Brevi accenni
ai rapporti tra San Marino e Granducato di Toscana
Si hanno tracce
di rapporti fra San Marino e Toscana, prevalentemente di natura
commerciale e lavorativa, fin dall’epoca comunale. I Sammarinesi,
infatti, erano spesso costretti a recarsi fuori territorio per
esercitare quelle arti, o adoperarsi in quei lavori che all’interno
del loro paese facevano fatica a eseguire con continuità sia per le
ridotte dimensioni della comunità, cioè per le scarse possibilità
che vi erano di lavorare proficuamente per l’intero anno solare, sia
per l’endemica povertà, o comunque scarsa disponibilità economica,
che San Marino ha registrato fino al presente secolo. Per
questo un fenomeno tipico della società sammarinese era in passato
la cosiddetta emigrazione temporanea, ovvero l’emigrazione
che avveniva in quei periodi dell’anno più inclementi in cui
soprattutto contadini e braccianti, che rappresentavano la massa dei
lavoratori sammarinesi, dovevano andarsene dal loro paese per
cercare di guadagnare qualche soldo con cui continuare a
sopravvivere.
In genere i sammarinesi prediligevano emigrare nello Stato
Pontificio, sotto la cui influenza sociale, politica e culturale la
Repubblica di San Marino ha vissuto per secoli, o nell’Urbinate per
i rapporti particolari che sono esistiti tra Urbino e San Marino
fino al XVII secolo. Tuttavia anche la Toscana era meta degli
emigranti sammarinesi: abbiamo esempi di emigrati illustri, come
l’architetto militare Giovan Battista Belluzzi, detto proprio il “Sammarino”,
della cui grande perizia si avvalse a lungo Cosimo I de’ Medici; o
Mastro Antonio Orafo, che presso la corte medicea ebbe la
possibilità di esercitare pienamente quell’arte che nella sua
patria, sempre per carenza di disponibilità finanziarie nella
popolazione, non poteva godere di spazi adeguati.
Accanto a questi emigranti di lusso è senz’altro lecito
immaginare tanti altri lavoratori anonimi ed ignoti che puntualmente
prendevano la via della Toscana, di Firenze, di Siena e di chissà
quant’altre città o zone del Granducato, per trovarvi quel pane che
il loro minuscolo e non sempre ospitale Stato stentava
frequentemente a fornire.
Ci sono pervenute anche diverse testimonianze di studenti
sammarinesi che hanno portato a termine i loro studi in Toscana,
soprattutto presso l’università di Siena. Tuttavia il mondo
studentesco sammarinese fu per secoli assai limitato, sempre per le
difficoltà finanziarie che impedivano a quasi tutte le famiglie
della Repubblica di far studiare i loro figli. Inoltre anche in
campo culturale i sammarinesi preferivano studiare nel loro
circondario, soprattutto a Bologna e Urbino.
E’ certo comunque che tra San Marino e Granducato di Toscana
non venne mai sottoscritto alcun trattato, per cui i rapporti tra le
due realtà politiche furono più che altro di natura informale.
Relazioni fitte tra San Marino e Granducato le registriamo
invece tra il 1853 e il 1854 quando, per paura che la Repubblica
fosse un covo di mazziniani pericolosi per la stabilità del loro
Stato, le autorità toscane s’industriarono non poco per porre sotto
più stretto controllo il territorio sammarinese.
Erano quelli anni assai turbolenti per la Repubblica, tanto
che il 14 luglio del ’53 era rimasto ucciso il suo Segretario
politico per opera di alcuni locali democratici estremisti, aiutati
da diversi rifugiati politici italiani. Per garantire alle indagini
la maggiore obiettività possibile, i governanti sammarinesi avevano
chiesto aiuto al Granduca di Toscana, ed in seguito avevano affidato
il processo relativo all’omicidio ad alcuni funzionari della Corte
Regia di Firenze. Indagando in loco, costoro si erano fatti l’idea
che a San Marino operasse una setta segreta d’ispirazione
mazziniana, ma il governo sammarinese, per paura di eventuali
ritorsioni da parte dello Stato Pontificio, aveva preferito lasciar
cadere tale ipotesi, vietando che venisse aperta un’indagine tesa a
scoprire l’effettiva esistenza di tale setta. Da questo divieto in
poi i rapporti con gl’inquirenti fiorentini divennero più tesi, così
come quelli con il Granducato.
Poiché nel 1854 avvennero in Repubblica altri due omicidi che
potevano in qualche modo essere ricollegati al primo, il Granduca,
stimolato in ciò dalle autorità romane, si rivolse al grande
protettore sammarinese dell’epoca, l’imperatore francese Napoleone
III, perché appurasse come stessero le cose, dichiarandosi
disponibile a spedire sul territorio sammarinese una guarnigione
toscana per garantire la tranquillità sammarinese e, naturalmente,
quella degli Stati circonvicini.
Alla fine Napoleone scelse di inviare un suo funzionario per
capire in modo diretto cosa stesse accadendo a San Marino. Costui,
dopo aver fatto tutte le verifiche necessarie, relazionò che la
situazione non era così fosca come le autorità toscane ritenevano, e
che la Repubblica l’aveva ormai sotto controllo. Il Granducato,
quindi, poteva starsene tranquillo senza bisogno di mandare le sue
truppe.
Sull’altro problema di cui vorrei parlare, ovvero la nobiltà a
San Marino, mi dilungherò maggiormente, visto l’interesse che tale
questione riveste in questa specifica occasione.
Per capire in maniera adeguata il concetto di nobiltà secondo
la mentalità sammarinese e soprattutto l’interpretazione che,
attraverso i miei personali studi sul problema, sono giunto a
maturare, occorre partire da un fatto imprescindibile e
fondante: San Marino da molti secoli è una Repubblica e questa sua
particolare dimensione politica ha sempre avuto un peso
preponderante nella mentalità della sua gente, condizionandola nei
suoi rapporti verso il concetto di nobiltà. Le sue modeste
dimensioni, la sua povertà costante, il bisogno che ha sempre avuto
di tutti i suoi cittadini per la sua difesa, ma anche per il
ripristino gratuito delle infrastrutture pubbliche, per esempio, o
per il riassetto delle sue strade, a cui erano obbligati per statuto
indistintamente tutti coloro che abitavano ai loro margini, ha nel
tempo fornito una certa omogeneità alla sua popolazione, creando una
mentalità tendenzialmente egualitaria, o se vogliamo democratica e
repubblicana che, pur con i distinguo necessari in base alle diverse
epoche storiche e alle diverse accezioni che simili vocaboli hanno
assunto nel tempo, è una costante della storia sammarinese.
Ciò non significa che all’interno della piccola comunità non
esistessero patrizi e plebei, cioè cittadini posti su diversi piani
sociali per prestigio, per cultura, per benessere economico o per
altri motivi ancora. Tuttavia in nessuno dei tanti statuti
sammarinesi scritti dal XIII secolo in poi si legittima la
distinzione tra nobili e non nobili, per cui tale differenziazione,
che pur dobbiamo registrare soprattutto a partire dal XVI secolo in
poi, si dovette senz’altro più a volontà emulative da parte dei
Sammarinesi più abbienti verso i nobili delle società limitrofe, e a
tacite consuetudini divenute gradualmente norme non scritte,
che ad altro.
Chi ha succintamente esaminato il problema delle origini
della nobiltà a San Marino ha sottolineato che il primo accenno ad
una nobiltà locale si ha in un documento del 1° ottobre 1646
intestato come segue: Regnantibus in Ill.a Republica
Illustrissimis DD. Capitaneis Claudio Bellutio et Paulo Antonio
Honofrio Nobilibus Sammarinensibus.
Dopo questa data abbiamo altre tracce che testimoniano la
crescita di un ceto nobiliare locale che, col tempo, assunse
posizioni predominanti all’interno della società sammarinese.
Infatti il massimo organo politico della Repubblica dal XIII secolo
era il Consiglio dei LX che, dal XVII secolo in avanti, grazie ai
nuovi statuti varati all’inizio di tale momento storico, era
divenuto oligarchico e si rinnovava per cooptazione, non più
attraverso l’arengo dei capifamiglia com’era fin lì avvenuto. Anche
il suo nome era divenuto funzionale a questa nuova logica
costituzionale, tanto che da Consiglio Grande e Generale si
era trasformato in Consiglio Principe e Sovrano.
Gli statuti menzionati stabilivano che esso fosse composto da
quaranta cittadini e da venti contadini. Dal XVII secolo, invece,
cominciò per consuetudine, non per norma scritta, ad essere composto
da venti nobili, venti cittadini e venti contadini.
Probabilmente anche prima di questo periodo le famiglie
magnatizie locali erano dotate di un prestigio tale da essere
considerate superiori alle altre, ovvero patrizie e dunque nobili.
Tuttavia è proprio col XVII secolo che le distinzioni tra
Sammarinesi nobili e non nobili si accentuano, anche perché i nobili
diventano con gradualità il vero ed unico ceto governante, rendendo
ovviamente il Consiglio sempre più oligarchico e la Repubblica
sempre più virtuale.
I vantaggi di essere nobili a San Marino erano tutti qui:
appartenere all’aristocrazia, alla “gentry” economica e
culturale che stava ai vertici del paese gestendolo in apparenza con
logica repubblicana, effettivamente con cultura elitaria. Il
concetto di repubblica, tuttavia, anche in questo periodo rimase
forte nella coscienza collettiva sammarinese, e gli stessi oligarchi
si guardarono bene dal rendere troppo palese e sfacciato il dominio
che detenevano sulla comunità. Però in realtà tale dimensione
politica era ormai più teorica che sostanziale, perché chi gestiva
in concreto il piccolo Stato, sicuramente approfittandosene anche,
erano solo poche famiglie autonobilitatesi.
Nel Settecento il fenomeno continuò, tanto che si volle fare
un preciso distinguo tra Reggente nobile, che diveniva di fatto
l’uomo politico più potente della Repubblica, e Reggente non nobile,
relegato quasi al ruolo di comprimario. Anche in questo caso,
comunque, lo spirito repubblicano che animava la coscienza
collettiva era ben guardingo nel vigilare che nessun Reggente
durasse in carica più del tempo previsto per statuto, ovvero sei
mesi.
L’instaurarsi di un’oligarchia nobiliare creò tuttavia anche
conflittualità all’interno della Repubblica di San Marino, e
contestazioni verso i potenti locali. Ne abbiamo traccia nel 1737,
per esempio, quando una fazione richiede il ripristino dell’arengo
dei capifamiglia, non più convocato dal 1571, per riformare il
Consiglio. Ne abbiamo traccia in pieno periodo napoleonico,
precisamente nel 1797, quando un gruppo di giovani “insorgenti”,
ispirati dal giacobinismo d’importazione francese, contestò
violentemente il giogo d'oligarchi che reggeva la
Repubblica sia perché costoro venivano accusati di aver creato
disposizioni legislative che avevano alterato lo spirito democratico
tradizionale della Repubblica, sia perché avevano iniziato a
fregiarsi di titoli nobiliari. Ora il Popolo però, che si è
accorto dell'inganno degli Aristocratici pretesi - recita un
manoscritto dell'epoca - ma ha reclamato con tutta l'umiltà, e
nelle più circospette, e dovute forme avanti lo stesso Consiglio
quantunque avesse potuto altrimenti da se solo convocare l'Arringo
Generale a norma dei suoi statuti per estirpare un simile abuso,
chiede per tanto l'abbolizione dei decreti contrari alli Statuti, la
sopressione della sognata Nobiltà, e la perfetta osservanza delle
leggi Statutarie. Per anche non è stata appagata la populara
volontà, ma spera di rivedere ben presto ristabilito il suo antico
Governo Democratico, essendosi anche alcuni Aristocratici dichiarati
di volere volontariamente rinunciare a tale Aristocrazia
abusivamente introdotta.
L'estensore del documento, di certo un popolano dalla cultura
piuttosto modesta, era erroneamente convinto che l'Arengo potesse
essere convocato direttamente dalla cittadinanza sammarinese, mentre
gli statutari che avevano curato la redazione degli statuti
secenteschi si erano ben guardati dal prevedere una simile
eventualità, perché solo la Reggenza, che ovviamente scaturiva
sempre dall'oligarchia dominante, poteva convocarlo. L'Arengo era
stato emarginato con la stessa logica con cui in Francia erano stati
accantonati gli Stati Generali, e con cui in Inghilterra si era
tentato, sempre nella prima metà del Seicento, di esautorare il
Parlamento. Ma questo il nostro popolano non poteva forse saperlo,
visto che era convinto di vivere in una repubblica e non in una
monarchia. Perciò era ingannevolmente persuaso che fosse il popolo
il vero padrone dello Stato, e potesse riunirsi in assemblea in
qualsiasi momento lo desiderasse.
Nel 1823-24 vi furono altre polemiche contro gli oligarchi,
così come per tutto il periodo risorgimentale, perché una latente
coscienza democratica, sostenuta da qualche illuminato memore della
tradizione repubblicana, ovviamente ostile verso la nobiltà e verso
chiunque tendesse a volersi distinguere dalla massa “repubblicana”
del paese, era sempre pronta a rimarcare l’assurdità di
differenziazioni sociali all’interno di una società di uguali,
fondata per lo più da un sant’uomo umile e operaio com’era stato
Marino da Arbe il quale, morendo, non aveva creato distinzioni tra i
suoi eredi. Queste perciò non potevano essere ritenute né legittime,
né morali.
Quando una Repubblica trascende o dimentica i
principj sui quali è fondata - recita un
documento della metà dell’Ottocento critico nei confronti di alcuni
nobili dell’oligarchia imperante - è forza le succedano il
dispotismo e l'anarchia. Atene, Sparta, Roma, la Francia offrono
esempi troppo fatalmente luminosi di guerre civili, di sanguinari
triumvirati, di proscrizioni tremende, di despotismo, quando in
mezzo a costumanze corrotte scordarono le antiche leggi di Solone, e
Licurgo, Bruto e i Gracchi, Desmoulins e Mirabeau. Ma se i vostri
miti costumi vi salvarono in oggi, e vi salveranno in avvenire o
Popolo Sammarinese, dal più tremendo flagello dell'Umanità, dalla
guerra civile, furono però funesto incentivo all'ambizione di un
uomo che male da voi conosciuto fu da voi medesimo alzato al Supremo
potere. Ma l'ora dell'espiazione è suonata per Lui. Le patrie
istituzioni providero alla facile ambizione che dal consolato
mirasse alla dittatura coll'autorità concessa a tempo, ma la prima
pagina delle vostre Leggi è la Casa della vostra libertà. Lo
scordarlo è delitto supremo per voi. Essa vi addita, vi inculca
l'arringo. Questa riunione in faccia ai vostri rappresentanti in cui
ogni buon Repubblicano può e deve farsi fondare esatta ragione di
una mal gestita autorità, in una parola di tutto ciò che offende
interessi, patria, Libertà, commune ben'essere. Egli è oggi che
conviene ritornare con forza a questa primitiva coltura a questa
Santissima Legge! Egli è oggi, o Popolo Sovrano, che conviene
ricordarsi del proprio potere. All'arringo dovete tradurre gli
iniqui che hanno in questi ultimi tempi sfacciatamente compromessa
la vostra Repubblica.
Più di tanto non è possibile dilungarsi in questa sede
sull’argomento in questione, intorno a cui si potrebbero comunque
citare tantissime altre testimonianze.
E’ chiaro che in un paese dominato da simile mentalità
fortemente egualitaria la nobiltà non poteva svilupparsi più di
tanto, o doveva essere tendenzialmente silenziosa e discreta. In
effetti per San Marino è più corretto parlare di patriziato
piuttosto che di nobiltà; non a caso i due vocaboli si confondono
costantemente, tanto che non è possibile distinguerli o dar loro
accezioni peculiari.
Il patriziato tra l’altro fu dal XVII a tutta la prima metà
del XIX secolo il riconoscimento che la Repubblica dispensava a chi
l’aiutava, o comunque si rendeva meritevole della sua benevolenza,
insieme alla cittadinanza onoraria. La prima traccia che si ha di un
conferimento di cittadinanza nobile ad uno straniero è del 1669. Il
patriziato sammarinese venne poi accettato come “nobiltà generosa”
anche dall’Ordine di Malta e da quello di Santo Stefano.
Inoltre nel 1844 il governo del Granducato di Toscana
riconobbe che il titolo di patrizio sammarinese potesse dare diritto
all’iscrizione fra la nobiltà toscana.
Il momento in cui la Repubblica di San Marino dovette
veramente interessarsi alla nobiltà furono gli anni intorno al 1860,
periodo assai turbolento per il minuscolo Stato per gli
sconvolgimenti che stavano interessando tutta l'Italia, e per le
inevitabili incertezze sul suo futuro, vista la politica
unificatrice perseguita dal Piemonte. Anche su questi aspetti non
posso dilungarmi più di tanto, per cui rimando per ulteriori
approfondimenti ad un altro mio testo ( I tempi di Palamede
Malpeli, San Marino 1994) che tratta proprio delle
questioni cui ora si può accennare solo succintamente.
In breve si può dire che San Marino era vissuto in relativo
isolamento fino agli anni in questione, intrattenendo rapporti quasi
esclusivi con lo Stato Pontificio. Questa sua particolare realtà gli
aveva permesso di non avere necessità di relazioni internazionali,
di ambasciatori, di funzionari vari o di altro ancora, così da poter
vivere nella sua modestia secondo i costumi semplici e spartani di
sempre.
Tale situazione giunse improvvisamente a mutarsi dopo il
1848, quando le turbolenze italiane, la precarietà della sua
situazione interna, le forti pressioni di Roma e del Granducato per
i fatti di cui si è detto obbligarono San Marino a cercarsi
protezioni internazionali. Furono per fortuna trovate senza grosse
difficoltà nei primi mesi del 1853 grazie alla Francia di Napoleone
III. Questo nuovo potente alleato permetterà alla Repubblica di
mettersi al riparo dalle sollecitazioni esterne, ma la obbligherà
pure ad entrare repentinamente in una dimensione internazionale del
tutto nuova per lei, con logiche e metodologie a cui farà fatica ad
abituarsi.
Nel ’54 venne nominato Incaricato d’affari sammarinese a
Parigi l’avvocato Giovanni Paltrinieri; da questo momento in avanti
la Repubblica avvertirà sempre più l’esigenza di avere qualche
onorificenza da distribuire senza grossi vincoli per scopi
diplomatici, e per crearsi ulteriori simpatie europee. In realtà
aveva già una Medaglia del merito militare la cui ideazione
si era dovuta ad un estimatore fiorentino di San Marino, il principe
Don Guglielmo Ernesto di Bevilacqua, che gliel’aveva donata nel
1852. Tuttavia proprio le caratteristiche militari della medaglia ne
limitavano l’uso, per cui nel 1857 Bevilacqua avrebbe voluto
regalare alla Repubblica un’altra onorificenza di natura non
militare. Purtroppo nel giugno di quell’anno il nostro personaggio
morì improvvisamente, lasciando il progetto in sospeso. Un amico suo
e della Repubblica, Oreste Brizi, che avrebbe avuto il compito di
redigere lo statuto con cui regolamentare la distribuzione del nuovo
ordine cavalleresco cui aveva pensato Bevilacqua, iniziò ad
esercitare pressioni su San Marino affinché si dotasse autonomamente
della nuova onorificenza. A suo
giudizio era assai bizzarra, o meglio ridicola, una medaglia del
Merito coll'epigrafe Anzianità, e perché non produce gli
effetti che produrebbe una decorazione di forma più graziosa
epperciò più gradita, e meno comune coi tanti segni d'onore che
oggigiorno veggonsi sul petto dei soldati di tutti i Paese.
Tutti gli Stati civili ed anche tutte le Repubbliche del mondo,
secondo Brizi, avevano le loro onorificenze da poter distribuire
senza problemi; perché dunque non dee averne la Repubblica di San
Marino, Stato sovrano quanto altri mai? Ma la sua
adozione non fu così facile come Brizi pensava, sempre per quella
diffidenza che i Sammarinesi avevano a dotarsi di titoli dal sapore
nobiliare, per la loro peculiare mentalità repubblicana.
Nell'immediato il governo sammarinese lasciò dunque in
disparte la proposta, tanto che in novembre si fece dono della
vecchia onorificenza a Cavour, e ad altri due personaggi della corte
torinese. Ma i rappresentanti diplomatici della Repubblica
iniziarono a criticare sempre più la medaglia militare, e a
chiedere qualche onorificenza migliore per potere lavorare ancora
più proficuamente a favore di San Marino, così da creare nelle
maniere più consone ed opportune nuovi amici e simpatizzanti, in un
momento storico tanto incerto e pieno di possibilità.
Oltre a Brizi vi furono altri pronti a criticare la vecchia
medaglia sammarinese, come l’avvocato Filippo Canuti, sostituto di
Paltrinieri dopo che questi nel 1857 venne nominato console francese
a Parma, il quale, con lettera del 20 dicembre 1857, suggeriva di
rimpiazzare la decorazione in uso con una croce di ordine
cavalleresco. Questa richiesta indusse i governanti sammarinesi a
sottoporre la questione a Paltrinieri, rimasto loro consulente,
anche perché nel frattempo un certo Sonnino di Livorno aveva chiesto
per sé il titolo di Barone di Casole (piccola località sammarinese).
Con lettera dell'8 gennaio 1858, quindi, la Reggenza esponeva al suo
amico il progetto del duca di Bevilacqua inviato da Brizi,
dicendogli inoltre che, secondo il governo sammarinese,
l'istituzione di un ordine cavalleresco poco armonizzava con
la locale Costituzione, e che era desideroso di non discostarsi
tanto dalla sua antica semplicità, per cui aveva rifiutato il
proposito del duca, dimostrandosi disponibile solo a togliere il
termine "anzianità" che tutte le sue medaglie riportavano.
A proposito della richiesta di Sonnino, la Reggenza informava
Paltrinieri che fino a questo punto non sono mai stati conferiti
titoli siffatti, i quali per avere origine dall'antico feudalesimo
ci sembrano per ver dire poco adattabili fra Noi anche per non far
cosa che potrebbe riescire discara a tanti distinti personaggi
ascritti al nostro Patriziato.
In questa lettera più che in altri documenti degli anni in
questione emerge il problema in cui si stava dibattendo la piccola
comunità sammarinese. Per secoli essa era vissuta in disparte ed in
silenzio, senza aver contatti al di là dello Stato pontificio, né
dilemmi di natura diplomatica, né particolari esigenze oltre la sua
semplice sopravvivenza, e la strenua difesa di un'ipotetica libertà
la cui conservazione con molte probabilità compensava interiormente
le tante rinunce a cui si era costretti in suo nome. Ora invece i
tempi erano cambiati, San Marino era diventato "internazionale",
perché era rappresentato alla corte napoleonica, e stava progettando
di essere presente anche in altri Stati. Ora non si poteva più
vivere nascosti, com'era avvenuto praticamente da sempre, né
permettersi quella tragica povertà che pur era stata un buon
deterrente per eventuali mire annessionistiche, né quella vita
semplice a cui la lettera ingenuamente tenta di richiamarsi. Il
Medioevo era finito, e con esso tanti aspetti storici che anche la
Repubblica di San Marino non poteva più permettersi.
Nella lettera inviata a Paltrinieri tutti questi aspetti
erano evidenti; tuttavia egli, nella sua risposta del 22 gennaio,
non respinse l'ipotesi di creare una onorificenza del tutto nuova,
consigliando velatamente così la Reggenza a non temere di
compromettere la semplicità repubblicana di cui San Marino andava
fiero. Quanto all'istituzione di un ordine Cavalleresco -disse-
pare anche a me non essere il momento molto opportuno a ciò. So che
questa idea è stata emessa da molti; riconosco i vantaggi che può
trarre un Governo dalla distribuzione di tali onori rendendosi
benevoli i capi od almeno gli ufficiali più influenti dei Gabinetti
Esteri; ho riconosciuto per esperienza che uomini anche molto in
alto collocati, coperti già da tutte le croci d'Europa fanno buon
viso, o piuttosto ambiscono le decorazioni meno importanti. Non
sarei perciò lontano dal amettere una certa utilità per la
Repubblica nella istituzione di un ordine cavalleresco. Penso però
che tale istituzione dovrebbe avere una forma diversa da quelle
stabilite dal Governi Monarchici: per conseguenza, non Gran
Maestranza, non titoli e gradi di Grandi Ufficiali, di Commendatori
ecc.ecc. ma soltanto un ordine di Cavalleria con cavalieri di prima,
di seconda, e di terza classe. Parmi che ciò non ripugni alla forma
repubblicana considerando che la Repubblica Romana, la Veneta ed
altre hanno pur esse avuto un ordine di Cavalieri. Il Sovrano del
Paese, Il Consiglio Principe, sarebbe l'assoluto distributore
di tali onori. Riguardo al costo della decorazione, Paltrinieri
suggeriva di farlo pagare direttamente al decorato come spesa di
cancelleria, e in quanto al titolo di barone richiesto da Sonnino
egli affermò che le sole Monarchie hanno accordato titoli di
Barone, e non parmi conveniente per la nostra Repubblica di dare un
simile esempio. L'istituire poi un Barone di Casole sarebbe
proprio un tornare a vita le idee di feudalità.
Da questa lettera in poi il problema di istituire
nuove onorificenze diventò ricorrente, ed i governanti sammarinesi
entrarono gradualmente nella logica di dover creare un ordine
cavalleresco. Il 1° ottobre fu Brizi a ritornare alla carica sul
problema, inviando nuovamente un progetto di statuto per la nuova
decorazione sammarinese, e per protestare per le varie onorificenze
da lui richieste per conto di altri, e mai concesse dal Consiglio,
anche se alcune sarebbero state ricompensate con donativi in denaro
di non lieve entità. Egli si stupiva profondamente del fatto che San
Marino, pur in condizioni economiche assai misere, rifiutasse le
cifre promesse (2.000 franchi), mentre altri Stati (portava ad
esempio la Grecia), tramite i loro rappresentanti diplomatici,
chiedevano senza problemi doni, ricompensandoli poi con decorazioni.
San Marino non doveva vergognarsi di aver bisogno della generosità
degli altri, perché Stati ben più grandi non si vergognavano di
incassare denaro con le loro decorazioni. Inoltre l'essere
repubblica non doveva impedire di istituire un ordine cavalleresco,
perché ordini simili l'avevano, o l'avevano avuto e li utilizzavano
senza preoccupazioni tutte le repubbliche del mondo.
Il 30 giugno 1859, in piena
guerra d'indipendenza, fu invece Enrico D’Avigdor, nuovo
rappresentante sammarinese a Parigi, ad esercitare pressioni sulla
Reggenza: In vista delle circostanze che debbano verificarsi dopo
la Guerra conviene di preparare anticipatamente tutti i mezzi di
persuasione dei quali ciascuno Stato può servirsi. Fra quelli che la
diplomazia usa sempre impiegare tengono un gran posto le decorazioni
le quali lusingano l'amor proprio degli uomini, e soddisfano la loro
ambizione. La Repubblica avendo la sua medaglia, io non voglio
proporre ch'ella cambi, ma io raccomando alla di Lei attenzione la
nota qui acclusa la quale credo essere nell'interesse del Governo di
considerare attentamente. Anzi io la impegnerei a prevalersi della
Sua giusta influenza per far passare la mia proposizione
relativamente alla medaglia. Bisogna riflettere che in appoggio
della loro forza materiale gli altri Stati d'Europa hanno il denaro,
le influenze di parentela, i ranghi, i gradi, le posizioni che
possono dare, e i titoli. La nostra republica non ha che la
sua modesta medaglia, mentre ignoro s'ella possa accordare titoli.
Conviene dunque sviare con abilità il problema di questa modesta
decorazione nel servizio e la conservazione della republica. D’Avigdor
proseguiva suggerendo di rendere più appariscente e importante la
decorazione sammarinese, così che fosse più allettante nel caso
qualcuno l'avesse voluta, e particolarmente apprezzata dopo che
fosse stata ricevuta.
Tutti questi inviti non lasciarono più indifferenti le
autorità sammarinesi. Nell’agosto del ’59 il Consiglio istituì
ufficialmente una nuova decorazione il cui primo esemplare, nel suo
massimo grado di Cavalier Gran Croce, venne donato in tutta fretta
al figlio di Napoleone III, ovviamente per la situazione in cui si
trovava l'Italia e per il peso che in questa situazione aveva la
Francia. Lo statuto del nuovo ordine equestre venne invece
promulgato sette mesi dopo, il 22 marzo 1860, insieme a quello per
la medaglia del merito militare e civile: solo dopo tale data
vennero consegnati altri titoli.
La Repubblica aveva dunque le sue nuove onorificenze distinte
in cinque gradi (cavalier gran croce, grand’ufficiale, ufficial
maggiore, ufficiale e cavaliere semplice), ma ormai si era inoltrata
lungo una strada nuova che aveva anche altre possibilità, come
l’istituzione di veri e propri titoli nobiliari.
Colui che instradò la Stato sammarinese lungo questa
ulteriore via fu D’Avigdor, il quale con lettera del gennaio 1861
chiese per sé il titolo di Duca d'Acquaviva (un Castello della
Repubblica) come riconoscimento per i tanti servizi svolti fin lì.
Come si è visto, una richiesta simile (il titolo di Barone di
Casole per Sonnino di Livorno) era stata rigettata in precedenza
perché considerata non confacente ad una costituzione repubblicana.
Erano nel frattempo passati però tre anni, e si erano verificati
tanti fatti nuovi, per cui ora la domanda godette di altra
attenzione, pur se ancora in mezzo a mille perplessità.
Tramite lettera scrittagli l'11 febbraio del 1861 la Reggenza
comunicava a D’Avigdor che vi erano difficoltà a conferirgli il
titolo richiesto. Domandava poi di fornire degli esempi di altre
Repubbliche Democratiche aventi titoli Feudali. D’Avigdor
rispondeva assai risentito un mese dopo, il giorno 11 marzo: Le
onorifiche ricompense sono le uniche colle quali il Governo
Sammarinese possa premiare i servigi che gli si rende, e quando i
detti sono resi col disinteresse che porti, meritano qualche cosa
eccezionevole. Non m'appartiene di fare panegirici, dell'operato mio
per la Repubblica, ma appartiene meno ancora al Governo di San
Marino, di non istimare dei sacrifici di tempo e di borsa, che niun'altro
avrebbe fatto in mia vece, e ch'oggi giorno sommano senza
esagerazione, ad una somma non minima dei 20.000 franchi. (...) In
tutte le antiche repubbliche, eccezioni somiglianti hanno luogo,
soprattutto quando trattasi del titolo di Duca, che è intieramente
Italiano, o piuttosto dell'antica Roma, e che aveva esistenza molto
prima delle feodali istituzioni. Non vi è Governo che non ricerchi
rimmunire dei segnati serviggii, e pertanto, non vi è agente
diplomatico, che operi sacrifizii, tali sono quelli che faccio
giornalmente io medesimo, del tempo mio e della mia borsa, e che
replico sono di tale importanza, che mi sarebbe difficile il
continuarli, se in contraccambio non avessi la convinzione, che
giustamente sono apprezzati a Sammarino. Del resto, un'eguale titolo
non ha bisogno d'essere pubblicato, ed è sufficiente che siami
conferito con diploma, purché attenda l'opportuno momento, per io
parlarne senzacchè il governo di Sammarino, sia minimamente
compromesso. Sembrami del resto che la condotta mia, fin qui, ha
dovuto dar prova al Sovrano Consiglio Principe, che ben ho saputo
aggiungere ad una sufficiente intelligenza, molte prudenza.
La paura di perdere il proprio rappresentante in Francia in
un momento tanto delicato della storia italiana e sammarinese deve
aver indotto i locali governanti a superare gli ultimi loro
pregiudizi di natura repubblicana, per cui con lettera del 10 aprile
DAvigdor venne avvisato che il Congresso per gli affari esteri aveva
dato il suo benestare per il conferimento del titolo, e che la
Reggenza stava per presentare la richiesta in Consiglio. Il 21 dello
stesso mese il Consiglio accordò il titolo richiesto, ed il 23 si
scrisse a nuovamente a D’Avigdor per dirgli che era stato
promosso al grado di Cavalier Gran Croce dell'Ordine di San Marino,
e che gli era stato conferito il titolo di Duca d'Acquaviva con
la riserva che la pubblicazione di tale atto straordinario e
singolare e la spedizione del Diploma debba essere fatta nella
circostanza solenne in cui la Repubblica potrà inaugurare la sua
rappresentanza ufficiale presso la Corte di Torino.
In altre parole, il titolo veniva assegnato, ma D’Avigdor,
che in ciò già stava impegnandosi, doveva industriarsi in tutte le
maniere per appianare le forti divergenze che in quel momento
sussistevano con Torino, e per accelerare il reperimento di un
rappresentante sammarinese presso quella corte. Questi sarebbero
stati i servigi eccezionali che avrebbero giustificato il
conferimento del titolo di duca. Il 30 aprile D’Avigdor rispose
mostrandosi poco soddisfatto per le condizioni postegli, (come farà
anche con lettere successive). Tuttavia assicurò che avrebbe cercato
il mezzo più prudente affinché la Repubblica sia rappresentata a
Torino senza svegliare la suscettibilità del Re d'Italia.
L'11 maggio è la Reggenza a scrivergli: Il Generale Consiglio
conosce da lungo tempo con quanto ardore Ella si adoperi
costantemente pel benessere della nostra Repubblica; sa benissimo
quanta sollecitudine Ella abbia posta in tutte le missioni che le
vennero affidate; e dal passato traendo argomento per l'avvenire ha
lui profonda convinzione, che in lei non verrà meno giammai
l'interessamento che ha sempre preso per le cose nostre. Non poteva
quindi supporre senza offesa alla propria coscienza e senza far
torto a V.S.Illma, che Ella avesse mestieri di eccitamenti di forza
alcuna per operare con tutta alacrità a vantaggio di questa
Repubblica. Ma trattavasi di decretare un distintivo di onore non
mai conferito in tanti secoli di politica esistenza, e trattavasi di
creare un fatto tutto nuovo, e se non continuerà, certo poco adatto
alle Costituzioni del Paese: era quindi necessario giustificare
presso la posterità questo atto straordinario ed inusitato;
bisognava che apparisse dai libri Consiliari che il Senatoconsulto
venne fatto per una occasione solenne e faciente epoca nei Fasti
Repubblicani, sì che i posteri non s'avvisassero di imitare questo
esempio, nè sorgesse in alcuno la speranza di conseguire simile
onore se non all'occorrenza di avvenimenti al tutto straordinari e
di natura conforme a quello onde nel verbale della Seduta Consiliare
resta motivato il Senatoconsulto sopradetto. E poiché molto rare per
non dire impossibili saranno le occasioni simili a quella in cui la
Repubblica nostra verrà formalmente riconosciuta dal Re d'Italia,
così ne sembra che da ciò si debba trarne un argomento di maggior
decoro per V.S.Illma, la quale avrà conseguito un titolo d'onore che
altri non potrà ottenere e che rimarrà nella famiglia di Lei come
fatto eccezionale ed unico nella Storia Sammarinese, e come memoria
di un avvenimento felicissimo per la Repubblica.
In definitiva la Repubblica conferiva tale titolo in
via del tutto eccezionale, con la speranza, quasi con la certezza,
che un simile fatto non si sarebbe più ripetuto. Ma si era aperto
uno spiraglio mai prima aperto nella storia della Repubblica, si era
creato un precedente di cui sarebbe stato difficile dimenticarsi. In
effetti negli anni successivi la Repubblica conferirà con una certa
generosità sia i titoli di cavaliere, sia quelli onorifici, perché
saranno tanti gl’individui generosi disposti a versare nelle casse
dello Stato cifre anche molto elevate pur di fregiarsi di un titolo
sammarinese.
La Repubblica in queste epoche non aveva fonti di reddito
particolari, mentre le sue esigenze economiche, per colpa dei nuovi
tempi e delle trasformazioni che stavano avvenendo a causa
dell’unificazione italiana, aumentavano a ritmi vertiginosi. La
vendita delle onorificenze rappresentò il toccasana di cui si aveva
impellente necessità: quindi si accantonarono in fretta gli scrupoli
di natura repubblicana che per secoli avevano frenato il fenomeno
nobiliare a San Marino.
Negli anni successivi, però, tra la popolazione puntualmente
riemergeranno contestazioni verso tale prassi, considerata immorale
e del tutto contraria alla realtà costituzionale sammarinese.
La tipica mentalità egualitaria locale non si lascerà dunque
soffocare dalle esigenze economiche. Anzi, nel giro di qualche
decennio farà sì che onorificenze e titoli nobiliari vengano
nuovamente accantonati in nome di una tradizione storica e
costituzionale per cui tutta la popolazione sammarinese ha da tempi
immemorabili avuto una sorta di venerazione di stampo sacrale.
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