14 e 15 marzo Ceccovilli interrogò i principali testimoni
della vicenda. Fece inoltre perquisire l'abitazione di Grazia in
cerca di ulteriori prove. Il 16 si recò in Borgo per interrogare
direttamente la Martelli, immobilizzata a letto.
Dalle interrogazioni svolte, emerse che Assideo da anni intratteneva
una relazione amorosa con un’altra serva di casa, la giovane
Giovanna Galassi, ragazza risoluta che, da quanto emerse, voleva
prendere a tutti i costi il posto della signora Antonia.
La
Galassi, in combutta con l’amante, già da tempo stava cercando di
uccidere la padrona di casa, che era gracile di salute e soffriva di
ricorrenti problemi di stomaco, facendola bere vino e alcolici vari,
di cui era ghiotta, nonostante le facessero male, dandole cibo
avariato, cercando in tutti i modi di far degenerare i problemi di
salute della signora.
La
Martelli veniva inoltre trattata male psicologicamente con offese,
rimproveri e sopraffazioni vari, ma il suo carattere remissivo e
arrendevole le aveva sempre evitato qualunque ribellione, facendole
sopportare tutto con rassegnazione.
In
Borgo tutti sapevano della tresca amorosa, e molti erano a
conoscenza anche dei dispetti e soprusi a cui era sottoposta la
signora Antonia, ma nessuno si era mai preoccupato d’intervenire o
di dir qualcosa, lasciando così la poveretta al suo destino.
La
maggior parte dei testimoni ascoltati dal commissario era convinta
che la principale colpevole di tutta la brutta faccenda fosse la
Galassi, donna con pochi scrupoli morali, degna addirittura di
essere frustata sulla pubblica piazza, ebbe a dire un testimone,
com’era ancora in uso per le femmine di malaffare.
La
signora Antonia aveva inoltre dichiarato che le propinava cibo e
bevande dal sapore orribile, che lei fingeva di consumare
totalmente, mentre in parte gettava via o nascondeva. Così aveva
fatto anche con un pezzo di biscotto, che Ceccovilli subito reperì e
sequestrò.
Il
commissario si rese conto delle gravi responsabilità della Giovanna,
per cui il giorno 16 ne ordinò l'arresto. Essa però era già riuscita
a fuggire verso Rimini, per cui subì il processo in contumacia.
Negli ultimi giorni di marzo Ceccovilli continuò la sua indagine
alla ricerca della verità. Scoprì che Assideo, prima di sposarsi,
aveva lavorato per due anni in una spezieria come apprendista,
imparando così i rudimenti della farmacologia dell'epoca.
Inoltre era un pittore dilettante, e si preparava da solo i colori:
sapeva quindi che per fare il giallo occorreva l'orpimento, ovvero
il solfuro di arsenico di colore oro, letale per l'uomo se assunto
in giusta quantità, sostanza di facile reperibilità.
Il
2 aprile egli venne interrogato per la prima volta: dichiarò di non
aver alcuna relazione sentimentale con la Galassi, la quale
frequentava la sua casa solo perché cognata del cantiniere che lì
prestava la sua opera. Secondo lui, la malattia della moglie era
causata esclusivamente dal suo vizio di esagerare con gli alcolici.
Nel corso del mese la signora Antonia peggiorò ulteriormente,
perdendo del tutto la sensibilità a mani e piedi.
Il
19 maggio il commissario fece sottoporre a esame da parte dei
fratelli Righi, del dottor Madruzza e del dottor Paolo Margotti,
medico di San Leo chiamato appositamente come tecnico esterno, i
boccali e il bicchiere, ancora sigillati, e il pezzo di biscotto
sequestrato. Tutti contenevano tracce di orpimento. Probabilmente la
Martelli era ancora viva perché ne aveva ingerito fin lì piccole
quantità.
Nei mesi successivi Assideo Grazia venne sottoposto a ripetuti e
meticolosi interrogatori, ma egli negò sempre tutto, sostenendo che
la Galassi era solo una serva che frequentava spesso la sua casa
perché l'aveva incaricata di sorvegliare con attenzione la moglie,
che aveva già strapazzato a morte tre dei suoi figli, per cui aveva
paura che potesse fare altrettanto anche con l'unico superstite,
Ortolero di quattro anni d'età.
Il
31 ottobre il tribunale emise la prima sentenza: Giovanna Galassi,
contumace, venne considerata rea di veneficio e fu condannata al
sequestro di tutti i beni e alla pena di morte. Ugualmente Assideo
Grazia fu ritenuto colpevole di avere avvelenato la moglie in
complicità con l'amante.
Fu
condannato alla confisca dei beni e alla pena capitale, che però non
venne mai eseguita.
Secondo delitto: Vendetta
Nel primo pomeriggio del 26 agosto 1854, il dottor Annibale
Lazzarini, medico di Città, Borgo e zone limitrofe, si recò a
cavallo a casa di Luigi Lonfernini a Valdragone, che era a letto
indisposto.
Fatta la visita, seguito dal fratello dell’ammalato, Eugenio, andò
in Borgo presso la spezieria Righi per fornire al suo giovane
accompagnatore le medicine per Luigi.
Durante il tragitto, s’imbatterono in due giovani borghigiani,
Lorenzo Martelli e Giuseppe Amati, che iniziarono a seguirli a
piedi. Inizialmente Lazzarini non diede peso alla cosa, ma quando
arrivò nei pressi della chiesa di Santa Maria, vedendo che i giovani
gli stavano sempre dietro, chiese a Eugenio di prestargli una delle
due pistole che il giovane aveva con sé, in quanto lui era armato di
un semplice coltello. Il dottore in genere girava col fucile a
spalla, ma quel giorno non l’aveva preso.
Temeva che i suoi inseguitori, che ora erano tre perché lungo il
cammino si era aggregato Giacomo Martelli, avessero cattive
intenzioni: infatti avevano iniziato a urlargli offese e a tirargli
sassi, sollecitandolo ad andarsene via subito dal Borgo dove non era
gradito.
Lazzarini accelerò il passo per raggiungere il più in fretta
possibile la spezieria. Qui giunto, entrò sconvolto massaggiandosi
la schiena colpita da un sasso, e chiedendosi perché lo avessero
infastidito. Nello stesso tempo rassicurò Eugenio, sempre al suo
fianco, dicendogli che non doveva temere nulla, perché lui non aveva
paura di nessuno.
Dopo pochi minuti, visibilmente alterato, Lazzarini volle uscire
dalla bottega, nonostante che Righi lo invitasse a rimanersene al
suo interno ancora per qualche tempo.
Nella piazza davanti alla spezieria si erano disposti i suoi
inseguitori, cioè Giacomo Martelli, suo cugino Lorenzo e il fratello
di quest’ultimo Gaetano.
“Io prevedendo qualche tristo fatto - dirà poi Righi quando fornirà
la sua testimonianza al brigadiere Paoli - mi rivoltai per
tornarmene in spezieria e mentre ero per chiudere le imposte, vidi
di già in terra il dottor Lazzarini, sopra al quale si trovavano
Gaetano e Lorenzo Martelli, mentre tentava di montare una pistola
che gli vidi in mano per la prima volta”.
Alle quattro pomeridiane si sentì improvvisamente risuonare un colpo
di arma da fuoco: Lazzarini giaceva esanime in mezzo alla piazza.
L’ora e il luogo fecero sì che al delitto assistessero molti
testimoni. Eugenio Lonfernini disse che aveva visto Lazzarini uscire
animoso dalla bottega, brandendo una pistola e dirigendosi verso
Giacomo Martelli dall’altra parte della piazza. Scorse costui
estrarre dalla tasca un’arma, ma senza far fuoco. Notò inoltre un
uomo che indossava calzoni rossi e un capello attorniato di pelo
nero che avvinghiò da dietro il medico. Sentì dopo poco due colpi di
arma da fuoco e vide Lazzarini immobile a terra.
Altra deposizione simile fu quella di Carlo Reffi, muratore che
stava lavorando in piazza. Dichiarò di aver visto giungere Lazzarini
a cavallo, inseguito da alcuni giovani a piedi che gli urlavano di
non aver paura perché non erano assassini, e rifugiarsi dai Righi.
Giuseppe Ravagli, altro testimone, disse al brigadiere di aver
sentito dire a Lazzarini che “egli non era figlio della paura” prima
di entrare nella spezieria, dove si era trattenuto pochi minuti.
Uscito dal locale, una voce gli aveva urlato che non doveva starsene
in Borgo. Il dottore di rimando aveva gridato: “Non mi fate paura”,
poi si era diretto contro uno dei giovani e aveva sparato, ma la sua
pistola aveva fatto cilecca. Fu a questo punto che altri due giovani
gli furono addosso e iniziò la rissa.
Ulteriori dettagli li fornì Domenico Galassi, il quale vide
Lazzarini giungere a cavallo tallonato da Giacomo, Lorenzo, Gaetano
Martelli e Giuseppe Amati, che gli urlavano che non erano “sgrassatori”.
Doveva però andarsene subito dal Borgo perché non era una presenza
gradita. Nelle mani dei giovani notò solo sassi che vennero tirati a
Lazzarini anche quando uscì dalla spezieria.
Altri testimoni videro invece Giacomo Martelli impugnare una pistola
e volgerla contro Lazzarini, pur rimanendo a distanza dal medico.
Qualcuno dichiarò che aveva sparato, qualcun altro disse che non lo
aveva fatto. Reticenze e antipatie verso il medico non permisero di
capire con chiarezza chi avesse premuto il grilletto assassino.
L’avversione nei confronti di Lazzarini dipendeva dall’atteggiamento
da lui assunto verso i giovani del Borgo dopo l’omicidio del
Segretario di Stato Giambattista Bonelli, perpetrato il 14 luglio
del 1853, e soprattutto dopo la morte per accoltellamento di Gaetano
Angeli, fidanzato di sua figlia Rosina, avvenuta il 14 marzo 1854
durante una rissa con altri giovani in Città.
All’epoca molti Sammarinesi erano convinti che operasse nel paese
una setta mazziniana eversiva, seguace delle ideologie
risorgimentali più estremiste, ostile all’oligarchia ai vertici del
paese, che prima aveva ucciso Bonelli in un agguato, poi Angeli,
membro di una famiglia nobile e conservatrice.
Lazzarini era uomo risoluto e spiccio che si era messo in testa di
essere una potenziale vittima della fazione mazziniana. Facendosi
affiancare da qualche altro individuo, deciso come lui a liberare il
paese dalle teste calde che ne stavano minando la tranquillità,
aveva iniziato a girare armato a caccia dei presunti membri della
setta, “molestando quanti trovava”, raccontò un testimone.
Se
la prendeva soprattutto con i borghigiani, di cui sparlava in
continuazione etichettandoli come i più sovversivi e pericolosi di
tutti. Le autorità si erano dimostrate compiacenti e lo avevano
lasciato fare, ma i giovani del Borgo non lo volevano più vedere.
Nel giugno del 1855 si concluse il processo contro coloro che si
erano azzuffati col dottore. Il giudice comminò pene miti, perché
l’omicidio non fu ritenuto premeditato, ma causato
dall’atteggiamento spavaldo di Lazzarini, che era stato il primo a
impugnare una pistola e a sparare. Gaetano, Lorenzo e Giacomo
Martelli furono condannati a tre anni di esilio. Francesco Martelli
e Giuseppe Amati, minorenni, a due. Per Michele Amati, un altro
giovane borghigiano che aveva preso parte allo scontro, non vi erano
prove sufficienti, per cui venne prosciolto. I cinque esiliati
furono inoltre condannati a indennizzare la vedova del medico e a
pagare le spese processuali.
Terzo delitto: Rancori
Luigi Giardi da tempo nutriva livori verso Marino Dall’Olmo per un
vecchio debito che costui aveva verso la sua famiglia. Giovanni
Giardi, padre di Luigi, gli aveva infatti prestato dei soldi per
acquistare una stoffa presso la bottega di Decio Mariani di Borgo.
In parte Dall’Olmo aveva restituito la somma, ma non era ancora
riuscito a saldare per intero il debito. La cifra restante era
modesta, appena 16 lire e mezzo, ma i Giardi erano divenuti
intransigenti e la rivolevano indietro. Contro Dall’Olmo avevano
anche mosso un’azione giudiziaria, e nel corso del 1896 lo avevano
molestato e minacciato ripetutamente. Un giorno Vincenzo, fratello
di Luigi, lo aveva preso a calci e pugni, tanto che Luigi Belloni,
un teste presente durante il pestaggio, gli ebbe a gridare “Smetti
di menare! Non vedi che è un sacco di vino?”.
Lo
avevano perseguitato al punto che Dall’Olmo, per paura, schivava
ogni possibile occasione d’incontro con i Giardi, descritti negli
atti processuali da cui si è ricavata la descrizione del fatto come
“giovani irracondi (sic), violenti e maneschi”. Evitava anche di
frequentare le bettole del Borgo per non ritrovarseli davanti.
Temeva insomma di essere come il “cane di campagna che è sempre
battuto quando capita in città!”.
Probabilmente l’astio dei Giardi verso Dall’Olmo, con cui in
precedenza esisteva un rapporto di amicizia, non dipendeva solo dal
modesto debito che aveva nei loro confronti, ma anche da altri
fattori che durante il processo non sono però emersi.
In
molti amici e conoscenti comuni si erano dati da fare per riportare
la pace tra le parti; a un certo punto sembrava che ci fossero anche
riusciti: infatti Luigi Giardi un giorno era andato a cercare
Dall’Olmo nel podere dove lavorava e avevano brindato insieme. Dopo
aver bevuto, costui domandò se poteva considerarsi chiusa la
situazione conflittuale, e se poteva tornare senza problemi in
Borgo. “Va pur là, che ora è ogni cosa fatta”, gli rispose
rassicurante Giardi.
Il
10 gennaio 1897 Dall’Olmo si recò tranquillo a giocare a carte nella
cantina Filippi, dove incontrò per caso anche i Giardi: il padre
Giovanni, e i tre fratelli Luigi, Vincenzo e Marino, ma non
accaddero incidenti.
Finito di giocare, Dall’Olmo cambiò locale e si recò dapprima nella
cantina di Remo Giacomini, poi verso le 15,30 nella vicina casa
Valentinotti dove si stava svolgendo un “lieto convegno di ballo e
di bere”. Qui si portò anche Luigi Giardi che lo avvicinò
dicendogli: “Scappa fuori che ho bisogno di dirti una parola”, e
l’altro: “Se vuoi dirmi qualcosa dimmela qui, perché io non scappo”.
Giardi perseverò : “Fa un altro ballo e poi scapperai”. Dall’Olmo
continuò a non dargli ascolto, nonostante le reiterate insistenze,
rifiutandosi così di aderire al “mal uso di cui frequenti dà gli
esempi il paese”, cioè di uscire dal locale per accettare la sfida
del suo interlocutore. Giardi quindi se ne andò.
Dopo un breve lasso di tempo, uscì dal locale anche Dall’Olmo con
l’intenzione di andare dall’ispettore politico, cioè dalla polizia,
per denunciare quanto accaduto. Inaspettatamente all’esterno del
locale lo attendeva Giardi che subito lo afferrò al collo dandogli
vari pugni in faccia e spingendolo verso una zona più isolata di
quella in cui si trovavano, mentre gli urlava: “Bada qui, bada qui,
hai paura di discorrere con me?”.
Alcuni passanti riuscirono in un primo momento a sedare la zuffa, ma
Giardi brandì un coltello facendo scappare tutti e mettendosi
all’inseguimento di Dall’Olmo, anche lui in fuga. A un certo punto,
inciampando nella sua mantella, cadde, e Giardi, sempre armato di
coltello, gli fu addosso “come una pantera” urlando “Dagli al
vigliacco!”. Dall’Olmo si convinse di essere alla fine dei suoi
giorni: “Oh Madonna adesso ho fatto”, gli fu sentito dire.
A
questo punto avvenne un colpo di scena: Giardi “ad un tratto cadeva
supino, emetteva un rantolo, si volgeva verso il fianco sinistro, ed
era un cadavere”. L’assalitore aveva avuto la peggio perché durante
la lotta Dall’Olmo era riuscito a estrarre il proprio coltello di
tasca e a colpire il suo avversario dritto al cuore; lui invece era
rimasto ferito e sanguinante solo a un braccio.
Capendo “che il colpo era stato fatale”, bestemmiò e si rifugiò
inizialmente nell’abitazione di Lorenzo Lividini, poi se ne andò
adagio a casa sua dove poco dopo venne arrestato, tradotto in galera
e in seguito processato. Non subì conseguenze di natura legale. Nel
maggio del 1898, infatti, il giudice Enrico Kambo lo assolse
pienamente giudicandolo, a causa delle persecuzioni subite dai
Giardi e da Luigi in particolare, più vittima che carnefice.
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