All’ umile scalpellino
Girolamo Capicchioni
-mio mai
conosciuto bisnonno -
che affiancò
gli altri padri del
Socialismo
sammarinese nella battaglia
per il
progresso dei ceti meno abbienti e
del Paese
intero
Verter Casali
STORIA DEL SOCIALISMO SAMMARINESE
dalle origini al 1922
SOMMARIO
Introduzione
I.
Il riformismo di fine Ottocento
II.
La nascita del Partito Socialista Sammarinese
III.
Il nuovo secolo e la battaglia pro arengo
IV.
Il dopo arengo e la rottura dell’alleanza democratica
V. 1908 – 1910: la
nascita dell’Unione Cattolica Sammarinese
VI.
1911 – 1914: Una nuova alleanza democratica
VII.
1914 – 1918: Il periodo bellico
VIII.
1919 – 1922: Gli anni massimalisti
Appendice
Documentaria
Introduzione
La storia del socialismo delle
origini, a San Marino come nel mondo, è soprattutto la storia di
un sogno: un sogno fatto di umanità, giustizia sociale, equità,
lotta contro le disuguaglianze; un sogno che era anche una fede,
un credo integralista pronto a scagliarsi con veemenza contro le
altre fedi che in quel tempo fornivano agli uomini qualche motivo
per vivere, qualche risposta esistenziale.
I padri del socialismo sono dunque da
considerarsi allo stesso tempo sognatori e credenti, idealisti e
proseliti; uomini, cioè, disposti a sacrifici, umiliazioni, sforzi
personali anche ingenti in nome dei loro principi, della loro
religione laica, dell’incrollabile mito di un futuro migliore,
soprattutto per i meno fortunati.
Anche esaminando l’operato dei primi
socialisti sammarinesi, Giacomini, Franciosi, Casali, Capicchioni,
Forcellini e tanti altri che mi auguro di aver citato almeno una
volta all’interno del presente volume, ci troviamo di fronte alla
stessa fede granitica, allo stesso sogno, che non è mai utopia, ma
sempre certezza di un cambiamento imminente, è sempre lotta
concreta, a volte dura, per cambiare davvero l’esistenza, per
trasformare subito, senza indugi e senza tentennamenti, la
quotidianità sia nei suoi aspetti più astratti, ma soprattutto in
quelli più concreti: il pane per tutti, le scarpe per i più
bisognosi, la scolarizzazione di massa, il lavoro garantito ed
equamente retribuito.
Naturalmente non è stata lotta
indolore e priva di colpi bassi.
Il primo socialismo ha avuto più
nemici che fiancheggiatori, in quanto la società in cui è
germogliato era spesso mentalmente agli antipodi rispetto alle sue
teorie e al suo credo, geneticamente portata a vedere nei
socialisti dei distruttori dei valori del passato, dei senzadio,
dei dannati, degli antitradizionalisti, caratteristica che in una
società da sempre conservatrice come quella sammarinese era un
vero e proprio peccato mortale. Tutto fuorché dei costruttori,
insomma.
Invece i primi socialisti mirarono
proprio ad essere edificatori del nuovo, e lo urlarono ai quattro
venti, sempre, perché la distruzione del passato, che poi nelle
loro intenzioni avrebbe dovuto essere soprattutto metamorfosi ed
evoluzione, era vista come una necessità imperativa funzionale
alla costruzione di qualcos’altro, più adatto ai tempi, migliore
per la gente e per il mondo operaio, loro referente privilegiato.
Fu lotta dura anche perché
l’intolleranza che sperimentavano ogni giorno sulla loro pelle
rendeva molti di loro pure intolleranti, poco disposti ai
compromessi, certi che il verbo che professavano non potesse
confondersi o amalgamarsi con verbi professati da altri, spesso
considerati profeti di mondi arcaici ed obsoleti.
Pur con tutte queste caratteristiche,
a volte positive a volte no, abbinate non di rado ad una buona
dose d’ingenuità, sono stati gli uomini che hanno gettato le basi
della società moderna, che hanno creato i presupposti per la
nostra collettività, non certo perfetta, ma forse un passo più
avanti rispetto a quella in cui essi hanno vissuto e operato.
A loro vada dunque il nostro ricordo
ed il nostro plauso. Mi auguro che il presente lavoro possa
contribuire a farli conoscere meglio, come meritano.
Verter Casali
******************************************
I. Il riformismo di fine Ottocento
Parlare di socialismo, in particolare
per i suoi primi anni di vita, ovvero gli ultimi decenni
dell’Ottocento e i primi del secolo successivo, significa
ragionare soprattutto di riformismo, di volontà rinnovatrice
costante, a volte programmatica, a volte drastica e sconvolgente,
bramosa di modificare il mondo dalle sue basi.
Il socialismo sammarinese delle
origini non fa eccezione a questa norma. Anzi, dopo anni di
indifferenza nei confronti della locale situazione politica,
uscirà allo scoperto proprio per chiedere cambiamenti, e per
stimolare gli altri pochi giovani innovatori sammarinesi che, pur
essendo di indole riformista, avevano aspirazioni più moderate e
meno precise dei socialisti.
Per capire dunque in quale ambiente
matura il socialismo nostrano, è doveroso fornire qualche
informazione sul riformismo sammarinese protosocialista, e sugli
ambienti e periodi in cui si evolve o si manifesta.
Il riformismo sammarinese si è sempre
palesato in momenti storici ben precisi e per cause dai connotati
ben definiti: quando in Consiglio stavano avvenendo turbolenze o
dissidi tra i clan e i gruppi oligarchici; quando dall’esterno dei
confini provenivano stimoli ideologici innovativi; quando la
miseria non era più sopportabile e perciò determinava forte
malumore tra la gente e desideri di cambiamento.
Il periodo in cui inizia a maturarsi
l’ambiente in cui germoglierà il socialismo nostrano, cioè i
decenni conclusivi dell’Ottocento, non presenta fino agli ultimi
anni ‘90 particolari stimoli al riformismo, se non per quanto
concerne le sollecitazioni ideologiche provenienti dall’esterno,
essendo un momento storico di relativo benessere, di buone
possibilità di lavoro per la classe operaia, di discreta
tranquillità sociale.
Gli stimoli culturali e innovatori di
oltre confine avranno in effetti qualche riscontro anche tra i
Sammarinesi. Tuttavia questo tipo di riformismo era in fondo
quello meno pericoloso e più tollerabile perché sostenuto e
portato avanti da pochi individui, in genere giovani studenti
particolarmente sensibili alle novità che assimilavano nelle
università, o comunque in ambienti culturalmente e mentalmente più
progrediti, all’esterno dei confini sammarinesi. Era quindi
facilmente circoscrivibile.
Si può dire che certe tensioni, anche
violente, come quelle tipiche degli anni risorgimentali, che tanto
avevano influito pure sulla società sammarinese,
erano del tutto scomparse. E’ chiaro tuttavia che chi aveva
vissuto da protagonista quel periodo, assorbendone la mentalità
innovativa e riformista, aveva qualche incidenza sulle generazioni
più giovani, raccontando le sue epiche imprese, parlando di
Garibaldi, di Mazzini o degli altri eroi di quell’esaltante ed
epico momento storico.
Pietro Franciosi, padre storico del
socialismo sammarinese insieme a Gino Giacomini, pur non avendo
partecipato agli eventi risorgimentali, essendo nato nel 1864,
s’interessò a fondo al loro svolgimento e raccolse molte
informazioni su tale epoca, che poi si premurò di trasmetterci
attraverso vari scritti,
proprio ascoltando estasiato i racconti di chi vi aveva preso
parte direttamente, e pungolandoli con infinite domande.
Anche Gino Giacomini da piccolo
dovette subire profonda influenza dai racconti degli eventi
risorgimentali, essendo suo padre Remo, per cui nutriva una sacra
venerazione, un ex garibaldino che aveva combattuto a Mentana e
Monterotondo. In realtà Giacomini rispetto a Franciosi si
dimostrerà sempre un po’ più distaccato verso i fatti e le
ideologie risorgimentali, e più interessato al pensiero di stampo
marxista; tuttavia anch’egli appartenne a quella generazione di
giovani cresciuti nei miti di Mazzini e Garibaldi e nella
convinzione che, lottando, qualcosa si potesse ottenere per
migliorare il mondo.
I fatti ed i personaggi
risorgimentali, dunque, ebbero un’influenza profonda sulle
coscienze dei giovani nati ad unificazione avvenuta, così come i
protagonisti di tali episodi ne furono i venerati maestri. Il
Risorgimento, comunque, è solo uno degli elementi che ha inciso
sull’evoluzione della cultura politica locale. Ve ne sono altri
legati alla peculiare situazione italiana ed internazionale
dell’epoca storica che stiamo esaminando, e alla maggiore
frequentazione dei Sammarinesi dell’università e degli studi in
genere, perché rispetto ai periodi precedenti sono più numerose le
famiglie che possono permettersi gli studi dei loro figli, grazie
anche all’aiuto economico dello Stato, che ora fornisce con
regolarità un contributo agli studenti.
Aggiungerei inoltre la permanenza di una cultura politica
tendenzialmente democratica, che ogni tanto nel corso della storia
ha lasciato puntuali tracce,
tipica del Sammarinese medio che da secoli viveva in una
Repubblica, e che andava fiero di potersi etichettare come
repubblicano.
Solo che era una democrazia arcaica e
strapaesana quella che dominava la cultura politica dei più, e
soprattutto la mentalità degli ottimati sammarinesi, coloro che
oligarchicamente la gestivano nominandosi per cooptazione
all’interno del locale Consiglio. Una democrazia la cui
formulazione risaliva agli statuti del ‘600,
epoca in cui ovunque si erano consolidate realtà politiche
assolutiste, che escludeva a priori le masse, o almeno le
soggiogava senza remissione al volere dei padroni, o dei
signori, come a lungo verranno chiamati, cioè di chi deteneva
il potere economico e soprattutto culturale sulla piccola
comunità.
E’ vero che all’interno del Consiglio
per statuto dovevano essere rappresentati tutti i ceti della
Repubblica (20 nobili, 20 cittadini e 20 del contado),
ma è anche vero che chi era nobile lo era perché apparteneva
all’élite cultural-economica del paese, ovvero a quel ceto a cui
il popolano medio si sentiva naturalmente e fisiologicamente
assoggettato. Risulta senza sforzo intuibile, quindi, che alla
vita politica dello Stato l’uomo del volgo, anche se consigliere,
partecipava il meno possibile (da qui l’eterno e ossessivo
problema di radunare il Consiglio per mancanza del numero legale),
e, quando vi partecipava, aveva una parte il più delle volte
passiva, o addirittura clientelare, nella gestione della comunità.
D’altra parte questa particolare forma
di democrazia elitaria ci ha lasciato moltissime tracce di se
stessa: a partecipare e a fare gli interventi e i dibattimenti nel
Consiglio erano sempre gli stessi appartenenti al ceto elitario;
chi prendeva le decisioni, aiutato a volte da pochissimi altri
notabili, era sempre e soltanto il Reggente nobile, il cui collega
non nobile, ovvero appartenente ai ceti inferiori, frequentemente
era addirittura assente; gli organismi deliberanti, come in questo
periodo l’importantissimo Congresso economico, erano composti solo
dai consiglieri più influenti e carismatici. Si potrebbe
continuare, ma inutilmente perché anche a rigor di logica si
capisce che, in epoche che stavano diventando sempre più
complesse, e dove anche i membri della locale elite
cultural-economica dovevano ricorrere con costanza a consulenti
esterni per avere suggerimenti su come comportarsi in certe
situazioni, i rappresentanti del popolo, in genere analfabeti, o
comunque sgrammaticati e sempliciotti, non avevano possibilità di
determinare alcuna incidenza sulla gestione politica del minuscolo
Stato, e probabilmente avevano anche qualche vergogna o timore ad
esporsi troppo.
Tuttavia apparentemente San Marino era
uno Stato democratico, una repubblica a tutti gli effetti perché
tutti (ribadisco apparentemente) facevano parte del suo massimo
organo politico, e perché i sacri statuti secenteschi, che erano
alla base della sua conformazione socio-politica, accanto ad una
dimensione oligarchica che avevano introdotto adeguandosi alle
logiche dei tempi, avevano salvato anche l’apparenza democratica
ereditata dal passato comunale in cui lo Stato sammarinese, che
era poco più di un borgo, viveva grazie all’apporto più o meno
coartato dei suoi cittadini.
Questi statuti avevano un’ambiguità di
fondo: al loro interno sia il democratico, sia l’assolutista
potevano pescare per avallare, per dare autorità alle loro
asserzioni. L’episodio giacobino del 1797 ne è un esempio
lampante, perché i giovani democratici, che in quell’occasione
combattono in nome dello statuto per un ritorno alla democrazia
che in esso vedevano garantita e codificata, finiscono invece in
galera proprio per le sue norme draconiane, vi rimangono per vari
mesi perché non garantiti da niente, sono costretti ad umiliarsi
alla fine per poterne uscire e ricevere paternalisticamente il
perdono di chi all’epoca comandava con la stessa logica
oligarco-democratica di sempre, logica funzionale alla mentalità
politica dominante un po’ dovunque.
Come vedremo, il richiamo al ritorno
agli statuti, per quanto mal digerito dai socialisti, sarà
l’espediente che permetterà nel 1906 di modificare il sistema
oligarchico in auge, anche se in seguito saranno proprio gli
statuti, o meglio la cieca venerazione nei loro confronti da parte
dei più, a creare fortissimi dissidi tra il gruppo socialista e
tutti gli altri e ad impedire riforme molto più importanti e
innovative. Ma andiamo per ordine.
Il riformismo degli anni ottanta
dell’Ottocento è chiaramente rintracciabile nei primi liberi
giornali nostrani, scritti da quei giovani studenti di cui si è
detto.
Tuttavia ci sono rimaste anche altre importanti tracce che
meritano di essere succintamente indicate, come la lettera del 24
febbraio 1880, scritta alle autorità sammarinesi dal console
italiano Lossada, in cui si comunicava che in quel mese si erano
svolte a San Marino due riunioni clandestine da parte di taluni
cittadini del Regno notoriamente ascritti al partito degli
internazionalisti. Il console avvertiva di essere
particolarmente vigili su simili iniziative e su questo
agitarsi di un partito il cui programma è di così evidente
pericolo per la pubblica tranquillità che non ha bisogno di molte
parole per essere dimostrato. Concludeva pregando di ordinare
a chi era preposto a controllare l’ordine pubblico la più
attiva sorveglianza allo scopo di allontanare qualunque, anche
remota, causa di futuri disordini interni ed esterni.
Le autorità sammarinesi risposero al
console in data 28: E’ vero che alcuni romagnoli sono venuti a
S. Marino - dissero - e che si sono uniti per le strade e
per le bettole a pochissimi dei nostri paesani sospetti di
appartenere al partito degli internazionalisti, ma è vero altresì
che sono stati sorvegliati dalla Polizia, la quale assicura che
costoro non hanno tenuto veruna adunanza. Il nostro Governo non
meno che tutti gli altri è personalmente convinto della necessità
di opporsi con tutte le forze agli stolti e rei, conati di un
partito, che ha per programma la distruzione degli attuali
ordinamenti della società, e perciò noi useremo di tutta la
vigilanza che la gravità del caso richiede, e adotteremo all’uopo
quelle misure che valgano ad allontanare qualsiasi pericolo.
Vi erano dunque sicuri contatti tra
qualche Sammarinese interessato alle nuove ideologie di sinistra,
e elementi esterni che forse vedevano nel territorio della
Repubblica una sorta di porto franco dove poter parlare delle loro
faccende con maggiore tranquillità, o magari vi venivano attirati
dalla sua mitica dimensione politica repubblicana. D’altra parte
ci sono giunte tracce di contatti simili anche per gli anni
precedenti, sia durante le guerre d’indipendenza, sia dopo quando
l’avvocato Giacomo Martelli di Borgo teneva rapporti frequenti con
un gruppo mazziniano di Rimini, o con progressisti italiani di una
certa rinomanza politica, come Cortellazzi e Valzania, più volte
segnalati in territorio sammarinese; ed anche successivi, quando
alcuni riformisti di sinistra locali parteciparono ai primi
congressi socialisti che si svolsero nel circondario.
Purtroppo è assai difficile
ricostruire con rigore questa vita politica sommersa, che non
aveva la possibilità di emergere più di tanto per paura di essere
perseguitata. Tuttavia si può senz’altro affermare che tutti i
movimenti politici che hanno interessato la zona geografica
sammarinese hanno avuto ripercussioni anche all’interno della
Repubblica, riscotendo limitati consensi ed adesioni da parte di
quei pochi che, memori della sacra e mitica democrazia del passato
ancora parzialmente leggibile tramite gli statuti in vigore, o
entusiasti di fronte alle nuove ideologie, criticavano l’oligarco-democrazia
che imperava a San Marino.
Già nel 1874, quando si era in piena
crisi con l’Italia ed era stato posto sotto accusa il Borgo per il
ruolo politico che esercitava col dare rifugio ai sovversivi,
Palamede Malpeli avrebbe voluto far sciogliere temporaneamente
tutte quelle Società Sammarinesi che hanno un colore politico,
come disse in Consiglio, segno sicuro che qualche vaga
organizzazione locale dall’attività politica indefinibile vi era
già.
Nel 1882, poi, abbiamo un preciso riferimento ai gruppi politici
esistenti in Repubblica grazie alle vicende che accaddero per
l’inaugurazione del monumento a Garibaldi, morto proprio in quell’anno.
Il 18 giugno Gemino Gozi e Vincenzo Tonnini, rappresentanti del
comitato per l’erezione del monumento a Garibaldi, inoltrarono
formale richiesta al Consiglio per avere un angolo di terreno dove
collocarlo e 1.500 lire di finanziamento, richiesta che venne
accettata senza problemi.
A metà luglio il governo fu invitato a presenziare
all’inaugurazione del monumento insieme alle altre associazioni
della Repubblica, ma sorsero dubbi e polemiche: Dopo lunga
discussione, è verbalizzato negli atti del Congresso
economico, per questo argomento di grave importanza politica
sia per l’interno sia per l’Estero, il Congresso è stato di parere
che il miglior partito da prendersi sia quello di procurare che le
diverse Società non intervengano con le bandiere, ma tutte si
raccolgano sotto la bandiera del Comitato ed ha incaricato i
nobili Signori Pietro Tonnini e Giuliano Belluzzi di trattare in
questo senso col Comitato medesimo.
La questione divenne tanto dibattuta da essere portata in
Consiglio, dove si comunicò che all’inaugurazione sarebbero
intervenute associazioni con le loro bandiere che non essendo
tollerate nello stato vicino, potrebbero dar causa ad osservazioni
e lagnanze per parte del medesimo. Il Consiglio stabilì di
usare prudenza e di evitare simili provocazioni: ordinò dunque di
limitarsi ad inalberare la bandiera locale, quella italiana e
quella di Garibaldi, vietando di conseguenza tutte le altre. Si
raccomandò alla Reggenza di non partecipare alla cerimonia qualora
fossero state esposte altre bandiere.
I gruppi politici che presenziarono,
risentiti, non rinunciarono ai loro vessilli; così la Reggenza
disdegnò la commemorazione. Questa faccenda, poi, dovette lasciare
anche antipatici strascichi tra le parti. Infatti nel Consiglio
del 22 febbraio 1883 il comitato che aveva curato la celebrazione
comunicò di avere un disavanzo di 1.195 lire, e chiese al governo
di coprirlo, non avendo possibilità di farlo in proprio; il
Consiglio però respinse la richiesta. Nel mese di maggio fu
riavanzata la stessa richiesta perché i membri del Comitato non
sapevano proprio come rimediare i soldi in questione: alla fine il
Consiglio accettò di coprire il debito, chiudendo così
l’antipatica questione.
Ma chi erano i gruppi politici che
avevano provocato lo sdegnoso rifiuto delle autorità? Ce lo dice
un dettagliato articolo del 5 settembre che fa la cronaca
dell’avvenimento: erano la Società dei Reduci, il Comitato
Garibaldino, una non meglio definita Associazione Femminile, la
Società di Mutuo Soccorso, la Società degli Italiani residenti, la
Società cinque febbraio, la Società Repubblicana, il Circolo
Socialista anarchico rivoluzionario del Titano, la Società
Concordia. Accanto ai gruppi locali, di cui è impossibile allo
stato attuale delle conoscenze e dei documenti noti capire le
tendenze e soprattutto l’attività, vi erano anche gruppi
intervenuti dal circondario: Allo scoprimento del Busto
marmoreo di Garibaldi - ci dice l’articolista - i vari
oratori designati pronunziarono discorsi analoghi alla
circostanza, più o meno temperati nella forma, ma tutti ispirati a
sensi repubblicani e facendo voti per la universale espansione di
questa forma di Governo. Il solo oratore che oltrepassò tutti i
limiti della moderazione, fu certo Neri, di Mercatino Talamello
(Pesaro), capo della Consociazione repubblicana Romagnola. Costui
ebbe invettive contro la Monarchia e contro la sacra memoria di
Carlo Alberto, contro i Pontefici, contro Napoleone III, e via,
via concludendo con aperto appello all’insurrezione purché s’abbia
a vedere sventolare il vessillo della repubblica sulle cime del
Vaticano!
In definitiva questo episodio, pur
nella sua vaghezza, è un’ulteriore testimonianza dei contatti che
i Sammarinesi avevano coi politici del circondario, e della
diffusione che vi era dentro il territorio di gruppuscoli dai
volti e dalle mire diverse, di certo importanti però come punti di
riferimento culturale per chi aveva qualche interesse sociale e
politico.
Gli anni ’80, comunque, al di là di
questo episodio e delle polemiche rintracciabili sui giornali
locali, non registrano particolari contrasti nei confronti del
Consiglio, né attacchi sistematici dal suo interno, come succederà
tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, né dal
suo esterno con il sistema dell’istanza d’arengo, che nei momenti
di crisi e di contestazione era puntualmente usato da chi aveva
qualcosa da recriminare, o accuse da muovere. Nel periodo in
questione non sono riscontrabili istanze di questo tipo; ciò può
essere senz’altro testimonianza che siamo ben lontani ancora
dall’incandescenza degli anni successivi. D’altronde questo è un
periodo ancora positivo per l’economia e per la società
sammarinese. Non vi è carenza di lavoro, perché si sta procedendo
ad edificare strade ed il nuovo palazzo pubblico, non le eterne
richieste al Consiglio di sovvenzioni per sopravvivere o emigrare,
non il disagio sociale che crescerà sempre più dalla fine
dell’edificazione del palazzo pubblico in poi.
Vi sono sì le istanze intellettuali,
testimoniate da qualche raro foglio, come quello diffuso dal
figlio di Giacomo Martelli, Valerio, che nel 1885 rifiutò di
essere cooptato all’interno del Consiglio perché riconosceva solo
nel popolo il diritto di scegliere i suoi rappresentanti, e
anche da qualche giornale italiano, come il Corriere
della Sera del 12 agosto 1886, in cui un articolista arrivato
sul Titano si stupiva perché aveva trovato scritto sopra un muro
di Città: Vogliamo il suffragio universale, viva Martelli,
vogliamo il voto diretto, facendo poi un commento pieno degli
stereotipi tipici con cui si vedeva dall’esterno la Repubblica:
parole al primo aspetto bizzarre in una repubblica. Ma veramente
questa repubblica non ha suffragio universale, né diretto.
(...) Insorge contro la vecchia Costituzione il signor
Martelli. Martelli è un avvocato. Insorge in nome del suffragio
diretto in una repubblica, che non conta più di 8000 sudditi, e
dove ogni famiglia ha avuto o può avere un suo capitano-reggente,
o il suo rappresentante nel Consiglio supremo! Le iscrizioni si
leggono dappertutto; il movimento ingrossa e la revisione dello
statuto non è forse lontana. Ne guadagnerà la Repubblica? Non oso
affermarlo. Mutata la base dello Stato, questo cadrà in preda ai
partiti; San Marino non presenterà più l’immagine di una tribù, o
convento, dove tutti sono o sembrano essere felici ; dove
l’autorità è esercitata in nome del vecchio diritto, che ha potuto
resistere all’urto dei secoli, e alle insidie dei Papi e dei
signori di Romagna, nonché alle blandizie di potenti capitani,
come Napoleone Bonaparte.
Tuttavia sono episodi isolati,
puramente speculativi, del tutto privi di appoggio popolare,
perché la cittadinanza non aveva in quel momento grosse
recriminazioni da fare o accuse da muovere, né era ancora
sensibilizzata e educata a dire la sua. Non aveva poi la paura di
nuove tasse o di qualche allarmante riforma fiscale, come
succederà invece agli inizi del secolo nuovo. Gli atti consiliari
sono precisa testimonianza dell’indifferenza ancora tipica di
tutti nei confronti delle istanze politiche che ogni tanto
facevano la loro fugace apparizione tra i Sammarinesi, e che
scaturivano sempre da singoli contestatori o da gruppuscoli
minuti, emarginati e forzatamente anonimi.
Vi erano pure altri gruppi più o meno
politicizzati in territorio. Nel dicembre del 1889 fu fondato in
Città, per opera di Alfredo Reffi e Pietro Franciosi, il “Circolo
Titano” allo scopo di istituire un circolo di divertimento e di
lettura, come scrissero all’interno del suo statuto, emulo di
un gruppo analogo, denominato “Circolo Sammarinese”, che operava
in Borgo. Si stabilì subito di permettere l’adesione al Circolo
Titano anche dei membri del Circolo del Borgo, per stringere
così vieppiù i vincoli di fratellanza fra i Sammarinesi, e
probabilmente per superare quelle acredini che dai tempi
dell’uccisione del segretario di Stato Giambattista Bonelli
sussistevano tra i due Castelli.
Tale cordialità venne subito contraccambiata dal Circolo
Sammarinese, che aggiunse al suo statuto la stessa possibilità.
Nei mesi successivi si organizzarono feste e scampagnate, tuttavia
nel 1891 emerse all’interno del Circolo anche uno spirito
mutualistico e umanitario nei confronti dei più disagiati che in
quell’inverno particolarmente inclemente stavano attraversando
guai molto seri. Nella riunione del 19 gennaio 1891, infatti,
all’unanimità si approvò di fare a meno di una festa da ballo già
programmata per erogare una metà di quel fondo a
beneficio della carità pubblica stante la miseria e la stagione
cattiva che perdurano a San Marino. Iniziative simili vennero
attuate anche nel mese successivo, e nel settembre dello stesso
anno fu deciso che i modesti fondi del Circolo (206,35 lire)
fossero depositati in banca per continuare o per far continuare
nel presente inverno la carità pubblica se il tempo imperversi e
il bisogno urga.
Dagli atti consiliari sappiamo che
anche il Circolo Sammarinese ebbe simili attenzioni negli inverni
più inclementi, trasformandosi, come quello di Città, da
organizzazione ricreativa a gruppo con precisi intenti sociali e
politici.
Oltre a questi due circoli, negli
stessi anni erano presenti in territorio altri raggruppamenti che
non si possono considerare solo ludici. Nel luglio del 1891 venne
riorganizzata la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, già
esistente nel 1882, che evidentemente si era sciolta negli anni
successivi. Nella sua prima riunione, a cui presenziarono 21
reduci, si elesse come presidente Vito Serafini, e come presidente
onorario Menotti Garibaldi, illustre, prode, ed emerito
discendente dell’Eroe dei due Mondi. Il motivo che riportò in
vita la Società dovette essere una lettera arrivata da Pesaro con
cui s’invitavano i reduci sammarinesi a presenziare
all’inaugurazione del monumento a Garibaldi in quella città, ma
anche nell’intendimento che la Società dei Reduci delle Patrie
Battaglie Sammarinesi non si trovassero isolati, ma in piena
relazione di amicizia, e fratellanza coi fratelli Italiani.
Della scarna documentazione lasciataci
da questo gruppo è senz’altro importante, per l’argomento che
stiamo trattando, il verbale della sua riunione del 15 maggio 1892
in cui si stabilisce di festeggiare il 31 luglio di quell’anno,
ricorrenza dello scampo di Garibaldi in Repubblica. Interessante
perché vengono convocate parecchie associazioni locali,
probabilmente tutte o quasi, fatto che ci permette di sapere quali
erano in quell’anno questi raggruppamenti: furono invitati
il Circolo Titano, il Circolo 1° Gennaio, l’Unione Mutuo Soccorso,
tutti gruppi con sede in Città; i Circoli Unione, Sammarinese,
Giovane, Garibaldi e la Federazione Anarchica del Titano, tutti di
Borgo; il gruppo Fede e Lavoro di Serravalle.
Il 29 maggio avvenne la riunione
organizzativa cui presenziarono i rappresentanti della SUMS (Luigi
Tonnini e Ciro Belluzzi), quelli del Circolo Titano (Pietro
Franciosi e un non meglio definito Marani), quelli del Circolo
Giovane (Ignazio Grazia e Giuseppe Amati), quelli del Circolo
Socialista (Ercole Casali e Giuseppe Palmucci), quelli del Circolo
Sammarinese (Ivo Fabbri Natalucci e Telemaco Martelli), e infine
quelli del Circolo Unione (sempre Telemaco Martelli con Costantino
Amati). Aderì all’iniziativa anche il gruppo Fede e Lavoro con
Pietro Francini e Marino Canti, però solo dalla riunione
successiva tenuta il 16 giugno. E’ interessante rilevare come
diversi di questi personaggi (Franciosi, Martelli, Grazia, Casali)
li ritroveremo dieci anni dopo tra i principali attivisti
pro-arengo, segno probabile che già nel ’92 vi era una qualche
effervescenza socio-politica sostenuta dagli stessi individui che
in seguito animeranno con le loro istanze riformiste la comunità
sammarinese.
E’ chiaro che non possiamo spingerci
troppo in là in simili affermazioni, perché senza dubbio dei
gruppi elencati ben pochi dovevano avere una fisionomia
marcatamente politica. A conferma di ciò si può dire che il
Circolo Titano accettò l’invito di partecipare alla celebrazione
con la clausola senza politica e senza partiti, perché il
Circolo del Titano ha il solo del divertimento e in pari tempo ha
il dovere di partecipare alla festa del 31 Luglio, festa nazionale
e tributata all’Eroe dei due mondi, superiore ad ogni partito e
già consacrato nelle pagine immortali della Storia Civile.
Tuttavia l’associazionismo di cui
questi gruppi sono indubbia testimonianza, ricreativo o no che
fosse, è di per sé importante per farci ipotizzare un possibile
dibattito al loro interno sui problemi del paese e sulle speranze
per un futuro migliore, dibattito che quindi è lecito definire di
natura politica. Purtroppo ci è giunta solo documentazione
parziale in merito, per cui non conosciamo molti dettagli né
dell’esistenza di queste associazioni, né della loro attività,
informazioni che sarebbero indispensabili per farci capire meglio
la loro incidenza all’interno della società sammarinese. Non penso
però di essere lontano dal vero nel sostenere che un magma
politicizzato embrionale e acerbo, capace di aggregare
probabilmente diverse decine di individui, era già in divenire
molto prima degli anni dell’arengo del 1906 e stimolava i rari ed
oscuri socialisti sammarinesi, presumibilmente dalle idee ancora
poco chiare, ad assumere sempre più connotati ben distinti.
II. La nascita del
Partito Socialista Sammarinese
In effetti è proprio in questi anni
che il socialismo nostrano, non più vincolato all’anarchismo o ad
altre ideologie, comincia ad assumere lineamenti più definiti ed
individuabili. Abbiamo visto come già nel 1882 esistesse
sicuramente in territorio un gruppo anarchico che si definiva
anche socialista, così come abbiamo sue periodiche tracce anche
negli anni successivi, fino al 1892, sempre che quel “Circolo
Socialista” che abbiamo individuato fosse lo stesso degli anni
precedenti, com’è assai probabile. Sappiamo poco o niente, però,
di quello che faceva, se non relativamente alla sua rara
propaganda a favore degli operai, o celebrativa della Comune di
Parigi.
E’ legittimo perciò ipotizzare che non avesse un’attività
particolare in territorio; che fosse cioè più un fenomeno
culturale ed emulativo, sostenuto solo da quei pochi che anche
negli anni precedenti avevano aderito a ideali per l’epoca
estremisti e sovversivi, come poteva essere il mazzinianesimo o
l’internazionalismo.
E’ ben strano infatti che nella
documentazione d’archivio di un paese piccolo come San Marino,
dove qualunque fatto disturbatore della sua usuale tranquillità, o
qualsiasi contestazione al suo sacro conservatorismo
ultrasecolare imperante, aveva subito forti ripercussioni
all’interno del Consiglio, o degli altri suoi organismi politici,
non vi siano tracce del gruppo socialista fino al 1898, quando
richiese il permesso di tenere un comizio nel Teatro Concordia di
Borgo in occasione del 1° maggio.
E’ presumibile, dunque, che il gruppo socialista, evolvendosi
all’interno di un’associazione di stampo
anarchico/comunista/internazionalista, iniziasse a distaccarsene
verso il 1892, anno del Congresso di Genova, che ha senz’altro
stimolato tale separazione.
Questo gruppo, tuttavia, per un lustro
non diede segno di sé all’interno della società sammarinese,
verosimilmente perché era ancora assertore di quella tattica
astensionista, tesa a snobbare la politica di stampo parlamentare,
promossa in Italia ed in Europa da parecchi raggruppamenti
socialisti, ma anche per altri motivi che vedremo fra breve.
Se il primo documento ufficiale dei
socialisti sammarinesi è del 1898, la nascita del gruppo è però da
far risalire a qualche anno prima. Sulla data precisa in passato
ci sono state molteplici disquisizioni, e ce ne saranno
sicuramente anche in futuro, perché manca un atto ufficiale di
nascita. Una certa tradizione storiografica si è dimostrata
propensa a collocare la leggendaria nascita del Partito nel 1892,
precisamente il 14 agosto, ovvero pochi giorni dopo il congresso
di Genova che diede vita al Partito Socialista Italiano. Un’altra
ha sempre sostenuto che i fondatori del socialismo sammarinese lo
procrearono una domenica di primavera del 1893, prendendosi per
mano sotto una grande quercia di Cailungo, e giurando di essere
fedeli fino alla morte agli ideali socialisti. I padri fondatori
del socialismo nostrano, stando sempre a questa tradizione, furono
Alfredo Casali, Antonio De Biagi, Tullio Giacomini, Ettore
Ghironzi, Giovanni Vincenti, Marco e Rufo Reffi, Giuseppe
Giovannarini, Marino Ravezzi, Angelo Corsucci, Giuseppe Amati,
Raffaele Montemaggi e Gino Giacomini.
Sfogliando il Titano della
prima metà del nostro secolo, cioè di un periodo in cui erano
ancora vivi diversi dei presunti fondatori, si ha conferma del
1893 come anno di fondazione, perché solo dagli anni successivi si
consolida la tradizione legata al 1892. Sul numero 164 del 1°
maggio 1954 viene addirittura riprodotta la fotografia della
mitica quercia di Cailungo, e si ribadisce nuovamente che l’anno
di fondazione ufficiale del partito era da considerarsi il 1893.
In realtà il problema è sottile e,
aggiungerei, anche di poco peso perché, come si è già detto, nei
suoi primi anni di vita il socialismo nostrano, schivo e anonimo,
fu prevalentemente un fenomeno culturale giovanile, generato più
per spirito emulativo nei confronti del socialismo italiano e
internazionale che per altro. Di sicuro non nacque per immergersi
fin da subito in bellicosi agoni politici tesi a ribaltare la
situazione sammarinese esistente: il silenzio che lo caratterizza
fino al 1898 ne è sicura conferma. Probabilmente i dubbi sulle due
date scaturiscono dalla gradualità con cui il socialismo
sammarinese uscì allo scoperto. In effetti abbiamo visto che nel
1892 esisteva un “Circolo Socialista” che forse fu il feto della
compagnia che nel ’93 giurò sotto la quercia.
E’ anche probabile però che il gruppo
dei giovani del ’93 fosse di tendenze un po’ diverse dal
“Circolo”, ovvero più aperto al socialismo di stampo turatiano
scaturito dal Congresso di Genova, e meno alle teorie anarchiche e
internazionaliste fin lì in voga. Può essere indicativo di questa
diversità il fatto che al giuramento del 1893 non partecipano
Ercole Casali e Palmucci, i rappresentanti del Circolo Socialista
del 1892. Vi partecipa però il giovanissimo Alfredo Casali, figlio
di Ercole, che rincontreremo come direttore del Titano e come
strenuo sostenitore della linea dura e intransigente del partito
nei primi decenni del Novecento.
Per concludere questo argomento, che
in verità non nobilita più di tanto il socialismo sammarinese,
vorrei evidenziare che il giuramento del 1893 coinvolge solo
giovani e giovanissimi (Giacomini ha poco più di 14 anni), fatto
che potrebbe lecitamente far ipotizzare che fu soprattutto
l’ultimissima generazione, nata sul finir degli anni ’70, in piena
epoca di Sinistra Storica al potere in Italia, cioè, quella che si
seppe distaccare con maggiore facilità e senza grossi rimpianti
dagli ideali anarchici, risorgimentali, garibaldini, mazziniani,
rivoluzionari in genere, così centrali nella cultura politica
delle generazioni a loro precedenti (si pensi a tal riguardo che
Ercole Casali aveva chiamato una sua figlia col nome di
Garibaldina, ed un altro figlio Marat).
A prescindere dalla sua data di
nascita, comunque, è bene tornare al 1898, anno – questo sì –
veramente importante, in cui il gruppo socialista cominciò ad
operare concretamente nella realtà sammarinese divulgando un
numero unico in occasione del 1° maggio, giornale recentemente
ristampato in occasione del suo centenario.
Perché tanto ritardo tra la nascita
del gruppo e il suo primo vagito? Non è facile dare risposte certe
perché al momento non disponiamo di alcun documento con cui
ricostruire la sua vita tra il 1892/93 e il 1898. E’ possibile che
il gruppo fosse troppo giovane e inesperto, soprattutto nei suoi
personaggi più carismatici (Giacomini e Casali). E’ possibile pure
che questi giovani si ritrovassero poche volte insieme, e quindi
non potessero ideare e sostenere chissà quale attività, perché
impegnati a lavorare o studiare fuori territorio (è sicuramente il
caso di Giacomini, che prima come apprendista barbiere a Rimini,
poi dal ’96 come studente a Urbino, passa lungo tempo fuori San
Marino). E’ possibile che, sulle orme di altri gruppi italiani
assolutamente ostili alla politica parlamentare, i socialisti
sammarinesi snobbassero le questioni politiche e sociali locali in
attesa della rivoluzione totale e dell’abbattimento del sistema
borghese a livello mondiale, aspirazione che all’epoca era
piuttosto diffusa tra i giovani e le forze più estremiste. Questa
ipotesi può essere avallata proprio da un articolo del numero
unico del 1898 in cui un anonimo articolista, firmatosi A. T.,
afferma che i socialisti di San Marino dovevano cambiare tattica
se volevano ottenere migliorie per il paese, abbandonando
l’astensionismo che li aveva fin lì contraddistinti, per agire
dall’interno delle istituzioni, con l’intento di modificarle e di
renderle più consone ai tempi.
Questo suggerimento fu però respinto
con una nota di redazione (con molte probabilità scritta da Gino
Giacomini, che era il principale artefice del numero unico, non a
caso stampato proprio ad Urbino dove egli in quel momento stava
studiando) in cui non ci si dichiarava d’accordo con l’opinione
espressa, ovvero si sosteneva che la tattica astensionista era
ancora da prediligere rispetto alle altre.
Tuttavia non venivano apertamente
respinti altri suggerimenti che l’articolista offriva, cioè di
pretendere una ripartizione più equa dei tributi, visti i problemi
di natura finanziaria che il paese stava incominciando a soffrire,
di richiedere una serie di pubbliche riforme, di avviare una
propaganda sistematica tra la gente, in particolare tra i
contadini ed i proletari in genere, per creare un partito forte
e cosciente, di avvalersi del troppo trascurato arengo
semestrale come pubblica tribuna per la propaganda e la difesa
delle idee socialistiche.
Sfogliando il giornale risulta
evidente che siamo ancora di fronte ai primissimi passi del
gruppo, e che si stava cominciando a discutere al suo interno per
mettere a punto una qualche strategia d’intervento adatta ai
bisogni ed ai problemi sammarinesi. Comunque vedremo che alcuni
dei suggerimenti avanzati nell’articolo appena citato avranno un
certo peso nelle azioni del gruppo socialista degli anni
successivi.
Accanto a questa discussione interna,
però, occorre annoverare un altro importante fattore che
permetterà ai socialisti nostrani di consolidare sempre più una
strategia d’azione: l’uscita allo scoperto di un’importante figura
come Pietro Franciosi, uno dei pochi uomini locali dotati di quel
forte carisma che solo la cultura poteva dare in un paese dove
l’analfabetismo si aggirava intorno all’80% della popolazione, e
di grosso ascendente sulla classe operaia, per l’umanitarismo che
da anni lo stava caratterizzando nei rapporti con i ceti
lavoratori e più poveri della piccola società sammarinese.
Franciosi già nel 1893 aveva
pronunciato un importante discorso dove, da buon positivista non
ancora schierato su posizioni politiche dichiaratamente di
sinistra, tendeva soprattutto a sottolineare l’importanza delle
finanze pubbliche per la vita di uno Stato moderno, e l’esigenza
che le spese venissero frenate con un’amministrazione più oculata
di quella fin lì tenuta. E’ vero che noi non dobbiamo turbarci
per quella questione finanziaria che turba in un modo serio gli
altri Stati d’Europa, affermò, perché a San Marino la
situazione non era tragica come altrove. Tuttavia bisognava
pensare al futuro, perché il rischio di cadere in rovina non era
da trascurare.
Franciosi proseguiva facendo un
raffronto tra il florido passato, dove piovevano ricchezze da
tutte le parti (il riferimento sottaciuto è alla vendita delle
onorificenze), ed il misero presente, in cui erano venuti a meno
tali cespiti determinando una pericolosa involuzione della
situazione finanziaria, accentuata dalla poco oculata politica dei
lavori pubblici, vero disastro per le finanze sammarinesi, che
avevano determinato anche il totale esaurirsi dei risparmi
accumulati (il cosiddetto fondo di riserva) negli anni precedenti.
I lavori sotto accusa erano il nuovo
Palazzo Pubblico, l’erigendo cimitero monumentale di Montalbo, la
strada di collegamento con Mercatino Conca. Queste infrastrutture
non solo avevano depauperato le casse pubbliche, ma avevano
determinato, secondo il nostro, uno sconquasso sociale non più
sanabile, togliendo alle campagne moltissimi contadini allettati
dallo stipendio da operai. Il Governo non è stato né troppo
logico, né troppo saggio nell’approvare pei lavori pubblici spese
rilevanti e superiori di molto alle nostre condizioni finanziarie.
Di più va incontro, se prosegue di tal passo, ad una crisi
finanziaria, ed in compenso riceve tutto giorno dai beneficiati
parole di biasimo e di rimprovero. Inoltre in conseguenza di
questa grande rilassatezza e di questo troppo concedere ha messo
in una cattiva posizione la vera classe operaia che amalgamata,
per troppa connivenza dei governanti, con una caterva di miseri
spostati forastieri e di villani venuti in città dal contado
sdegnosi del nobile mestiere dell’aratro, si sente deteriorata nel
morale, derubata nel finanziario e prevede un triste avvenire.
I problemi finanziari del paese erano
dunque legati a queste cause. La chiacchiera che imputava il
dissesto di bilancio all’accresciuto numero di impiegati statali
era priva di fondamento, perché lo Stato disponeva solo di 131
funzionari regolarmente stipendiati, numero che Franciosi
giudicava minimo ed indispensabile per gestire la Repubblica.
Aveva valore analogo anche l’altra chiacchiera che accusava
la pubblica istruzione ed il ricovero dei malati di mente presso
istituti italiani di essere i principali responsabili del dissesto
verso cui si stava andando. Tutte falsità messe in giro ad arte
per nascondere le vere origini dei problemi finanziari in cui il
Paese stava addentrandosi. Franciosi istigava perciò tutti,
governanti e governati, a controllare maggiormente la pubblica
amministrazione e a pensare nuove strategie economiche, come la
creazione di apposite Commissioni attive e volonterose per
istudiare al più presto dei sistemi finanziari d’incoraggiamento e
d’appoggio alle industrie ed ai commerci locali; oppure
concordare nuovi patti più lucrosi sui proventi doganali col
generoso, leale ed amico Governo Italiano; o ancora cercare di
trarre qualche vantaggio dai fiorenti Istituti di credito che
debbono molto all’autorizzazione ed alla tutela da voi a loro
concessa. Egli non era propenso ancora a varare riforme
tributarie basate sul concetto di imposta progressiva sul reddito,
come già si stava ventilando da parte di qualcuno, ovvero dai
socialisti, come vedremo, ma ad aumentare quelle indirette sì,
anche se sarebbe stata una riforma impopolare, perché la
Repubblica aveva bisogno di ampliare al più presto i suoi
introiti.
Il discorso di Franciosi del 1893, pur
movendo critiche all’operato del governo, non si allontanava in
realtà più di tanto da toni piuttosto pacati e ottimisti.
All’epoca in cui venne pronunciato la situazione non era ancora
così brutta come lo sarà in seguito, anche se evidentemente ve
n’erano già i sentori, per cui Franciosi non poteva farsi
portavoce di un malumore che era soltanto in fase embrionale.
Inoltre aveva appena ventinove anni, ed era al suo primo
intervento ufficiale: sbilanciarsi più di tanto, dunque, era
umanamente impossibile. Nelle sue parole vi era sì, anche se
appena sussurrato, un invito ai governanti a ricercare un tipo di
rapporto più democratico con la cittadinanza, basato sulla fiducia
e sull’aiuto reciproco in ogni momento, in particolare in quelli
di travaglio economico, considerati l’anticamera di possibile
travaglio politico. Non più, quindi, governanti/padri e
governati/figli, com’era stato sempre a San Marino; ma
governati/governanti e viceversa, come se si fosse un’unica grande
famiglia priva, al suo interno, di differenze tra i suoi
componenti, e dove ognuno avrebbe dovuto contribuire gratuitamente
alla causa comune per quello che poteva.
Leggendo per intero il discorso,
risulta evidente che le idee espresse da Franciosi prendevano
avvio da istanze di natura economica e da computi che si
prefiggevano di essere rigorosi e fiscali, così come il
positivismo dell’epoca richiedeva. Ma è altresì chiaro che il
riformismo del giovane professore è ancora pienamente legato ad un
socialismo utopistico ed ideale, tutto ruotante intorno alla
fiducia di poter sistemare le cose semplicemente evidenziandole,
criticandole e collaborando per comprenderle appieno allo scopo di
risolverle. Man mano che Franciosi avanzerà negli anni, e la
situazione socio/politica sammarinese diventerà più instabile e
precaria, si renderà conto invece che le faccende locali non erano
così facilmente risanabili come si auspicava, soprattutto perché i
governanti al potere, radicati in una rigida e irremovibile logica
costituzionale, da cui essi facevano totalmente dipendere la
sopravvivenza della vetusta e gloriosa Repubblica di San Marino, e
che nel corso del tempo aveva assunto venature addirittura sacrali
e mistiche,
non erano tanto disposti a mutare le prassi di sempre per
ricercare quelle collaborazioni che Franciosi sognava.
D’altra parte lo stesso Franciosi non
sfuggiva del tutto alla logica conservatrice che tendeva a vedere
nel riformismo troppo incisivo pericoli inimmaginabili. Le parole
che pronuncia contro i contadini inurbatisi e contro i miseri
spostati forastieri sono chiari indicatori di una mentalità
sempre ancorata agli stereotipi del passato, basati sulla netta
distinzione tra “cittadini”, ovvero gli abitanti di Città ritenuti
superiori, e tutti gli altri che dovevano starsene al loro posto,
a svolgere mestieri “nobili”, come etichetta il lavoro dei
contadini, anche se insufficienti a garantire spesso la semplice
sopravvivenza.
Nel ’93 Franciosi si stava dunque
appena affacciando alla cultura progressista e socialisteggiante.
Negli anni successivi, però, il suo atteggiamento politico e
culturale tese a mutarsi. Se leggiamo infatti il suo secondo
discorso, pronunciato cinque anni dopo, sempre in occasione del 1°
ottobre, si coglie netta la profonda involuzione socio – economica
della situazione sammarinese, ormai ritenuta non più sanabile con
piccoli ritocchi e con la collaborazione auspicata nel ’93, così
come risulta evidente una certa maturazione politica del
professore, che lo aveva indotto ad avere idee più chiare e
concrete sul da farsi, a prendere posizioni più risolute, ad
accantonare quegli stereotipi che abbiamo rilevato insieme a buona
parte di quel pensiero utopistico di cui è intriso il discorso del
’93.
Partendo questa volta da un’analisi di
stampo marxista dei problemi dell’epoca, segno certo degli studi
fatti in materia da Franciosi negli anni precedenti, egli precisò
che la società si era profondamente modificata e che quindi i
sistemi politici un po’ dovunque si erano dovuti adeguare, o si
stavano adeguando, alle nuove realtà maturatesi. Anche San Marino,
che pur godeva di una situazione migliore di tanti altri Stati,
aveva l’interesse a seguire queste nuove strade e a riformarsi
in qualche cosa. Non spaventatevi - aggiunge Franciosi
quasi volesse tranquillizzare l’uditorio - io sono temperato
nel chiedere perché non sono un novatore di moda e di mestiere,
non voglio parlarvi di radicali riforme fuori di proposito e della
vita normale. No, Franciosi era un riformatore che guardava al
passato della Repubblica, che non voleva stravolgere più di tanto
la tradizione democratica di cui si sentiva erede: tuttavia
occorreva avere il coraggio di attuare precise innovazioni, perché
ormai era una dimensione politica troppo arcaica, troppo legata al
Seicento, tipico secolo spagnuolo. Le riforme da perseguire
dovevano dunque avvenire nel rispetto di una certa tradizione
politica e storica, nel ritorno allo spirito prettamente comunale
di cui i locali statuti erano pervasi prima delle trasformazioni a
cui erano stati sottoposti alla fine del XVI secolo e
successivamente. Per quanto il nostro paese non si trovi nelle
critiche condizioni degli altri, - precisa - per quanto
questa piccola comunità d’Italia nella maggioranza dei suoi figli
viva di tradizioni quale modesto e vetusto esempio delle
municipali franchigie e si serbi per ora tranquilla paga e felice,
noi sappiamo che può succedere agli stati o meglio ai governi ciò
che succede ai popoli, che, se non rinnovano di quando in quando
la razza, s’indeboliscono.
Quali i cambiamenti prioritari?
Franciosi riprende, ampliandoli, gli argomenti già esposti nel
’93: Fin qui non vi è stato davvero malessere economico;
e quindi pochi e parziali furono i brontolii. Fin qui è stato il
popolo che ha avuto bisogno del governo, non questo di quello. Ma
io penso al domani. Penso che domani sarà il Governo che dovrà
ricorrere ai cittadini per aiuto per ristaurare le finanze più che
esauste. E allora di fronte ai doveri si reclameranno i diritti,
tanto più che il popolo Sammarinese è rimasto privo di sovranità
dal momento che l’Arengo dei Padri di famiglia ha cessato di
funzionare e fu ridotto lettera morta. Ed ecco che le mie moderate
riforme politiche e le mie proposte finanziarie potrebbero
benissimo tutto prevenire, ammonire tutti.
Le riforme che venivano proposte erano
diverse:
1.
pareggio dei ceti e abolizione della nobiltà perché non
sussistevano più ragioni storiche o sociali adatte a giustificare
simili distinzioni tra cittadini;
2.
abolizione delle onorificenze e del ridicolo
commercio che se ne faceva: meglio il sudore e il sacrificio
nostro che il ricevere danaro a scopo di beneficenza dai decorandi,
dichiarò;
3.
rinnovo periodico ogni tre anni di un terzo dei consiglieri
tramite elezioni, così da comporre un Consiglio formato
d’aristocrazia e di democrazia, d’elemento conservatore e
rinnovatore. I venti neo eletti avrebbero potuto scuotere
davvero la poltroneria politica e portare una nota giovanile in
mezzo alle vecchie opinioni. Se i padri di famiglia non
ritorneranno tutti al potere col rimettere in vigore lo storico
Arengo, avranno però il diritto di affidare le sorti della patria
a persone di loro fiducia.
4.
definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, per
separare un po’ più questi due Enti nel cerimoniale e per unirli
un po’ più nell’essenziale a maggiore vantaggio dell’intero paese.
(...) Vorrei che i due Enti si mettessero d’accordo nel
trasformare tante istituzioni ecclesiastiche o mani morte, oggi
inerti ed atrofiche, in qualche cosa di vitale e di utile per la
maggioranza della popolazione.
5.
restrizione dei costi pubblici ed eliminazione degli
sprechi; maggiore intelligenza negli stanziamenti;
6.
istituzione di una tenue tassa progressiva per portare
il pareggio stabile nel Bilancio e per stanziare giustamente in
esso un fondo fisso annuo ed importante per i lavori pubblici.
Tale imposta doveva colpire tutti i redditi al di sopra delle 500
lire con aliquote crescenti che andavano dallo 0,50 al 6%.
Le idee contenute all’interno di
questo importante discorso rappresentano le prime linee
programmatiche del nascente riformismo sammarinese. Sicuramente
non dovevano essere condivise da tutti, visto che ancora non si
può certo parlare di un gruppo riformista uniforme dotato di un
piano politico mirante a coinvolgere la cittadinanza e a
pretendere quello che ancora si chiedeva con garbo, aspettandoselo
come legittima concessione dall’alto. Fino al 1902 - 1903
non si coalizzerà simile alleanza, per cui in questi anni che
stiamo esaminando registriamo un riformismo fatto di idee
solitarie e spesso disparate, più che di propositi dal seguito
ampio.
Che comunque si stesse dibattendo a
vari livelli della dimensione politica di San Marino ce lo
testimonia anche uno scritto del locale commissario della legge
pubblicato nel 1899 con lo scopo di fornire informazioni sulla
realtà legislativa della Repubblica, ma anche tutto proteso a
dimostrare che la costituzione locale era il non plus ultra della
democrazia : Il reggimento è adunque di specialissimo tipo
democratico non di nome, ma di forma e, quello che più monta,
anche di sostanza. (...) Il governo più democratico, anche
se interamente privo della funzione elettiva, è quello in cui
tutti i cittadini, invece del diritto di nominare, hanno la
probabilità di essere nominati. (...) Il popolo prende
parte al governo, perché il governo vive vicino ed in mezzo ad
esso. (...) Questi novemila Sammarinesi incarnano davvicino
l’ideale di Prévost - Parabole che vagheggiava un popolo di
politici.
Era nato dunque un dibattito di natura
politica e istituzionale teso, nella sua parte riformista, a
chiedere ritocchi alle consuetudini della Repubblica e alla sua
logica statutaria secentesca; ma deciso, nella sua parte
conservatrice, a lasciare le cose come stavano, con la convinzione
che per San Marino quella forma politica rappresentasse la
migliore possibile, e che le istanze riformiste fossero solo
pretese esotiche, come vennero definite da più parti, nate
dalle mode culturali provenienti da oltre confine e da
nient’altro.
Questo dibattito fu comunque la linfa
da cui prese nutrimento e vigore il gruppo socialista sammarinese
per uscire definitivamente dal suo astensionismo ed intraprendere
la lotta politica a tutti gli effetti.
Franciosi pronunciò il suo discorso
del 1898, in un momento storico particolarmente travagliato per la
Repubblica, soprattutto perché la situazione economica del paese
era tornata ad essere alquanto precaria ed incerta, dopo una
trentina d’anni di relativa tranquillità finanziaria dovuta ad
inaspettati introiti straordinari che San Marino aveva saputo
rimediare a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, grazie
alla vendita delle onorificenze, al nuovo canone doganale che
aveva iniziato a percepire dall’Italia dopo la convenzione del
1862, al commercio di francobolli suoi e ad altro ancora.
Queste entrate avevano permesso di
realizzare infrastrutture immani e estremamente costose per la
usualmente spartana realtà sammarinese, come il Palazzo Pubblico,
alcune strade e l’erigendo cimitero di Montalbo, opere con cui si
era temporaneamente azzittito il ceto operaio, in costante
crescita proprio per l’abbondanza di lavoro del momento.
La fine del Palazzo, costato la folle
cifra di 350.000 lire, coincise però grosso modo con l’inizio del
periodo di crisi finanziaria e l’arresto di investimenti per
edificare infrastrutture. Da lì in avanti, accanto alle lamentele
della classe operaia, per il lavoro che non c’era più, e dei
contadini, incappati come i loro colleghi d’oltre confine in una
tragica crisi agricola internazionale, emergeranno in
continuazione polemiche per il bilancio statale, ogni anno sempre
più deficitario, e per la faciloneria con cui i governanti
sammarinesi lo amministravano, permettendo costanti abusi e più
che probabili ruberie. Ovviamente le polemiche di natura economica
aiutarono non poco lo sviluppo di quelle di natura istituzionale e
politica.
Una simile instabilità finanziaria
favorì lo studio di nuove ipotesi economiche per potenziare il
bilancio statale (stampa di carta moneta, maggiore coniazione di
moneta, soprattutto aurea e argentea, avvio di una lotteria
internazionale, ecc.). Tuttavia, per una serie di motivi legati
all’Italia, che aveva non poche diffidenze a permettere troppo
alla Repubblica, alla paura d’imboccare strade eccessivamente
nuove e azzardate, al dilettantismo della classe politica e altro
ancora, nessuna delle tante idee elaborate poté concretizzarsi.
Nel ’95 rispuntò dunque un vecchio
progetto da tempo accantonato proprio per merito del rinvenimento
delle entrate straordinarie di cui si è detto: il varo di una
riforma tributaria capace di elevare i bassissimi cespiti ordinari
della Repubblica e di stabilizzare così il bilancio.
Fino a quel momento il fisco a San
Marino era stato sempre un argomento tabù. La classe operaia e
rurale, infatti, era poverissima, quindi poco tassabile; il ceto
borghese era pressoché inesistente; i personaggi benestanti della
Repubblica, ovvero quelli che avrebbero in teoria potuto e dovuto
pagare di più, erano ai suoi vertici essendo praticamente tutti
consiglieri: si guardavano bene, quindi, dal sostenere
innalzamenti tributari. Nel corso dei secoli, infine, si era
consolidato tra tutti il pensiero che essere liberi, indipendenti
e repubblicani significasse anche pagare pochi balzelli. A lungo i
socialisti, negli anni successivi all’arengo, ironizzeranno sulla
confusione che in Repubblica si faceva tra libertas e
liber tas.
Il problema fiscale fu comunque il
combustibile che eccitò le fiamme del riformismo sammarinese, e
l’arma più potente che i pochi innovatori locali poterono
adoperare per creare quel forte consenso, altrimenti in larga
parte inspiegabile, che verrà alla luce con l’arengo del 1906.
Nel 1898 il deficit di bilancio aveva
ormai raggiunto le 120.000 lire, per cui il Congresso economico,
dopo aver tentennato per alcuni anni, era giunto alla conclusione
che non vi fossero altre strade da percorrere se non quella che
portava ad inasprire sia le tasse rustiche ed urbane, sia
quelle indirette sul vino, fino a quel momento pressoché esente,
insieme ad altri beni di largo consumo.
Il discorso di Franciosi del 1°
ottobre si sviluppò quindi su questo dibattito che stava
coinvolgendo animatamente il paese. Ma anche il Partito Socialista
Sammarinese prese vela per lo stesso motivo: il 1° maggio del ’99
affisse in giro per il paese un manifesto in cui istigava gli
operai a pretendere riforme sociali tra cui il suffragio
universale e un sollecito controllo alle pubbliche
amministrazioni (appendice 1).
Nell’arengo dell’ottobre dello stesso
anno, invece, Angelo Corsucci e Tullio Giacomini, qualificandosi
come suoi rappresentanti, presentarono alla Reggenza due istanze
dirette a difendere gli interessi del popolo e del bene
del paese. La prima invitava il governo a rinunciare ai suoi
propositi fiscali, essendovi tra i socialisti la convinzione
che con una adatta riforma del bilancio, cioè con tagli
e risparmi, si potesse ugualmente far fronte almeno ad
una parte del disavanzo, per cagione del quale si vogliono
applicare le imposte. Se poi non fosse stato proprio possibile
evitare il ricorso a nuove tasse, era senz’altro meglio adottare
un sistema di imposta unica sul reddito, con esenzione dei
redditi minori e progressività pei maggiori. In pratica i
socialisti, ricollegandosi pienamente alle discussioni di indole
tributaria che si stavano svolgendo anche fuori dei confini
sammarinesi, si auspicavano una riforma che non andasse a
danneggiare le classi popolari, come invece avrebbe sicuramente
fatto il progetto in discussione, quasi interamente imperniato
sulle tasse indirette, ma ricadesse prevalentemente sui possidenti
e su chi aveva un certo reddito. Vedremo inoltre nel prosieguo di
questo studio che essi attribuivano ad un fisco equo la
possibilità di livellare le sproporzioni esistenti tra benestanti
e non, ed anche precise capacità moralizzatrici.
La seconda istanza era strettamente
dipendente dalla prima: Riconoscendo che gli inconvenienti di
bilancio già citati e l’irregolare funzionamento delle
amministrazioni sono determinate principalmente dalla mancanza di
controllo pubblico; che coll’attuale forma di governo gli
interessi ed i bisogni popolari non sono direttamente
rappresentati e soddisfatti; che condizione prima di vita civile è
la partecipazione politica ed amministrativa del popolo al governo
della cosa pubblica; che in quanto a forma, il nostro governo è
contraddizione col suo nome di repubblica, rimanendo inferiore in
ordine politico al vicino regno d’Italia, dove funziona il diritto
di voto; propone che si attui una riforma per cui sia istituito il
suffragio universale con le elezioni del Consiglio in base di esso
(appendice 2).
Il socialismo sammarinese, dunque,
partendo dalle contingenze locali e allacciandosi ai grandi
dibattiti di indole riformista che si stavano sviluppando nei
paesi civilizzati, arroccandosi in particolare sul bisogno
d’introdurre anche a San Marino il suffragio universale prima di
varare qualunque altra innovazione, soprattutto di natura
tributaria, era ormai sceso apertamente in campo deciso a non
limitarsi più a fare politica passivamente attraverso
l’astensionismo, com’era in pratica fin lì avvenuto.
Il Consiglio esaminò l’istanza
d’arengo nella sua seduta del 23 novembre: Angelo Corsucci ed
il Dr. Tullio Giacomini - si legge nel verbale di quel giorno
- qualificandosi rappresentanti il partito socialista reclamano
contro le tasse da istituirsi e perché nelle elezioni si adotti il
Suffragio Universale. Il Consiglio prende in considerazione la
riforma del sistema amministrativo e respinge ogni altra domanda
non riconoscendo l’esistenza di partiti ad eccezione di quello dei
Sammarinesi Repubblicani.
In definitiva il governo sammarinese
si mostrava sensibile al desiderio di non colpire le masse con
altre imposizioni, mentre non accettava assolutamente la
possibilità di sconvolgimenti politici di nessun genere, così come
sdegnosamente respingeva l’esistenza, all’interno di quell’isola
felice che doveva essere la Repubblica, di gruppi politici
innovativi rispetto alla cultura politica usuale.
Le istanze dei socialisti, insieme al
malumore che contro le nuove tasse vi doveva essere tra la
popolazione, ebbero la forza di lasciare in sospeso per qualche
tempo l’idea della riforma tributaria. Per far fronte ai bisogni
che comunque rimanevano, il Congresso economico del 18 novembre fu
costretto a deliberare l’attivazione dell’ennesimo debito con la
locale Cassa di Risparmio per poter acquistare i tabacchi.
Nei primi mesi del secolo nuovo, inoltre, fece passi con l’Italia
per poter avere un ritocco del canone doganale. Erano ovviamente
solo espedienti che non servivano a risolvere il problema alle
radici, per cui le polemiche non si poterono sopire, ed in tutte
le sedi istituzionali continuarono ad essere discussi i progetti
più disparati per sanare il bilancio così da evitare la per tutti
temibile riforma fiscale.
III. Il nuovo
secolo e la battaglia pro arengo
Dopo l’exploit del ’99, nei primi anni
del Novecento i socialisti sammarinesi svolsero un’attività
politica piuttosto ridotta. A parte qualche articolo di Gino
Giacomini sul “Risveglio”, giornale socialista di Forlì, con cui
continuava a chiedere prima di qualunque altra riforma
l’istituzione del suffragio universale, e una serie di 52 istanze
d’arengo sottoscritte da 105 capifamiglia, in parte socialisti, in
parte democratici, presentate in ottobre al Consiglio, sempre per
chiedere il diritto di voto, non vi fu altro.
Tale quiete è forse spiegabile con una
nuova assenza dalla Repubblica di Giacomini, mente e attivista
principale del piccolo gruppo. Infatti, dopo essersi diplomato
maestro elementare, a partire dalla fine del 1900, grazie anche
all’intercessione di Franciosi, riuscì a trovare lavoro prima a
Morciano, poi presso le scuole elementari di Montelabbate. Qui
rimase ad insegnare fino al novembre del 1902, data in cui il
Consiglio di San Marino con diciotto voti favorevoli, tredici
contrari e sei astenuti, lo nominò maestro presso la scuola
elementare di Borgo, dopo che 124 cittadini avevano sottoscritto a
suo vantaggio una petizione in cui lo si richiedeva come
insegnante presso quella sede, essendo ritenuto giovane
capacissimo e che gode la stima dell’intero paese.
Giacomini, trionfante ma anche molto
polemico con i governanti sammarinesi a cui attribuiva la colpa di
aver dovuto aspettare tanto un lavoro in territorio, scrisse a
Franciosi il 15 novembre per dirgli: La ringrazio con affetto
del compiacimento con cui ha accolto la mia nomina a maestro del
Borgo. La volontà del popolo ha trionfato delle male arti della
camorra nobile. Finalmente potrò rientrare in patria! Arriverò gli
ultimi del mese.
Il ritorno di Giacomini a San Marino,
insieme ad alcuni avvenimenti del 1902, diedero una scossa al
paese: nei primi mesi del 1903, infatti, prese avvio una campagna
sistematica a favore dell’arengo e del rinnovo del Consiglio
Principe e Sovrano, come ancora si appellava, tramite suffragio
elettorale.
Prima di arrivare a
questa data, comunque, è bene fornire qualche rapido accenno ad
altri fatti accaduti in precedenza che si possono considerare il
detonatore degli avvenimenti successivi.
Nel 1901 vennero sottoposti a verifica
economica tutti gli uffici della Repubblica, soprattutto perché
erano emerse gravi irregolarità legate alla gestione del cassiere
governativo.
Fu pure l’anno in cui, nel mese di settembre, in Consiglio si
lesse la relazione elaborata dalla commissione finanziaria
nominata dal governo per avanzare suggerimenti atti a sistemare le
traballanti finanze locali.
Essa proponeva:
1.
di raddoppiare la tassa urbana;
2.
d’imporre un tributo dell’8% sull’estimo dei beni di
manomorta (si prevedeva d’incassare circa 4.800 lire all’anno);
3.
d’istituire una tassa per il porto d’armi (si prevedeva di
incamerare 1.000 lire all’anno);
4.
d’imporre una tassa sui cani (si prevedeva d’incassare 600
lire all’anno);
5.
d’istituire una tassa dell’1% sulle assicurazioni (si
prevedeva un incasso di 1.000 lire annue);
6.
d’introdurre una tassa dell’1% o del 2% sugli stipendi
degli impiegati, sui compensi dei liberi professionisti e degli
esercenti, e sugli utili degli Istituti di credito;
7.
d’imporre una tassa sul vino di 0,50 lire per soma che
avrebbe fornito circa 10.000 lire annue;
8.
d’introdurre una tassa sul bestiame;
9.
di fare diverse economie sulle spese usuali.
Tale progetto finanziario, che faceva
grande affidamento sulla tanto aborrita tassa sul vino di cui si
stava inutilmente discutendo da cinquant’anni, determinò
ovviamente grande dibattito e infinite polemiche all’interno del
Consiglio; tuttavia vi fu una proposta avanzata dal consigliere
Marino Borbiconi che incontrò l’appoggio della maggioranza;
lasciamo in proposito parlare direttamente il verbale di quella
seduta consiliare: Il Consigliere Marino Borbiconi caldeggia
con lodevoli parole la massima di trattare tutti i cittadini in
ugual modo, di essere miti ma equi nelle imposte, senza gravare,
cioè, una classe a vantaggio di un’altra. Dice che le tasse non
solo sono necessarie a ristorare le nostre finanze: ma a renderci
ancora avveduti e saggi nell’impiegare il danaro pubblico.
Conclude coll’esprimere il voto che lo studio d’applicazione delle
minime tasse, ormai ritenute più che utili e salutari, sia
affidata ad un finanziere anche estero il quale, considerato il
nostro bilancio, saprà facilmente distribuire a chi spetta il
giusto, benché esiguo, contributo da corrispondere al Governo. Il
Consigliere Onofrio Fattori si associa a quest’ultima proposta del
Borbiconi, ed anche il Consigliere Pasquale Busignani dimostra con
buoni argomenti che le tasse sono scuola di moralizzazione per i
contribuenti e per i Governi. Alla fine anche la Reggenza
aderì a tale proposta e chiese al Consiglio se si era tutti
concordi nel nominare un finanziere idoneo e capace a redigere
un concreto progetto tributario. Tutti assentirono, dando
mandato alla stessa di reperirlo.
Remo Giacomini, padre di Gino,
dichiarò tuttavia che, prima di applicare nuove tasse, sarebbe
stato opportuno fare un referendum con cui chiedere l’opinione del
popolo, visto che alla fine sarebbe stato proprio questo a subire
le conseguenze maggiori dalla riforma tributaria. La sua
richiesta, che si dimostrerà importantissima per gli avvenimenti
successivi, al momento non ottenne però l’appoggio di nessuno.
Nel gennaio dell’anno seguente la
Reggenza comunicò al Congresso di Stato d’aver preso contatti con
Lorenzo Gostoli, segretario d’Argenta in pensione,
competentissimo in materia finanziaria, e buon amico del
nostro Paese. Nel mese di giugno si dovettero contrarre altri
debiti per 20.000 lire con la locale Cassa di Risparmio; un mese
dopo arrivarono le proposte elaborate da Gostoli, il quale
evidenziò il bisogno immediato di creare un ufficio anagrafico ed
un ufficio tecnico senza dei quali non è possibile una buona
amministrazione, e coi quali soli si può sperare ed assicurare una
giusta e retta applicazione di nuove Tasse e le desiderate
economie nelle spese, disse.
Il Governo, tramite avviso pubblico
datato 12 luglio, comunicò alla popolazione che l’elaborato di
Gostoli (composto da sei fascicoli che rappresentavano solo la
prima parte della riforma che aveva in mente) era a disposizione
per quelle annotazioni, che ciascun Cittadino intendesse fare a
pubblica utilità; poi provvide a nominare alcuni organismi
preposti all’esame dello stesso progetto.
Si era dunque arrivati ad una
soluzione che prevedeva l’innalzamento mirato e scientifico dei
tributi. La parte più progressista del Consiglio, però, non era
pienamente d’accordo, e la richiesta di Remo Giacomini di fare un
referendum sull’argomento ne è la precisa conferma. Egli trovò
altri consiglieri disposti ad appoggiarlo in tale istanza: l’amico
Ignazio Grazia, con cui già il 15 giugno del 1900 aveva scritto un
volantino diffuso tra la popolazione per denunciare gli abusi e le
ruberie che avvenivano all’interno della pubblica amministrazione,
e per criticare l’introduzione di qualsiasi riforma tributaria in
un sistema politico che facilitava simili illegalità,
e Telemaco Martelli, altro suo amico, progressista moderato, con
il quale, il 27 agosto del 1902, aveva firmato un manifesto contro
il Consiglio, in cui si istigava la popolazione alla
rinnovazione mediante suffragio popolare di un consesso il quale,
pei suoi intrighi e maneggi illeciti e vergognosi da una parte,
per le sue transazioni e acquiescenze servili e incoscienti
dall’altra, si è reso indegno di continuare a reggere le sorti
della Repubblica.
Le posizioni che si stavano
consolidando erano insomma due: la prima, appoggiata dai
conservatori, voleva la riforma tributaria senza toccare il
sistema costituzionale sammarinese; la seconda, di stampo
progressista, auspicava sempre la riforma, ma solo dopo aver
modificato la costituzione oligarchica che sopravviveva dal XVII
secolo, per evitare che le nuove entrate fossero gestite con i
metodi ambigui e fumosi di sempre, sistemi che avevano permesso e
stavano permettendo ancora prevaricazioni e abusi di ogni genere.
Nel 1902 successero anche altri fatti
degni di nota per l’argomento che stiamo affrontando. Il 23
gennaio Pietro Franciosi venne cooptato come consigliere nobile
all’interno del Consiglio, nomina che egli rifiutò, come già aveva
fatto Telemaco Martelli un paio di settimane prima. Martelli,
consenziente, era stato però subito rieletto come consigliere non
nobile.
Tramite lettera aperta datata 29
gennaio diffusa tra la cittadinanza, desideroso probabilmente di
seguire la strada tracciata da Martelli, Franciosi fece sapere che
avrebbe accettato solo la carica di consigliere senza la nobiltà,
perché non poteva più ammettere l’obsoleta divisione in ceti
(nobili, cittadini, terrieri) del Consiglio.
Alla fine però la proposta di Franciosi fu rigettata: la nomina
gli venne revocata del tutto, e il professore se ne dovette
rimanere fuori dal massimo organo istituzionale della Repubblica.
La vicenda diede a Gino Giacomini
l’opportunità di scrivere a Franciosi in data 28 febbraio una
lettera nella quale sosteneva che l’abolizione della nobiltà e
della divisione in ceti era una pretesa minima rispetto ai veri
bisogni politici del paese. L’esigenza prioritaria, sostenuta dai
socialisti a spada tratta e con coerenza, perché era la stessa
ormai da diversi anni, doveva invece essere il voto: La
coscienza pubblica si orienti in senso veramente democratico e
tenda esclusivamente alla conquista del diritto di voto prima che
lo sfacelo sia completo. Questa è la prima logica ed utile
riforma, le altre saranno una conseguenza inevitabile. Ecco la
nostra pregiudiziale.
Con questa "pregiudiziale", poco dopo,
sempre in occasione della festa dei lavoratori, i socialisti
sammarinesi diedero alle stampe il secondo giornale della loro
storia, intitolato “1° Maggio in Repubblica”. Questa
pubblicazione, molto più articolata e ricca di contenuti della
precedente del 1898, presentava al suo interno diversi articoli di
Franciosi, di Gino e Tullio Giacomini, che ne erano i direttori
responsabili, di Alfredo Casali e di altri ancora, tutti più o
meno accomunati nel chiedere l’elezione dei consiglieri per voto
diretto, che era la rivendicazione principale su cui i socialisti
avevano trovato una qualche convergenza e si erano ormai radicati.
Venivano però avanzate proposte anche
per altre innovazioni, come la riforma tributaria e il
decentramento amministrativo, ovvero la creazione di tanti comuni
autonomi. Se queste riforme siano più che pressanti, lo
addimostra la latente bancarotta delle nostre istituzioni, gli
abusi ed i favoritismi criminosi che continuamente si commettono e
nel Consiglio e in non poche amministrazioni, il progetto di nuove
tasse che non si sa, se debbano ancora andare ad ingrassare le
pancie di alcuni nostri maggiorenti, oppure a sollevare di qualche
po’ il nostro esausto bilancio. E poiché queste riforme non si
otterranno se non con l’unione di tutte le forze vive del paese, i
nostri lavoratori devono sentire anche il bisogno dell’organizzazione
operaia, scrisse il giovane Alfredo Casali.
Insomma, i socialisti ormai davano l’impressione di avere tutt’altra
impostazione e tutt’altro spirito rispetto ai tempi precedenti, e
per questo cominciavano a fare molta paura alla bigotta società
sammarinese. Soprattutto erano decisissimi a pretendere l’aumento
dei diritti politici prima di qualunque altra riforma di natura
finanziaria: Ma chi potrà imporre di pagare le tasse a questo
popolo se lo tenete come un cane fuori dalla porta, privo dei
diritti civili e politici?, venne affermato in un articolo
firmato “Il Positivista”. Se deve contribuire nel campo
finanziario economico – continuava – vorrà di logica
naturale conseguenza prendere prima parte allo svolgimento della
vita amministrativa – politica; altrimenti tutte le leggi di
tasse, di fiscalità non avranno forza, non saranno osservate e
naufragheranno tutte.
Il giornale contiene tanti altri
articoli interessanti che in questa sede è superfluo riassumere.
E’ pervaso soprattutto da una forte e nuova volontà di iniziare a
cambiare davvero qualcosa a San Marino, partendo da poche,
granitiche rivendicazioni, e da una possibile alleanza con altre
forze democratiche locali più moderate. Non a caso il numero unico
si chiude con una precisa asserzione che suona come una
enunciazione di guerra: Dichiariamo di aver accettato la
collaborazione degli amici democratici che in quest’ora di
rivendicazioni popolari si sono schierati in battaglia con noi.
La volontà belligerante di cui si è
detto stava caratterizzando anche altri progressisti più moderati
dei socialisti. Il 6 aprile dello stesso anno Remo Giacomini,
Telemaco Martelli e Ignazio Grazia presentarono un’istanza
d’arengo tesa a chiedere l’istituzione del referendum per creare
un nuovo istituto con cui allacciare precise collaborazioni con la
cittadinanza quando dovevano essere varate leggi particolarmente
onerose per la comunità. Ovviamente questa iniziativa non era
altro che la formalizzazione della proposta già avanzata da Remo
Giacomini l’anno precedente, ed era strettamente legata all’idea
di sottoporre al giudizio della popolazione, tramite referendum,
il nuovo progetto fiscale a cui Gostoli stava lavorando. Il
Consiglio questa volta non rigettò la richiesta, ma prese tempo
decidendo di esporre il problema ad alcuni suoi consulenti esperti
in materia, in particolare a Pietro Ellero con cui i governanti
erano in buoni rapporti già da parecchi anni.
Nei mesi successivi le considerazioni
degli esperti giunsero in Consiglio: tutte erano più o meno
dell’avviso che la Repubblica avesse ormai necessità di qualche
innovazione di natura costituzionale, pur senza dover snaturare le
sue peculiarità secolari. Per questo si suggeriva di abbandonare
l’idea del referendum, per ripristinare invece l’antico arengo dei
capifamiglia, che poteva essere ora utilizzato con funzioni
referendarie per interpellare la popolazione su argomenti di forte
interesse collettivo.
Il Consiglio, timoroso d’instaurare
organismi che avrebbero potuto minare la sua assoluta autorità
sullo Stato, soprattutto in un momento storico in cui stavano
emergendo un nugolo di idee innovative ed esotiche, come
continuavano a definirle i membri dell'antica intellighenzia,
tergiversò ulteriormente intorno alla questione, facendo
inviperire ancor più sia i socialisti, sia i riformisti moderati
del paese, che adesso potevano appoggiare le loro rivendicazioni
anche su pareri autorevoli di personaggi carismatici estranei al
contesto sociale sammarinese e alle sue polemiche strapaesane.
Venne in definitiva provocata l’esasperazione necessaria per
favorire una grande coalizione antioligarchica in nome del ritorno
all’arengo, organismo che gli statuti del Seicento, cioè l'insieme
di norme che fungevano ancora da costituzione della Repubblica,
avevano accantonato, ma mai del tutto abolito.
Sempre in quell'anno il piccolo gruppo
socialista, deciso ormai a giocare un ruolo da protagonista nello
scenario politico locale, si costituì in sezione e Gino Giacomini
presenziò, nel mese di settembre, al VII congresso del Partito
Socialista Italiano ad Imola. Per l'occasione vennero poi in
visita a San Marino Filippo Turati e Anna Kuliscioff.
Giungiamo così ai primi mesi del 1903
quando, dopo ripetuti incontri tra i diversi sparuti gruppi di
innovatori, si arrivò, in nome del ritorno all'arengo, a fondare
un nuovo raggruppamento, denominato “Associazione Democratica
Sammarinese”, composto da quasi tutti i riformisti sammarinesi più
o meno moderati, ovviamente anche dai socialisti. Il 15 marzo
l’Associazione si presentò alla cittadinanza in un’assemblea
pubblica, durante la quale divulgò il suo programma che
raccoglieva in pratica le aspirazioni rinnovatrici di tutte le
anime che la componevano, e che si riprometteva di iniziare un
lavoro serio, ordinato, concorde per combattere i mali da cui
siamo vessati, i quali hanno la loro radice nel Consiglio dei LX.
Prevedeva infatti la sovranità popolare, la restaurazione
dell’arengo, l’applicazione del referendum, l’elezione periodica
dei consiglieri, la soppressione dei ceti, il riordino delle
finanze e della pubblica amministrazione in genere, l’imposta
unica e progressiva sul reddito ed altro ancora.
La nuova Associazione, inoltre, si
diede subito da fare per pubblicare un periodico da cui divulgare
le sue aspirazioni e con cui cercar di sensibilizzare l'amorfa e
per lo più analfabeta cittadinanza. Il 1° aprile uscì per la
prima volta il loro giornale che avrà grande peso nella lotta pro
arengo e, in seguito, nella vita del socialismo sammarinese in
genere: il Titano. Direttore venne nominato l’avvocato
Telemaco Martelli, riformista moderato.
I socialisti, visti dalla
conservatrice società sammarinese come dei terribili senzadio
pronti ad abbattere le chiese, la religione, la famiglia e le
sicurezze di sempre, preferirono inizialmente starsene nella
penombra, proprio per non dare al movimento riformista connotati
troppo rivoluzionari e sconvolgenti, per non spaventare cioè
nessuno in un momento in cui le idee sul da farsi probabilmente
non erano nemmeno troppo chiare, né vi doveva essere fiducia
assoluta e uniformità di vedute tra le diverse componenti
dell'Associazione, nonostante il programma comune di cui si è
detto. D'altra parte dagli articoli del Titano di questi
primi mesi di vita del giornale si capisce con chiarezza che non
era stato messo a punto ancora un preciso piano per muoversi
armonicamente e con strategia pianificata contro il sistema
politico imperante.
Il 1903 fu caratterizzato da tali
novità e da poco altro. Il 1904, invece, vide scoppiare diversi
scandali di natura finanziaria, in cui risultarono più o meno
coinvolti alcuni membri dell'oligarchia. Fu l'occasione buona per
inasprire i toni della polemica e per eccitare gli animi della
gente contro la sorda camorra nobiliare e la disonesta
maffia che governava il paese, pronta a ideare riforme
tributarie che avrebbero portato via soldi ai poveracci, ma
facilona, inaffidabile e truffaldina nella gestione del denaro di
tutti, almeno così sbandieravano i progressisti.
Probabilmente però i riformisti
moderati non se la sentirono di affondare più di tanto il coltello
nella ferita, né di alzare troppo il timbro degli strilli. La loro
indole, la loro cultura e la loro provenienza sociale li portava
ad essere innovatori "gentili", consci cioè che anche nel sistema
politico sammarinese qualcosa bisognasse modificare secondo le
linee che stavano furoreggiando in Italia e un po’ dovunque, ma
non disposti a grossi sconvolgimenti delle istituzioni locali, né
a sostenere quella laicizzazione draconiana dello Stato cui
pensavano i riformisti più iconoclasti, né assalti all'arma bianca
nei confronti dell'antica intellighenzia sammarinese, né
l'omogeneizzazione economica cui aspiravano prevalentemente i
socialisti.
Costoro, invece, provenienti
soprattutto dal mondo operaio e popolare, imbevuti delle culture
più rivoluzionarie dell'epoca, arrabbiatissimi contro i
padri/padroni pseudoaristocratici del Paese che facevano il bello
ed il cattivo tempo senza doverne rendere conto a nessuno,
volevano molto di più rispetto al tanto conclamato ritorno
all'arengo, che predicavano soprattutto per esigenze contingenti,
non per reale convinzione. Il loro era un sogno di modificazione
totale della società sammarinese, di democratizzazione somma, di
incondizionato ridimensionamento dei poteri politici e culturali
della Chiesa, di equa spartizione della ricchezza e delle
proprietà, di graduale presa del potere da parte dei ceti
popolari.
L'arengo, scrisse sul Titano
Gino Giacomini nel maggio del 1905, era solo l'espediente grazie
al quale dovevano trovare coesione temporanea le sparse membra
della democrazia sammarinese. Infatti egli aveva la
convinzione che sarebbe stato impossibile raggrupparle in altra
maniera, magari all'ombra di un unico programma politico, essendo
troppo diverse per tendenze e finalità. Ovviamente i socialisti,
che rappresentavano l'ala riformista più radicale, facevano paura
a tutti, anche a chi voleva promuovere innovazioni, però senza
rischiare di rimetterci del suo o di mettere troppo a soqquadro il
paese.
Per questi motivi fu proprio il
piccolo gruppo socialista a prendere in mano le redini della
protesta e ad innalzare il tono della polemica. Infatti, dopo un
anno di contestazioni piuttosto "garbate" verso il potere, il
Titano, a partire dal 1° aprile 1904, cambiò direttore
passando dalle mani di Martelli a quelle di Gino Giacomini, senza
dubbio più focoso e provocatorio del suo predecessore. Per la
verità costui anche nel primo anno di vita del periodico era stato
il suo principale autore e ne aveva quasi sempre firmato
l'articolo di fondo. Assumendo però la responsabilità della
direzione, le inflessioni del giornale si fecero in genere più
arroventate e provocatorie, cominciarono a fioccare le accuse, le
offese e le denunce, infuriarono gli scontri verbali e non, si
accrebbero i livori personali, sempre latenti in una realtà
piccola dove tutti si conoscevano e avevano contatti quotidiani,
la battaglia contro l'oligarchia dominante diventò assai più
cruenta, nonostante ci si preoccupasse in continuazione di
assicurare la cittadinanza che il cambio del direttore non avrebbe
mutato più di tanto la logica politica temperata che sottostava al
periodico.
In realtà non fu così ed il Titano,
pur definendosi ancora "organo della democrazia sammarinese",
assunse via via una fisionomia sempre meno moderata e sempre più
aggressiva e socialisteggiante. D'altronde proprio dal giornale
Giacomini fece intendere senza ambiguità che non era più il
momento di tergiversare, né di essere ambigui, perché occorreva
avere il coraggio di affondare definitivamente il colpo per
affossare quella che lui ormai considerava l'agonizzante
oligarchia al potere.
A causa di questa nuova irruenza del
periodico, anche la locale classe operaia, considerata troppo
accondiscendente e servile nei confronti dei padroni e dei
governanti, ed eternamente soggetta ad uno sfacelo di coscienza
che le impediva di divenire compatta e combattiva, venne
frequentemente stigmatizzata. Vi furono inoltre feroci critiche
per l'intero popolo sammarinese: A voler aspettare la maturità
politica, non diremo socialista o repubblicana, ma semplicemente
democratica e civile della metà più uno dei cittadini Sammarinesi
- venne scritto sul Titano del 1° aprile 1905 - ci
sarebbe da far la barba lunga come quella di Matusalem.
Proprio per sollevare le capacità
intellettive e critiche degli operai sammarinesi, e creare tra
loro maggiore aggregazione, si diede vita ad un insieme di
iniziative culturali che dovevano avere lo scopo di educare i ceti
meno colti, tra cui la cosiddetta "Università Popolare", che a
partire dal 1904 organizzò per qualche tempo conferenze e lezioni
di natura politica e sociale aperte a tutti. A queste attività
fornì la sua esperienza e collaborazione anche Annibale Francisci,
direttore del giornale socialista ligure "La Lima",
rifugiatosi per qualche tempo a San Marino perché condannato a
sedici mesi di galera per diffamazione.
Sempre per creare un più incisivo
spirito di corpo tra gli operai, si cominciò a enfatizzare
maggiormente il significato del 1° maggio e ad organizzare
manifestazioni di massa. Nel 1903, infatti, la Società Unione
Mutuo Soccorso per la prima volta lo festeggiò ufficialmente.
L'anno successivo le forze progressiste si adoperarono
ulteriormente per accrescere il concorso di popolo a tale
ricorrenza. Nel 1905, poi, due cospicui gruppi organizzati, uno
proveniente da Serravalle, uno da Città, guidati
folcloristicamente dalle locali bande musicali, si radunarono a
Domagnano, fornendo la chiara dimostrazione che il mondo operaio,
stimolato soprattutto dai socialisti che erano i principali
fautori delle manifestazioni, e che già prima del 1903 celebravano
con passione il 1° maggio, stava raggiungendo una coesione
impensabile solo pochi anni prima.
Furono questi gli anni in cui anche il
professor Pietro Franciosi aderì con maggior entusiasmo e
convinzione alla causa socialista. Egli aveva già pubblicato un
articolo sul “1° maggio” socialista del 1902,
poi aveva fornito di tanto in tanto qualche suo pezzo al Titano,
ma iniziò a scrivere sistematicamente sul giornale solo a partire
dal 1906. Il momento in cui Franciosi iniziò ad interessarsi con
piena dedizione alla causa riformista si può individuare a partire
dal suo discorso sull'esigenza di ripristinare l'arengo
pronunciato per l'insediamento dei Reggenti il 1° ottobre 1904.
In precedenza il professore si era già
reso promotore di istanze innovatrici, come abbiamo visto,
tuttavia fu proprio a partire dalla fine del 1904 che egli iniziò
a stringere un sodalizio con Giacomini e col gruppo socialista in
genere in nome del ritorno all'arengo. In seguito quest'alleanza
si consolidò sempre più, anche se i due personaggi, oggi
considerati padri del socialismo sammarinese, erano dissimili per
età, per foga, per background culturale e per personalità, quindi
a volte illuminavano lo stesso socialismo di luci di diversa
intensità e ispirazione.
Franciosi era sicuramente un uomo
formatosi ai tempi della Destra storica italiana, molto più
attaccato alle tradizioni secolari di San Marino, giunto al
socialismo attraverso l’umanitarismo che lo caratterizzava fin dai
tempi del liceo, quando si prestava a favore dei più poveri come
distributore, ovvero portando alle loro case prodotti
rimediati tramite la pubblica beneficenza, ma pure tramite un
lungo percorso intellettuale di studio e di approfondimento dei
testi di Marx e di altri pionieri del socialismo.
Giacomini, invece, di 14 anni più
giovane, essendo nato nel 1878, aveva avuto un’altra storia alle
spalle, e soprattutto si era formato culturalmente non tanto
tramite la tradizione risorgimentale, ma direttamente sui testi di
Turati, Prampolini, Costa, Bissolati all’inizio, poi sulle teorie
marxiste. Dall’ABC tentai poi di salire a più alte sfere di
acquisizione scientifica della dialettica marxista, alla quale
sono rimasto sempre fedele attraverso gli scritti di Sorel,
Labriola, e agli originali di Engels, Vassalle, e degli altri, e
mi misi a fare propaganda spicciola da quel soldato volontario e
volenteroso che sono sempre stato, ci dice lui stesso
all’interno delle sue inedite memorie autobiografiche.
Poi aveva frequentato i circoli socialisti del circondario, in
particolare quello di Rimini, quando aveva fatto l’apprendista
barbiere, e quello di Urbino, quando negli ultimi anni
dell’Ottocento era tornato agli studi, svolgendo continua opera di
propaganda e arringando le folle coi suoi primi comizi.
I socialisti, pur avendo al loro
interno più tendenze fin dal principio, che comunque in questi
anni non determinarono spaccature particolari, dovevano più che
altro dibattersi tra la loro volontà riformistica totale e, per i
tempi, ultra avveniristica, e l'indole serafica e reazionaria del
Paese che, è bene sottolinearlo ancora, quasi per intero li vedeva
come potenziali distruttori della patria, della religione, della
famiglia e della tradizione, ovvero dei cardini su cui, secondo la
mentalità dei più, si reggeva da sempre la vetusta e sacra
Repubblica, scaturita dalla costola di un santo che non avrebbe di
certo ben digerito e aiutato una ciurma così sacrilega e blasfema,
almeno secondo l’opinione dei tanti conservatori e cattolici che
così andavano dicendo soprattutto tra gli abitanti del contado.
Lo scontro ad un certo punto da
politico divenne personale, infiammandosi soprattutto tra i
Giacomini (Remo e Gino) e i Gozi (Gemino e Federico) che, per le
discussioni fomentate e le offese vicendevoli profuse sia in
Consiglio che fuori, in varie occasioni quasi giunsero alle mani
ed ebbero per anni pendenze in tribunale per denunce reciproche.
La piccolezza del Paese portava ieri come oggi a tramutare gli
antagonismi ideologici in livori individuali, in vendette più o
meno sottili, in faide familiari dal sapore provincialotto.
Occorre costantemente tener conto di questa peculiarità, quando si
studia la realtà sammarinese, altrimenti molti passaggi della sua
evoluzione storica non sono sempre ben comprensibili e spiegabili.
Con questo clima surriscaldato dagli
scandali, dalle polemiche ideologiche o personali, dalla crisi
finanziaria incombente, si giunse al 1905. Fu l'anno della svolta
della lotta politica intrapresa, quello in cui le tante
controversie sfociarono nella costituzione di un consistente
Comitato pro-arengo che costrinse il Consiglio a convocare
l'assemblea dei capifamiglia del 25 marzo 1906. L'iniziativa di
questa nuova forma di battaglia politica fu senza dubbio presa da
Gino Giacomini e dal gruppo socialista, di cui era ormai
l'indiscusso capo carismatico, ispirati dal discorso di Franciosi
di cui si è detto.
Nel mese di marzo del 1905 il
Titano, per incalzare maggiormente la cittadinanza e
accelerare la battaglia antioligarchica, da mensile divenne
quindicinale. In luglio il giornale istigò i consiglieri di indole
democratica a dimettersi in blocco, così da indebolire il
Consiglio e costringerlo a convocare il tanto desiderato arengo.
Il suggerimento però non venne colto perché vi furono da parte di
alcuni non poche perplessità a mettere in atto un gesto così
drastico.
Per buona sorte del gruppo riformista,
tuttavia, il 12 agosto la fazione oligarchica del Consiglio fece
un errore madornale che causò il rapido precipitare degli eventi:
elesse Gemino Gozi Segretario degli Interni al posto del defunto
Giuliano Belluzzi. Tale nomina venne presa dai consiglieri
democratici come un'arrogante sfida nei loro confronti, perché
proprio nei riguardi del neo-segretario essi avevano sollevato non
pochi sospetti e accuse in passato. Lo si considerava, infatti,
personaggio dall'onestà dubbia, dunque indegno di ricoprire
incarico tanto prestigioso e delicato per la gestione dello Stato.
Tra l'altro i riformisti lo ritenevano anche una sorte di
traditore della loro causa, avendo egli da giovane, come molti di
loro, aderito al mazzinianesimo di fine Ottocento e collaborato
alla redazione dei primi giornali sammarinesi, estremamente
critici nei confronti del locale regime patriarcale. In seguito,
però, era diventato uno dei membri più influenti della ristretta
oligarchia che gestiva la Repubblica, dimenticandosi in fretta dei
suoi ideali riformisti giovanili. Questa nomina fu in sintesi la
goccia che fece traboccare il vaso: nei primi giorni del mese di
settembre sette consiglieri progressisti diedero perciò le
dimissioni e uscirono dal Consiglio.
Negli stessi giorni, inoltre, vi fu la
rifondazione della sezione socialista di Borgo, che per problemi
interni, legati a scarsa partecipazione alla sua vita e attività,
nonché per carenze di natura economica ed organizzativa, era
venuta ad un certo punto a disgregarsi. Per iniziativa di qualcuno
venne ricostituita il 2 settembre del 1905 con la presenza di
diciassette sostenitori,
che si accrebbero in seguito di altri elementi.
Il 17 settembre, all'interno di
un’altra riunione della nuova sezione socialista, Giacomini
affermò che l'ora era finalmente matura per iniziare l'agitazione
a favore della rapida convocazione dell'arengo, e per
consolidare al massimo l'alleanza con i progressisti delle altre
tendenze. Così fu fatto: venne infatti creata una commissione
esecutiva composta da Antonio Cesarini, Alfredo Casali, Gino
Giacomini e Giuseppe Giovannarini che, in data 20, scrisse a tutti
i gruppi politici ed operai di San Marino, invitandoli a
ritrovarsi per giungere ad un accordo di tutte le frazioni
della democrazia sopra un comune programma di riforme
costituzionali.
I socialisti, consapevoli di non
potersi mettere direttamente a capo del movimento innovatore,
perché avrebbero creato troppo allarme nel Paese, essendo
considerati dai più soggetti estremisti, avversi al cattolicesimo
e perturbatori dell'ordine pubblico, all’interno di una nuova
riunione del 20 settembre decisero di dare solo il primo input al
moto riformista, lasciandone la direzione ai progressisti
moderati.
Il Partito Socialista
- si legge sul Titano del 1° ottobre
1905 - si assume così un semplice compito d'iniziativa e di
spinta, non di direzione, giacché per quanto le riforme
costituzionali reclamate possono essere, per esso più che per
altri, una condizione indispensabile di sviluppo, esse formano il
sostanziale e principale, se non unico, obiettivo di quelle
frazioni della democrazia che hanno un programma esclusivamente
politico e come tale più vicino alla realizzazione, ed è quindi al
partito democratico che spetta il posto di capitano nella presente
battaglia, mentre il partito socialista combatterà vigorosamente e
con slancio giovanile in qualità di semplice soldato fermamente
deciso di guadagnarsi il diritto a non lontane promozioni.
Nel mese di ottobre ci si preoccupò di
verificare il reale interesse della popolazione alla contestazione
politica che stava montando. Il 29 in Borgo venne tenuta
un'assemblea aperta a tutti, a cui presenziarono più di 600
cittadini, dove si capì che l'agitazione pro-arengo avrebbe goduto
di un certo appoggio popolare. Fu stabilito quindi di continuarla.
In questa occasione vennero nominati i dirigenti del movimento: il
giovane avvocato Gustavo Babboni, riformista moderato di
Serravalle, venne eletto presidente; Pietro Franciosi,
evidentemente non ancora troppo compromesso con il partito
socialista, vice presidente; Moro Morri segretario. Questa carica
inizialmente era stata offerta a Gino Giacomini che, rimanendo
coerente con la linea già manifestata, la rifiutò affermando che
egli ed i suoi compagni socialisti dopo aver dato il moto di
propulsione al movimento intendono, perché la loro qualità di
sovversivi non impauri alcuno, di mettersi alla coda.
In realtà nei mesi successivi la
natura battagliera ed estremista dei socialisti emergerà con
frequenza, determinando scontri a non finire sia con i capi del
Consiglio oligarchico, sia pure con Babboni, Morri e gli altri
riformisti moderati, che in genere venivano accusati di essere
troppo accomodanti con i detentori del potere, e poco convinti
delle riforme politiche da propugnare, soprattutto di quelle più
innovative e meno legate alla plurisecolare tradizione culturale e
costituzionale sammarinese.
Tra l'altro nelle campagne i
conservatori, in stretto connubio con i sacerdoti, iniziarono a
svolgere una sistematica opera di persuasione verso i contadini
per convincerli che i socialisti, una volta ribaltato il governo,
avrebbero abolito subito la religione cattolica, depredato le
chiese ed eliminato il clero. Per questi motivi già dal 18
novembre del 1905 emersero all'interno del gruppo dirigente
socialista seri dubbi sul da farsi, se cioè continuare
l'agitazione o ritirarsi per il grande malanimo che stava montando
nei loro confronti, soprattutto all'interno dei Castelli rurali.
Giacomini, comunque, risolse il problema sostenendo che era
doveroso proseguire nella propaganda e dare aiuto alla democrazia
pur intervenendo nella lotta con criteri socialisti.
Così venne fatto e, pur mordendo il
freno, il gruppo socialista si adoperò per smorzare l'impeto, a
volte fin troppo esagerato, che lo animava. Continuò quindi a
combattere fianco a fianco con i riformisti più moderati con
l’obiettivo di abbattere una volta per tutte l'odiatissimo governo
oligarchico sammarinese.
La massiccia partecipazione registrata
dall'assemblea del 29 ottobre 1905 indusse il Consiglio a rendersi
conto che non erano solo quattro giovani a spingere per la
convocazione dell'arengo, come fin lì aveva pensato. Il 16
novembre, dunque, si decise a convocarlo, con tempi e modalità
tutte da definire, però.
I riformisti ovviamente esultarono e
s'impegnarono ancor più per organizzare e proseguire la battaglia.
Tra le iniziative degne di nota merita senz'altro citare la
nascita, nel mese di ottobre, di un nuovo "Circolo di studi
sociali", promosso da Annibale Francisci, fondato per divulgare
tra i lavoratori sammarinesi informazioni di natura
politico/culturale e sollevare la modesta o addirittura
inesistente dimensione intellettuale del locale mondo operaio.
D’altra parte questo fu sempre un chiodo fisso dei socialisti, che
imputavano all’ignoranza e all’analfabetismo grosse colpe per
l’arcaica situazione politica e sociale sammarinese.
Come si è già detto poco fa, dopo la
convocazione dell'arengo sorse nella sezione socialista grande
discussione sull'apporto da dare al movimento, perché c'era chi
voleva affrontare una battaglia con aspirazioni prettamente
socialiste, ovvero di riformismo radicale e di sinistra, e chi
invece era convinto che bisognasse per il momento accontentarsi
delle aspirazioni più temperate dei democratici moderati, quindi
starsene quanto più possibile calmi.
La sezione per ben due sere di seguito
(21 e 22 novembre) si adunò per discutere sulla questione. Alla
fine prevalse l'opinione di evitare assolutamente spaccature
all'interno del Comitato pro - arengo: Preoccupato della fitta
rete di viltà e di arti subdole - si legge all'interno del
libro dei verbali della sezione - con cui gli uomini più
nefasti di nostra terra tentano di riafferrarsi al potere che loro
va mancando sotto i piedi, accaparrandosi l'incosciente appoggio
di elementi campagnoli formanti anche oggidì, per il loro
analfabetismo e attaccamento al prete, la Vandea locale, e
non volendo correre l'alea con un atteggiamento troppo deciso di
perdere sia pure momentaneamente l'intero frutto del suo operato,
delibera di tener saldo il suo programma di riforme da ottenersi a
mezzo dell'Arringo, di sostenerlo in seno al Comitato pro -
Arringo, di inserirlo nel Titano, di comunicarlo nell'assemblea
dei capifamiglia, ed all'ultimo momento, con un manifesto,
renderlo di nuovo pubblico unito ad una preventiva risposta e
disanima al programma sia politico che finanziario, il quale
probabilmente potrà essere redatto dalla Reggenza, ma non di farne
una assoluta questione capitale che provocando scissione e
indebolimento del Comitato suddetto venga a compromettere financo
l'accettazione del programma minimo di quest'ultimo; e tutto ciò
in linea di eccezionale, momentaneo esperimento, deliberando fin
d'oggi, e solennemente che, qualora i risultati definitivi
d'Arringo, malgrado tanta buona volontà e abnegazione, non fossero
soddisfacenti, disporrà perché tutte le sue forze di partito e
quelle dei singoli suoi componenti siano coordinate al più fiero
combattimento, di maggiori sacrifici, pur personali, magari
scendendo in piazza, perché finalmente in questa Terra, indegno
simulacro di Repubblica, in mano a volgari e disonesti tirannelli,
trionfi almeno il diritto costituzionale, primo passo a ben più
importanti e sostanziali conquiste dell'evoluzione economica -
sociale.
I mesi successivi furono piuttosto
tranquilli. Anche il Titano, sempre così caustico e
battagliero, dopo le deliberazioni del 22 smorzò di molto i suoi
toni e attese l'evoluzione degli eventi. Il Comitato pro -
Arringo, ovvero il gruppo riformista che in nome del ritorno
all'arengo era riuscito a trovare una qualche forma di precaria
coesione, si prodigò per divulgare tra tutta la cittadinanza i
suoi scopi ed i motivi per cui occorreva accantonare l'antico
Consiglio nominato per cooptazione sostituendolo con uno elettivo.
Inoltre organizzò un gruppo di studio per redigere un progetto di
legge elettorale, che venne portato a termine e divulgato tra la
cittadinanza nel mese di gennaio dell'anno nuovo.
Questo documento, che poi in parte
diventerà realmente la prima legge elettorale sammarinese,
in alcuni suoi aspetti era alquanto all'avanguardia. Considerava,
per esempio, l'arengo alla stregua del corpo elettorale della
Repubblica, assegnandogli il compito di rinnovare il Consiglio per
intero ogni cinque anni. Prevedeva inoltre l'istituzione del
referendum facoltativo.
Il governo sammarinese, invece, non
aveva le stesse preoccupazioni dei riformisti, soprattutto di
quelli più oltranzisti. Costoro, infatti, davano per scontato che
il Consiglio andasse ormai rinnovato, e che il convocando arengo
dovesse servire in particolare a questo. I governanti, al
contrario, non erano affatto convinti che la popolazione volesse i
mutamenti promossi dai socialisti e dagli altri progressisti più
arrabbiati, per cui avevano intenzione di utilizzare l'arengo con
una veste nuova rispetto a quelle del suo remoto passato, in cui
era stato o governo tout - court della Repubblica, soprattutto
quando occorreva assumere deliberazioni particolarmente pesanti, o
assemblea elettorale in cui modificare i connotati del Consiglio,
come era accaduto per l'ultima volta nella lontana seconda metà
del XVI secolo.
Essi erano dell'idea solo di
interrogare i capifamiglia tramite una sorta di referendum una
tantum per sapere se davvero vi fosse la volontà di apportare
cambiamenti alla costituzione sammarinese, oppure no. Da qui il
nuovo esacerbarsi della situazione a partire dal mese di febbraio,
quando iniziarono a conoscersi le norme del regolamento a cui
sarebbe dovuto sottostare l'arengo.
Franciosi sul Titano del 18 febbraio parlò senza mezzi
termini di progetto capestro, di regolamento carcerario,
di popolo imbavagliato, di forche caudine sotto cui
si costringeva a transitare il massimo organo politico dello
Stato. L'arringo sovrano è convocato con mani e piedi legati;
non può parlare, non può discutere, non può scegliere. Un
vero assurdo costituzionale, poi, veniva giudicato l'articolo
19 del regolamento, perché prevedeva che, per essere valide, le
deliberazioni dell'arengo dovessero essere approvate almeno dai
due/terzi dei capifamiglia. L'articolo si concludeva con precise
critiche ai tre membri riformisti che componevano la commissione
che aveva elaborato il regolamento, tra cui il presidente Gustavo
Babboni.
Sul Titano successivo, uscito
il 25 febbraio, fu Gino Giacomini ad urlare al tradimento e
a sferzare le forze democratiche, che si erano accontentate della
convocazione dell'assemblea dei capifamiglia, dimostrandosi
altresì troppo pronte ai placidi riposi. Egli pensava che
l'arengo dovesse essere concepito come assemblea costituente
di fronte a cui avrebbe dovuto cessare ogni potere. In
altre parole, Giacomini sosteneva che, una volta convocato
l'arengo, spettasse solo a questa assemblea qualunque decisione di
natura politica, quindi anche la sua stessa autoregolamentazione.
Il Consiglio, insomma, avrebbe dovuto limitarsi a starsene in
disparte.
Ovviamente queste bordate ferirono
diversi progressisti moderati che non avevano mai pensato ad un
arengo come quello ipotizzato dai socialisti. Il più offeso fu
proprio Gustavo Babboni, che da questo momento in poi tenderà a
prendere le distanze dai riformisti più radicali, e a cavalcare
quel riformismo mitigato e conservatore che si dimostrerà alla
lunga il vero trionfatore dell'arengo del 1906. Tra l'altro le
tensioni emerse iniziarono a incrinare l'alleanza democratica che
si era appena formata: non a caso sarà destinata a frantumarsi
completamente ad appena un anno dall'arengo.
Comunque nei mesi successivi si fece
di tutto per tenere sotto la cenere il focolaio che si era acceso,
perché fondamentale era abbattere il Consiglio oligarchico: non si
doveva assolutamente fornire alla cittadinanza l'impressione che
le forze progressiste fossero tra loro in attrito, né impaurirla
più di tanto, perché a farlo già ci pensavano le forze
conservatrici.
Molti temono che trionfando il
programma del Comitato Pro - Arringo le cose cambino al punto di
dare la repubblica in mano ai socialisti, in mano ai liberali, i
quali dovrebbero mettere tutto a soqquadro,
venne scritto sul Titano del 25
marzo, uscito nello stesso giorno in cui si stava svolgendo
l'arengo. Prima di tutto bisognerebbe che questi tali si
convincessero che i socialisti, i liberali, hanno combattuto
sempre per l'ordine, non per il disordine, e che se molte cose ora
camminano meglio, in gran parte si deve a loro. Secondariamente
dovrebbero pensare che quello che vogliono i socialisti e i
liberali lo vuole pure una grande categoria di persone che è
religiosissima. Basta leggere l'elenco dei cittadini facenti parte
del Comitato Pro - Arringo per convincersene. (…) Noi vogliamo che
il popolo si assuma il dovere di scegliere, di eleggere ogni tanti
anni i suoi rappresentanti. Li scelga fra le persone di principi
ultra conservatori o clericali addirittura, ma si prenda il
disturbo, a garanzia di tutti, di rinnovarli a determinati
periodi, e non una volta per sempre come taluni desiderano!
Come sia andato a finire l'arengo del
25 marzo 1906 tutti lo sanno: la stragrande maggioranza degli 805
capifamiglia votanti optò per il Consiglio elettivo, abolendo di
fatto il Consiglio Principe e Sovrano che dalla fine del
Cinquecento dominava la Repubblica nominandosi tramite
cooptazione. Il Titano del 15 aprile uscì in un tripudio di
retorica e di forti speranze per il futuro, certo che ormai la
Repubblica di San Marino avesse imboccato la strada maestra della
contemporaneità. Non impiegherà molto, in realtà, ad accorgersi
che non era proprio così.
IV. Il dopo arengo
e la rottura dell’alleanza democratica
Il problema ora era quello di
organizzare le prime elezioni politiche della Repubblica. Anche in
questo caso si giunse in fretta alla redazione di una legge idonea
a regolamentarle, utilizzando in gran parte la proposta già
elaborata nei mesi precedenti dai riformisti del Comitato
pro-arengo, con l'aggiunta tuttavia di qualche sostanziale
mutamento. Sul Titano del 27 maggio Franciosi si lamentò
che le imminenti elezioni non avrebbero avuto disposizioni
troppo nitide e troppo chiare, come sarebbe stato desiderabile,
non avendo contribuito a definire la lotta neanche la democrazia,
la quale nella scelta dei candidati doveva attenersi ad una
maggiore omogeneità, e doveva forse fissare le linee larghe ma
precise di un programma di presentazione. In pratica deplorava
il fatto che il gruppo riformista non fosse stato capace di
trarre dal mosaico della propria composizione un colore di
carattere, e perché non si presentava al battesimo
elettorale né con un nome né con un disegno, ma come un gruppo
di sessanta candidati troppo variopinto e disomogeneo.
Inoltre tra loro, in particolare tra i
candidati presenti nelle liste dei Castelli rurali, vi erano
addirittura elementi stranieri e, diciamolo pur francamente,
nemici della causa riformista. Nonostante questi appunti,
Franciosi era comunque ottimista per il futuro: L'opera di
selezione e di orientamento verrà in seguito, quando, passato
questo momento caotico, i vari problemi, da quello costituzionale,
diciamo così, oggi informe, che deve essere integrato con altri
postulati politici ed ampliato da nuove forme, al problema tecnico
che involge tutto l'organamento amministrativo dello Stato, al
problema operaio, scolastico e di tutti i pubblici servizi,
determineranno vari criteri e varie correnti che ci auguriamo
almeno in un punto concordi: nell'intesa cioè di studiare, di
lavorare, di escogitare nuovi impulsi di vitalità, di riparare
cioè al danno fatto dal cessato governo malamente prodigo e
allegramente vagabondo.
La maggior parte delle aspettative
esplicitate da Franciosi, che erano poi le stesse del gruppo
socialista, saranno in realtà destinate a non realizzarsi, o a
farlo tra mille intoppi e colpi bassi, che naturalmente
provocheranno e manterranno a lungo nel Paese un clima assai teso
e un forte immobilismo. Ma il 1906 fu anno di grandi sogni e di
enorme ottimismo, per cui i socialisti rimasero ben lontani dal
capire fino in fondo quanto fosse tortuosa e in salita la strada
delle riforme da loro agognate, e quanto fosse difficile, in un
paese prevalentemente rurale e ultraconservatore come San Marino,
del tutto privo di cultura politica e di organizzazioni
partitiche, perché fino al 1908-1909 non si consoliderà un altro
gruppo organizzato oltre a quello socialista, modificare anche una
virgola della sua perenne e sacra tradizione socio/culturale.
Le prime elezioni politiche della
Repubblica di San Marino durarono in pratica tutta l'estate del
1906, avendo inizio il 10 giugno e conclusione il 2 settembre,
perché in alcuni seggi vi erano stati problemi e irregolarità
varie, per cui si erano dovute rifare. I socialisti in tale
periodo ebbero altre polemiche coi loro alleati democratici a
causa di alcuni candidati non concordati insieme, tuttavia anche
in questo caso preferirono non sollevare polveroni in nome di una
effettiva svolta democratica del paese. Il nuovo Consiglio alla
fine risultò composto da 38 membri il cui nome era presente nella
lista dei sessanta candidati proposti dal gruppo riformista, e da
22 conservatori.
Apparentemente era "La fine
dell'oligarchia", come titolò il Titano del 1°
luglio, in realtà era solo un nuovo Consiglio dalla fisionomia
ancora ineffabile, e dai proponimenti tutti da definire, dove
l’unico gruppo che aveva una embrionale forma di partito politico,
mantenuta tra mille difficoltà perché la sua attività era
costantemente rallentata dalla carenza di mezzi economici e di
iscritti pronti a darsi da fare, era quello socialista, e dove i
cosiddetti riformisti provenivano da tutti i ceti sociali e quindi
non erano spesso concordi sulle strategie politiche da mettere in
opera, non avendo ideologie comuni.
Il gruppo democratico, comunque,
l'otto luglio diffuse tra la gente un suo programma politico in
quattordici punti con cui esplicitava i suoi proponimenti, ovvero:
1.
Soluzione del
problema finanziario economico del Paese sulla base delle maggiori
possibili economie e, occorrendo, di una più equa ripartizione di
tributi da sottoporsi a referendum ai Capi famiglia e ai
Maggiorenni.
2.
Miglioramento
d’ordine finanziario e politico da recarsi nella prossima
rinnovazione del Trattato col Regno d’Italia.
3.
Istituzione di un
Ispettorato generale ad honorem o retribuito, per il controllo del
regolare funzionamento di tutti gli uffici amministrativi, civili
e scolastici e di tutti i pubblici servizi.
4.
Organico per
gl’Impiegati.
5.
Impianto dell’Ufficio
Tecnico. Sistemazione del Cimitero della Pieve. Costruzione dei
Camposanti Rurali. Miglioramenti delle strade consolari e rurali.
Costruzione di edifici scolastici e di case operaie.
6.
Studio per migliorare
il servizio postale, di comunicazione e di trasporto.
7.
Riordinamenti
scolastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a
Elementare. Esperimenti di patronati e refezioni scolastiche nei
centri più popolosi. Miglioramento del Collegio Convitto
Governativo.
8.
Riforma delle Leggi
sulla igiene, sulla sanità e sulla sicurezza pubblica. Progetto
per la conduttura dell’acqua potabile.
9.
Studio per eliminare
o correggere il problema dell’emigrazione.
10.
Istituzione di una
Cattedra ambulante e di premi per incoraggiare l’agricoltura e
l’impianto e lo sviluppo delle industrie.
11.
Legge elettorale.
Estensione del diritto di voto.
12.
Riforma della
legislazione civile, penale e giudiziale.
13.
Legge sulla
cittadinanza e sulla immigrazione dei forensi.
14.
Abrogazione della
Legge 22 Marzo 1860 sul conferimento dei titoli equestri e
nobiliari.
Questo programma era sottoscritto da
29 consiglieri, tra cui i cinque socialisti eletti,
numero che rappresentava l'effettiva consistenza del gruppo
democratico riformista. Leggendolo risulta evidente che anche in
questo caso i socialisti preferirono non calcare la mano per
inserire al suo interno rivendicazioni troppo forti,
accontentandosi di quelle più urgenti e su cui poteva avvenire
un'ampia convergenza.
Così ebbe termine questa prima fase di
lotta politica. Il Titano, esaurito il suo scopo pro -
arengo e pro - elezioni, dal 3 settembre interruppe le sue
pubblicazioni. Nel frattempo il gruppo socialista si rinforzò
creando, in data 12 ottobre, un'altra sezione in Città. Subito
Gino Giacomini propose di fondare una Federazione Socialista
Sammarinese per dare più forza al movimento, pur nella garanzia
delle autonomie dei due gruppi. La sezione di Borgo, inoltre,
delegò Alfredo Casali a presenziare (a sue spese però) al
congresso socialista di Roma. L'undici novembre avvenne la prima
adunanza generale della Federazione, presenti 33 membri su una
settantina di iscritti (cfr. appendici n° 3 e 4). In questa
occasione si decise di ridare alle stampe il Titano, come
organo del partito questa volta, e si votò lo statuto in cui, tra
le altre cose, si proponeva di favorire lo sviluppo di altre
sezioni e di armonizzare l'attività delle esistenti, di
fare una assidua propaganda ed un insistente lavoro di
organizzazione per promuovere la potenza del proletariato,
ed altro ancora. (appendice n° 3) La prima Commissione Esecutiva
della Federazione risultò composta da: Gino Giacomini, Annibale
Francisci, Pietro Franciosi, Girolamo Capicchioni, Nullo Belloni.
Il 1° dicembre uscì il primo numero
del Titano con la nuova veste di "Organo quindicinale della
Federazione Socialista Sammarinese", da cui venne divulgato il
"Programma minimo" dei socialisti. Essi si ripromettevano di
essere fedeli al "programma massimo" del Partito Socialista
Italiano, ma di volersi prodigare anche per i bisogni contingenti
sammarinesi. Da qui questo programma minimo che prevedeva le
seguenti rivendicazioni:
In ordine ai
pubblici poteri
1.
Estensione del diritto di voto ai maggiorenni ed ai
cittadini della Repubblica residenti all’estero.
2.
Nuovo sistema di votazione alla sede del seggio.
Costituzione di un segretariato elettorale formato da tre alunni
delle scuole elementari per redigere le schede degli analfabeti.
Metodo di scrutinio a sezioni divise.
3.
Unificazione delle due circoscrizioni elettorali di
Fiorentino e S. Giovanni.
4.
Elezione dei Capitani Reggenti a voto consigliare diretto.
5.
Trasformazione del Congresso di Stato in Corpo esecutivo
diviso in dicasteri.
6.
Applicazione del Referendum.
7.
Riforma civile del cerimoniale e abolizione delle
onorificenze.
8.
Avviamento alla legislazione sociale. Riconoscimento
giuridico della Società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative di
lavoro. Contribuzione annuale governativa al fondo pensioni
istituito dalla Società Operaia Unione e Mutuo Soccorso.
9.
Ufficio governativo d’emigrazione.
10.
Codice commerciale.
11.
Codice civile. Personalità giuridica dello Stato di fronte
alla chiesa. Funzioni dello Stato civile distinte dalle pratiche
del culto. Denunzia diretta delle nascite e decessi. Matrimonio
civile. Trasformazione a beneficio di Istituti di assistenza dei
beni delle confraternite religiose.
12.
Obbligatorietà scolastica fino alla terza elementare.
Miglioramento e riforma didattica generale delle scuole
elementari, specie di campagna, refezione gratuita, facilitata
dalle cucine economiche, agli alunni poveri delle scuole dei
centri maggiori. Ricreatori festivi, Edifici scolastici.
Istituzione nel capoluogo di una scuola serale di disegno
applicato all’industria.
13.
Sistemazione delle finanze dello Stato senza ricorso a
nuovi oneri pubblici; e in caso di assoluta necessità applicazione
della tassa unica progressiva sul reddito con esenzione dei
redditi minimi, in confronto di qualunque soluzione finanziaria a
base di nuovi tributi o rimaneggiamento dei già esistenti.
14.
Appoggio al progetto di Stazione Climatica che non impegni
il governo se non per ciò che possa riguardare disposizioni di
esclusiva indole amministrativa.
15.
Case operaie.
16.
Organico degli impiegati.
17.
Istituzione della Cattedra ambulante d’Agricoltura.
18.
Miglioramento dei pubblici servizi. Uffici governativi
disciplinati secondo un criterio di unità direttiva e soggetti al
controllo di un Ispettorato extra consigliare.
19.
Soluzione del problema dell’acqua potabile.
20.
Nuovo ordinamento della pubblica armonia.
21.
Applicazione del sistema metrico decimale da iniziarsi
negli esercizii pertinenti all’azienda pubblica.
22.
Nuovo orientamento delle opere pie. Trasformazione della
beneficenza a domicilio. Servizi di assistenza.
In ordine
all’organizzazione proletaria
- Miglioramento del patto
colonico.
- Modernizzazione del Mutuo
Soccorso e nuovo impulso alle Cooperative di lavoro.
- Istituzione di Cooperative di
resistenza e di consumo.
- Casa del Popolo e Casa del
Lavoro.
Un programma, dunque, che era tutto
fuorché minimo, visti i gravissimi ritardi della Repubblica su
tutti i fronti, nonché la diffidenza e la paura che i socialisti
continuavano a suscitare tra la cittadinanza e tra i loro stessi
alleati democratici, ovvero la scarsa possibilità che avevano di
consolidare alleanze per la sue realizzazione. Non a caso fin dal
mese di novembre al loro interno sorsero dubbi e discussioni
sul comportamento che avrebbero dovuto tenere in Consiglio,
soprattutto nei confronti dei loro alleati democratici. Venne
deciso di stare a vedere l'evolversi degli eventi per capire che
piega avrebbe preso il riformismo per il momento solo promesso
alla gente, ma anche per essere di controllo e d’iniziativa e
di protesta per ciò che loro riguarda.
Nel gennaio del 1907, però, scoppiò
subito un'altra tumultuosa grana: nel Consiglio del giorno 3 si
cominciò a discutere sul come festeggiare il primo anniversario
dell'arengo. Dopo litigi e scontri vari, si giunse a deliberare di
celebrarlo anche con una funzione religiosa. Franciosi aveva
protestato risolutamente, così come Giovanni Vincenti; nel
Consiglio del 10 gennaio si erano poi aggiunte le proteste anche
di altri. Nonostante le contestazioni, alla fine era prevalso il
partito favorevole alla commemorazione con funzione religiosa, e
ciò aveva suscitato il malumore di chi pensava che tale ricorrenza
non avesse nulla da spartire con preti e chiesa, in primis dei
socialisti più radicali di cui Gino Giacomini era il riconosciuto
capo carismatico.
Il giorno 12, durante un'adunanza
della Federazione, che poteva ormai contare su una settantina
d’iscritti (appendice n° 4), Giacomini propose il distacco dei
consiglieri socialisti dal gruppo democratico, reo, a suo
giudizio, di non aver fatto nulla fin lì. Franciosi gli rispose
che era impossibile far tutto in una volta, e che meritava
distaccarsi dai democratici solo dopo aver percorso un po’ di
strada insieme e dopo aver dato tempo ancora per compiere qualcosa.
Il problema di fondo non era solo
legato allo scarso attivismo dimostrato dal nuovo Consiglio nei
suoi primi, pochi mesi di vita, ma soprattutto alla grossa
difficoltà che molti democratici avevano di seguire i socialisti
lungo la loro idea forte di laicizzare perentoriamente la
Repubblica. San Marino era uno Stato confessionale, da sempre
legato anima e corpo al sapere cattolico, fondato, secondo la
tradizione assunta da tutti per vera, addirittura da un santo. I
più, dunque, avevano concreti ostacoli di natura culturale e
mentale ad ipotizzare l'abbandono di questa cultura che permeava
di sé scuola, istituzioni e tutta la vita sammarinese, per
abbracciarne un'altra che era in fondo ai suoi primi, impacciati
passi.
La riunione del 12 gennaio terminò con
l'idea di temporeggiare ancora sia per andar cauti e guardinghi
nelle prime avvisaglie di battaglia contro tutte le vecchie
istituzioni, specie quella della Chiesa che ha troppi fautori e
proseliti, sia per non perdere terreno. Ci si limitò a
chiedere a Franciosi le dimissioni dal comitato organizzatore
della ricorrenza, cosa che egli fece senza problemi.
Cinque giorni dopo, però, la
Federazione tornò a riunirsi per approvare un ordine del giorno
proposto da Giacomini sulla questione. In tale documento si
ribadivano le accuse di scarso attivismo nei confronti del Gruppo
Democratico, di non impegnarsi più di tanto per attuare le riforme
promesse nel suo programma dell'otto luglio, di boicottare
sistematicamente la nomina di socialisti all'interno di
commissioni di un certo peso, di permettere la celebrazione
dell'arengo con riti chiesastici. Si invitavano perciò i
consiglieri socialisti a richiamare il Gruppo Consigliare
Democratico al rispetto del proprio nome e all'attuazione del
proprio programma, prevedendo inoltre una celebrazione
prettamente laica dell'importante ricorrenza.
Sul Titano del 20 gennaio
Franciosi volle una volta per tutte precisare la posizione dei
socialisti in materia, stigmatizzando la religione di Stato come
un indubbio avanzo di oscurantismo. Non può più esistere
una Chiesa di Stato - aggiunse. Ogni uomo se la fa da sé la
Chiesa, ogni uomo ha diritto alla sua religione senza urtare a
quella degli altri. (...) Noi vogliamo l'indipendenza dello Stato
contro ogni chiesa e contro ogni setta; vogliamo insomma uno Stato
estraneo ad ogni confessione e professione di fede. (...) Abbia la
chiesa nelle cose puramente spirituali assoluta ed inviolata
libertà; e nelle miste e civili quella sola che le leggi
consentono ad ogni altro cittadino od ente dello Stato. La
maschera ormai era stata gettata: i socialisti, anticlericali ed
iconoclasti per antonomasia, erano pronti a combattere
l’oscurantismo della nostra religione, istillato nella mente dei
gonzi, in particolare dei contadini e delle donne.
La religione è nemica del progresso
e della civiltà, ed è mezzo e strumento d’ignoranza e di
corruzione, ribadì in un
altro articolo del 5 febbraio. Il problema dell’anticlericalismo e
della laicizzazione dello Stato era dunque una grossa barriera da
superare nei rapporti con buona parte degli altri democratici, e
sarà proprio su questo fronte, insieme a quello della riforma
tributaria di cui parleremo, che i socialisti e i riformisti meno
moderati perderanno le loro battaglie più grosse, attirandosi
ingenuamente sempre più addosso gli strali del vasto e
ultraconservatore mondo cattolico locale.
Nonostante le polemiche, non fu
comunque possibile eliminare l’aspetto religioso dalle
celebrazioni del 25 marzo, per cui vi furono due manifestazioni
commemorative: una ufficiale con funzione religiosa (che prevedeva
l’esposizione della teca di San Marino ed un te deum alle
10.00 di mattino), e una laica voluta fortemente dai socialisti e
dagli altri pochi anticlericali che vi erano, aderenti in
particolare al "Fascio Giovanile Repubblicano Sammarinese". Gino
Giacomini nell’occasione pronunciò un discorso in cui risultava
evidente che l’alleanza che aveva permesso la costituzione
del comitato pro - arengo stava scricchiolando ed era ormai al
termine della sua breve e inquieta esistenza: Più fausta per il
popolo e per la Repubblica è questa modesta e semplice e schietta
nostra dimostrazione - disse - che non la cerimonia pia ed
ufficiale che riuniva, in festoso corteo, riformatori e
reazionari, democratici e conservatori, dei quali il fiero
dissidio doveva essere oggi sedato all’ombra di quella chiesa che
vide aiutò e concluse ben altri tradimenti. (...) La festa d’oggi
doveva essere festa civile e neutrale, ed è per questo che noi,
che vogliamo rispettate le nostre idealità civili ed
anticlericali, ci allontaniamo sdegnosi dal connubio che sa di
tradimento.
La cerimonia anticlericale si concluse
con la tumulazione di una lapide evocativa dell’evento, lapide che
dopo un mese sarà fatta asportare dal governo. I socialisti, in
segno di disprezzo per tale decisione, pubblicheranno
provocatoriamente a lungo sulla prima pagina del Titano il
testo della lapide.
Chi sfogliasse le pagine del giornale
socialista di questi anni si stupirebbe non poco della velenosa
asprezza con cui venivano portati attacchi al clero locale ed alla
cultura che promuoveva. D’altronde il problema era proprio nel
dominio culturale delle masse che gli uni non volevano perdere,
mentre i socialisti, i repubblicani (che si richiamavano
prevalentemente alla dottrina mazziniana, ma non avevano un
partito vero e proprio) ed i laici oltranzisti volevano acquisire.
I preti venivano etichettati come superstiziosi, come
padroni delle campagne, come maiali religiosi eternamente
soggetti a profonda degenerazione sessuale e altro ancora.
Ogni pretesto era buono per metterli in cattiva luce e per
sottolineare la loro spregevolezza.
Le pretese che venivano avanzate per
ridimensionare il loro peso sociale erano: una netta divisione tra
Stato e Chiesa, una drastica riduzione dei privilegi che il clero
ancora deteneva, lo sviluppo di istituti laici di beneficenza,
l’evoluzione della scuola, che veniva considerata lo strumento
principale per togliere il potere ai sacerdoti. La scuola
moderna deve mirare anche da noi all’unico scopo di accrescere le
generazioni indipendenti d’intelletto e di carattere, deve curare
razionalmente lo sviluppo mentale col far apprendere al fanciullo
e all’alunno tutto ciò che è conquista ed affermazione di scienza
positiva, e non l’empirismo dogmatico e partigiano, venne
dichiarato in un articolo pubblicato il 18 agosto sul
Titano. Inoltre bisognava smettere di favorire solo il Liceo
per potenziare le scuole elementari e creare scuole tecniche di
specializzazione, come esigono gl’interessi degli uomini e le
condizioni dei tempi, per favorire gli operai, che erano
invece lasciati in uno stato di abbrutimento e di totale
ignoranza.
Con le troppe libertà che lo Stato
ha dato da qualche anno alla Chiesa notiamo che il Clero
sammarinese alza sempre più il capo e si fa sempre più
reazionario, mentre il livello di coltura dei fedeli cade sempre
più in basso. (...) Nel suo piccolo il nostro Clero mette in
pratica anche fra noi il segreto delle tradizionali abilità del
Vaticano di saper sfruttare la moltitudine, tenendone vivo in essa
il fanatismo a proprio vantaggio.
Così ancora Franciosi in un articolo
dal titolo assai esplicito: "La Chiesa soggetta allo Stato" del
tre settembre 1907, in cui si auspicava la promulgazione di
una legge sulla Mani Morte e altro ancora per fissare le
condizioni di vita della Chiesa e tenerne il controllo permanente.
Interessante rilevare come questa battaglia verrà combattuta
dalle forze laiche anche con le armi dei tanto vituperati
avversari, adottando a volte i loro stessi registri linguistici, e
sfruttando la figura del Santo patrono come personaggio
carismatico cui inchinarsi non tanto per le sue virtù sacrali,
quanto per la sua dimensione di operaio e lavoratore. Ovviamente
lo scopo era quello di sostenere nuove posizioni senza spaventare
troppo il popolino, che era abituato a leggere l’esistenza tramite
punti di riferimento rigidi, stereotipati e ripetitivi, ovvero in
maniera semplicistica, utilizzando i suoi stessi paradigmi
interpretativi per comunicargli messaggi diversi da quelli cui era
assuefatto.
Negli stessi mesi di queste crepitanti
polemiche, la Federazione Socialista discusse la possibilità di
organizzare una manifestazione per sollecitare l'apertura della
Stazione Climatica su cui il Consiglio stava trattando con alcune
ditte italiane. Sebbene tale stabilimento fosse un'aspirazione
importante dei socialisti, per creare opportunità di lavoro per i
tanti disoccupati locali favorendo l'ascesa sul Titano dei
turisti, cioè fondando l'unica industria che in questo momento
pensavano potesse avere San Marino, emersero varie perplessità,
perché la stazione doveva essere in realtà, nelle intenzioni dei
suoi finanziatori italiani, una sorta di casinò, per cui si aveva
timore che potesse compromettere le sorti morali della
Repubblica.
A lungo si parlerà di questa Stazione Climatica negli anni
successivi, senza tuttavia approdare a nulla di tangibile per la
paura che si aveva, anche tra diversi socialisti, di creare
problemi di ordine morale e pubblico tra la cittadinanza. Come è
risaputo, un casinò, dalla vita piuttosto breve e travagliata,
potrà essere impiantato dal governo delle Sinistre solo sul finire
degli anni '40.
Un altro problema sentito come
prioritario in questo 1907 dalle infinite utopie fu quello del
consolidamento del bilancio che riuscì a trovare anche una qualche
soluzione, almeno per alcuni anni. Sulla pubblica finanza i
riformisti avevano combattuto le loro battaglie più aspre
imputando al vecchio governo incapacità e approssimazione proprio
in questo vitale aspetto della vita politica della piccola
comunità. Le accuse erano state ulteriormente avvelenate dalla
riforma fiscale fatta elaborare a Lorenzo Gostoli, consulente
governativo, che il vecchio Consiglio stava per varare agli inizi
del 1906, e dalla vendita di onorificenze, gli obbrobriosi
ciondoli come venivano costantemente definiti dal Titano,
che continuava imperterrita, anche se in maniera meno massiccia
degli anni precedenti, per rimediare tutti i soldi possibili per
le esauste casse statali.
Sulle tasse si combatterà una lunga e
articolata battaglia negli anni successivi, ma in sintesi si può
dire che le posizioni che si consolideranno saranno
prevalentemente due: quella dei socialisti, che auspicavano già da
tempo, fin dal 1899, come si è visto, un fisco capace di colpire
progressivamente i redditi e di gravare prevalentemente sui
benestanti, e quella dei loro avversari che o non volevano alcuna
riforma fiscale, o la volevano poco incisiva soprattutto nei
confronti di chi deteneva maggiore ricchezza. Poiché molti dei
loro alleati democratici erano proprietari terrieri e benestanti,
si capisce subito perché il fisco era l’altro grande problema,
oltre al ridimensionamento della cultura cattolica, su cui era
pressoché impossibile trovare accordi e compromessi.
Nel 1907 i socialisti di tanto in
tanto torneranno timidamente sul problema della riforma fiscale;
ma è chiaro che il nuovo Consiglio non poteva permettersi di
varare subito leggi politicamente troppo impopolari, che avrebbero
intimorito la popolazione ed offerto il fianco ad attacchi e
strumentalizzazioni di tutti i tipi. Nel paese perciò fiorì un
fitto dibattito sulle varie possibilità che vi potevano essere per
incrementare gl’introiti statali. Protogene Belloni, per esempio,
in dicembre divulgò una sua lettera in cui si dichiarava contrario
alla riforma fiscale, mentre avrebbe preferito che si fosse
discusso con l’Italia per migliorare la convenzione e soprattutto
per ottenere l’esenzione fiscale di tutti i prodotti tassati alla
fonte importati da San Marino, non solo del sale, dei tabacchi e
della polvere da sparo com’era stato fin lì. Ovviamente la
Repubblica avrebbe poi per proprio conto provveduto a gravarli di
tributi.
Altri negli stessi mesi parteciparono
con le opinioni più svariate al dibattito che si aprì. Alla fine
comunque si preferì soprassedere all’idea della riforma fiscale,
rimandandola a tempi indefiniti, per battere altre strade. La
prima era figlia di una vecchia idea suggerita già una ventina
d'anni prima dal console sammarinese a Vienna Coloman Koenig, che
la Società Unione Mutuo Soccorso aveva dimostrato di appoggiare
tramite lettera alla Reggenza fin dal dicembre del 1900, ovvero la
creazione di un Prestito a premi, una sorta di lotteria
internazionale patrocinata dalla Repubblica e finanziata da
qualche banchiere. La seconda prevedeva un tangibile miglioramento
della convenzione con l’Italia, cioè un innalzamento della quota
di denaro che veniva fornito a San Marino come canone doganale. Ad
entrambe queste innovazioni finanziarie mise mano subito Olinto
Amati, mente economica dei riformisti, che per anni verrà da
costoro esaltato come genio della finanza locale, almeno fino a
quando non si troverà coinvolto in un brutto affare proprio legato
al prestito a premi.
Tra l’altro Amati già in passato aveva
rivolto appelli al Consiglio per intraprendere la strada della
lotteria internazionale, appelli che però erano sempre caduti nel
vuoto per quella tipica paura che avvinghiava i prudenti e
conservatori governanti locali quando all’orizzonte si affacciava
una qualche novità di cui non si riusciva bene a capire la
portata. Prima di istituire il prestito a premi fu però necessario
discutere con le autorità italiane per verificare se avessero
obiezioni in merito. A tale scopo, ma anche per parlare della
nuova convenzione, nel mese di febbraio del 1907 vennero inviati a
Roma l’avvocato Babboni ed Amati, il ragazzo ed il mediatore,
come vennero sprezzantemente etichettati dai conservatori, loro
avversari politici, per intavolare trattative con i governanti del
Regno e verificare come fossero disposti ad aiutare la Repubblica
per i suoi impellenti bisogni finanziari. Qui dovettero rimanere
per diversi mesi e discutere a destra e a manca dei problemi in
cui versava il loro paese, fin quando in giugno la nuova
convenzione addizionale poté essere firmata.
La lunga permanenza, tuttavia, venne
adeguatamente compensata perché Babboni ed Amati riuscirono ad
ottenere ciò che volevano, in particolare la possibilità di
avviare il prestito a premi ed un concreto rialzo del canone
doganale. Franciosi sul Titano del 21 luglio esaltò non
poco l’operato dei due inviati sammarinesi, sottolineando i
vantaggi economici che la Repubblica avrebbe ricevuto grazie alle
meravigliose novità contenute nella nuova convenzione:
per esse nel nostro Bilancio scomparirà per sempre la tetra cifra
del disavanzo per dar luogo ad annui risparmi e costituire un
fondo di riserva che renderà sempre più sicuro l’avvenire della
Repubblica, sottolineò con eccessivo ottimismo.
D’altra parte che con la convenzione
addizionale interessasse esclusivamente migliorare il più
possibile i cespiti d’entrata è ben chiaro anche da una lettera di
quei giorni dell’onorevole Luigi Luzzatti, consulente ed amico
sammarinese, che dopo essersi congratulato per quanto ottenuto,
quasi arrivò a sgridare i politici sammarinesi per
l’approssimazione con cui fin lì avevano gestito le loro finanze,
e per i pericoli che vi erano in una politica di bilancio incauta
e troppo facilona. Il prestito che hanno l’intendimento di
emettere deve essere davvero l’ultimo debito della Repubblica e
insieme con quello del 1906 inaugurare l’era di un bilancio
equilibrato e forte, senza il quale la Repubblica comincerebbe ad
assaggiare anch’essa il frutto avvelenato dei disavanzi cronici,
che la condurrebbero a sicura ruina. (...) Il dilemma si impone
così : o parsimonia nelle spese o nuovi balzelli. Questi ultimi
essendo difficili in un paese relativamente povero, è
indispensabile porre sovra ogni altro compito quello della
vigilanza austera sulla finanza dello Stato, disse.
I vantaggi economici ottenuti dalla
Repubblica erano legati ad una nuova quota annuale e proporzionale
che l’Italia si era dichiarata disponibile a dare anche sulle
tasse indirette ricavate su alcuni prodotti, cosa che avrebbe
fornito per quell’anno alle casse sammarinesi tra le 30 e le
40.000 lire, ed il prestito a premi. Per quest’ultimo, tra
l’altro, l’Amati si era già dato molto da fare ed aveva
individuato nel banchiere Casareto di Genova il finanziatore
dell’intera operazione. La Repubblica fin da subito avrebbe
incassato come compenso una grossa cifra, negli anni a venire
avrebbe continuato a ricevere altri utili di una certa
consistenza.
Il prestito a premi tuttavia non durò
fino al 1969 come stipulato, ma solo fino al 1917 perché per
irregolarità nella sua gestione dovute all’Amati, che in quell’anno
verrà arrestato ed in seguito si suiciderà, e per precise
responsabilità anche del Casareto, si dovettero sospendere le
estrazioni. Si faranno vari tentativi prima e durante il periodo
fascista per ripristinare pienamente l’iniziativa, ma con
risultati assai scarsi. La seconda guerra mondiale provvederà ad
affossare definitivamente il prestito a premi.
Nel 1907, comunque, non erano per
nulla prevedibili i guai che sarebbero stati provocati dall’Amati,
che fino alla sua tragica fine beneficerà di fiducia illimitata da
parte dei progressisti, socialisti compresi, e delle forze che
dominavano il Consiglio. Inoltre il prestito rappresentava
l’espediente con cui allontanare l’aborrita riforma fiscale,
aborrita soprattutto dai proprietari terrieri e dal ceto
economicamente più abbiente, che, è bene ribadirlo, aveva parecchi
rappresentanti anche all'interno del gruppo democratico, e
mostrare alla cittadinanza che l’arengo del ‘906 era stato una
reale necessità della Repubblica, visto che gli uomini nuovi al
potere in quattro e quattr’otto avevano saputo risolvere gli
eterni problemi finanziari che la soffocavano.
Accanto alla questione economica
sussistevano comunque tanti altri problemi da risolvere. Tra le
istanze che cominciarono ad emergere con insistenza in quell’anno,
il gruppo socialista appoggiò soprattutto quelle relative al
miglioramento del mondo operaio ed all’istituzione di una camera
del lavoro. In questo primo periodo del Novecento la società
sammarinese era ancora prevalentemente rurale, anche se in rapida
trasformazione, con uno stuolo di contadini che dal loro mestiere
non riuscivano a trarre spesso neppure di che sfamarsi, e con più
del 70% della popolazione lavoratrice che sopravviveva con
l’agricoltura.
Gl’ingenti lavori pubblici degli
ultimi decenni dell’Ottocento avevano però indotto tantissimi
contadini a cessare il loro mestiere di sempre per lavorare tra i
muratori, i braccianti e gli altri operai impegnati alla
realizzazione delle nuove infrastrutture. Franciosi alla fine
dell’Ottocento si era anche lamentato di tale fatto in uno dei
suoi discorsi, perché con tale trend si stava rapidamente
modificando la plurisecolare struttura della società sammarinese
Il lavoro del contadino e la squallida vita a cui dava accesso non
erano comunque più ambiti dai giovani e da chi non si accontentava
più semplicemente di sopravvivere a fatica. La società si stava
mutando culturalmente e morfologicamente e l’aumento degli operai
ne era una ineluttabile conseguenza.
Questi lavoratori, meno chiusi e meno
emarginati dalla vita sociale, ebbero la possibilità di evolversi
maggiormente dei contadini tramite l’opera della Mutuo Soccorso e
l’indefessa attività del professor Franciosi, amico e consigliere
di tutti gli operai e loro strenuo difensore. I contadini non
subirono le stesse attenzioni da parte dei riformisti sammarinesi,
almeno negli anni a cavallo tra i due secoli, probabilmente per la
loro disperata arretratezza culturale, ma forse anche per quella
mentalità tipicamente locale, erede della secolare divisione tra
città e contado, che vedeva nei lavoratori dei campi degli esseri
inferiori indegni di frequentare i rari ambienti o circoli
progressisti e all’avanguardia del paese.
Nei primi anni del nuovo secolo i
contadini furono una grossa incognita per i riformisti perché non
si sapeva con precisione quale sarebbe stata la loro risposta alle
istanze che stavano portando all’arengo. Non a caso molti
progressisti pensavano che il mondo rurale avrebbe evitato
qualunque trasformazione politica del paese votando a favore del
Consiglio chiuso ed oligarchico.
Inoltre i socialisti in genere dal
ceto rurale erano guardati con grave sospetto, come se fossero dei
senzadio pronti a demolire tutte le sicurezze legate alla fede ed
agli stereotipi ereditati dal passato. Nonostante l’arengo avesse
dimostrato che anche i contadini non erano così refrattari come si
pensava tra i progressisti, la situazione non era cambiata gran
che, per cui ora si doveva risolvere il grave conflitto che aveva
sempre contrapposto gli uni agli altri.
Dal Titano del 1907 e degli
anni successivi si evince chiaramente quanto il mondo riformista
sammarinese avesse ormai a cuore il problema e come capisse che
disdegnare il ceto contadino, come aveva praticamente fatto fin
lì, non cercare di sensibilizzarlo più di tanto alle innovazioni
che si stavano propugnando, sarebbe stato senz’altro molto
pericoloso, perché avrebbe lasciato la classe numericamente più
consistente della società sammarinese, quella economicamente più
importante, in balia dei loro avversari, ovvero degli odiati preti
e dei vituperati padroni, che approfittavano di ogni occasione per
alimentare l’odio contro i socialisti, e che esercitavano sul ceto
rurale un fortissimo controllo economico e culturale.
Nella "Lettera aperta ai lavoratori
dei campi", scritta da Franciosi per il Titano del
10 marzo 1907, questo problema balza agli occhi in maniera
lampante: Voi giacete ancora sotto una doppia servitù
morale e materiale - venne scritto -. Siete troppo ligi ai preti
ed ai padroni, i quali vi sfruttano di santa ragione e nello
spirito e nel corpo. La lettera era stata indotta dalle
celebrazioni del primo anniversario dell’arengo che, come si è
detto, era stato festeggiato dai socialisti con cerimonia
prettamente laica. Quell’evento era stato usato per istigare i
contadini contro Giacomini e compagni, in quanto il testo della
lapide era stato considerato dai cattolici un insulto alla fede,
per cui ora si cercava di correre ai ripari. Non portateci il
broncio se abbiamo murato da noi una lapide, continuava
l'articolo, ognuno doveva essere libero di professare la fede che
voleva e non subire le intolleranze degli altri. Laicismo vuol
dire libertà per tutti e da per tutto, per gli amici e per gli
avversari. (...) Unitevi adunque a noi che vi esponiamo delle
verità intangibili, che impieghiamo le nostre forze per liberarvi
dal doppio giogo, che col nuovo patto colonico e con altre
riforme a vostro riguardo aiuteremo a redimervi.
Il patto colonico era in realtà la
risposta progressista che i socialisti avrebbero voluto dare ai
contadini, ancora regolati dalle norme del vecchio Statuto Agrario
del 1813. Prima di tutto però sapevano essere indispensabile
abbattere i pregiudizi che il ceto rurale aveva nei confronti del
mondo laico - riformista, ed a quest’opera, che si dimostrerà
lunga e problematica, più caratterizzata da fallimenti che da
vittorie, ci si iniziò ad impegnare proprio dal 1907 con
passeggiate di propaganda, come venivano allora definite,
presso i Castelli di campagna per far opera di divulgazione degli
ideali socialisti e di proselitismo. Nel mese di aprile si
organizzò una di queste passeggiate, probabilmente la prima in
assoluto, a Ca’ Berlone, dove si riuscì a far balbettare ad
uno sparuto gruppo di contadini le prime strofe dell’Inno dei
lavoratori. Quel balbettio diventerà in breve linguaggio e forte
linguaggio, e ben lo intenderanno i nostri avversari che ora
giuocano sull’equivoco!, annunciò con enfasi il Titano
del 17 maggio.
Simile opera di sensibilizzazione
proseguì nei mesi successivi e venne attuata ogni volta che ve
n'era la possibilità anche negli anni seguenti, soprattutto per
opera di Giacomini e Franciosi, oratori e camminatori
instancabili, pronti ad accorrere ovunque vi fosse bisogno di
divulgare il loro credo politico. Già moltissimi contadini
- dice Il Titano del 23 giugno - di Acquaviva,
Fiorentino, Chiesanuova chiedono con insistenza che i socialisti
vadano nelle loro campagne per agitarvi un nuovo migliore patto
colonico.
Se coi contadini era praticamente
ancora tutto da organizzare, non così succedeva per il mondo
operaio dove già da tempo Franciosi in particolare, ma anche
Giuliano Belluzzi, Giacomini e altri progressisti ancora avevano
iniziato ad incidere. Oltre alla Società Mutuo Soccorso, a cui va
riconosciuto il merito di essere stata la prima organizzazione
operaia locale, agli inizi del secolo erano stati fondati nuovi
gruppi operai. I primi a riunirsi in cooperativa, o meglio in
"Lega", come si diceva all’epoca, erano stati gli
scalpellini nel 1903, da sempre i lavoratori culturalmente più
evoluti e anche meglio pagati. Poi si erano aggregati i manovali e
i picconisti. Nel maggio del 1907 erano stati i falegnami a
gettare le basi per una loro Lega di cui sarà chiesto il
riconoscimento nel Consiglio del 25 giugno. In autunno saranno i
calzolai ed i fabbri a raggrupparsi.
Alla fine del 1907, insomma, buona
parte del mondo operaio sammarinese aveva una propria
organizzazione disposta a dialogare con le altre perché tutte
erano sotto l’influenza del professor Franciosi, che di diverse fu
pure presidente, e di Giacomini, il cui carisma era leggermente
inferiore per la sua più giovane età e forse per il titolo di
studio meno altisonante, essendo maestro elementare. Nel 1908
l’opera continuò perché ci si diede da fare per creare anche una
Lega dei braccianti agricoli, con il chiaro scopo di portare il
verbo socialista all’interno del ceto rurale e di aumentare la
propaganda nei Castelli di campagna, come venne stabilito nella
riunione della Federazione in data 27 maggio, e un’altra degli
impiegati statali, un’ottantina di persone in tutto, che stavano
spingendo per creare una loro legge organica.
La vita di queste leghe era mantenuta
attiva tramite banchetti conviviali che di tanto in tanto ognuna
organizzava, dove oltre a mangiare si ascoltavano gli oratori di
turno; tramite passeggiate domenicali o partecipazione a
manifestazioni, come ricorrenze (di Garibaldi, di Mazzini, ecc.);
tramite serate danzanti, come quella organizzata il 9 gennaio 1908
presso il teatro Titano.
Durante questa festa, organizzata da
tutte le Leghe, gli oratori furono Franciosi, che sostenne la
necessità da parte governativa di creare un premio per stimolare
l’impianto di qualche industria in loco per abbassare l’alto tasso
di disoccupazione, Giacomini, che evidenziò il bisogno di creare
una Camera del Lavoro, l’avvocato Babboni, che parlò sui diritti e
i doveri degli operai, Olinto Amati, che sostenne la necessità di
essere compatti nelle elezioni per impedire il dominio politico
dei conservatori e degli oligarchi, il ragionier Reffi, che esaltò
il lavoro, Giuliano Belluzzi, organizzatore della festa insieme a
due rappresentanti di ogni Lega, che parlò dell’unione e della
solidarietà fra operai, augurandosi che anche gli impiegati
creassero al più presto una loro organizzazione. Dopo aver
ballato, mangiato ed ascoltato gli oratori, la festa terminò con
la raccolta di 55 lire che andarono in parte a colmare un piccolo
debito creatosi per i festeggiamenti di Garibaldi avvenuti poco
tempo prima, in parte ad alcuni operai che si erano infortunati e
si trovavano in stato di bisogno.
Il meticoloso attivismo dei
socialisti, che indubbiamente stava riscotendo graduali ma
crescenti successi in tutti i settori, mise piano piano in allarme
i loro avversari politici. Costoro, pur non appartenendo ancora a
nessun partito costituito, erano uniti dal tradizionalismo, dal
cattolicesimo e dalla paura di stravolgere più di tanto la sacra
dimensione socio - politica della loro vetusta Repubblica. Erano
cioè o conservatori tout – court, o riformisti molto, molto
guardinghi e temperati, poco disposti cioè ad appoggiare
innovazioni, spesso considerate estremiste, come quelle propugnate
dal socialismo di questo inizio ‘900, o propensi ad appoggiarne
qualcuna, magari in termini meno radicali di quelli pretesi dagli
innovatori più convinti, e sempre nel nome della salvaguardia
della sacra tradizione locale.
Nei primi mesi del 1907 il gruppo
socialista era ancora speranzoso di poter avviare riforme in
profondità, pur avendo già notato ripetutamente che l’alleanza coi
democratici non stava dando i frutti sperati, e che occorreva di
frequente scendere a compromessi mal tollerati. Tuttavia alla fine
dell’anno ormai all’interno del partito si era fatta strada l'idea
che nei suoi presunti alleati la mentalità conservatrice fosse
assai più radicata di quella riformista, almeno rispetto alle
aspirazioni all'avanguardia cui mirava il gruppo socialista, e che
la strada fin lì sostenuta dell’alleanza con gli altri democratici
non avrebbe portato a quei benefici auspicati e perseguiti con
tenacia.
Fu chiaro, in altre parole, che
l’Alleanza Democratica nata per reclamare l’arengo si era ormai
esaurita tutta in quella richiesta e non aveva più la forza e la
volontà necessarie per mettere in opera le altre innovazioni
programmate nei mesi addietro, riforme che dai socialisti erano
state sempre reputate assai più importanti dell’arengo stesso, da
loro considerato solo il primo inevitabile passo per modernizzare
lo stato sammarinese, ma niente più.
Agli inizi dell’anno vi erano già
stati sporadici attriti con gli alleati, come in occasione del
primo anniversario dell’arengo, insieme a critiche anche pesanti
all’operato del Consiglio; ma il momento in cui si consumò la
rottura totale furono i mesi di novembre e dicembre del 1907,
quando vennero esaminate e bocciate nell’aula consigliare diverse
istanze presentate dal gruppo socialista per ottenere alcune di
quelle riforme da tempo agognate. Le richieste avanzate, messe a
punto nell'adunanza della Federazione del 3 ottobre, miravano a
far revisionare il vecchio e logoro statuto, ad istituire
ufficialmente il referendum, a trasformare l’istituto della
Reggenza da sorteggiato in elettivo, a riordinare il sistema
scolastico, a rendere obbligatoria la scuola elementare nei suoi
primi anni, a creare un contributo governativo per il fondo
pensioni e un organico per gli impiegati, ad adottare un codice
civile, a riformare, laicizzandoli completamente, i cerimoniali
statali ed altro ancora.
Quasi tutte le richieste, sebbene
contenessero qualche cosa di comune col manifesto - programma del
gruppo consiliare democratico, fu evidenziato sul Titano
del 19 gennaio del 1908, furono sonoramente bocciate: ciò mostrava
in maniera indubbia che l’alleanza democratica non le aveva ben
appoggiate, ed ormai era da considerarsi colata a picco. Il
mosaico democratico consiliare sta disgregandosi dopo un anno di
simulata fusione, proclamò il Titano del 1° dicembre
1907, perché gli elementi di destra erano riusciti a
trovare un’unità d’intenti nella salvaguardia della sacra
tradizione, mentre dopo l’arengo, che aveva dato origine a strane
e non sempre comprensibili alleanze, tra i democratici non vi era
stato più un grande accordo. L’articolo prosegue dicendo che i
socialisti si erano attenuti al programma elaborato di comune
accordo, pur rinunciando a pretese più ampie e più consone ai loro
ideali, mentre una parte della democrazia ha dimenticato di
assolvere a molti suoi obblighi. (...) All’alba della nuova
repubblica un ordine nuovo doveva stabilirsi sulle macerie.
Bisognava rompere i ponti col vecchio sistema, estirpare il
vecchio tronco dalle radici, (...) rifare ab ovo la compagine
dello Stato, disciplinare gli uffici, rinvigorire ed allargare le
pubbliche funzioni amministrative e politiche, ossigenare e
disinfettare l’ambiente viziato.
Insomma ci si aspettava un’opera
radicale di riordinamento, invece il Consiglio aveva
smarrito in fretta le sue mete ripiombando nei vecchi vizi del
passato: Il consueto e vieto sistema guadagnò gli uomini che
erano partiti in guerra contro di esso. Durante l’anno appena
trascorso vi erano state alcune buone iniziative e conquiste,
ma l’opera riformatrice era stata assai parziale, frammentaria e
casuale, interrotta tra l’altro da lunghe pause e tentennamenti.
Inoltre molti democratici non si erano dimostrati tali: alcuni
avevano cercato di collocare la loro persona al di sopra del
gruppo, non lavorando in comunione con gli altri per una corretta
gestione politica dello stato. Quel groviglio caotico di uomini
e di cose non aveva quindi più ragione di sopravvivere :
L’ibridismo, le alleanze innaturali, gli accoppiamenti bastardi
abbiano fine e ciascuno assuma il posto, l’atteggiamento, il nome
che i propri istinti, i propri interessi, le proprie idealità gli
impongono e gli consentono.
In realtà, se si sfoglia la raccolta
delle leggi di questo periodo,
ci si può rendere conto che qualcosa, non molto per la verità, già
si era fatto rispetto al programma dell’otto luglio, e altre
innovazioni, sempre fedeli a quelle linee di condotta, si
realizzeranno negli anni successivi. Evidentemente però a
Giacomini e ai socialisti più oltranzisti non bastava, e
soprattutto non soddisfaceva la lentezza con cui si procedeva
nell’esecuzione delle riforme, in particolare di quelle ritenute
più importanti. Simile pigrizia la imputavano al sistema politico
sammarinese, privo ancora di partiti, a parte quello socialista,
quindi di solide alleanze governative, nonché alla tradizionalista
mentalità dominante, che doveva ancora abituarsi ad una logica
riformista assolutamente inusuale per i costumi locali.
Come conseguenza delle gravi polemiche
contro i consiglieri democratici, il 17 dicembre il Comitato
Esecutivo della Federazione socialista inviò una lettera al
presidente del Gruppo Democratico per comunicargli che i
consiglieri socialisti erano stati sempre contrariati nelle
loro proposte, e ciò aveva provocato dannoso ritardo nel
mettersi con giusta lena a concretizzare il programma comune in 14
punti dell’8 luglio. Per cui i consiglieri socialisti (ora quattro
perché nel mese di settembre era morto Domenico Forcellini) si
ritiravano dallo stesso gruppo ripromettendosi di appoggiare
unicamente le innovazioni gradite alla Federazione, e di trovare
forme di alleanza solo con i consiglieri affini, cioè
disposti a seguirli lungo i percorsi consoni alla loro ideologia e
ai bisogni ritenuti prioritari per la Repubblica.
Il Gruppo Democratico rispose subito
affermando che le ragioni prodotte dai socialisti per avallare le
loro dimissioni erano pretestuose ed infondate. La Federazione
socialista si riunì quindi un’altra volta il 17 gennaio dell’anno
nuovo per ribadire che il gruppo democratico non stava dando prova
d’interessamento e di solerzia per l’attuazione del proprio
programma amministrativo e politico, che stava infirmando
le riforme promesse, che aveva permesso la distribuzione di
ulteriori onorificenze venendo così a meno ad uno dei capisaldi
del programma, che in diverse occasioni di voto all’interno del
Consiglio non aveva votato compatto, che non si riusciva a
raggiungere accordi preventivi su nulla, che a volte aveva votato
insieme ai conservatori confondendosi col gruppo oligarchico
per differenziarsi dai socialisti ed affini, che aveva
permesso riti chiesastici nella solenne cerimonia governativa
del primo anniversario dell’Arringo.
Alla fine la Federazione rimase dunque
ferma sulle posizioni assunte, rifiutandosi di ritornare sui suoi
passi e di ritirare le dimissioni dei suoi consiglieri, posizione
confermata ancora una volta tramite lettera del 21 gennaio 1908 in
cui si ribadivano sempre le stesse critiche e accuse.
Il nuovo ordine non è stato
instaurato, sparò anche il
Titano del 31 dicembre, perché non vi era stato il coraggio
di abbandonare i vecchi sistemi e di dar continuità operativa alla
democrazia, spesso indecisa di fronte ai conservatori ed ostile
verso i socialisti. A che cosa miravamo con le nostre istanze?
Di ricostruire, dopo la rivoluzione dell’Arringo, il nostro
piccolo Stato su basi nuove ed omogenee ai moderni tempi.
Tuttavia i governanti o per ignoranza o per opportunismo non
avevano voluto capire il bisogno impellente di evolversi. Che i
conservatori, siedano a destra o a sinistra o nel centro, tentano
sempre di contrastare ogni riforma e di voler far credere ad
occhio e croce che le nostre istituzioni e le nostre consuetudini,
siano pur vecchie come il brodetto, debbonsi sempre mantenere,
anche se inutili e nocive, e dichiararle invulnerabili.
Non era stata solo la bocciatura delle
istanze l’unica causa della rottura dell’alleanza: infatti per
tutto l’anno, a partire dalle polemiche di gennaio sul primo
anniversario dell’arengo, i socialisti dichiaravano di aver notato
costante ostruzionismo nei loro confronti, nonché il manifesto
desiderio da parte della maggioranza dei suoi 29 sottoscrittori di
non volersi realmente e pienamente assoggettare al programma
accettato da tutti l’8 luglio 1906.
L'anno si chiuse dunque con queste
polemiche e la drastica scissione all’interno del gruppo
democratico, frattura che peserà non poco sulla gestione del
paese negli anni successivi. Il 1908 si aprì perciò tra immense
polemiche, anche perché i socialisti ritenevano che molti dei loro
ex alleati facessero ormai comunella fissa con gli elementi più
retrivi della parte reazionaria del Consiglio.
I più dei nostri governanti o non
concepiscono per ignoranza questo potente bisogno di muoversi, o
per opportunismo vi si oppongono
– evidenziò pure Franciosi sul Titano del 19 gennaio.
Essi sono inconsciamente invasi dal terrore di un pericolo ignoto;
per la loro inettezza non sanno pensare astrattamente, non hanno
concezioni concrete, non sentono il bisogno di migliorare sé e il
paese. Nonostante l’incessante progresso che li circonda, la
pusillanimità naturale li assale ad ogni pié sospinto. Non
assurgono a nuove concezioni di vita e s’aggrappano alla cieca
fede religiosa come unico conforto.
Il gruppo socialista si ripropose di
favorire caso per caso le iniziative consiliari di suo gradimento,
di mantenersi in pieno accordo coi consiglieri disposti a
cooperare con loro, ma di opporsi a tutto ciò che non avrebbe
condiviso, a prescindere da chi l’avesse proposto.
Finalmente il Gruppetto Consigliare
Socialista si è sciolto dai legami che l’avvincevano ai
Democratici – venne scritto
sul Titano del 23 febbraio da Alfredo Casali – Ed era
tempo! Le aure nel seno di questo sedicente Gruppo Democratico,
s’erano già rese irrespirabili per coloro che volevano fare
qualche cosa per il bene della Repubblica. Bisognava darsi
dunque da fare per ricreare un altro gruppo composto solo da veri
democratici, liberato dalle molte scorrie ereditate dal
vecchio governo oligarchico. Secondo l'articolista, infatti, il
gruppo democratico da cui i socialisti erano usciti aveva due
anime: l’una, quella più numerosa, era formata dai reietti
dell’antica oligarchia, dagli ignavi, dai conservatori arrivati
alla democrazia per preoccupazioni elettorali, tutti imbevuti di
vecchi pregiudizii, delle antiche usanze, e attaccati al logoro
Statuto; l’altra, formata dagli entusiasti della
democrazia, dagli assetati di nuove riforme, dai veramente amanti
della Repubblica era però più esigua e stentava quindi ad
imporre le sue idee nel Consiglio. Da qui il bisogno di por
termine all’alleanza per poter combattere battaglie più robuste e
radicali, senza troppi vincoli, proibizioni o compromessi, e
sensibilizzare sempre più la
cittadinanza sammarinese alle teorie socialiste, così da aumentare
di peso all'interno del locale panorama politico e sociale.
V. 1908 – 1910: la nascita dell’Unione Cattolica Sammarinese
Consumata la
diaspora, il gruppo socialista si mise solerte all'opera per
perorare la sua causa e cercare di arruolare proseliti ovunque,
soprattutto nei Castelli rurali. Così il 31 dicembre del 1907
Franciosi, Giacomini e Rufo Reffi si recarono ad Acquaviva ad
arringare i suoi abitanti; il sei gennaio altri propagandisti
presenziarono al banchetto dei muratori presso l'hotel Titano,
anche qui a svolgere attività analoga; il 9 dello stesso mese, in
quest’occasione insieme ad altri riformisti di indole più
moderata, parteciparono alla festa delle leghe operaie; il 25
marzo, anniversario dell'arengo, organizzarono nella piazza
Garibaldi una conferenza dove parlò, tra gli altri, anche A.
Valmaggi, segretario della Camera del lavoro di Forlì, a cui la
Federazione si era rivolta per istituirne una anche a San Marino;
il 1° Maggio fu il repubblicano Venanzio Ugolini, invitato dal
Fascio Repubblicano Sammarinese, ad intrattenere con un discorso
il popolo, in unione a Franciosi e Giacomini.
Senza
continuare in questo elenco, che per il periodo di cui stiamo
trattando sarebbe piuttosto lungo, si può riassumere col dire che
praticamente non passava ricorrenza senza che i socialisti,
a volte in collaborazione con riformisti "affini", come li
chiamavano, organizzassero qualche manifestazione con lo scopo di
educare e sensibilizzare la popolazione alla loro causa e con la
brama di lenire, soprattutto nelle campagne, la soggezione che la
gente aveva nei confronti della Chiesa, del clero e del padronato.
Quando non c’era la ricorrenza spesso la si creava. Gli argomenti
prediletti, più sostenuti e gridati, erano tutti quelli del
Programma minimo varato alla fine del 1906, che costituirà una
sorta di bibbia del primo socialismo sammarinese. Dal 1907
un’altra tematica che verrà cavalcata spesso e volentieri sarà
l’istituzione di una Camera del Lavoro, per organizzare in maniera
ottimale il mondo operaio e per educarlo alla dottrina socialista.
Se n’era parlato per la prima volta nella riunione della
Federazione socialista del 3 aprile 1907, perché Franciosi l’aveva
fatta mettere all’ordine del giorno.
Da quel momento in poi per molti anni, precisamente fino al 1919
quando verrà effettivamente istituita, divenne una tematica fissa
dei socialisti. Nei comizi presso i Castelli rurali un argomento
costante era invece quello di un nuovo patto colonico a vantaggio
dei contadini, con cui si sperava di riuscire finalmente ad
attirare simpatie alla causa socialista anche da parte di questa
categoria sociale.
Inoltre i
socialisti incominciarono a sparare a zero sui borghesi, fatto che
causerà ripetute minacce alla figura di Franciosi, sui consiglieri
che se ne stavano continuamente assenti dal Consiglio, e su tutte
quelle persone che, a loro giudizio, impedivano alla Repubblica di
fare qualsiasi passo in avanti.
Un altro
argomento intorno a cui svilupparono puntuali polemiche fu
l’organizzazione degli uffici della Repubblica, ritenuti in preda
a totale anarchia, ad anormale costruzione e costituzione
tecnica, in difetto di personale abile, disciplinato,
controllabile, dove gl’impiegati spesso non rispettavano
neppure il regolare orario di lavoro. Ve n’erano anche di bravi,
ma in tanti facevano praticamente i loro comodi. Molti, tra
l’altro, venivano accusati di essere stati assunti al di fuori di
qualunque regola e senza competenze specifiche.
Anche i
pubblici uffici, in definitiva, erano soggetti alla stessa
precarietà ed improvvisazione che i socialisti vedevano in tutti i
settori statali: Il governo di San Marino vive troppo alla
giornata; ogni cosa ha una caducità affrettata ed intempestiva;
tutto è posticcio, tutto è creato per il momento, senza durata,
senza una finalità precisa e permanente. (…) Tutto è incerto,
tutto è dubitante, tutto è aleatorio.
Era dunque fondamentale creare un ispettorato degli stessi,
composto da controllori estranei al Consiglio, insieme a normative
rigorose per disciplinarli, perché la società stava facendosi più
complessa, per cui gli uffici dovevano diventare più efficienti,
come un po’ tutto a San Marino. La critica produsse qualche
delibera consigliare in merito, ma in realtà gli uffici
perseverarono in buona parte dei loro difetti anche negli anni
successivi.
Un’altra
polemica riguardò le due Segreterie, degli interni e degli esteri,
che all’epoca praticamente detenevano tutti i principali incarichi
amministrativi e politici della Repubblica. I socialisti volevano
un segretario degli interni salariato ma non consigliere, mentre
quello degli esteri, da definirsi o Segretario politico o
Ministro della Reggenza, non doveva essere salariato,
essere consigliere ed avere una nomina solo temporanea.
La questione portò effettivamente ad un regolamento varato il 12
luglio del 1909 che recepiva le proposte socialiste.
Il primo segretario degli interni eletto tramite concorso e
sottoposto a tali regole fu l’avvocato Giuseppe Forcellini, già
segretario amministrativo a Pesaro, che sarà un importante
militante del partito socialista, tanto da dover poi condividere
con gli altri capi del socialismo locale le persecuzioni fasciste.
Un ulteriore
chiodo fisso dei socialisti in questi anni era l’impianto di una
prima industria capace di fornir lavoro ai tanti disoccupati che
la Repubblica annoverava, soprattutto durante i mesi invernali
quando il lavoro nelle campagne era fermo. Prendendo esempio da
quanto aveva fatto Urbino, la Federazione socialista cominciò a
fare istanze perché venisse dato un premio in denaro a quell’industriale
che avesse impiantato una fabbrica capace di impiegare qualche
decina di operai. In giugno in effetti il Consiglio votò un premio
di 40.000 lire per chi avesse creato un’industria capace di dar
lavoro a non meno di un centinaio di operai.
La proposta suscitò varie adesioni tra gl’industriali italiani, ma
vuoi per la mancanza di materie prime della Repubblica, vuoi per
la carenza dei trasporti, delle vie di comunicazione, dell’acqua o
dell’elettricità, vuoi per difficoltà burocratiche o fiscali a
volte avanzate dall’Italia, non fu possibile in questi anni creare
nessuna industria con le caratteristiche richieste.
Tutto questo
dinamismo, giudicato pericoloso da chi era abituato a non aver
troppi concorrenti nella trasmissione dei valori, della morale e
degli ideali, nonché i toni spesso ingenuamente eccessivi e
iconoclasti utilizzati con sistematicità contro il clero e a
favore di una drastica laicizzazione dello Stato, provocarono
negli stessi anni una maggiore organizzazione dei cattolici, fino
alla costituzione di un gruppo dalla spiccata fisionomia politica,
che si dimostrerà pronto a concorrere con i gruppi politici laici
per mandare in Consiglio i suoi candidati.
Il Titano del 31 luglio 1907
sottolineava che la lotta per laicizzare la piccola repubblica era
più importante a San Marino che in Italia, perché proprio
per la sua leggendaria nascita, dovuta ad un santo, pareva una
figliazione degli ordinamenti religiosi primitivi,
costringendola ad essere un sopravivente comune dello Stato
pontificio. La stessa figura di Marino, il santo protettore,
andava ridimensionata perché egli nella piena luce del secolo
ventesimo e in tanta effervescenza di libertà sembrava una
creatura allevata in mezzo a quattro accerchianti conventi. Il
potere della Chiesa a San Marino era illimitato, secondo
l’articolista, che era in questa occasione Gino Giacomini:
Soverchia gli ordinamenti civili, presiede a tutti gli atti
principali della vita pubblica, ha in cura ed in tutela il
governo, lo battezza e lo benedice, lo rapina e lo batte (…) Lo
Stato è una emanazione della Chiesa, né più né meno.
La laicizzazione dello Stato passava
necessariamente attraverso il mutamento di quegli istituti in mano
alla Chiesa. Da adesso in poi aumenteranno notevolmente le
polemiche sul matrimonio civile, che i socialisti e i riformisti
anticlericali volevano ad ogni costo e che si riuscirà invece ad
inserire nella legislazione sammarinese solo dopo la seconda
guerra mondiale (lo stesso Giacomini andrà a sposarsi in civile a
Verucchio non potendolo fare a San Marino), sulla scuola, sul
catechismo, ancora insegnato come una qualunque altra materia
scolastica, sulle istituzioni della Repubblica e su tutto ciò che
veniva reputato nelle mani dei cattolici, o comunque sotto il loro
influsso.
Nel 1909 i socialisti iniziarono una
forte polemica sulla scuola, che volevano obbligatoria fino alla
terza elementare, agevolata, tramite l’istituzione del patronato
scolastico per i più poveri, migliorata nella sua edilizia, spesso
fatiscente, utile anche per la classe operaia, a favore della
quale si istigava l’istituzione di una scuola di arti e mestieri e
di corsi serali. Con i loro strali riuscirono a stimolare
l’evoluzione degli eventi e a indurre il Consiglio a formulare un
progetto per il miglioramento scolastico. Tuttavia la sua
concretizzazione avvenne con relativa lentezza, sia per i costi
che si dovevano affrontare per edificare scuole nuove in tutti i
Castelli, sia perché le polemiche politiche del periodo, con la
forte contrapposizione tra cattolici e laici, determinarono
rallentamenti a tutti i livelli.
Tra l’altro l’innovazione prevedeva
l’istituzione del posto di direttore didattico, e l’unico a San
Marino ad avere l’abilitazione necessaria era Gino Giacomini,
fortemente inviso al locale e potente ceto conservatore che ne
boicottò la nomina per chiamata bandendo un concorso pubblico
aperto anche ai cittadini esteri. Tale fatto provocò la dipartita
da San Marino di Giacomini che, disgustato e stizzito, nel 1910
andò a fare il direttore didattico ad Argenta, dove in precedenza
aveva vinto un concorso. Solo nel 1913, essendo cambiate le
condizioni politiche, come vedremo, venne assegnato l’incarico a
Giacomini che quindi rientrò a San Marino.
E’ chiaro che simili polemiche, di
frequente forti ed astiose, ripetute in tutte le occasioni
possibili, insieme alle costanti accuse distribuite a profusione a
destra e a manca e alla martellante propaganda anticlericale e pro
laicizzazione dello Stato, fatta anche nelle campagne, da sempre
piazzeforti dei conservatori, cominciarono ad allarmare non poco
il clero locale, il padronato e chi nella religione vedeva l’unica
o la migliore cultura possibile, e pensava che la conservazione
dei valori del passato fosse sempre la soluzione migliore anche
per i tempi nuovi. I contrasti crebbero quindi gradualmente, ma
con costanza, finché nel luglio del 1908 i cattolici ed i
conservatori intransigenti diedero alle stampe il loro primo
periodico, il Pro – Patria, subito ribattezzato
sarcasticamente Pro – Pappa dai socialisti, il cui numero
iniziale uscì il giorno 5.
Il pretesto che favorì l’edizione di
tale giornale furono le elezioni parziali che si dovevano svolgere
il 12 dello stesso mese per eleggere cinque consiglieri venuti a
meno per dimissioni o altro dal 1906. Il Titano per l’occasione
continuò a sparare a zero sui cattolici sia per quella solita
politica arrabbiata anticlericale che lo animava sempre, sia
perché aveva reali timori che si potessero dare una qualche
organizzazione e mandare in Consiglio i loro candidati.
Soprattutto si aveva paura del Castello di Domagnano, da sempre
conservatore e filo - cattolico, oscuro fortilizio della Vandea,
come verrà eternamente etichettato, per l’opera di propaganda
politica che negli anni prima, ai tempi dell’arengo, vi aveva
svolto Don Michele Bucci, e per quella che ora stavano svolgendo
Don Terenzi e la famiglia Marcucci, gli assoluti dominatori del
luogo, come li consideravano i socialisti.
Il Pro–Patria in realtà sarà
creatura dalla vita breve, perché legata esclusivamente a queste
elezioni. I cattolici, infatti, presumibilmente non erano ancora
motivati ad organizzarsi per contrastare con sistematicità i loro
avversari politici tramite la fondazione di un vero e proprio
partito che, a parte un tentativo temporaneo di cui parleremo fra
breve, prenderà vita solo nel 1919 con la fondazione del locale
Partito Popolare. Il giornale comunque, pur ripromettendosi di non
voler essere aggressivo e bellicoso, dichiarò che non avrebbe
tollerato le imposizioni e le intemperanze della piazza e dei
partiti sovversivi, cioè dei socialisti a cui riservò feroci
attacchi: Voi non siete socialisti. Voi non avete principii
democratici e liberali. Voi per salire avete raccolto nel vostro
seno tutti i relitti ed i detriti immondi della cloaca Massima.
Politicamente assicurava di non voler far propaganda per nessuno
essendo apartitico: La nostra Repubblica non deve essere di uno
o di un altro partito ma deve appartenere indistintamente a tutti
i cittadini. Come sottintendeva già nel suo titolo, il
giornale era uscito solo per sostenere la patria in un momento
storico particolarmente travagliato in cui i socialisti stavano
urlando troppo.
Questo foglio dimostra con chiarezza
che ancora in questo periodo i cattolici, al di là dell’ostilità
violenta contro i socialisti, non avevano idee politiche chiare,
né si volevano impegnare più di tanto nell’agone politico,
senz’altro per quell’avversione verso il mondo dei partiti
promossa dalla Santa Sede e molto in voga presso il cattolicesimo
italiano del periodo. Non a caso le elezioni suppletive del 1908,
in cui i cattolici non proposero ufficialmente loro candidati,
furono favorevoli ai progressisti ed ai socialisti, che riuscirono
a far eleggere Alfredo Casali. Il Titano del 26 luglio sostenne
entusiasticamente che il partito usciva dalle elezioni
ingigantito e sicuro del consenso e dell’aiuto della classe
lavoratrice che dietro ad esso si è messa risolutamente. Le
elezioni del 12 corrente costituiscono né più né meno che la sua
(dell’oligarchia) condanna e preludono al colpo di grazia
che le verrà dato nel prossimo anno, ovvero nelle elezioni del
1909 quando, in base alla legge elettorale dell’epoca, si sarebbe
dovuto rinnovare il Consiglio per un terzo.
Forse proprio grazie a questa poco
lungimirante foga ed alla superficiale convinzione che San Marino
ormai avesse mutato realmente e miracolosamente pelle, il
Consiglio, durante la Reggenza di Olinto Amati, riformista
anticlericale di vecchia data, si mise a discutere di religione
nella scuola e di catechismo, chiedendosi se fosse giusto che
nelle elementari il catechismo venisse considerato una materia di
studio a tutti gli effetti. Tra l’altro i socialisti, i
repubblicani ed i progressisti radicali continuarono a chiedere
con sempre maggiore insistenza alcune riforme relative
all’istituto della Reggenza (elezione diretta, mutamento dei loro
costumi e della cerimonia d’insediamento) ritenute assolutamente
inconcepibili dai conservatori.
Nella seduta consigliare del 31
ottobre avvennero forti scontri tra conservatori e riformisti
perché fu esaminata un’istanza socialista proprio relativa ai
Reggenti. L’orda barbarica balzò come un sol uomo - ci
racconta il Titano del 15 novembre nella cronaca che fece
dell’evento – risoluta a farla finita contro i socialisti ai
quali deve essere negato il diritto di vita: urlò, inveì, si alzò
minacciosa contro i pochi nostri compagni che resistevano sereni
ma forti, mostrò i pugni, alzò i bastoni, fece luccicare qualche
fredda canna di revolver. Le intemperanze dei vandeani
ossessionati, però, non sortirono effetti: Tutte questa
inutile consunzione di piccole o grandi violenze ed ingiustizie
non farà spostare di una linea la condotta del Partito Socialista
che ha una funzione altissima da compiere e che è sicuro del suo
domani. E’ il Partito Socialista che ha dato nuovo vigore alla
Repubblica.
In realtà la violenza degli scontri
non si doveva solo alla riforma della Reggenza, ma soprattutto al
problema del catechismo che secondo gli anticlericali doveva
essere insegnato solo nelle chiese e non a scuola. Si cominciò a
ventilare, sicuramente con troppa leggerezza e con troppa fretta
da parte progressista, la possibilità di abolirlo del tutto. Già
nel Consiglio dell’8 ottobre si era arrivati ad una votazione in
merito che aveva dimostrato la volontà di parecchi consiglieri di
abolire il catechismo, provocando in seguito immense polemiche nel
paese. La questione venne lasciata in sospeso per qualche mese,
anche se il Titano del 25 ottobre considerava ormai la
soppressione del catechismo cosa fatta, e plaudiva alla locale
scuola che aveva il dovere di essere neutrale in fatto di
credenze, di separare morale e religione, e di impedire
ogni tentativo di penetrazioni estranee. Ovviamente se gli
anticlericali plaudivano, i cattolici fremevano di sdegno e di
rabbia, confortati in questo dai sentimenti del popolo, ancora
quasi tutto saldamente vincolato alla cultura della Chiesa.
Le istanze riformiste che con sempre
maggiore frequenza venivano presentate in Consiglio, insieme alla
lotta ormai serrata nei confronti del catechismo e della
religione, spinsero i cattolici ad organizzarsi sempre meglio fino
a fondare un gruppo dai precisi connotati di partito politico ed
un loro giornale pronto a ribattere colpo su colpo la propaganda
anticlericale che proveniva dal Titano. L’organizzazione prese
avvio nell’inverno tra il 1908 ed il 1909 per raccogliere firme a
vantaggio del mantenimento del catechismo nelle scuole. Il 5
febbraio 1909 venne indetta la prima riunione del gruppo cattolico
in cui si stabilì di inviare per tutto il territorio propagandisti
a favore della causa cattolica e del catechismo come materia
d’insegnamento. Nel mese di aprile il gruppo cattolico si fece
vivo in Consiglio presentando due istanze d’arengo a favore
dell’agricoltura e delle case operaie, dimostrando così di voler
combattere i socialisti con le loro stesse armi.
Il 16 maggio, dopo alcune riunioni
preliminari, giunse alla sua fondazione vera e propria con una
riunione sul piazzale della Pieve, dove parlò l’avvocato Bertini
dell’Unione cattolica italiana, e con l’uscita del giornale
Sorgiamo, numero unico dato alle stampe proprio per celebrare
l’inaugurazione del gruppo.
Il suo programma era assai semplice: L’Unione ha per iscopo di
riunire e concentrare tutte le forze cattoliche di questa
Repubblica e di promuovere il bene Religioso, Economico e Civile
del popolo Sammarinese, basato sul Vangelo e sull’insegnamento
della Chiesa Cattolica, proclamò dal suo giornale. Voleva
insomma il rispetto totale e inflessibile della religione
cattolica e delle avite istituzioni di questa Patria diletta,
che sono la ragione piena della nostra esistenza politica.
Tramite manifesto diffuso il 9 maggio,
faceva sapere ai Sammarinesi di essere nata a protezione degli
ideali cattolici e contro le camorre politiche. Amici,
fratelli il momento è nostro: guardate come i partiti che si
contendono il dominio del popolo hanno scoperto il loro gioco e
sono apparsi quali nemici veri della sua Fede. A noi il correre
animosi alla difesa dei nostri diritti più santi; a noi, i forti
figli di Marino, il proteggere validamente, vittoriosamente quella
Libertà eterna ch’egli colla Croce portò, e che nel Cristianesimo
ha la sua origine e la sua attuazione piena ed universale.
La difesa della religione andava poi
di pari passo con la difesa delle istituzioni del passato, perché
a San Marino dominava una sorta di mentalità sacrale che tendeva a
mescolare in continuazione le istituzioni con la morale e con la
religione: L’Unione Popolare è qua per difendere lo Statuto
sammarinese, è qua per opporsi a tutti quegli insensati che
credessero di poter mettere a soqquadro impunemente quelle
istituzioni che hanno formato, e formano tuttora il più glorioso
retaggio di questa secolare Repubblica, venne detto senza
mezzi termini, facendo capire che le velleità riformiste dei
socialisti e degli altri progressisti più all'avanguardia erano
solo pericolose utopie devianti.
L’Unione in definitiva sorgeva come
gruppo teso a conservare quasi per intero il passato, con qualche
lieve velleità riformista che si manifesterà di tanto in tanto,
soprattutto a partire dalla fine del 1909 e prevalentemente a
favore del ceto rurale, quello che più di tutti rappresentava il
suo forte e corposo punto d’appoggio.
Se in questo periodo i cattolici
stavano crescendo e organizzandosi sempre meglio, i socialisti
soffrivano invece di un grave momento di crisi interna dovuta
principalmente ad apatia verso le questioni del momento da parte
dei più, e di scarsa partecipazione alla vita e alle riunioni
promosse dalla Federazione. Con fatica riuscivano a ritrovarsi per
fare attività o per discutere tra loro. Alcuni, Giacomini in
primis, sentivano forte l’esigenza di rilanciare l’azione
socialista nel paese e di tornare a fare propaganda intensa nei
centri rurali; tuttavia ci si rendeva conto che non sarebbe stato
facile. Il male è così diffuso che la colpa non è di nessuno,
disse all’interno di una riunione della Federazione del 29
settembre, per sottolineare che gli entusiasmi del periodo
dell’arengo si erano ormai assai affievoliti in generale. In
quell’occasione venne deciso d’inviare propagandisti in vari
Castelli, cosa che avvenne però con fatica e solo molto
parzialmente, forse per la scarsa voglia di chi doveva andare ad
arringare le folle in un momento così bollente e minaccioso.
Franciosi infatti continuò ad essere bersaglio di feroci attacchi
e critiche per il suo attivismo anticlericale ed antiborghese,
tanto che nel mese di febbraio del 1910 ben 836 cittadini si
sentirono in dovere di sottoscrivere un attestato di stima a suo
favore.
Nella seconda metà del 1909 la
situazione rimase piuttosto tranquilla, almeno fino al mese di
agosto. In giugno avvennero le elezioni per rinnovare un terzo del
Consiglio, ma non sortirono effetti particolari, essendo i
cattolici ancora piuttosto disinteressati agli agoni politici. In
pratica furono rieletti quasi tutti quelli che erano stati
precedentemente sorteggiati per uscire, ed il Consiglio rimase in
balia di alleanze contingenti che si aggregavano o disgregavano
sui problemi del momento portati avanti in genere dalla Reggenza,
che in questi anni aveva ancora una forte funzione di stimolo,
coordinamento e traino delle attività consiliari e politiche.
In luglio si discusse un progetto
approntato da Olinto Amati per l’emissione di carta moneta. Era
l’ennesimo tentativo che si faceva di rimediare ulteriori entrate
per lo Stato senza varare la detestata riforma fiscale in cantiere
già da tempo. Il bilancio in questo periodo non era deficitario,
però risultava appena sufficiente per la normale amministrazione,
non certo per avviare quelle innovazioni, più che altro di natura
infrastrutturale, che tutti agognavano per modernizzare la
Repubblica, sviluppare il turismo, che timidamente stava
iniziando, le scuole, le vie di comunicazione ecc. Il nuovo
organico degli impiegati, per fare un esempio, era già pronto da
settembre, tuttavia non fu possibile renderlo effettivo per
svariati mesi perché mancavano i soldi necessari. Pensando che una
buona risposta ai problemi economici potesse essere la stampa di
carta moneta, si arrivò addirittura ad un passo dalla fondazione
di una banca di Stato nel giugno del 1910; ma l’Italia, come già
aveva fatto una trentina di anni prima, quando era emerso un
progetto analogo,
creò mille intralci finché l’ipotesi tramontò del tutto.
Giungiamo così ad agosto, mese in cui
il Consiglio, approfittando di alcune contingenze favorevoli, il
giorno 3 affrontò di nuovo il problema del catechismo votandone
l’immediata soppressione per 27 voti contro 5. Naturalmente
l’Unione montò su tutte le furie, principalmente perché non si
aspettava che in quella seduta si sarebbe affrontata e risolta in
modo tanto sbrigativo e drastico la questione del catechismo. Il 5
diffuse tra la popolazione un manifesto contro la sua abolizione
in cui sosteneva che una minoranza audace con sfacciato
opportunismo aveva soppresso il catechismo nelle scuole
violentando in tale maniera anche lo statuto fondamentale e
secolare della Repubblica, precisamente in quell’articolo che
appartiene alla maggior eredità tramandataci dal Santo Patrono ed
autore della nostra libertà, quell’eredità morale che della
libertà stessa è la sostanza, la forza, la vita.
L'articolo a cui ci si riferiva era la
rubrica 33 del libro I degli statuti secenteschi, ancora in
vigore, che trattava delle funzioni e del salario del pubblico
precettore, e che prevedeva l’insegnamento della dottrina
cristiana a tutti gli scolari, insieme ovviamente ad altre
discipline. Con l’abolizione del catechismo, insomma, secondo
l'Unione il Consiglio aveva alterato una disposizione statutaria
senza averne alcun diritto, perché nell’arengo del 1906 si era
cambiato solo il sistema di nomina dei consiglieri, con la
precisazione, però, che tutte le altre norme dello statuto
sarebbero rimaste immutate.
L’abolizione del catechismo nelle
scuole per l'Unione era stato un oltraggio alla coscienza dei
credenti, ed una sopraffazione ai diritti dei cittadini. Se la
popolazione non si fosse ribellata fin da subito, gridò, quella
minoranza sarebbe cresciuta di numero e di potenza in fretta e non
vi sarebbero più state garanzie statutarie cui appellarsi, poiché,
come avevano abolito il catechismo, avrebbero potuto calpestare lo
statuto in qualunque sua parte. Non permettiamo che si attenti
alle nostre più sacre tradizioni - concludeva il manifesto -
Noi non vogliamo imporre ad altri la nostra fede, ma nemmeno
altri devono imporre a noi e inculcare ai nostri figli la loro
miscredenza.
La richiesta era unica e categorica: il ripristino immediato
dell’insegnamento del catechismo nelle scuole.
Ancora una volta, quindi, l’Unione
collegava tra loro religione ed istituzioni urlando con
convinzione che a San Marino non si poteva né doveva toccare
nulla, perché altrimenti tutto sarebbe potuto andare in rovina.
Gli anticlericali, però, avevano di certo fatto il passo più lungo
della gamba, perché in Italia non vi era stata ancora l’abolizione
del catechismo nelle scuole, anche se ne stavano discutendo
animatamente, e San Marino era ancora troppo intriso di cultura
cattolica per poter serenamente accettare una riforma tanto
strutturale, una vera e propria bomba culturale. L’abolizione del
catechismo fu senz'altro un intempestivo e grave errore, la
classica goccia che fece traboccare il vaso stracolmo di acredine
e livore, perché diede ai cattolici la forze morale e materiale
per intraprendere una guerra santa, una crociata contro
gl’infedeli, nonché il leitmotiv su cui organizzarsi e da cui
decollare con spirito integralista.
Non a caso il 3 settembre 1909, ad
appena un mese dalla tanto aborrita abolizione, vide la luce il
primo numero del San Marino, organo dell’Unione Cattolica
Sammarinese, subito ribattezzato Somarino dai suoi
avversari, che si riprometteva di essere la guida dei cattolici e
un veicolo di perfetta armonia tra i cittadini, dichiarando che
avrebbe combattuto su tre fronti: quello religioso, quello
economico – sociale e quello politico.
Evidenziò subito che la sua nascita era stata causata più che
altro dall’abolizione del catechismo sancita dal Consiglio,
sottolineando ancora una volta la volontà di difendere le
tradizioni sammarinesi dagli attacchi delle nuove forze politiche
che si erano sviluppate. Le nazioni adesso riguardano la nostra
Repubblica come un prezioso cimelio di tempi antichissimi –
denunciò – Guai pertanto a quei cittadini che osassero
manomettere le patrie istituzioni: in esse soltanto ha la sua
ragione d’essere la nostra piccola terra!
I dirigenti dell’Unione accusavano i
loro nemici progressisti di non aver mantenuto la parola su quanto
dichiarato prima dell’arengo, ovvero che il cambiamento
dell’assetto politico sammarinese non avrebbe minimamente influito
sul credo religioso dei Sammarinesi, religione che non era solo
considerata l’ambito in cui professare la propria fede, ma
elemento istituzionale a tutti gli effetti in quanto parte
integrante dello statuto sammarinese, quello che aveva permesso,
secondo la coscienza collettiva, il consolidarsi della dimensione
statuale di San Marino. Ciò che noi vogliamo ad ogni costo e a
qualunque sacrificio, come cittadini dell’ordine e difensori della
fede ereditata dagli avi nostri è l’osservanza dello statuto.
Avremo sempre parole spiranti fuoco contro i profanatori delle sue
leggi; grideremo con tutto lo sdegno di un animo repubblicano, di
un cuore ferito nei suoi ideali e nei suoi sacrosanti diritti
contro quei vili denigratori che attentano scemare la bellezza,
avvilirne l’importanza dichiarandolo non più rispondente ai
bisogni dei tempi e lo spogliano della sua aureola immortale
riducendolo un arlecchino. Bello, sovranamente bello il nostro
statuto! Nobile l’ingegno che lo ha ispirato! Sante, Divine le
leggi che vi s’inculcano, sanzionate dall’approvazione dei secoli!
Nei giornali dei mesi successivi la
polemica tra cattolici e socialisti continuò ad oltranza, sempre
con gli stessi toni e basandosi sugli stessi concetti. Le tensioni
si ampliarono di giorno in giorno; ogni Consiglio divenne sede di
infinite polemiche e di violentissimi scontri verbali. La
cittadinanza, sobillata sia dai conservatori che dai progressisti,
anche tramite comizi di propaganda che venivano svolti ogni tanto
nei singoli Castelli, divenne sempre più eccitata ed infervorata.
Il 6 gennaio del 1910, in una delle
tante riunioni organizzate dall’Unione, fu deciso un maggiore
impegno nel sociale per migliorare le condizioni del proletariato.
Il 17 gennaio, durante un altro comizio tenutosi a Serravalle, Don
Barducci e Don Nicolini propugnarono la costituzione di una
società per migliorare le condizioni dei contadini. Il clima
politico divenne incandescente, finché non scoppiò la Sommossa,
come venne chiamata, del 26 febbraio 1910 contro la legge che
istituiva l’organico degli impiegati. In pratica in quel giorno il
Consiglio avrebbe dovuto varare la legge che istituiva l’organico
per gli impiegati, aspirazione socialista di vecchia data, ma fin
da un paio di giorni prima erano stati affissi per il territorio
manifesti manoscritti in cui si sosteneva che il governo stava per
deliberare spese enormi a vantaggio della classe degli
Impiegati e a danno del povero popolo lavoratore dei campi.
Perciò s’invitavano i contadini a partecipare ad una marcia
pacifica di protesta sul Pianello nel giorno in cui era stato
convocato il Consiglio.
Alla marcia parteciparono in molti, ma
non fu per nulla pacifica: infatti vari consiglieri progressisti,
insieme alla stessa Reggenza, vennero offesi senza mezzi termini
dai dimostranti. Un consigliere poi, visto il brutto, aveva osato
tirar fuori da una tasca della sua giacca una pistola (in questi
anni non era inusuale girare armati), fatto che, esasperando ancor
più la folla, gli aveva fatto passare un brutto quarto d’ora. Dopo
un assedio di varie ore, in cui il Consiglio venne praticamente
bloccato all’interno del Palazzo Pubblico, l'assembramento si
sciolse ponendo termine al brutto episodio. Gli animi rimasero
però surriscaldati a lungo. I progressisti ed i conservatori si
lanciarono strali sempre più astiosi dai loro giornali, gli uni
sostenendo che i preti, invece di curare esclusivamente le loro
mansioni spirituali, istigavano le masse analfabete e credulone
contro lo Stato e contro il bisogno che aveva il paese di
evolversi e progredire; gli altri asserendo a spada tratta che i
riformisti, coi socialisti in testa, bramavano la morte del paese,
perché ne volevano mutare l’anima religiosa ed istituzionale,
essenza stessa della sua esistenza plurisecolare. A lungo le due
fazioni si rimpallarono la responsabilità della sommossa del 26
febbraio.
Nel prosieguo dell'anno la polemica
tra laici e clericali divenne ancora più violenta e acida. Ormai
l’Unione disponeva di una sua organizzazione e, fatto ancora più
importante, di un suo periodico da cui ribattere tutte le accuse
del Titano, ribattezzato con disprezzo Tetano.
Proprio dal San Marino l’Unione sbandierò la teoria che
tutta la conflittualità esistente nel paese fosse stata generata
soltanto dai socialisti, colpevoli di aver trasformato la
monarchia costituzionale che reggeva lo stato sammarinese in
precedenza in una monarchia czaresca non interessata ad
altro se non alla laicizzazione dello Stato ed alla distruzione
della religione.
Erano stati i socialisti a non mantenere le promesse fatte
all’elettorato durante la campagna pro-arengo, quando erano state
fornite ampie garanzie a tutti che la riforma avrebbe solo inciso
sull’assetto politico della Repubblica, senza modificarne in alcun
modo l'ordine culturale e religioso. Smentendo tali impegni,
dunque, ed iniziando una sistematica opera di scristianizzazione,
o quanto meno di lotta dura contro il cattolicesimo e il clero
locale, i socialisti erano stati i principali fomentatori delle
discordie in atto.
Grazie ai fatti del 1910, il gruppo
socialista capì che la forza dell'Unione Cattolica era
direttamente proporzionale alla debolezza e alla disunione dei
riformisti e degli anticlericali. Iniziò quindi a temere
seriamente l'instaurarsi di una Repubblica guelfa,
perché i cattolici stavano dimostrando di essere capaci di buona
organizzazione, di possedere larghi consensi e di saper creare
alleanze coi democratici moderati. Si pensò bene, comunque, di
gettare acqua sul fuoco per smorzare i rancori latenti, per cui
l’avvocato Babboni propose la convocazione di una riunione
informale di consiglieri per decidere con maggiore serenità e
senza fretta il modo con cui risolvere il grave disaccordo in
atto.
La riunione ebbe luogo il 20 marzo con
la partecipazione di 36 consiglieri di tutte le correnti. Dopo
lunghe ma pacate discussioni, si sciolse con un ordine del giorno
che sollecitava il Consiglio a varare definitivamente la legge
organica per gli impiegati, e ad amministrare con maggiore
oculatezza economica la Repubblica. Venne infine indirizzato ai
gruppi in conflitto un caloroso ma fermo invito ad abbassare il
timbro della polemica, così da giungere in tempi rapidi ad una
totale pacificazione degli animi per il bene del Paese.
In effetti in aprile le tensioni
diminuirono. I due giornali politici del paese continuarono però
ad adoperarsi per creare simpatie alle loro cause illustrando a
turno i programmi ed i desideri dei due gruppi di cui erano la
voce. Il San Marino con un articolo dal titolo molto chiaro
(Quello che vogliamo noi) si proponeva per la Repubblica:
pace e progresso per tutta la cittadinanza, il varo dell’organico
per gl’impiegati, il consolidamento del bilancio, una riforma
fiscale che colpisse tutto il reddito sammarinese e non solo i
terreni ed i fabbricati, una legislazione migliore per il ceto
rurale.
Qualche giorno dopo uscì anche il
Titano con un articolo dalla logica analoga in cui si
esponevano le aspirazioni del gruppo socialista, e cioè: revisione
dello statuto con l’approvazione dell’Arringo a mezzo del
Referendum, riordinamento scolastico, istituzione del
matrimonio civile, legge sui beni delle Mani morte, legge sugli
infortuni sul lavoro, trasformazione delle decime da obbligatorie
in facoltative, fondo pensioni per gli operai vecchi o invalidi,
impianto di un forno normale, costruzione di case popolari,
impianto della linea telefonica, acqua potabile in tutto il
territorio, impianto di un ufficio metrico, miglioramento
dell’illuminazione artificiale.
Come si può constatare, i due gruppi
che si fronteggiavano avevano programmi molto diversi. Pur in fase
di tregua, inoltre, si capiva bene che entrambi erano figli di
logiche forti e inflessibili, e che non avrebbero sottomesso le
loro aspirazioni a particolari compromessi. I socialisti
continuavano a non transigere sull’esigenza di laicizzare lo Stato
e di attuare riforme alla sua costituzione. I cattolici al
contrario, sicuri dell’appoggio della maggioranza della
popolazione (la scuola deve essere religiosa in omaggio alla
gran maggioranza cattolica ed allo statuto – imporre oggi grandi
riforme, non apprezzate dalla mentalità e coscienza popolare, è
compiere opera disastrosissima, sottolinearono sul loro
periodico),
non avrebbero mai accettato di mettere in discussione la validità
della loro cultura religiosa, né avrebbero tollerato l’abbandono
della tradizione statutaria in cui da secoli i Sammarinesi erano
immersi, o l’avrebbero accolta solo in tempi estremamente
dilatati, come essi stessi fecero sapere sempre dal loro giornale.
Che scoppiassero dunque nuovi scontri
era inevitabile: l’occasione venne data dalla conferenza pubblica
tenuta dall’Unione a Domagnano il 16 maggio 1910 per la
celebrazione del suo primo anniversario. Ad un certo punto parlò
anche don Barducci, che invitò con parole forti lo Stato a
ripristinare il catechismo nelle scuole. Remo Giacomini ritenne le
frasi usate dal prete offensive nei confronti della Repubblica,
per cui provvide a denunciarlo alle autorità giudiziarie. La
polemica approdò naturalmente subito in Consiglio, dove avvennero
feroci scontri tra i socialisti e Babboni, il quale nell’occasione
si schierò dalla parte di don Barducci. Alla fine la denuncia finì
in nulla perché il giudice appurò che il prete, pur usando
linguaggio focoso, non aveva in realtà offeso nessuno, per cui non
era passibile di alcuna pena.
A parte questo episodio, che è sintomo
indubbio del fuoco che stava sempre covando sotto la cenere, nei
mesi seguenti i toni rimasero temperati, anche se i socialisti
capirono che l’Unione non sarebbe più stata solo un movimento
ideologico, ma un partito politico a tutti gli effetti. Lo
compresero soprattutto in occasione delle elezioni suppletive del
mese di luglio in cui si dovevano eleggere cinque consiglieri per
completare il numero di sessanta. Già in un suo numero di giugno
il Titano si era domandato se l’Unione se ne sarebbe
rimasta in disparte anche in quelle elezioni, così com’era fin lì
successo, o se avrebbe presentato suoi candidati. La risposta
arrivò nel giro di pochi giorni, perché risultò evidente che i
cattolici si stavano dando un gran da fare per le elezioni. I
democratici allora cominciarono a ripensare al bisogno di
riallearsi, puntando su idee e programmi comuni, per scongiurare
il pericolo clericale.
In realtà per i dissapori di sempre
non fu possibile raggiungere nessun accordo, così le elezioni di
luglio videro trionfare in Borgo, fin lì considerata roccaforte
dei riformisti, il cattolico Salvatore Berti che per quattro voti
(129 a 125) venne preferito al socialista Giuseppe Giovannarini.
Questo esito ebbe forti ripercussioni tra i consiglieri
democratici provocando le immediate dimissioni di sei di
loro (Angeli Giuseppe, Amati Giuseppe, Casali Alfredo, Giacomini
Remo, Grazia Ignazio, Martelli Telemaco). Infatti qualche tempo
prima la parrocchia di Città, comprensiva fino a quel momento
anche di Borgo, era stata sdoppiata. Al momento dello sdoppiamento
i consiglieri che erano stati eletti nelle votazioni precedenti
come rappresentanti di Città avevano optato per l’una o l’altra
circoscrizione elettorale, cosicché una parte aveva scelto di
rappresentare la parrocchia di Città, l’altra quella nuova di
Borgo. Quando questi ultimi videro che gli elettori del Borgo
avevano preferito un clericale ad un democratico, si domandarono
se effettivamente la loro opzione corrispondesse alla volontà di
chi votava in questo Castello. Da qui la decisione di dimettersi
in blocco per far riconvocare in quella circoscrizione altre
elezioni suppletive tramite cui chiarire il dilemma.
Anche questo fatto alimentò non poche
discussioni tra le varie forze politiche del paese. Il Titano
comunque apprezzò l’iniziativa precisando che era stato un
atto di onestà e di fierezza utile a mostrare alla
cittadinanza la consistenza del pericolo clericale, gruppo che era
privo di teste pensanti, come venne detto in un articolo ad
elezioni avvenute, ed una palla di piombo legata ai piedi della
Repubblica capace di trascinarla sempre più in basso rispetto
alle conquiste politiche raggiunte, ma abilissimo ad
organizzarsi e ad attirare simpatie fra la gente. La colpa di ciò
che era successo era solo dei democratici che, non sapendo essere
compatti negli ideali e nei sentimenti, erano in quel momento
molto più deboli dell’Unione.
VI. 1911 – 1914:
Una nuova alleanza democratica
Sull’esigenza di ricreare un’alleanza
democratica la Federazione socialista discusse a lungo e il
Titano continuò a battere anche nei mesi successivi,
soprattutto attraverso la penna di Alfredo Casali, suo direttore
in questo periodo, unico consigliere socialista ad essersi
dimesso. In ottobre ritornò alla carica per sostenere che, senza
un blocco democratico basato su un programma unitario, non si
poteva né contrastare i cattolici, né attuare riforme legislative,
né consolidare il bilancio, ovvero non si sarebbe potuto dar vita
a nessuna di quelle riforme che tutti i democratici reputavano
prioritarie. Per giungere alla realizzazione del blocco i
socialisti si dichiararono disposti persino a rinunciare
temporaneamente alla lotta di classe ed alle astiose polemiche
antiborghesi. Per Casali, infatti, era basilare e prioritario dar
vita ad una lotta per la formazione di un ambiente democratico
dove più liberamente ciascun partito possa a suo tempo svolgere il
proprio distinto programma secondo la propria sorte.
Tuttavia all’interno della Federazione
socialista i pareri in merito erano discordi, perché l’ala più
oltranzista voleva che i consiglieri socialisti si dimettessero
tutti e che non facessero comunelle con nessuno per combattere
battaglie esclusivamente di indole socialista. L’ala moderata
invece, capeggiata da Franciosi, era più disposta a trovare
collaborazioni, e soprattutto era assolutamente avversa ad uscire
dal Consiglio. Franciosi disse chiaramente all’interno della
riunione della Federazione del 20 dicembre 1910 che i socialisti
dovevano rimanere in Consiglio come partito di opposizione e di
controllo, facendo nel contempo maggiore propaganda e
lavorando di più sul territorio. Alla fine vinse questa linea, con
la clausola, però, che alla prima sopprafazione che commetterà
il Consiglio, tutti i Socialisti si dimetteranno da Consiglieri.
I democratici comunque non riuscirono
per il momento a trovare sufficienti punti di convergenza e ad
allearsi, per cui i socialisti continuarono i loro sistematici
attacchi al Consiglio, ritenuto per nulla repubblicano e
democratico, e contro i preti e i signorotti, indecisi in ogni
manifestazione di sua vita, preda ormai dell’opportunismo più
sfacciato.
Secondo il Titano il paese era
in balia di una caterva di borghesucci ignoranti spesso
vendicativi e settari, con un sistema amministrativo distruggitore
di ogni migliore energia, che non ha ideali, che non ha un
programma di rinnovamento, che non ha vita se non per l’inerzia e
la viltà dei Sammarinesi. Il popolo aveva grosse
responsabilità nella grave situazione politica che stava
attraversando la Repubblica, essendo sempre prono ai voleri del
signore e dei preti, analfabeta, schiavo dei pregiudizi religiosi,
senza ideali politici, diviso da viete rivalità di campanile,
avvilito nella sua miseria e lasciato in grande abbandono di
fronte ai gravi problemi della vita.
Colpe vi erano però anche nel partito
socialista, a volte troppo inerte ed apatico, sofferente cioè
degli stessi mali di cui si poteva accusare il paese. Occorreva
dunque che i compagni di buona volontà si rimboccassero le
maniche, perché tanto c’era ancora da fare se si voleva veder
veramente migliorato lo Stato sammarinese e la situazione socio –
politica dei suoi ceti meno abbienti.
Ma quali erano i problemi più urgenti
che i socialisti volevano risolvere? Più o meno sempre gli stessi,
ovvero: revisione dello statuto con l’approvazione dell’Arringo
a mezzo del Referendum; riordinamento scolastico; istituzione
del matrimonio civile; creazione di una legge di mano morta;
trasformazione delle decime da obbligatorie in facoltative;
creazione di un fondo pensioni per operai invalidi o vecchi;
creazione di una legge sugli infortuni; impianto di un forno
normale; costruzione di case popolari; impianti capaci di portare
l’acqua potabile ovunque; miglioramento del sistema
d’illuminazione pubblica; impianto di un ufficio metrico e del
telefono.
Ormai il Titano ce l’aveva con
tutto e con tutti. Volle chiudere il 1910 con un altro
fiammeggiante articolo pieno di accuse e di recriminazioni: nel
paese mancava ogni cosa; le leggi erano arcaiche e del tutto
inadeguate; l’acqua potabile mancava ovunque e nessuno se ne
preoccupava; la scuola popolare, nonostante il 73% di
analfabetismo esistente, non interessava a nessuno; la popolazione
era costantemente sotto la minaccia del pauperismo; la vita del
Paese era ancora regolata dal diritto canonico; il commercio,
l’industria e l’agricoltura erano lasciati nel più desolante
abbandono, così come l'igiene pubblica. Il prete prende
d’assalto la Repubblica e tutti tacciono. Che cosa fa il Governo,
che cosa fa il Consiglio di fronte all’immensa mole di questi
problemi che mettono sull’orlo della bancarotta il nostro paese?
Il Governo e il Consiglio nulla sanno e fingono di nulla sapere.
Essi stanno tranquilli nel loro limbo ovattato di bambagia clerico
– moderata. Non si affronta il problema della scuola perché si
teme l’istruzione, non si fa la questione tributaria perché non si
vuole colpire il ricco (cane non mangia cane), non si cerca di
sollevare economicamente la popolazione perché la pancia piena non
ha mai pensato per quella vuota, non si vogliono leggi nuove
perché si ama vivere come ai tempi dello spagnolismo e
dell’inquisizione, urlò il giornale col suo numero del 25
dicembre.
Cosa bisognava fare dunque per porre
rimedio a tanto sfacelo? Occorreva organizzare comizi, avanzare
petizioni, gridare a squarciagola la propria protesta ed il
proprio sdegno per scuotere il governo con violenza. Bisognava
insomma stringersi in fraterno connubio per protestare contro
la latitanza del Governo e per reclamare i bisogni del paese e
agitarne i primi vitali problemi. Solo il paese poteva salvare
il paese aggregandosi secondo un piano preciso.
Nel 1910 non successe tanto altro
degno di nota. Fallita l’ipotesi della carta moneta, ritornò in
auge tra i socialisti l’idea della riforma tributaria progressiva,
sempre però osteggiata dalla maggioranza del Consiglio. Si
cominciò a parlare anche di creare una Cooperativa di consumo per
calmierare i prezzi delle merci di largo consumo e fronteggiare il
caro viveri che stava facendosi sempre più pesante. Nel mese di
settembre si svolse un congresso dell’Associazione Italiana di
Avanguardia, un gruppo anticlericale che aveva scelto San Marino
come sede mandando su tutte le furie i cattolici dell’Unione, e
gratificando invece gli anticlericali locali.
Nel 1911 la situazione politica rimase
ingarbugliata come in precedenza, ed i toni del conflitto tra i
vari raggruppamenti non mutarono, né si moderarono. Per tutta la
prima metà dell’anno le dimissioni dei consiglieri democratici e
la strategia da tenere per rimpiazzarli furono i problemi
dominanti. Non si avevano pareri univoci sul da farsi. C’era chi
si era ormai avvilito e non voleva più aver niente a che fare con
la politica; chi sosteneva che non bisognasse lasciare spazio ai
conservatori e che fosse indispensabile riprendere posto tra i
sessanta; chi proponeva altre ipotesi ancora.
Interessante per comprendere il
particolare momento politico in cui navigava il Paese è la
corrispondenza scambiata in questo periodo tra il Titano e
l’avvocato Telemaco Martelli, riformista moderato e
protagonista del movimento pro – arengo, nonché uno dei
consiglieri dimissionari. In una sua lettera del 18 gennaio 1911,
per esempio, egli manifestava una grossa sfiducia nei confronti
del panorama politico sammarinese, soprattutto perché dall’arengo
in poi, pur essendovi anche state alcune riforme importanti, non
vi era stata nessuna reale vittoria democratica.
Sottolineava poi che un grosso problema irrisolto, che creava non
poche incongruenze all’interno dello Stato sammarinese e nella sua
gestione, era senza dubbio l’eccessiva ingerenza della Chiesa ed
il ruolo predominante da essa detenuta sulla piccola comunità. I
democratici ed il popolo lasciavano fare, così non si poteva
creare nessun ordine nuovo, né si poteva dar vita ad una graduale
laicizzazione dello Stato. Il Consiglio ormai era del tutto
fagocitato da queste forze e calpestava impunemente le leggi per
favorire i clericali. Le dimissioni dei consiglieri del Borgo si
dovevano alla ripugnanza (…) di puntellare ancora e di
perpetuare (…) il presente stato di cose. Tutti i liberali
avrebbero dovuto prendere una decisione analoga, perché il paese
si meritava un Consiglio fatto di soli clericali e assolutamente
statico di fronte ai problemi ingenti che vi erano.
Il Titano della settimana
successiva provvide a rispondere a Martelli dicendo che non era
con la fuga dal Consiglio che si risolvevano i problemi. Era vero
che il gruppo clericale si trovava ormai ai vertici dello Stato,
ma la colpa era anche dei democratici per tutto ciò che non
avevano fatto fin lì, e per le alleanze ogni tanto intrecciate coi
conservatori su problemi specifici. Bisognava uscire da simile
impasse per ricreare una forte alleanza anticlericale e per
governare secondo linee programmatiche, nonché per scuotere la
intorpidita compagine del paese trascinato verso il più ignobile
avvenire.
Il 31 gennaio si svolse in Borgo una
riunione di una quarantina di elettori democratici per discutere
della situazione politica del paese e sul come muoversi. Ne
scaturì un ordine del giorno in cui si affermava che
considerato che l’opera della democrazia in Consiglio è impotente
a far argine a sistemi contrari ad una retta amministrazione e a
sani principi politici, era meglio che tutti i consiglieri
democratici si dimettessero.
Il Titano commentò questi nuovi fatti
evidenziando che c’erano solo due modi per combattere le
consorterie che si sono annidate in Consiglio:
Concentrazione delle forze democratiche per fare un’opposizione
energica ed un controllo attivo o dimissioni in massa delle forze
democratiche per lasciare intera la responsabilità del mal governo
ai consorti clerico moderati. Quest’ultima soluzione sarebbe più
energica e risolutiva, conclusero. Era comunque doveroso per
gli elettori non accrescere i voti dei conservatori nelle
eventuali elezioni successive, ovvero astenersi.
Nelle stesso numero del giornale c’era
un’altra lettera di Martelli in cui diceva che in un paese
retrivo come San Marino, non bastava criticare con le parole o
con la stampa il sistema per cambiarlo, ma occorrevano mezzi più
forti come la non partecipazione al Consiglio. Boicottare il
Governo clericale: questo doveva essere il dogma a cui
attenersi, perché il Consiglio era composto da un mucchio di
analfabeti che non avrebbero potuto governare lo Stato senza
l’aiuto dei democratici. La polemica sul comportamento da tenere
proseguì ad oltranza anche in seguito. In Consiglio non vi è
maggioranza democratica – disse il Titano del 19
febbraio – ma un’accozzaglia di opportunisti, di nessun
partito, che sono i più nocivi al buon funzionamento degli
ingranaggi governativi e soprattutto all’educazione del popolo.
Nel frattempo i socialisti
continuavano a fare opera di proselitismo andando per i Castelli
della Repubblica a sensibilizzare la gente al loro pensiero e alle
loro velleità politiche. Nel mese di febbraio, accompagnati dalla
Fanfara del Libero Pensiero, sorta da un paio di mesi in
contrapposizione alla Fanfara della Nova Iuventus dei clericali,
fondata nel giugno precedente, si erano recati a Faetano, rocca
fin qui ritenuta inaccessibile perché in mano di signorotti e di
preti. Aveva parlato Franciosi per sostenere che la Repubblica
era caduta dall’oligarchia dei nobili in quella non meno triste
dei borghesi. Il comizio di Faetano non era stato casuale:
infatti aveva avuto origine da alcune minacce apparse sul San
Marino rivolte a Franciosi, che si ritenevano partite proprio
da qualcuno di Faetano. Era insomma nato come sfida dei
democratici contro i conservatori, per vedere se, andando sul
posto, si potevano magari menare le mani. Nulla in realtà accadde,
per cui il comizio riuscì a svolgersi in tutta tranquillità.
Dopo tante perplessità, i governanti
sammarinesi arrivarono comunque alla deliberazione di sostituire i
consiglieri dimissionari del Borgo attraverso elezioni suppletive
da svolgersi agli inizi di aprile. Nel frattempo tra i democratici
continuavano le discussioni per vedere cosa fare. Degna di
attenzione è una lettera riportata dal Titano del 26 febbraio
scritta da alcuni democratici liberi pensatori che, in
contrasto con le tesi che siamo venuti esaminando fin qui, si
auspicava un’alleanza tra cattolici e democratici da basarsi su
tre punti fermi:
1.
Scegliere di comune accordo i candidati al Consiglio fra i
cittadini i più idonei qualunque sia la loro fede politico –
religiosa.
2.
Difenderci reciprocamente contro le possibili violazioni ai
diritti della fede, ovvero garantire libertà di culto ed evitare
religioni di Stato.
3.
Migliorare la scuola primaria rispettando l’abolizione del
catechismo.
Ovviamente i Socialisti non furono per
nulla d’accordo con questo compromesso, e criticarono apertamente
le ipotesi avanzate, ribadendo che i cattolici non avevano idee,
non si proponevano di riformare nulla, avanzavano solo vaghe
promesse che non sarebbero mai state mantenute per la mancanza di
denaro e per la non volontà di farvi fronte applicando qualche
ulteriore tassa. Tra l’altro li accusavano di star attuando una
campagna elettorale subdola perché non avevano pubblicamente
dichiarato chi erano i loro candidati, limitandosi a suggerirli,
come forse stava succedendo all’insaputa dei loro avversari, solo
alle orecchie dei pavidi elettori di stampo clericale.
Anche la parte democratica del Borgo
aveva naturalmente i suoi torti e le sue responsabilità in ciò che
stava succedendo, perché qui dominava uno spirito bottegaio
indipendente ed utilitario. Vi erano poi troppi contadini
soggiogati dai preti, e pure assoluta mancanza di un
proletariato di lavoratori organizzati, per cui non era
possibile programmare nessuna lotta politica ed elettorale.
Inoltre i democratici erano in disaccordo tra loro, perché i più
avevano criticato le dimissioni dell’anno precedente dei loro
rappresentanti, e non erano disposti a seguire la stessa strada.
Tutta questa intricata situazione aveva portato la democrazia del
Borgo ad adagiarsi in un sonno letargico assai vicino alla
morte, senza idee e senza prospettive nelle imminenti
elezioni.
La situazione di stallo in cui era
piombato il Consiglio, la paura dell’accrescimento delle forze
clericali, l’indecisione sul da farsi dei democratici,
l’avvilimento politico di tanti consiglieri determinò anche
all’interno della Federazione socialista grave dibattito e qualche
battibecco. Come in Italia, che negli stessi anni vide
costantemente scontri tra socialisti di diverse tendenze, si erano
ormai consolidati due schieramenti ben precisi: i riformisti, che
non volevano uscire dal Consiglio perché convinti che solo lì
potessero essere di giovamento al ceto operaio ed alla causa
socialista, disposti quindi a scendere a continui compromessi con
gli altri consiglieri di indole moderata per promuovere qualche
innovazione; i rivoluzionari, di indole prettamente marxista,
portati più alla lotta di classe e alla rivoluzione sociale,
contrari a qualunque tipo di compromesso, decisi a combattere la
loro battaglia senza stare in Consiglio.
Il 22 marzo la Federazione ebbe
un’infuocata riunione in cui i due schieramenti si fronteggiarono.
Franciosi sottolineò che per dimettersi da consigliere
occorrono forti ragioni perché le dimissioni si spiegano solo in
segno di protesta contro qualche pessimo deliberato del Gran
Consiglio, oppure quando per un’azione concorde coi consiglieri
affini si è certi di portare una crisi nel Consiglio stesso, in
modo d’avere il Paese con noi nelle susseguenti elezioni. Ma noi
non ci troviamo né nell’uno né nell’altro caso e colle dimissioni
corriamo il rischio di disgustarci il corpo elettorale e di
perdere anche il collegio di Città, come i Democratici hanno
perduto quello del Borgo per le loro intempestive dimissioni e per
il conseguente dolce far niente. Non è men vero che la nostra
opera sia stata fin qui negativa in Consiglio. Il solo pensarlo
significa non aver fiducia in noi stessi e non essere nati per la
lotta e per la disciplina tanto necessari in un partito. Noi fummo
iniziatori delle migliori proposte presentate in Consiglio e se
tutte non vennero accolte fu questione di preparazione e di tempo.
Intanto vediamo che ogni Reggenza viene includendo nel suo
programma qualche nostro progetto che dapprima fu considerato
utopia; e se da qualche tempo l’azione nostra in Consiglio si è
alquanto indebolita, è dipeso unicamente dal fatto che i
consiglieri socialisti, separati dai democratici, si sono
raffreddati e non hanno continuato a svolgere un’opera assidua e
feconda. Si richiama dunque al dovere ognuno di essi indicandogli
la vera via da seguire. Non è neppure vero che stando noi in
Consiglio ci rendiamo responsabili di quanto si commette ivi dalla
maggioranza. Il verbale, la tribuna pubblica, il giornale ci
attestano che noi stiamo là dentro come tutte le minoranze per
controllare l’operato della maggioranza, per protestare all’uopo
in modo che il pubblico conosca chi fa bene e chi fa male, chi
merita lode e chi biasimo. Poco patriottica e poco leale è la
scusa portata da taluni che dobbiamo dimetterci perché il governo,
versando in cattive acque finanziarie, pensa oggi di ricorrere
alle tasse. Ma per qual cosa è indicato nel nostro programma lo
studio per l’applicazione dell’imposta progressiva sul reddito
netto? D’altra parte non possiamo deliberare le dimissioni senza
un accordo preventivo con le leghe operaie, al di cui aiuto
dovemmo ricorrere per mandare in Consiglio alcuni nostri
rappresentanti. (…) Noi dobbiamo pertanto rimanere in Consiglio e
lavorare di più di dentro e di fuori in modo che con la nostra
opera di penetrazione nello stato delle masse possiamo agire nelle
riforme politiche e sugli avvenimenti economici a pro della
Repubblica e delle classi operaie finché quella si trasformi e
questa venga sempre più verso il socialismo, convinta dal
risultato dei fatti. (…) Dichiaro fin da ora che se prevarrà la
tendenza delle dimissioni, io mi allontanerò dal Consiglio e dalla
Federazione ad un tempo a scanso di responsabilità davanti al
socialismo e alle classi lavoratrici.
Girolamo Capicchioni si schierò con
Franciosi, mentre Vincenti, Casali, Ario Bonelli, Giuliano
Belluzzi si dichiararono invece propensi alle dimissioni per non
condividere l’operato di un Consiglio conservatore e inetto. Alla
fine si giunse alla votazione: 22 presenti votarono a favore delle
dimissioni, 7 contro.
Per qualche ignoto motivo alla fine le
dimissioni non andarono comunque in porto; tuttavia nei mesi
seguenti dalle diverse idee e tendenze si sviluppò un intenso
dibattito sul Titano, soprattutto tra Franciosi e Alfredo
Casali, con articoli però anche di altri. Casali sostenne la tesi
che i socialisti dovessero dimettersi dal Consiglio in blocco
perché al suo interno, per totale assenza di gruppi politici dalla
fisionomia precisa e dai programmi predefiniti, c’era solo
confusione e anarchia, senza alcuna possibilità di creare durature
alleanze di governo. Solo distanziandosi totalmente dalle
istituzioni che reggevano il paese il gruppo socialista si sarebbe
collocato nella posizione giusta per educare politicamente la
popolazione. Nessuna grande riforma sarà mai possibile se prima
non si sarà riformato il paese! Solo così in Consiglio e fuori
sulle cricche, sulle camarille, sulle clientele, avranno il
sopravvento le sane divisioni dei veri partiti politici lottanti
nel nome di un ideale, ribadì sul Titano n° 31 del 30
luglio.
Di simili istigazioni Casali si rese
protagonista anche successivamente, essendo ormai convinto che,
senza lo sviluppo vero e proprio di raggruppamenti partitici dai
connotati ben definiti e dai programmi ferrei, non vi potessero
essere altri compromessi con nessun gruppo, tanto meno con i
democratici di cui non ci si poteva più fidare. Inoltre senza
partiti il Consiglio sarebbe stato sempre in preda agli
individualismi e agl’interessi personali.
Franciosi, mantenendo le sue posizioni
più moderate e concilianti, aperto sostenitore più della
collaborazione di classe che della lotta di classe, com’ebbe a
dire in un suo articolo, continuava a proclamarsi assolutamente
avverso all’astensione dalla vita consiliare. In altri paesi è
già stato dimostrato come il governismo del partito socialista non
sia per nulla in contraddizione coll’antigovernismo per cui
altrove il partito socialista era schierato all’opposizione,
evidenziò in un altro articolo a sostegno del suo punto di vista.
Un partito può addivenire occasionalmente ministeriale,
rimanendo quello che è. I nostri amici intransigenti non lo
ammettono. Ma pure è così perché la tattica socialista varia di
paese in paese, e nello stesso paese da epoca in epoca, da
situazione a situazione. In definitiva egli voleva che il
partito continuasse a starsene in Consiglio appoggiando di volta
in volta le leggi gradite, ed opponendosi alle altre. Vi è in
Consiglio una situazione democratica che si tiene in piedi per un
filo; non saremo proprio noi a recidere quel filo. Sarebbe
un’aberrazione imperdonabile se, data la situazione attuale, il
nostro piccolo gruppo non contribuisse col suo contegno alla
effettuazione di qualche riforma politica civile ed economica.
Casali ribadì sullo stesso giornale
che i socialisti dovevano invece ritirarsi subito dal Consiglio
per non compromettersi con un organismo politico tanto inabile, e
per poter essere liberi di combattere dall’esterno, non come i
buoni democratici del Borgo che si sono allontanati dal Consiglio
per agire all’infuori di esso, mentre invece si sono dati
completamente alle cure dei propri interessi.
Il dibattito tra Franciosi e Casali,
che in quel momento erano le voci principali dei due
raggruppamenti che si fronteggiavano all’interno del socialismo
sammarinese, essendo Giacomini lontano,
proseguirà anche in seguito contribuendo a determinare una
graduale ma sempre più netta scissione tra riformisti e
massimalisti, o rivoluzionari, come preferivano definirsi
all’epoca.
Le posizioni dei singoli erano di
solito abbastanza affini all’interno di ciascuno schieramento, ma
a volte anche divergenti. Interessante per mostrare un’altra
faccia della fitta disputa in corso è senz’altro la lettera del 21
settembre 1911 dell’ex consigliere G. Vincenti, dimessosi per
protesta contro la non assunzione a direttore didattico di
Giacomini, fatto ritenuto un vero e proprio schiaffo morale
inflitto al nostro partito. Da quel momento, secondo lui, i
socialisti sarebbero dovuti uscire dal Consiglio: I Socialisti
in Consiglio, messi come sono, non possono esercitare nessun
controllo, non possono avere influenza morale alcuna, non possono
neanche essere partito d’opposizione. Possono tutt’al più servire
da bersaglio indifeso alle frecce nemiche, o da attaccapanni alle
giacche sgualcite nere dei consiglieri della maggioranza.
Vista la situazione stagnante e senza
futuro, proseguiva, i socialisti del Borgo dovevano cercare di
sostituirsi ai democratici usciti dal Consiglio, magari
accontentandosi per il momento di svolgere opera eminentemente
democratica, cioè accantonando gli ideali e le aspirazioni
spiccatamente socialiste. Un atteggiamento così conciliante
avrebbe contribuito a formare nel paese un ceto borghese meglio
costituito economicamente, uno Stato meglio ordinato, una
costituzione dei partiti netta, un complesso di servizi pubblici e
di assistenza meglio svolti, ovvero avrebbe creato condizioni
ideali in cui il partito si sarebbe potuto sviluppare in modo
migliore. In quel momento, però, bisognava mettersi in testa che
il gruppo socialista poteva solo essere tromba di risveglio
delle sparse forze democratiche, sprone alla lotta imminente,
additatore della via che deve condurre alla vittoria, ma
niente più.
Egli sognava, in definitiva, come
altri all’interno della Federazione, di ricoprire di nuovo un
ruolo simile a quello che i socialisti avevano svolto nel
movimento pro – arengo, quando erano stati i catalizzatori e
unificatori di tutte le forze democratiche. Però era convinto che
ciò potesse essere fatto solo dall’esterno del Consiglio, perché
da dentro avrebbero avuto troppi vincoli e impedimenti. Le
battaglie più belle sono state combattute quando tutti eravamo
fuori dal Consiglio, venne detto da qualcun altro sul
Titano del 15 ottobre, perché con rappresentanti socialisti in
Consiglio tutti s’illudono e dormono.
Franciosi era ovviamente di tutt’altro
avviso: Dunque noi pochi che continuiamo a rimanere in
Consiglio, e partecipiamo occorrendo, al governo della cosa
pubblica (…) non siamo più socialisti autentici, perché accettiamo
il principio della collaborazione di classe- disse sul
Titano del 1° ottobre. Il mulo deve essere sempre un
animale che tira calci sempre, altrimenti non sarebbe mulo. Così
per taluni nostri compagni il proletariato deve sempre imprecare,
mordere, dibattersi con tutti e sempre: questa dev’essere la sua
naturale belluina caratteristica finché noi gli abbiamo dato, per
questo solo merito e per questa forza sola, l’impero del mondo.
Ebbene è tutta qui la questione. Chi fa più bene al proletariato,
colui che cerca di mantenerlo in questa sua bestiale condizione di
assoluta inferiorità o coloro che vogliono elevarlo e rafforzarlo
rendendolo capace non solo di mordere ma anche di ragionare, non
solo di ribellarsi alle ingiustizie sociali ma anche di
collaborare alla creazione di quel nuovo diritto umano e di quella
nuova orientazione della società che l’ingiustizia sopprime in
teoria e in pratica? Che cosa giova di più agli operai, lasciarli
in balia di se stessi, o difenderli dove c’è il modo e renderli
forse utili capaci di prender parte al movimento sociale e
politico senza disordine e senza arresto? (…) Collaborazione e
lotta di classe, non si escludono ma s’integrano. (…) Perciò fanno
ridere coloro che vorrebbero in noi una astensione assoluta e un
assenteismo dalla vita pubblica.
La collaborazione può essere un
incidente del nostro cammino, ma non un sistema e non deve
sostituire la lotta, disse
un altro articolista sul Titano del 26 novembre. I
compagni rivoluzionari sammarinesi hanno, secondo me, il torto di
una estrema rigidezza di atteggiamento, ma solamente verbosa e
quel che è peggio sono ottimi critici, ma fiacchi assertori e
propagatori dell’idea nostra. Dall’altro canto i riformisti coi
loro atteggiamenti minacciano di confondere il partito socialista
con le file della borghesia snaturandone gli scopi, i concetti, la
fisionomia.
I contrasti all’interno del gruppo
socialista spinsero il partito a verificare, tramite ripetute
riunioni svolte nel corso e sul finir del 1911, il percorso da
fare da lì in poi. In ottobre venne deliberato di lasciare libertà
di decisione ai quattro socialisti ancora in Consiglio, che
conclusero alla fine di rimanere al loro posto. Il 29 dello stesso
mese il gruppo tornò a riunirsi (con una cinquantina di presenze),
e decise di svolgere più propaganda tramite comizi ed assemblee
per svegliare la popolazione, avvalendosi anche di oratori
esterni.
La controversia proseguì a lungo anche
nel 1912, portando lentamente in crisi la Federazione che smise a
un certo punto di riunirsi e si sciolse fino al 1914. Un destino
analogo lo ebbe anche la sezione del Borgo. Solo la sezione di
Città visse una qualche esistenza sporadica ed occasionale tra il
1912 e il 1914, quando si sciolse anch’essa, per ricomporsi nel
1918.
Prima di rescindersi, comunque, alla fine del 1911 decise che i
consiglieri socialisti dovessero dimettersi dal Consiglio,
nonostante che la fazione moderata non fosse per nulla d’accordo.
Rimaniamo al nostro posto per non fare il giuoco dei nostri
peggiori nemici che si allieterebbero di vederci divisi per
assalirci alle spalle quando fossimo sfiancati dalla lotta
fraterna, sottolineò Franciosi sul Titano del 14
gennaio 1912.
Sempre Franciosi tornò sui problemi
della Federazione il 10 marzo: Anche noi, è inutile
dissimularcelo, siamo divisi in destra e sinistra, in riformisti e
rivoluzionari, in positivi e negativi nella pratica dei principii.
Anche noi sogniamo, alla guisa dei nostri compagni d’Italia, la
ricostituzione rigorosamente unitaria del partito, con
eliminazione degli estremi. Ma anche noi diciamo e non facciamo, e
nulla concludiamo. Si capisce che, sentendosi fra noi la
ripercussione di quanto si fa in Italia, l’unità assoluta sarà un
pio desiderio. Del resto se la scissione si vuole, sarebbe bene
una volta tanto intendersi, e ciascuno seguire la propria tendenza
con carattere specifico e con la divisione della responsabilità
nella azienda delle cose. E’ addirittura inutile che alcuni dei
nostri si ritirino in disparte senza manifestare a che mirino e
che cosa vogliano. E’ addirittura pericoloso che altri facciano
gl’impermaliti e i dissenzienti e dicano male dei loro compagni
che hanno fatto e fanno ogni giorno qualche cosa per la causa
proletaria. Manifestiamoci pure in tendenze, ma cerchiamo nel
decentramento quella possibilità d’intese transitorie da essere
utili al partito e alle classi lavoratrici. Non disperdiamo le
nostre energie; non perdiamoci in invidiucce personali e in lotte
intestine. (…) Non perdiamoci in diatribe o in aperta inazione e
apatia che inacidiscono o snervano. Fuori o dentro il partito, con
l’una o con l’altra tendenza, occorre agire e continuare a fare
del buon socialismo.
Oltre ai problemi interni, i
socialisti ne avevano comunque anche di esterni: la loro mentalità
tendenzialmente intransigente e integralista li portava infatti ad
essere eternamente litigiosi con tutti, anche con quelle forze di
cui avrebbero voluto essere gli alleati nella battaglia
anticlericale ed anticonservatrice. Per questo nel mese di marzo
del 1911 bisticciarono per l’ennesima volta con l’avvocato Babboni,
con cui già in tante altre occasioni avevano avuto scontri e
polemiche: Vorremmo che il comm. Babboni e compagni non fossero
soltanto i liberali dell’occasione per sciorinare un elegante
orazione, ma avessero una vera direttiva laica anticlericale in
ogni loro atto della vita pubblica, dissero sul Titano del
giorno 12. L’ascesa al potere dei clericali, secondo i socialisti,
era dovuta solo a loro che non avevano mai avuto una vera
politica di schietto e sincero laicismo.
Nelle settimane successive si
tentarono comunque abboccamenti e avvennero anche riunioni per
vedere di mettere a punto una strategia comune, ma democratici e
socialisti proseguirono nel lanciarsi accuse a vicenda. Agli inizi
di aprile, per esempio, furono i liberali ad accusare i socialisti
di essere stati la causa dell’immobilismo in cui era caduto il
Consiglio con il loro allontanamento dal gruppo democratico alla
fine del 1907.
Ogni buona aspirazione associativa,
dunque, era destinata puntualmente a far naufragio. Giungiamo così
alle elezioni del Borgo che, contrariamente a quanto programmato,
non vennero svolte in aprile, ma alla fine di maggio perché nei
mesi precedenti si era sviluppato qualche focolaio di colera in
territorio e si era quindi preferito evitare gli assembramenti e
le opportunità di contagio.
Con tutti i battibecchi dei mesi
precedenti, le elezioni suppletive di maggio non portarono
ovviamente a niente di buono per i democratici, anche perché
questi alla fine si limitarono ad istigare la popolazione
all’astensionismo sia per costringere i clerico – moderati ad
assumersi in toto la responsabilità della conduzione della cosa
pubblica, sia per verificare il numero degli elettori democratici
in Borgo. I cattolici invece dissero che l’astensionismo predicato
dai loro avversari si doveva solo alla paura di una sonora
sconfitta.
Le elezioni videro la partecipazione
di 105 votanti su 400; per il gruppo democratico simile risultato
era senz’altro un segno positivo che l’elettorato aveva voluto
fornire. D’altra parte anche il San Marino era concorde nel
dire che la Repubblica stava attraversando un periodo di
inerzia spaventosa che rischiava di condurla verso una fase di
decadimento morale. Non c’erano buone relazioni tra popolazione e
governo, che per questo motivo era senza ideale, gretto,
dottrinario. Il popolo non s’interessava di politica e
rimaneva estraneo alle istituzioni. L’arengo era stato solo un
fuoco di paglia che non era riuscito ad instaurare una
democrazia effettiva. La debolezza del governo, dovuta
prevalentemente al disinteresse del popolo, lo portava ad essere
succube dell’Italia e mai bastante a se stesso.
Di inerzia intellettuale e di periodo di decadenza parlò
spesso anche il Titano, sostenendo che la gioventù operaia
non aveva più attenzioni per la politica, era apatica e non
aveva più gli slanci del passato.
La situazione politica sammarinese
giunse a modificarsi sostanzialmente nel 1912 perché si riuscì
quasi per miracolo a consolidare un’alleanza tra le forze
democratiche. La prima metà dell’anno vide un fitto dibattersi tra
i gruppi e all’interno dei gruppi stessi per trovare una soluzione
con cui uscire dalla situazione di spaccatura e di divisione in
cui si era. Diversi socialisti fin dal mese di gennaio avevano
avanzato l’ipotesi di demolire la vecchia organizzazione
socialista per allearsi con gli anticlericali moderati riuniti
da qualche tempo nell'associazione del "Libero Pensiero", per
combattere il prete la cui potenza e prepotenza è ridotta nel
nostro paese intollerabile. Non bisognava confondersi più di
tanto con gli altri raggruppamenti, però, perché in quel
particolare momento storico, la via dell’intransigenza
doveva essere considerata come la strada maestra del socialismo
sammarinese. Le alleanze con gli altri, insomma, potevano
essere ricercate, ma solo in modo parziale e momentaneo.
Il problema mantenne aperto sul
Titano il dibattito iniziato l’anno precedente. Franciosi,
deciso anticlericale e perciò conciliante con tutti coloro che ce
l’avevano coi preti e la Chiesa istituzionalizzata, era
indubbiamente favorevole ad un'alleanza tesa a liberare il
nostro Governo e la nostra società da ogni vincolo religioso, da
ogni forma di superstizione, da tutte le ibride tutele
con cui il cattolicesimo ancora vincolava la società. Date le
condizioni del nostro vecchio paese, che cosa si può attendere da
un puro programma socialista, privo dell’appoggio di molti altri
cittadini?, si chiese. Senza alleanze con le altre forze
anticlericali, in definitiva, i socialisti ed il paese tutto non
sarebbero mai riusciti a risolvere quello che era il problema
massimo che vincolava a sé tutti gli altri problemi impedendone la
risoluzione, ovvero il dominio imperante del clericalismo,
considerato tout court sinonimo di conservatorismo cieco e ottuso.
A questo articolo rispose Casali a
fine mese sostenendo che il locale socialismo non aveva potuto fin
lì raccogliere un gran frutto perché non abbastanza intenso è
stato il lavoro di dissodamento. Più che nuove alleanze,
sosteneva, era basilare fare un maggior lavoro di propaganda e
sensibilizzazione tra la gente per creare più adesioni alla causa
socialista.
Casali anche nei mesi successivi
perseverò nel caldeggiare la sua linea di odio totale verso il
Consiglio e di disprezzo verso eventuali alleanze ipotizzanti un
fascio-minestrone di indole democratica. Continuò anche a
sostenere con accanimento che i socialisti avrebbero dovuto
dimettersi in blocco dal Consiglio per iniziare una lotta più dura
dal suo esterno. Avvennero però alcuni fatti che permisero la
prevalenza temporanea della linea moderata, e quindi della logica
che spingeva per l’alleanza democratica. In particolare crebbe
l’eterna discussione sulle riforme statutarie che i democratici
continuavano a volere ad ogni costo, ed i clericali ad osteggiare
con ogni mezzo, e si sviluppò una violenta polemica coi cattolici,
col vescovo del Montefeltro, con quello di Rimini, ed in seguito
con il Vaticano stesso, a causa di una legge, detta dei Benefici
vacanti, che il Consiglio stava dibattendo e che prevedeva la
limitazione di alcuni privilegi del clero.
Tale legge venne promulgata il 27
aprile; con essa si sottoponevano tutti gli atti dell’autorità
ecclesiastica relativi alla destinazione dei beni ecclesiastici,
alla provvista dei benefici maggiori e minori, e all’attribuzione
di rendite dei benefici all’exequatur e placet, cioè
all’assenso, della Reggenza e del Congresso di Stato. In qualche
modo, cioè, la Chiesa e le sue proprietà in territorio venivano
assoggettate al controllo dell’autorità laica, e questo ovviamente
creava forti malumori, soprattutto in un momento in cui le
polemiche relative all’abolizione del catechismo erano ancora
molto accese.
Nel mese di marzo era stato fatto
circolare un volantino avverso alla legge, redatto dal vescovo del
Montefeltro, su cui i socialisti avevano sparato a zero
considerandolo un vero e proprio attentato alla sovranità dello
Stato, e da cui Franciosi, antireligioso nel senso scientifico
della parola, come si definiva, era partito per tentar di
creare finalmente in Repubblica una forte alleanza all’insegna
dell’anticlericalismo (liberare il nostro Stato dalla Chiesa,
legiferare in senso laico, ecco il programma di buon lavoro, ecco
il prologo indispensabile all’instaurazione di una Repubblica
veramente democratica e vitale).
L’alleanza non si consolidò, ma le
tensioni rimasero molto vive per parecchio tempo, tanto che il 16
maggio i cattolici organizzarono una manifestazione di protesta a
Serravalle, e in seguito le polemiche si sprecarono attraverso una
miriade di scritti e di accuse reciproche dentro e fuori del
Consiglio, e minacce di sciopero del clero e di chiusura delle
chiese. Il 27 settembre furono tutti i preti di San Marino a
riunirsi ad Acquaviva per vedere il da farsi. Nel giugno del 1913
la stessa Santa Sede intervenne nella diatriba, ma inutilmente
perché la legge, che era stata redatta dall’onorevole Scialoja,
consulente della Repubblica, sulla falsariga di una legge analoga
italiana, rimase per il momento invariata.
L’intesa tra i democratici venne
partorita però solo nel mese di settembre. Nel frattempo emersero
altre idee per sistemare la situazione politica, anche perché per
il mese di giugno erano previste le elezioni triennali che
avrebbero dovuto rinnovare per un terzo il Consiglio, quindi
occorreva trovare soluzioni veloci per affrontarle. In maggio i
socialisti ipotizzarono di sciogliere il Consiglio per rinnovarlo
integralmente. I cattolici invece cominciarono a chiedere la
convocazione di un altro arengo per discutere la situazione, e per
esaminare la legge sui benefici vacanti. Alla fine non successe
nulla di quanto auspicato e si arrivò il 23 giugno regolarmente
alle elezioni di una terza parte del Consiglio.
Per protesta contro la legge sui
benefici vacanti, i cattolici invitarono i loro elettori a
disertare le urne. In un articolo apparso sul San Marino
del 1° luglio dichiararono che il popolo, di cui loro si sentivano
i principali esponenti, voleva il rispetto assoluto dei principi
religiosi, il consolidamento del bilancio ed un’amministrazione
migliore e più competente, un maggiore sviluppo dell’industria, in
particolare di quella agraria, la delimitazione dei poteri del
Consiglio, l’assegnazione ad ogni ufficio di un bilancio da
gestire in proprio, e la responsabilità specifica delle sue
mansioni sotto il controllo del governo, l’incremento
dell’istruzione primaria in particolare nei centri rurali, la
convocazione in assemblea del popolo prima di varare leggi
importanti, specie in fatto di principi.
In effetti vi fu scarsissima affluenza
a queste elezioni: solo nei Castelli di Montegiardino, Domagnano e
San Giovanni si riuscì ad arrivare ad un risultato definitivo,
mentre negli altri, per problemi vari, i comizi elettorali
dovettero essere riconvocati. Su 26 consiglieri da nominare alla
fine se n’erano potuti eleggere solo 6. Dopo tali disastrosi
risultati, i socialisti continuarono a reclamare le dimissioni
dell’intero Consiglio, mentre i cattolici proseguirono nella loro
richiesta di convocare un arengo.
Conseguenza logica e necessaria della
grave crisi che attraversa ora la repubblica, saranno
indubbiamente le elezioni generali,
scrisse Casali sul Titano del 7 luglio. Se così fosse
stato, i democratici dovevano scendere con vigore nella lotta,
se non si vuole fare il giuoco dei clericali i quali mirano a
convocare l’Arringo dei padri di famiglia per far suscitare dei
tumulti e per far ritornare indietro di un secolo la Repubblica.
Grave ed estremamente difficile è il momento che ora attraversa
il paese! Le finanze pubbliche sono rovinate; le istituzioni
democratiche che ora ci reggono, conquistate dopo lunghe lotte,
sono cadute in discredito e sono prese a dileggio; i clericali
minacciati nei loro secolari privilegi di dominatori, lasciate le
cure del paradiso ai gonzi ed ai poveri di spirito, attentano alla
salute della Repubblica!. Da tutto ciò emergeva chiaro il
bisogno di un’alleanza tra tutti i democratici che dovevano avere
il coraggio di accantonare i vari punti di vista, per creare un
programma unitario così da fronteggiare compatti il gruppo
conservatore. Solo l’unione di tutte le forze schiettamente
democratiche può rappresentare il baluardo necessario per coloro
che attentano all’integrità morale e politica della Repubblica.
Emerse dunque l'idea di un “Blocco
Democratico”, per impedire che il potere fosse detenuto
completamente dai clericali. Alfredo Casali aveva dunque
modificato opinione di fronte alla minaccia conservatrice che si
faceva sempre più consistente e che stava cavalcando benissimo la
questione del catechismo e la nuova polemica sui benefici vacanti.
Tra l’altro, proprio per opporsi a questa legge, il clero
sammarinese continuava a minacciare un suo sciopero con chiusura
delle chiese al pubblico, e a chiedere la convocazione di un
arengo, che senz'altro in quel momento sarebbe stato disastroso
per la causa democratica, visto il malumore di indole religiosa
che serpeggiava tra la popolazione.
Tutti questi fatti spinsero i
socialisti rivoluzionari ad accantonare i loro atteggiamenti
integralisti, ed i democratici ad infittire le discussioni tra
tutti per giungere ad un qualche accordo tra le parti, cioè ad
un’alleanza politica capace di osteggiare adeguatamente i
clericali presentandosi in forza e compatta alle nuove elezioni.
In agosto ancora sembrava che non si riuscisse a giungere a nulla,
ma in settembre, a pochi giorni dalle elezioni, svoltesi il giorno
22, l’alleanza riuscì parzialmente a consolidarsi e a dare avvio
ad una serie di comizi in Città e Borgo, pur tra lo scetticismo di
molti che non erano del tutto convinti che potesse durare più di
tanto.
I socialisti ritenevano che la
solidità del “Blocco Democratico” sarebbe stata direttamente
proporzionale alla serietà del suo programma, e alla fermezza con
cui si sarebbe potuto tenervi fede dopo le elezioni. Esso
prevedeva:
1.
Consolidamento del bilancio;
2.
Sviluppo e ordinamento delle scuole primarie;
3.
Riforme civili e laiche;
4.
Miglioramento dei servizi pubblici e realizzazione
dell’acquedotto;
5.
Legislazione del lavoro.
Su questi punti, sui bisogni tangibili
dello Stato, sul grave problema della riforme politiche e della
laicizzazione della società sammarinese, si sperava che il Blocco
potesse godere di una certa longevità, altrimenti sarebbe
durato pochissimo: Se però invece che i programmi si vorrà
stare attaccati alle persone, se prevarranno, come purtroppo fin
qui si è avverato, le questioni personali, le piccole meschine
rivalità di chiesuola, l’unione della democrazia è condannata a
morire ignominiosamente quando ancora è nelle fasce.
I riformisti si erano messi sulla
buona strada per riprendere in mano il potere, e in effetti
l’esito delle votazioni risultò a loro favorevole; ma non era
ancora finita, perché il 1912 fu anno politicamente
travagliatissimo. Le elezioni di settembre, infatti, non
riuscirono ancora a completare il numero dei consiglieri mancanti.
Inoltre parecchi consiglieri clericali si dimisero per l’esito a
loro sfavorevole che avevano sortito, così vi fu l’esigenza di
convocare altre elezioni suppletive per la fine di novembre.
L’opportunità comunque fu
ulteriormente vantaggiosa per i democratici, che approfittarono
delle nuove elezioni per rinsaldare la loro alleanza, e per
redigere un programma più dettagliato di quello elaborato per le
elezioni di settembre. Il 18 ottobre si riunirono per stabilire
come muoversi e per nominare un comitato direttivo con il compito
di produrre un programma ancora più energico attorno cui
stringersi compatti. Nei primi giorni di novembre vi furono varie
riunioni tra i democratici. Verso metà mese il programma era ormai
definito e ipotizzava:
1.
Laicizzazione graduale dello Stato tramite
a) Istituzione del matrimonio civile;
b) Abolizione delle decime;
c) Abolizione del foro ecclesiastico;
d) Riforma della legge notarile.
2.
Riforma della legge sull’igiene, sulla sanità e sicurezza
pubblica.
3.
Codice civile, di commercio, di procedura civile e riforma
della legislazione penale.
4.
Consolidamento del bilancio.
5.
Conduttura dell’acqua potabile.
6.
Riordinamento scolastico. Istruzione obbligatoria fino alla
3a classe elementare ed istituzioni sussidiarie.
7.
Legislazione del lavoro.
8.
Costruzione di edifici scolastici, di case operaie e di
cimiteri rurali.
9.
Studi di mezzi atti a favorire l’agricoltura, l’industria e
il commercio. Istituzione di una cattedra ambulante di
agricoltura.
La laicizzazione dello Stato,
obiettivo posto in cima al programma democratico, appagava
immensamente i socialisti spingendoli per il momento ad
accantonare altre pretese troppo radicali. Le elezioni di novembre
furono una nuova grande soddisfazione, perché i cattolici, in
aspro dissidio per la legge sui benefici vacanti e per i propositi
di istituzione del matrimonio civile, sempre più sbandierati dai
riformisti, frustrati sia per la mancata convocazione dell’arengo,
sia per la non rinnovazione totale del Consiglio, così come
avevano cominciato a chiedere quando avevano visto che non c’era
possibilità di riunire l’assemblea dei capifamiglia, si astennero
lasciando campo libero ai loro avversari. Il Titano
cominciò a gridare alla vittoria: Finalmente circa 31
Consiglieri, compresi gli otto Socialisti, hanno formato un gruppo
democratico con un programma vario e completo sotto l’aspetto
politico, economico, sociale, disse con soddisfazione ad
elezioni concluse.
Il nuovo gruppo democratico
veniva invitato a mettersi subito all’opera per consolidare il
bilancio e per erigere l’acquedotto da tempo agognato.
I socialisti però si ripromettevano di
essere ben vigili sull’azione del Governo affinché il
Blocco non deviasse dal percorso che si era dato con il programma
sottoscritto, perché per il bene del paese e per la solidità della
nuova alleanza avevano rinunciato a diverse delle loro istanze
peculiari. I socialisti italiani si erano sempre opposti alla
teoria del blocchismo, venne scritto, perché toglieva forza e
prestigio agli ideali per cui combattevano. Tuttavia essendo San
Marino ancora in uno stato semifeudale e in mano di due caste:
il prete e il signorotto, l’alleanza con gli altri democratici
era l’unica strada percorribile per far uscire la comunità, in
tempi che si prevedevano lunghi, dalla sua arretratezza di stampo
medievale. Solo dopo un effettivo miglioramento della sua
situazione sociale e politica i socialisti avrebbero posto fine
all’alleanza per riprendere da soli la loro strada, che
consideravano solo momentaneamente abbandonata.
La nascita della nuova alleanza
democratica, decisa a rimanere compatta e ferma nel suo programma
fino al suo compimento, rasserenò gli animi dei socialisti,
esasperando invece i sentimenti dei cattolici e dei conservatori,
relegati dal Blocco all’opposizione. Dai loro giornali del periodo
emerge con chiarezza il fastidio di trovarsi in simile posizione e
soprattutto il timore che avevano per quel primo punto del
programma democratico che prevedeva la laicizzazione dello Stato.
Alla fine del 1912 divulgarono un
manifesto in cui spararono a zero sul programma del Blocco e sulla
volontà d’istituire il matrimonio civile, che si temeva avrebbe
tolto qualunque valore a quello religioso. Ventilavano inoltre che
la politica di laicizzazione che stava maturandosi sempre più
avrebbe portato il nuovo governo ad impadronirsi dei beni delle
parrocchie e dei conventi per pagare nuovi impiegati ed istituire
nuovi uffici pubblici.
Nel mese di maggio del 1913 il San
Marino, in un articolo intitolato "Il nostro programma",
concepito in contrapposizione al programma del Blocco, volle
divulgare tra la popolazione alcune idee tutte tese ad esaltare la
conservazione del passato e delle vetuste consuetudini della
Repubblica, che non doveva essere serva di affaristi, ma
sovrana e rispettata. Laicizzare uno Stato come il nostro non è
civiltà, ma antipatriottismo e barbarie; consoliamoci che sui
destini di questa terra gloriosa vi è ancora qualcuno che veglia:
il Santo Patrono Marino ed il Popolo Cattolico che ha tutto un
programma di Fede e Patria.
Fede e patria erano in effetti i due
capisaldi a cui l’Unione Cattolica si era sempre ispirata. La fede
era ovviamente quella del cattolicesimo più integralista, la
patria era quella statutaria e consuetudinaria, quella cioè
derivata direttamente dal Medioevo e dagli statuti secenteschi.
I cattolici avevano indubbiamente
anche qualche idea di stampo più moderno, ed anche moderate
velleità riformiste in alcuni campi. Appoggiavano, per esempio,
l’ipotesi di riforma fiscale progressiva, ma non accettavano
assolutamente la volontà di attuare innovazioni profonde di natura
istituzionale e culturale come quelle professate dai progressisti
in genere e dai socialisti in particolare, a loro giudizio ancora
non adatte per lo Stato sammarinese. Per l’Unione la brama di
infondere la cultura laica e di cambiare le consuetudini
statutarie era del tutto fuori luogo, perché il popolo,
massicciamente cattolico e attaccato alle sue tradizioni, non ne
aveva bisogno e non le desiderava.
I conservatori, inviperiti perché
c’era al potere un gruppo a loro avverso, diedero battaglia feroce
a sostegno delle loro idee, diffondendo tramite stampa e
soprattutto dai pulpiti delle chiese i loro messaggi ed il
costante richiamo ai valori del passato che, urlavano, il
Blocco voleva violentare e soppiantare. Richiesero a gran voce e
con continuità le elezioni generali per rinnovare in toto il
Consiglio, predicando l’astensione dalle elezioni suppletive o
parziali. Oggi non è più la vera democrazia che governa –
affermarono sul loro giornale del 28 settembre 1913 – non sono
più i mandatari del popolo al potere, ma pochi uomini in cui la
sfacciata impertinenza li portò al comando, trasformando la libera
terra di S. Marino, in una terra czaresca di assoluto impero.
In un altro articolo del 23 novembre,
intitolato Cosa vogliamo noi, ribadirono di desiderare una
sola cosa: che la Repubblica fosse riportata alle sue origini
in quanto riguarda la parte religioso – morale. Essendo stata
fondata da un santo, infatti, essa poteva e doveva basarsi solo
sui fondamenti della religione. Era lecito tener conto dei
tempi e dell’evoluzione della civiltà, ma i dogmi e i principii
della religione cattolica non possono assolutamente subire
modificazioni, nel vario succedersi di tempi e di persone. Si
doveva tener presente che a San Marino i cattolici erano la
maggioranza, per cui non era giusto che venissero soggiogati da
una minoranza di miscredenti.
Il San Marino in definitiva
tornava a chiedere il ripristino del catechismo nelle scuole,
voleva che il matrimonio religioso avesse lo stesso valore di
quello civile, qualora questo fosse stato legalizzato, pretendeva
infine, per le leggi che riguardavano la Chiesa, dopo le velenose
polemiche che vi erano state sulla legge dei benefici vacanti,
sempre un accordo preliminare tra autorità politiche e religiose.
Naturalmente il Titano rimbeccò
le tesi dell’Unione con lunghi articoli, sostenendo che lo Stato
non doveva scendere a patti con nessuno nel varo delle sue leggi,
e altro ancora secondo quella logica laica e statalista da cui era
stato caratterizzato fin dalla sua nascita.
Al di là di quanto già detto, il 1912
non registra altri fatti meritevoli di essere evidenziati più di
tanto, a parte l’avvio a fine anno di scuole serali per adulti,
grazie alle prestazioni gratuite di alcuni maestri,
e il rinfocolamento della vecchia polemica sulla riforma fiscale,
che per qualche anno era rimasta piuttosto sopita. Questo perché
il bilancio stava ormai dando chiari segni di essere ancora una
volta insufficiente ai nuovi bisogni dello Stato e a quella
modernizzazione auspicata dagli innovatori più decisi. Nel
preventivo del 1912 - 1913 s’ipotizzava un disavanzo superiore
alle 70.000 lire (359.986 in entrata, 432.592 in uscita).
Olinto Amati, factotum delle finanze
di questo periodo, tramite volantino diffuso tra la gente,
suggeriva di accrescere le entrate per mezzo della stampa di carta
moneta, progetto a cui stava ancora lavorando, e con altri mezzi
finanziari, senza ricorrere per il momento a nessuna riforma
tributaria. I socialisti, invece, la consideravano necessaria non
solo per aumentare le entrate, ma soprattutto per moralizzare
l’economia sammarinese, da sempre basata non sul coinvolgimento
economico del cittadino nella gestione dello stato, ma sul
reperimento di denaro tramite tasse indirette e più che altro su
espedienti di vario genere. Inoltre essi ritenevano che solo
attraverso una giusta riforma fiscale si sarebbe livellata un po’
la società, togliendo ai ricchi per favorire i poveri.
Le operazioni finanziarie erano
amorali, secondo Alfredo Casali, e inducevano il cittadino a
disinteressarsi dei problemi economici perché non faceva alcuna
fatica ai soldi che andavano a rimpinguare le casse statali. I
sammarinesi pagavano 218.000 lire annue di tasse indirette su un
totale di 230.000 lire di gettito fiscale, tuttavia non se ne
accorgevano nemmeno perché non le consideravano balzelli che
uscivano dalle loro tasche. Un aggravio di quelle dirette, quindi,
non sarebbe stata una tragedia per il popolo: Di questo parere
non sarà certamente la maggioranza consigliare che rappresenta la
plutocrazia sammarinese. Alla riforma tributaria, al tenue
sacrificio di tassarsi convenientemente essa preferirà le
operazioni finanziarie e, se queste non bastassero, ritornerà alla
vendita dei ciondoli e dei titoli nobiliari e, magari, metterà
all’incanto gli uffici consolari della Repubblica. Ciò non costa
sacrificio materiale alcuno, ed è soprattutto comodo per le
inviolabili tasche di loro signori. Inoltre una riforma
tributaria basata sui singoli redditi avrebbe permesso di abolire
la tassa sul grano, considerata ingiusta ed obsoleta dai
socialisti, ma non da Amati che la riteneva invece indispensabile
per non far crollare le entrate. Il problema delle tasse e della
riforma tributaria non era cosa da poco, perché, come si vedrà fra
breve, sarà proprio questo il capolinea del Blocco Democratico.
Pur tra perplessità e
contrapposizioni, per fortuna solo verbali, nel 1913 il Blocco
tenne, nonostante due elezioni suppletive svolte nel mese di
aprile e di novembre per completare il numero di sessanta
consiglieri che per dimissioni, o per problemi nei seggi o per
altro ancora non era mai completo. Inizialmente la nuova
maggioranza consigliare seppe muoversi con entusiasmo all’interno
del programma che si era dato. I socialisti in questo periodo si
mantennero calmi e poco litigiosi verso i loro alleati, anche
perché la loro organizzazione era in forte crisi per lo
scioglimento della Federazione e della sezione di Borgo. Solo
quella di Città rimase in qualche modo operativa e cercò di
sostituirsi alla Federazione, ma anch’essa si riunì solo due volte
nel 1912 (il 7 e il 27 dicembre), una volta nel 1913 (il 28
febbraio), due volte nel 1914 ( il 2 gennaio e il 12 luglio),
almeno stando al suo libro dei verbali, poi chiuse i battenti fino
al 24 maggio del 1918.
Nelle due riunioni del ’12 Alfredo
Casali diede le sue dimissioni dal Titano, non
riconoscendosi nella tendenza che doveva assumere il giornale a
causa dell’alleanza degli otto consiglieri che ora poteva
annoverare il gruppo socialista con gli altri democratici.
Nell’adunanza del 7 venne poi deciso di cedere il giornale al
Blocco dietro precise condizioni, ovvero:
1.
di riaverlo alle stesse condizioni se non fosse stato
seguito il programma concordato,
2.
di accettarlo con debiti e crediti (in realtà aveva solo
debiti),
3.
di poter avere almeno due socialisti nella redazione,
4.
di poter disporre di una colonna per la propaganda e per
l’organizzazione operaia,
5.
di conservare lo stesso titolo, serie e numerazione,
6.
di continuare a stamparlo nella Tipografia Sociale.
Nel febbraio dell’anno successivo la
sezione venne informata che erano state approvate tutte le
condizioni eccetto le numero 3 e 4, ma accettò ugualmente di
rinunciare al giornale. La cessione venne comunicata nel Titano
del 25 marzo in cui fu scritto che per necessità politica e di
difesa civile contro il pericolo clericale il gruppo
socialista si era dovuto unire con i democratici; perciò il
giornale veniva affidato per un tempo indeterminato al
Blocco. Dal 1° aprile divenne Organo del Gruppo Consigliare
Democratico con Tullio Ceccoli come direttore.
Naturalmente nei mesi seguenti il
periodico cambiò completamente i suoi toni, anche se alcuni
socialisti, come Franciosi, che mantenne elevatissimo il numero
dei suoi articoli (108 nel 1913), continuavano a scrivervi. Gli
argomenti prediletti furono più o meno sempre gli stessi:
l’esigenza di riformare lo statuto per svecchiare la Repubblica, i
problemi del bilancio e della riforma tributaria, la necessità di
avere partiti politici in Repubblica per dar vita ad un sistema
parlamentare moderno, il bisogno di un sistema scolastico più
efficiente, soprattutto a livello di scolarizzazione di base,
l’urgenza di laicizzare lo stato e così via.
Comunque questi sono anni che possiamo
considerare di relativa crisi del partito socialista, perché la
linea moderata che aveva portato all’alleanza coi democratici non
soddisfaceva tutti, e non rispondeva a quanto stava avvenendo in
Italia, dove sempre più stava prevalendo la linea rivoluzionaria.
Già nel congresso socialista di Modena del 1911 si era visto con
chiarezza come i riformisti, che detenevano ancora le redini del
partito, fossero spaccati in destra e sinistra, e come i
rivoluzionari fossero in rapida crescita. Nel congresso dell’anno
successivo, svoltosi a Reggio Emilia, i rivoluzionari riuscirono a
prendere in mano il partito, espellendo addirittura i riformisti
di destra che, favorevoli alla guerra di Libia e al “ministerialismo”,
cioè a stare nel governo, furono accusati di essere troppo
filogovernativi e poco socialisti. Il XIV congresso dei socialisti
italiani, svoltosi ad Ancona nell’aprile del 1914, confermò la
linea rivoluzionaria ai vertici del partito e la condanna del
socialismo troppo accondiscendente col potere governativo.
E’ chiaro che i socialisti sammarinesi
non potevano restarsene indifferenti verso quanto stava accadendo
presso i loro cugini italiani, e qualche articolo di questo
periodo apparso sul Titano ci fa capire assai bene che i
dibattiti locali erano gli stessi che si svolgevano anche in
Italia. Quindi i rivoluzionari sammarinesi, da sempre diffidenti
verso i democratici moderati, ed in questo periodo in acido
conflitto con Manlio Gozi, capo dei locali repubblicani e futuro
uomo forte del fascismo sammarinese insieme al fratello Giuliano,
dovevano guardare al Blocco Democratico con sospetto e
probabilmente anche con disgusto.
Non così ovviamente Franciosi e gli
altri socialisti riformisti. Finalmente l’unione tra socialisti
e democratici nella repubblica buona – contro il comune pericolo –
è un fatto compiuto e ne riceve oggi la sua sanzione definitiva.
In Italia ciò non sarebbe stato possibile ai tempi che corrono,
scrisse sul Titano del 6 aprile. Perché in Italia
(…) i partiti sono maturi ed hanno un campo più lato su cui
lottare, per svolgere ciascuno il proprio programma. A San Marino,
dove il campo è più ristretto e i partiti sono meno evoluti, ciò
non è ancora possibile. La vita nostra è troppo circoscritta e non
può far seguire per adesso a nessun partito una tattica
aprioristica. I partiti liberali, dal democratico al socialista,
debbono star uniti per un tempo indeterminato, finché non avranno
posto la Repubblica in una posizione veramente laica e civile. (…)
La democrazia distruggendo un po’ alla volta le sopravvivenze
chiesastiche e feudali, e mettendo tutti i cittadini nelle
medesime condizioni iniziali di lotta, dà al proletariato il modo
di conquistare nella società presente una sempre maggiore potenza
politica, che è quanto dire la possibilità di realizzare i suoi
ideali di uguaglianza sociale. (Sarà poi ripresa la via maestra
del socialismo quando il proletariato sammarinese diverrà così
forte nelle sue organizzazioni e politicamente così maturo da
imporsi da se stesso ai suoi avversari; ossia quando il socialismo
comincerà ad essere un fatto perché sarà riuscito a spostare la
somma degli interessi verso le classi proletarie.
In realtà il Blocco Democratico vivrà
poco più di un anno, poi tramonterà per sempre. Nel 1913,
comunque, fu suo compito reggere lo stato sammarinese e
industriarsi per fare qualcosa, non molto per la verità, del suo
vasto programma. Fu sempre il Blocco che permise il ritorno di
Gino Giacomini a San Marino, affidandogli per chiamata la
direzione didattica. Proprio in campo scolastico possiamo
registrare le principali novità di questa breve fase politica,
come l’accelerazione della costruzione di alcune scuole rurali, o
l’istituzione del patronato scolastico, per favorire la
scolarizzazione dei fanciulli più poveri.
Un’altra novità da tempo agognata dai
socialisti fu l’istituzione di un ispettore degli uffici pubblici,
fatto che avvenne con decreto dell’11 ottobre 1913. Nel periodo vi
fu anche un potenziamento della burocrazia statale. Si cercò di
migliorare le strade e il sistema di comunicazione con la riviera,
che avveniva tramite un servizio di due corse giornaliere di
un’auto pubblica, per favorire il turismo che stava timidamente
nascendo anche a San Marino. Si pose mano al problema dell’acqua
potabile accelerando la costruzione dell’acquedotto di Fiorentino,
che verrà però inaugurato solo nel 1915. Si lavorò per installare
la luce elettrica nei principali Castelli stipulando un contratto
con la ditta fornitrice agli inizi del ’14. Si riuscì ad aumentare
di circa 250.000 lire annue il canone che si percepiva
dall’Italia, colmando così per qualche tempo il deficit di
bilancio, che comunque stava fortemente dilatandosi per le nuove
spese legate agli edifici scolastici, alle strade, al
potenziamento degli uffici pubblici. Si varò una legge per
regolamentare i diritti pensionistici degli impiegati e salariati.
Tante novità, senz’altro, ma
praticamente non si pose mano a problemi che i socialisti
ritenevano fondamentali per far progredire la Repubblica, ovvero i
mutamenti di carattere istituzionale, la riforma tributaria, una
decisa laicizzazione dello stato. Probabilmente è qui il nocciolo
del fallimento del Blocco Democratico, insieme naturalmente a ciò
che stava accadendo all’interno del socialismo italiano.
Agli inizi del 1914 nulla dava a
presagire una fine così repentina dell’alleanza fra le forze
riformiste. Nel mese di gennaio, grazie ad una cinquantina di
soci, aveva potuto finalmente costituirsi, dopo tanti progetti in
merito, l’"Associazione del Libero Pensiero", un raggruppamento
anticlericale che si richiamava ad un analogo gruppo italiano,
tramite cui si sperava di dare ulteriore compattezza all’alleanza
democratica.
Nel mese di febbraio, grazie
soprattutto all’attivismo e alle conoscenze di Amati, ben inserito
in molti ambienti importanti italiani, si era sottoscritto un
contratto con la Società Adriatica che s’impegnava a fornire a San
Marino corrente elettrica con cui dotare di luce i Castelli di
Città, Borgo e Serravalle, ed alimentare il costruendo acquedotto
di Fiorentino, che avrebbe permesso di risolvere l'annoso problema
dell’acqua potabile in buona parte del territorio.
Le cose, insomma, sembrava che
stessero andando bene, tant’è vero che il Titano del
diciassette maggio evidenziò con enfasi che il Blocco stava
tenendo, e che stava rigenerando piano piano la Repubblica. Ma in
aprile non passò in Consiglio un’istanza di Protogene Belloni, che
comunque non apparteneva al raggruppamento socialista, teso a
chiedere il mutamento del Congresso di stato più o meno con le
stesse modalità che da anni stavano propugnando i socialisti. Da
costoro la proposta venne appoggiata, ma alla fine venne bocciata
per 17 voti contro 35.
In maggio vi fu un’altra bocciatura
mal digerita dai socialisti: per un solo voto non passò in
Consiglio la sovvenzione al Consorzio delle Case Popolari. E’
il solito sistema della borghesia rurale che paventa tutto ciò che
sa di moderno, che disconosce tutto che si presenta come nuovo
bisogno sociale. (…) Se i signori Consiglieri del Gruppo
democratico fossero più puntuali alle sedute, non vedrebbero
paralizzata l’opera dei loro colleghi attivi e laboriosi da pochi
voti di gente senza coscienza e senza cuore. Ciò serva d’esempio
per l’avvenire se non si vuole mandare a picco nell’applicazione,
buona parte del programma democratico, ammonì Franciosi in un
articolo del 17 maggio.
Sempre nello stesso mese il Consiglio
si trovò di fronte ad una grana di natura costituzionale. Onofrio
Fattori aveva presentato un’istanza in cui richiedeva che
potessero divenire Reggenti anche i cittadini naturalizzati. Il
Consiglio si trovò spiazzato davanti a simile richiesta, perché
non sapeva se possedeva l’autorità per esaminare e risolvere
problemi di natura costituzionale. Praticamente nella discussione
sorsero tre ipotesi: la prima diceva che l’arengo del 1906 non
aveva concesso facoltà al Consiglio di modificare nulla al di là
del sistema di nomina dei consiglieri, quindi competente era solo
l’assemblea dei capifamiglia in materia costituzionale; la seconda
sosteneva che il Consiglio potesse porre mano anche alle questioni
istituzionali; la terza, quella socialista, avrebbe voluto
utilizzare l’arengo come referendum a cui sottoporre i problemi
costituzionali, ma anche di altro genere. Alla fine si giunse ad
una votazione che, per 21 voti contro 10, stabilì che solo
l’arengo poteva modificare le norme costituzionali, per cui il
Consiglio si dichiarava incompetente in materia.
Questa deliberazione permise poi di
respingere un’istanza dei Repubblicani, capeggiati sempre da
Manlio Gozi, che chiedeva l’autorizzazione per la Reggenza a non
presenziare a funzioni religiose, se non lo avesse desiderato.
Poiché anche questo venne considerato problema di natura
costituzionale, il Consiglio decise di non deliberare in merito.
Invece il nove giugno venne
bocciata l’istanza di rimettere allo studio l’ipotesi di riforma
tributaria già elaborata da Lorenzo Gostoli sette anni prima,
proposta ripresa da Franciosi tramite un suo discorso pubblico del
1° ottobre 1913,
e avanzata al Consiglio con la speranza che venisse istituita una
commissione per la sua analisi. Due consiglieri (Balducci Nullo e
Ceccoli Marino) si opposero dicendo che, prima di creare nuove
tasse, occorreva diminuire le spese di bilancio.
D’altra parte questa era la teoria
anche del contabile governativo che un paio di mesi prima, nella
seduta consigliare del 18 aprile, aveva esposto il bilancio
preventivo, che programmava entrate per 968.000 lire e uscite per
616.000, accompagnandolo con una sua relazione in cui diceva che
l’utile registrato era dovuto soprattutto a entrate straordinarie,
per cui occorreva usare molta cautela in futuro in quanto le tante
spese che lo Stato aveva a causa dei suoi nuovi bisogni, e delle
nuove infrastrutture cui stava lavorando, necessitavano di entrate
più stabili, ma anche che venisse abbandonata quella
spensierata ed allegra amministrazione che ancora
caratterizzava le pubbliche finanze, esigendo che ciascun
cittadino, di qualsiasi rango sociale, quando attinga dalle casse
che custodisce il danaro di tutti, vi attinga con la coscienza
sicura che quanto gli vien pagato è meritato, conforme a giustizia
e adeguato compenso all’opera e al servizio reso alla Patria.
Quest’ultima frase ci fa naturalmente intendere con chiarezza
quanto fosse allegra e spensierata ancora la gestione del denaro
pubblico.
Franciosi e i socialisti erano però di
altro avviso, considerando, come si è già detto, la riforma
tributaria fondamentale da un punto di vista morale e sociale.
Nonostante la grande pubblicità datavi e il lungo periodo di tempo
concesso ai signori Consiglieri per studiare verificare pesare il
progetto Gostoli – Franciosi sulla riforma tributaria in
Repubblica – venne detto sul Titano del 14 giugno -
questo non ha avuto neppure l’onore di un’approvazione in massima
e di essere affidato allo studio di una Commissione consigliare.
Nessuno, all’infuori della Reggenza e del relatore, ha preso la
parola in proposito per darne le opportune spiegazioni e i dovuti
schiarimenti. (…) Doveva pur sorgere a parlare in favore del
progetto ogni buon Consigliere democratico, fu detto sul
Titano del 14 giugno. Invece nulla era stato fatto: Alcuni
consiglieri democratici han fatto dell’assenteismo pernicioso(…);
altri Consiglieri han fatto dell’opportunismo di classe,
perciò alla fine la proposta era naufragata per 23 voti contro 18.
Dato il peso che i socialisti davano alla riforma fiscale, è
chiaro che tale bocciatura dovette lasciare tanto amaro in bocca a
parecchi, in primis a Franciosi, che era sempre stato il massimo
sostenitore del bisogno di un nuovo sistema tributario più equo,
ma pure dell’alleanza tra democratici. D’altronde, dopo la
decisione subita, egli protestò animatamente in Consiglio,
meravigliandosi che, mentre negli altri paesi si dà l’onore di
rimettere allo studio qualsiasi progetto da qualunque parte
politica promani, nella Repubblica si è dato con la superiore
votazione un esempio che non si riscontra neppure tra uomini
primordiali.
Comunque non vi furono proclami contro
il Blocco, o accuse velenose verso nessuno: il Titano n° 26 del 28
giugno si limitò a dire in un articolo intitolato Congedo
che, dopo 15 mesi a servizio dell’alleanza democratica, cessava le
sue pubblicazioni e che sarebbe tornato ad essere da lì a poco il
periodico dei Socialisti, cosa che avvenne invece solo quattro
anni dopo, quando s’iniziò a ristamparlo in occasione del 1°
maggio 1918. La redazione dichiarava di ritirarsi soddisfatta per
ciò che era riuscita a fare in quel breve lasso di tempo.
Anche esaminando il San Marino
del periodo non emergono per nulla i motivi che hanno determinato
la scissione, ma soltanto i conflitti che c’erano in territorio
tra Stato e Chiesa per colpa della legge sui benefici vacanti, le
solite polemiche contro i democratici che volevano l’abolizione
del costume della Reggenza e perciò stavano portando un
attentato alla costituzione, rischiando di minare le basi
costituzionali della Repubblica. Per conservare la
Repubblica - venne scritto nel n° 11 del 7 giugno 1914 - è
necessario conservare e rispettare le antiche leggi e le lodevoli
consuetudini del suo popolo. Se la Repubblica conta ben 17 secoli
di storia lo deve alla sublimità delle sue leggi. In
definitiva il San Marino continuava nella sua logica
ultraconservatrice, sostenendo che solo l’arengo poteva rinnovare
la locale costituzione, non certo il Consiglio. L’annuncio della
fine del Blocco il San Marino lo diede nel suo numero 6 del
5 luglio, limitandosi a dire che finalmente era giunto il momento
dei cattolici e degli uomini dell’ordine, visto che
considerava i suoi avversari politici solo fautori di disordine e
di confusione.
Negli stessi giorni della fine del
Blocco, e della chiusura del Titano, prese vita un altro giornale
stampato dal locale gruppo repubblicano, La Repubblica nuova,
diretto da Manlio Gozi. Probabilmente la sua nascita era legata ai
fatti di questo periodo ed alla fine del Blocco. Infatti i
repubblicani, che comunque non avevano mai assunto una vera
fisionomia partitica, si ripromettevano di stare all’opposizione
contro l’ostinato misoneismo dei conservatori e l’ira bieca dei
clericali, non volendo appartenere ad una larva di
democrazia. Inoltre proclamavano di voler laicizzare lo stato
e di voler attuare tutte le riforme necessarie per migliorarlo.
Vi erano critiche anche per i
socialisti i quali, per far parte di un gruppo informe,
avevano rinunciato a battagliare, ma niente più e soprattutto
niente sulla fine del blocco.
Comunque quanto promosso durante il periodo del Blocco Democratico
si evolse anche dopo il suo scioglimento, tant’è che il 18 luglio
vi fu la promulgazione di una legge per gli infortuni degli
operai sul lavoro, legge dal chiaro sapore socialista.
VII. 1914 – 1918:
Il periodo bellico
Durante l’estate si cominciarono a far
sentire gli effetti nefasti della prima guerra mondiale col
rientro repentino in patria di numerosi emigrati per carenza di
lavoro, o per paura di essere arruolati forzosamente. Anche qui il
gruppetto socialista, con Franciosi in testa, si diede da fare nel
mese di settembre per costituire un’associazione capace di fornire
assistenza ai cittadini rientrati, che il più delle volte avevano
bisogno di tutto.
Nei mesi successivi non accadde tant’altro
degno di menzione, a parte che cominciò a crescere il timore che
il paese potesse rimanere senza grano sufficiente a soddisfare i
suoi fabbisogni. Nel Consiglio del 5 dicembre, quindi, venne
stanziata una cifra per elevare ulteriormente le scorte che
c’erano in quel momento, ammontanti a 1.700 quintali.
Vedremo che proprio intorno al problema del grano i socialisti
dovranno combattere aspre battaglie negli anni seguenti.
Alle fine del 1914, precisamente il 20
dicembre, il gruppo socialista pensò di riunirsi nuovamente
per rifondare la Federazione.
In tale occasione, presenti 18 aderenti, fu deciso anche di
contattare le leghe operaie per spiegare i propositi del gruppo.
Nei mesi precedenti era entrata in crisi la sezione di Città, che
aveva fatto la sua ultima riunione il 12 luglio solo per
constatare che vi erano debiti e bisogno di fare cambiali, se si
voleva andare avanti. Era però stata ricostituita la sezione del
Borgo, che comunque soffriva di problemi analoghi, ovvero di
scarsa partecipazione alle attività e di mancanza di fondi, quindi
di identica precarietà.
Dal programma varato il 20 dicembre e
approvato all’unanimità dalla Federazione (appendice n° 5) appare
evidente che i socialisti erano usciti dall’alleanza democratica
perché insoddisfatti di come erano andate le cose nei quindici
mesi di cogestione dello stato. E’ pure presumibile che l’anima
rivoluzionaria, che spingeva per riforme forti e immediate, avesse
determinato la rottura constatando che in campo istituzionale e in
quello tributario non c’era nulla da fare per ottenere le
innovazioni desiderate, perché i loro alleati, spesso appartenenti
al ceto benestante e legati alla stessa mentalità conservatrice
dei più, non erano disposti in questi ambiti a scendere a
compromessi, così come rallentavano molto sul bisogno di
laicizzare lo stato.
Dopo questa riunione, la Federazione
socialista riprese la sua attività, anche se a rilento ed in
maniera molto episodica. Il suo secondo incontro lo organizzò per
il 23 aprile del 1915. In tale occasione Franciosi disse che
l’assemblea delle leghe operaie aveva preso visione del programma
proposto, approvando in linea di massima l’idea d’istituire la
camera del lavoro. Fu poi discusso dell’opera dei socialisti negli
ultimi anni, e venne evidenziato che quelle poche cose che erano
state fatte si dovevano prevalentemente all’opera dei consiglieri
socialisti, che comunque erano stati combattuti in tutti i modi,
anche da parte dei democratici. Si decise poi di rompere ogni
legame coi democratici i quali non avendo alcuna idealità non
hanno alcuna base politica. Alla fine si constatò che, pur
rinascendo, il gruppo socialista stava dando chiari segni di
scarso entusiasmo e di disinteresse per le gravi questioni
che dovevano essere affrontate.
Un altro incontro venne fatto il 21
maggio per dire che non tutti i lavoratori si erano dimostrati
d’accordo sull’esigenza di creare una camera del lavoro, e che
occorreva andare presso le singole leghe per fare opera di
sensibilizzazione. Fu anche stabilito di cercare alleanze con gli
operai per affrontare le imminenti elezioni politiche, e di
riavviare il Titano, che verrà da ora in poi denominato
Nuovo Titano probabilmente per distinguerlo dal giornale
moderato e “blocchista” dell’ante guerra..
Dopo tale riunione, tuttavia, la
Federazione non riuscì a radunarsi più fino al 17 gennaio 1917, a
dimostrazione che in questo periodo stava attraversando momenti
veramente difficili. In effetti nei primi mesi del 1915 non è
riscontrabile nessuna attività particolare da parte dei
socialisti, al di là di un po’ di propaganda elettorale per le
votazioni che si dovevano svolgere il 13 giugno per il rinnovo di
un terzo del Consiglio. Iniziarono però una polemica in Consiglio
sull’atteggiamento che San Marino doveva tenere nei confronti
della guerra in cui stava per gettarsi anche l’Italia. Nella
seduta del 22 maggio Ferruccio Martelli sostenne che si sarebbe
dovuto inviare un messaggio di plauso e di solidarietà alle
autorità italiane per il passo che stavano per compiere (le
ostilità contro l’Austria scoppieranno solo due giorni dopo), ma
Alfredo Casali, seguendo le orme dei socialisti italiani, in
genere schierati per la neutralità, aveva dichiarato che la
Repubblica doveva rimanere estranea al conflitto e augurarsi che
terminasse in fretta.
La Reggenza decise comunque di spedire
un telegramma.
In effetti molti sammarinesi si lasceranno coinvolgere nella
retorica a favore della guerra, ed i socialisti verranno spesso
accusati di disfattismo e di anti-italianità per il loro continuo
atteggiamento di avversione ideologica al conflitto in atto.
Queste accuse porteranno negli anni successivi ad aumentare quel
solco che già li divideva dagli altri gruppuscoli politici, e a
farli odiare ancor più da chi vedeva nella guerra un toccasana per
l’Italia, come Manlio e Giuliano Gozi, interventisti convinti e
futuri gerarchi del locale fascismo. In un suo discorso del 4
giugno 1915 a favore della guerra, Giuliano disse molto
esplicitamente: Mentre piccoli uomini si dibattono in vane
questioni dirette a far proclamare la neutralità dello Stato,
affermiamo vigorosamente che sedici secoli di storia, se sono
bastati a conoscere la nostra libertà, non valgono però a
dividerci dal resto del mondo e a farci dimenticare di essere
soprattutto italiani!
Vedremo che vi saranno altre occasioni in cui Gozi manifesterà
il suo malanimo verso i socialisti.
Nel Consiglio del 3 luglio Franciosi,
Casali ed il neo eletto Gino Giacomini provocarono altre polemiche
in Consiglio rivolgendo accuse ai Reggenti di aver dimostrato
un atteggiamento troppo indeciso e mancante di fierezza nei
confronti delle autorità italiane.
Era successo che l’Italia, diffidente più che mai in questo
periodo verso San Marino, che veniva accusato di dar rifugio ai
disertori, di nascondere i richiamati e di altro ancora, aveva
inviato, di sua iniziativa e senza accordo preventivo, alcuni
carabinieri per installare una caserma dentro i confini
sammarinesi, così da avere un controllo diretto sull’operato della
Repubblica. Inoltre aveva applicato la censura per la posta e
chiuso le comunicazioni telefoniche, assumendo atteggiamenti molto
intransigenti e coercitivi verso San Marino. Le autorità
sammarinesi alla fine erano riuscite ad intavolare una trattativa
ed a stemperare le tensioni, ma naturalmente erano dovute scendere
a compromessi e andare incontro il più possibile alle richieste
italiane, istituendo sistemi di controllo ai confini e fornendo
periodicamente quelle informazioni che il governo italiano voleva
ricevere. Da qui le accuse da parte dei socialisti, che torneranno
sulla stessa polemica anche nel Consiglio del 10 agosto.
In quell’occasione poi ne scatenarono
anche un’altra destinata a crescere nel tempo: quella relativa
alla requisizione del grano. Fu Franciosi ad iniziarla col dire
che i proprietari sammarinesi non dovevano approfittarsi della
situazione bellica in cui si era per elevare ingiustificatamente
il prezzo del grano, visto che loro, al contrario di quelli del
regno italiano, non dovevano contribuire in nessuna maniera al
finanziamento delle spese di guerra. Gli diede poi corda Giacomini
che, parlando a nome del gruppo consigliare socialista, presentò
una proposta in cui si ribadiva che i proprietari sammarinesi
erano favoriti nella determinazione del prezzo della loro merce
dalle particolari condizioni in cui versava l’Italia, ma non
dovevano approfittarsene. Anzi, dovevano compiere un atto di
utile patriottismo a compenso del privilegio singolare di cui
godevano come cittadini di una Repubblica autonoma. Proponeva
quindi l’istituzione di un ufficio annonario temporaneo per
controllare la produzione ed esportazione del grano, la
requisizione di 5.000 quintali di grano al prezzo di 35 lire al
quintale, ovvero 10 lire in meno del suo costo in Italia,
l’istituzione di tre spacci di granaglie e farina in Città, Borgo
e Serravalle sotto il diretto controllo dell’annona, dove vendere
tali prodotti a prezzi minimi. Chiudeva il suo intervento
sostenendo che anche le altre derrate di prima necessità dovessero
essere soggette a controllo per evitare che raggiungessero prezzi
eccessivi.
La proposta naturalmente suscitò
polemiche e proteste, ed un violento diverbio tra Franciosi e
Domenico Fattori, ma alla fine il progetto di requisizione passò
per 35 voti contro 5, mentre il discorso degli spacci, che
comunque porterà gradualmente all’istituzione dell’Ente Autonomo
dei Consumi nel 1918, non ebbe per il momento seguito.
Nel Consiglio del 27 novembre
Franciosi, membro dell’annona, ovvero l’ufficio preposto al
controllo della requisizione, tornò a suggerire l’istituzione di
una cooperativa per vendere i prodotti a prezzi bassi. Disse
inoltre che la requisizione era proceduta bene con i grossi
proprietari, ma non con i piccoli che l’avevano osteggiata.
In realtà questa fu l’unica volta in cui la requisizione del grano
non suscitò contestazioni troppo velenose e permise
d’immagazzinare la quantità di grano prevista dal Consiglio. Nelle
requisizioni successive, che comunque susciteranno sempre
discussioni a non finire tra i consiglieri, e violente polemiche
da parte dei socialisti, che accusavano il ceto padronale di
pensare solo ai propri interessi anche in un momento tragico come
quello, spesso non si riuscì a rimediare il grano per soddisfare
il fabbisogno interno, determinando la necessità d’importarlo da
oltre confine. Già nel Consiglio del 4 maggio 1916 si annunciò
infatti che la requisizione non aveva dato la quantità desiderata
e si era stati costretti a comperarne svariati quintali in Italia
al prezzo di 41 lire.
Il 26 giugno l’Annona, di cui faceva
parte anche Giacomini, espose in Consiglio una lunga relazione in
cui dichiarava che occorrevano precisi controlli sulla produzione
del grano locale, ed un prezzo di requisizione non superiore alle
30 lire, o comunque inferiore di 4 lire del prezzo italiano, che
era di 36 lire, sempre per i motivi che i produttori locali non
pagavano tasse di guerra. Ovviamente scoppiarono nuovi livori tra
i socialisti, in particolare Giacomini, e altri (Moro Morri e
Ferruccio Martelli), perché il primo chiedeva pane a basso
prezzo, mentre gli altri dicevano che i padroni, per colpa
della guerra, adesso guadagnavano meno degli impiegati. Alla fine
la proposta dell’Annona venne respinta per 29 voti contro 15, e si
stabilì di requisire il grano al prezzo di 35 lire al quintale,
cioè una sola lira in meno del prezzo italiano.
Pure negli anni successivi ogni volta
che in Consiglio si parlava di requisizione scoppiavano tumulti,
sempre per motivi analoghi, e sempre tra socialisti da una parte e
rappresentanti dei proprietari dall’altra. In pratica si può dire
che se già prima degli anni in esame esistevano rancori tra queste
due categorie, la guerra li accentuò infinitamente. Inoltre la
posizione non interventista dei socialisti, che sempre si
premurarono di criticare la guerra come mezzo per risolvere i
problemi, non contribuì certo a procurargli simpatie, perché in
paese aumentarono gli atteggiamenti interventisti e patriottici
man mano che le ostilità si accrescevano e il suolo italiano
veniva minacciato.
Quando perì il primo Sammarinese nel
conflitto, ovvero Carlo Simoncini morto schiacciato da un masso il
6 luglio 1916 mentre stava scavando una trincea sull’Isonzo, vi fu
una lunga e retorica commemorazione in Consiglio. Franciosi a nome
del suo gruppo disse: Anche noi Socialisti, irriducibilmente
avversi alla guerra che dissangua e distrugge e non sana e non
placa, c’inchiniamo riverenti e commossi dinnanzi alla bella
figura del carissimo concittadino Carlo Simoncini morto oltre
l’Isonzo per una fede e per un’idea; in pari tempo sentiamo il
bisogno di inviare un saluto alla memoria di tutti quelli che sono
caduti sui fronti in questa tregenda sanguigna. Si porta da questa
millenaria e pacifica Repubblica un augurio fervido per l’avvento
prossimo d’una pace duratura e per un superiore vivere civile a
base di giustizia e di fratellanza umana e universale.
Quando poco dopo cadde un altro
soldato di origini sammarinesi, Sady Serafini, morto combattendo
sul Carso il 12 ottobre, vi fu un’analoga commemorazione
consigliare, e ancora una volta i socialisti ribadirono le
loro posizioni pacifiste, pur associandosi alla commemorazione in
atto.
Questi comportamenti in un momento
pieno di timori, di retorica e di esaltazione eroica ovviamente
erano facili bersaglio di critiche e sfottò, per cui contribuirono
senza dubbio ad aumentare l’avversione nei confronti del piccolo
gruppo socialista che, come si è detto, in questa fase della sua
storia era parecchio disorganizzato, privo di un giornale con cui
far conoscere dettagliatamente alla popolazione il suo punto di
vista e le vere posizioni assunte, incapace di riorganizzarsi in
gruppo costituito, carente nelle strategie da portare avanti.
Continuando inoltre a mantenere una
posizione di strenua difesa dell’indipendenza assoluta della
Repubblica da ingerenze esterne, proseguirono nei suoi confronti
frequenti accuse di anti-italianità. Abbiamo già visto le
polemiche suscitate dai socialisti in occasione dell’invio dei
carabinieri da parte del regno italiano. Una bagarre simile
scoppiò di nuovo anche nel dicembre del 1916, quando Franciosi,
Giacomini e Casali, nel Consiglio del 5, inoltrarono
un’interrogazione scritta per conoscere dalla Reggenza se era vero
che il console italiano, di sua iniziativa, aveva fatto scarcerare
un presunto disertore arrestato in territorio sammarinese. Venne
loro risposto che era vero, ma era stato tutto un malinteso, tanto
che il disertore era stato imprigionato di nuovo.
Vorremmo pertanto che altri i quali
vanno dietro a certi miraggi più o meno veri di patriottismo
italiano sentissero al pari di noi, sebbene internazionalisti, il
patriottismo di questa Repubblica, che vogliamo mantenere intatta,
libera e sovrana, dichiarò
Franciosi a nome del gruppo socialista.
Una polemica analoga era avvenuta
anche in marzo nei confronti dell’Austria, che accusava San Marino
di aver rinunciato alla sua neutralità permettendo la
partecipazione alla guerra, nelle armate italiane, dei suoi
cittadini.
Quella volta era stato Giacomini a dire che occorreva risponderle
ufficialmente che la piccola Repubblica ha la sua indipendenza
da tutelare e deve in ogni occasione esercitare la sua azione di
personalità politica e storica.
Negli anni del primo conflitto
mondiale, in effetti, al di là delle battaglie per la requisizione
del grano, e delle polemiche a vantaggio dell’autonomia
sammarinese, non vi è tant’altro da segnalare nelle rivendicazioni
del gruppo consigliare socialista. Le idee portate avanti furono
sempre più o meno le stesse del periodo precedente, frenate
nell’impeto dal grave momento che l’Italia stava vivendo.
Continuarono così ad attaccare il bilancio dello stato, sempre in
bilico perché non si riusciva mai a rispettare le spese
preventivate per colpa dei Reggenti o di altre autorità che
frequentemente permettevano in maniera estemporanea spese non
preventivate. Nel gennaio del 1916 Giacomini fece una lunga
disquisizione in Consiglio contro il sistema di votare fondi
straordinari per lavori pubblici, dati agli operai più per motivi
di pubblica carità in momenti di scarso lavoro che per altro,
senza alcun progetto o pianificazione a monte.
Vi erano nel periodo serie
preoccupazioni per la solidità del bilancio, perché la guerra,
insieme ai lavori per i nuovi edifici scolastici, alle spese in
genere che aumentavano sempre più, all’impossibilità di attuare un
sistema fiscale in grado di far fronte ai nuovi bisogni, facevano
presagire anni economicamente poco rosei, come in concreto
lasciava supporre pure il bilancio preventivo per il 1917, che
annunciava entrate per 882.162,07 lire e uscite per 1.037.998.82.
Nell’arengo di aprile fu il segretario
Giuseppe Forcellini che presentò un’istanza, accompagnata da una
proposta di legge, per trasformare il bilancio da flessibile a
rigido. Questa richiesta scatenò viva discussione, perché
Giacomini evidenziò che l’iniziativa era lodevole, ma non
bastante: infatti occorreva mettersi nell’ordine di idee che era
tutta la pubblica amministrazione da regolamentare nuovamente col
definire i singoli ruoli, i poteri del Consiglio, del Congresso,
ecc. Alla fine si decise di creare due commissioni per analizzare
le questioni emerse e per proporre qualche innovazione.
Probabilmente a causa di questa
reviviscenza d’interesse verso le riforme costituzionali, i
socialisti si dedicarono nuovamente alle loro rivendicazioni
istituzionali, già in parte ideate negli anni precedenti, mettendo
a punto un progetto dato alle stampe nel 1917
e portato in Consiglio il 30/4/1918,
di cui parleremo fra breve.
Questi furono anche gli anni della
triste vicenda legata ad Olinto Amati, da sempre personaggio
simpatico ai socialisti, e da questi più volte lodato come
eminenza grigia della locale finanza, capace di portare alla
Repubblica, come in effetti fece in varie occasioni, vantaggi
economici anche di notevole entità. La grana nei suoi confronti
scoppiò col Consiglio del 19 dicembre 1916, quando venne deciso di
apporre i sigilli alla cassa del prestito a premi. Era successo,
infatti, che ci si era accorti di notevoli ammanchi di cassa
imputabili ad Amati, che da tempo imprecisato attingeva fondi per
i suoi bisogni personali. In un incontro avuto con un paio di
funzionari del Consiglio, Amati ebbe a dichiarare che aveva agito
truffaldinamente perché travolto da disastrose operazioni
finanziarie, dalla guerra e dalla infame accusa di spionaggio che
mi ha privato dal credito e sconvolto. Fatto sta che egli
venne arrestato con l’imputazione di appropriazione indebita, poi
si tolse la vita nel giugno del 1917 per la vergogna.
Il colpo fu grosso anche per il mondo
riformista, perché da sempre i conservatori ed i cattolici
accusavano gli uomini nuovi del Consiglio di essere affaristi
immorali e privi di scrupoli. E’ chiaro che la vicenda Amati, che
dei riformisti era un capo carismatico, ampliò il baratro che già
esisteva tra i due schieramenti politici del paese. Lo stesso
Giacomini si sentì in dovere di dichiarare in Consiglio che la
vicenda lo addolorava moltissimo per la fiducia che era sempre
stata accordata all’Amati, ma che gli uomini di fronte
all’interesse pubblico non contano, ma solo conta la repubblica
che deve rimanere sempre in alto.
Egli comunque imputava la vicenda più al casalingo sistema
amministrativo sammarinese che ad altro. Quando nel 1919 la
commissione d’inchiesta presenterà le sue risultanze sulla
faccenda,
egli ne approfitterà per ribadire le sue posizioni sulla necessità
della riforma tributaria dichiarando a nome dei socialisti:
Come ora e come sempre la classe dirigente non ha voluto compiere
il suo dovere di fronte allo Stato, preferendo ricorrere agli
espedienti e di qui le fatali conseguenze e le sventure che oggi
dobbiamo lamentare.
Agli inizi del 1917 una quindicina di
socialisti decisero di riunirsi nuovamente per uno scambio di
idee sulla situazione locale, ma anche per ridare al
partito Socialista una vita e una organizzazione propria distinta
e integra, così da rendersi interprete della classe operaia, e
rendersi assertore e propugnatore di una Repubblica
Socialisticamente libera, e civile.
Come si è detto, la Federazione non si riuniva più dal 21 maggio
1915, ma alla fine la riunione si sciolse con la decisione di
ricostituirla nelle sue piene funzioni.
Essa tornò a riunirsi il 18 maggio per
parlare della requisizione del grano, che i socialisti volevano
effettuata a prezzi molto inferiori a quelli italiani perché il
locale mondo padronale era favorito da una bassa fiscalità e anche
da una manovalanza a prezzi inferiori del circondario. Inoltre si
parlò della scuola professionale che si voleva finalmente avviare.
Una terza adunanza fu fatta il 4
novembre, presenti questa volta anche i giovani socialisti del
nuovo circolo Jean Juarez.
Tutta la serata fu dedicata al problema di ricreare un organo di
stampa e al metodo per rimediare i soldi necessari.
Nel 1918, con l’avvicinarsi della fine
della Grande Guerra, i problemi per San Marino aumentarono
notevolmente, soprattutto quelli legati alla fragile e deficitaria
situazione economica, al caroviveri, per l’inflazione galoppante,
alla disoccupazione, dovuta alla carenza di lavoro e al rientro di
centinaia di emigrati. Questi saranno i principali problemi a cui
il partito socialista cercherà di fornire risposte, insieme alla
riforma istituzionale che propugnerà in continuazione sia per
rendere la Repubblica meno medievale, come spesso la
etichettava, sia per cercare di creare strumenti politici nuovi
capaci di aumentare la democrazia e lenire l’oligarchia che
ancora, a suo giudizio, caratterizzava il paese.
L’anno si aprì con la morte, in data
22 gennaio, del vecchio segretario degli esteri Menetto Bonelli,
uomo stimato anche dai socialisti. Sussisteva ora il problema di
sostituirlo o di abolire tale carica, ipotesi già ventilata da un
vecchio progetto di Gostoli di una decina di anni prima, che il
gruppo socialista condivideva, perché in questo periodo tale
carica era preposta a mansioni piuttosto modeste che potevano
essere comodamente inglobate da altri uffici. I socialisti,
inoltre, pretendevano che, se fosse stato mantenuta, venissero
definiti bene i suoi compiti e funzioni, sempre per quel bisogno
che avvertivano di creare una pubblica amministrazione meno
caotica e più regolamentata. Vi era invece chi voleva mantenere la
Segreteria così, chi voleva nominare il Segretario per chiamata,
chi per concorso, e tante altre ipotesi ancora. Per tutta la prima
metà dell’anno si discusse sul da farsi, finché, dopo ripetute
votazioni, si decise di lasciare tutto com’era e di nominare per
chiamata il giovane Giuliano Gozi. Costui, pur non venendo
criticato come persona, non risultava gradito ai socialisti perché
considerato uomo della borghesia: Gli agrari ed i loro accoliti
perseguono l’intento di fortificarsi al governo, circondandosi di
sentinelle vigili che paghino colla devozione il debito della
gratitudine, dissero sul loro periodico, che nel frattempo era
stato rigenerato col nome di Nuovo Titano. Inoltre
l’elezione di Gozi, sempre secondo loro, era stata fatta
calpestando leggi, diritti e convenienze.
Nel Consiglio del 14 marzo si tornò a
discutere animatamente dei problemi economici della Repubblica,
perché Protogene Belloni presentò un suo lungo e articolato
progetto finanziario che prevedeva un colossale prestito di otto
milioni di dollari da parte dell’America con cui rifare
praticamente il paese da cima a fondo. I socialisti naturalmente
andarono su tutte le furie perché si continuava a pensare di
sistemare le finanze attraverso espedienti e stratagemmi, ma non
tramite l’unica strada che per loro era da percorrere: la riforma
tributaria. Non si stende la mano ad un altro popolo quando ci
sono delle classi qui che non hanno cominciato a fare il loro
dovere, dissero nell’aula consigliare. Noi non dobbiamo più
vivere una vita parassitaria. Chi vuole godere la libertà in
qualche modo bisogna che la paghi. Ovviamente del progetto
Belloni alla fine non si fece nulla.
Franciosi tornò alla carica con l’idea
della riforma tributaria nel Consiglio del 30 aprile. Di nuovo
grandi discussioni, ma ancora una volta tutto rimandato a tempi
indefiniti.
Un progetto socialista che riuscì
invece a concretizzarsi in questo periodo fu l’Ente Autonomo dei
Consumi, uno spaccio di generi di prima necessità la cui
politica era quella di vendere a prezzi molto bassi, dietro
tesseramento, per favorire i ceti più disagiati. L’iniziativa, che
come si è visto era già rincorsa da tempo, prese vita da un’altra
istanza presentata al Consiglio, questa volta dall’Associazione
operaia, spalleggiata naturalmente dalla Società Unione Mutuo
Soccorso e dai socialisti, il 1° dicembre 1917 e messa a punto
all’interno di una riunione del 30 novembre. In questa occasione
s’inoltrò al Consiglio anche un progetto di statuto/regolamento
dell’Ente. La petizione venne sottoscritta da nove leghe, ovvero
da quasi tutto il mondo operaio sammarinese. Il Consiglio si
dimostrò favorevole alla proposta e l’approvò in data 20 aprile
stanziando a suo vantaggio 50.000 lire.
Nel giro di un mese l’Ente poteva
contare già su 816 soci, tuttavia iniziò la sua attività il 1°
settembre, dapprima con una sede in Città, seguita in breve tempo
da una in Borgo ed un’altra a Serravalle. L’iniziativa riscontrò
grande successo: già nei suoi primi quattro mesi di vita registrò
un utile netto di 4.000 lire.
Negli anni successivi i suoi affari aumentarono ulteriormente,
tanto che in una sua riunione tenuta il 2 febbraio 1921 si
registrò che nell’anno appena trascorso aveva avuto un incasso
complessivo di lire 1.067.787, con un utile di 47.015 lire. Di
questo guadagno 1.500 £. vennero date alla nuova Camera del
lavoro, a cui accenneremo fra breve, altre 1.500 all’erigenda casa
del popolo di Serravalle, 700 per un asilo “laico” che si voleva
costruire in contrapposizione agli altri asili del paese gestiti
dai clericali, 1.000 per mandare fanciulli bisognosi al mare per
curarsi.
Anche negli anni precedenti l’Ente investì parte dei suoi utili in
opere umanitarie o a vantaggio delle iniziative di stampo
socialista. Insieme all’Ente nacque l’Associazione dei
consumatori, sempre con lo scopo di vigilare sui prezzi e la
qualità delle mercanzie.
Di sicuro l’Ente dei Consumi non
s’inserì nella società sammarinese senza creare qualche problema.
In effetti la sua concorrenza diede non poco fastidio ai
commercianti locali, che protestarono a lungo con le autorità,
trovando naturalmente appoggi e alleanze nei tanti nemici
dei socialisti; tuttavia tali lagnanze non ebbero esiti immediati.
E’ chiaro che la logica su cui era sorto l’Ente era antiborghese e
filoproletaria, come la politica di requisizione del grano e di
altri prodotti su cui c’erano già stati aspri scontri in
precedenza, come abbiamo già detto, e su cui ce ne saranno ancora.
Questo modo di fare fu parecchio inviso quindi al mondo possidente
e padronale della Repubblica che, appena potrà, annullerà o
affievolirà tali iniziative.
Nel 1918 vi furono le elezioni per
rinnovare un terzo del Consiglio. Per la verità non passava anno
in cui non ci fossero elezioni in qualche Castello, per il
ricorrente problema di dover reintegrare il numero di sessanta
consiglieri che non era mai completo. Tuttavia, per effetto della
legge elettorale dell’epoca, le elezioni più importanti avvenivano
ogni tre anni. Per affrontarle come meritavano, i socialisti
pensarono di trovare un’alleanza con gli operai così da creare un
forte gruppo capace di ottenere un buon successo.
Nella riunione del 14 maggio della
loro Federazione misero a punto un programma da presentare alle
leghe operaie, in cui ribadirono ancora una volta le loro
proposte, più o meno sempre le stesse degli anni precedenti,
ovvero: democratizzazione della repubblica in prosecuzione
dell’opera iniziata con l’arengo, riforma della pubblica
amministrazione sulla base del controllo dei pubblici
amministratori, penalmente e civilmente perseguibili, elezione dei
Reggenti per voto diretto, laicizzazione dello stato e
introduzione del matrimonio civile, rigida autonomia e pari e
dignitosa reciprocanza con l’Italia, valorizzazione delle
capacità lavorative locali, utilizzazione delle forze idriche e
delle ricchezze del sottosuolo, impulso all’industria per
risolvere il problema della disoccupazione, e per limitare
l’emigrazione, sviluppo dell’assistenza e della previdenza
sociale, assicurazione contro l’infortunio, la malattia, la
disoccupazione, la vecchiaia, legislazione protettiva
dell’infanzia e del lavoro, incremento del turismo e sviluppo dei
trasporti pubblici, avviamento alla socializzazione della terra
con la formazione di un demanio pubblico costituito dalle
proprietà governative e degli enti locali ampliato da graduali
espropriazioni di interesse collettivo, regolamentazione
tecnica della cultura e della produzione agricola, cattedra
ambulante di agricoltura, riforma tributaria progressiva, imposta
sui beni ereditari, estensione dei monopoli e servizi di stato,
difesa dei consumi popolari disciplinando maggiormente
gl’interventi di requisizione annonaria, sviluppo dell’ente
autonomo dei consumi, incremento dell’istruzione popolare e
dell’assistenza scolastica, istituzione di giardini d’infanzia e
di biblioteche popolari, sviluppo della scuola professionale di
arti e mestieri e d’istruzione agraria, cura dell’igiene pubblica,
incremento del consorzio delle case popolari, legge sul
risanamento igienico delle abitazioni coloniche.
Queste richieste caratterizzeranno il socialismo nostrano per gli
anni a seguire fino all’ascesa del fascismo, e verranno quasi
tutte puntualmente riprese e perseguite dopo il crollo del regime.
Alla fine di maggio vi furono incontri
tra socialisti ed operai per definire la collaborazione politica
ed i candidati da presentare. La linea politica si dimostrò
azzeccata perché nelle elezioni del 9 giugno il Gruppo
Socialista – Operaio, come si definì, entrò in Consiglio con
ben 14 rappresentanti.
Nel Consiglio del 20 giugno Franciosi
volle fare una dichiarazione a nome del gruppo:
Egregi Colleghi, Le elezioni del 9
corrente hanno sensibilmente aumentato di numero il Gruppo, pel
quale ho l’onore di parlare e che dalla volontà del popolo ha
veduto approvare in modo così esplicito e caldo la sua opera e il
suo programma.
Ho l’incarico di dire che
incoraggiato in tale maniera dal consenso della maggioranza degli
elettori nelle due principali circoscrizioni della Repubblica, il
nostro Gruppo ha ragione di perseverare nell’indirizzo fin qui
seguito e che voi tutti conoscete se anche non apprezzate il suo
giusto valore.
Noi che siamo investiti dal mandato
di rappresentanza del popolo lavoratore, interpretiamo i bisogni e
le aspirazioni della Repubblica proletaria e siamo qui a
difenderla, a garantirla nel suo divenire, a prepararle l’avvento
futuro, qui dove voi – che siete maggioranza – esercitate la legge
e il potere che sono strumenti di governo di un assetto sociale
antico che deve modificarsi progressivamente a vantaggio della
collettività.
Noi e Voi adunque abbiamo una
funzione sociale diversa che esprime un contrasto d’interessi e di
opinioni che ci auguriamo sia esercitata in modo fecondo e civile.
Cerchiamo scambievolmente
d’intendere la legittimità delle nostre opposte posizioni, dei
nostri opposti interessi.
Come noi comprendiamo che voi
difendete un ordine di cose, un patrimonio d’idee che ha le sue
ragioni storiche e morali di resistenza alle nuove correnti, così
Voi dovete comprendere a vostra volta che l’opera di noi
lavoratori del pensiero e del braccio non è determinata da
interessi di categoria, ma sebbene di una forza nuova che matura
nella società e che tende, nell’interesse morale ed economico più
grande e generale, farsi largo nella vita sociale per modificarla
e rendere la Repubblica corrispondente alle imperiose necessità
dei tempi.
Se ogni parte intenderà la ragione
legittima e logica di questo compito e ciascuna vorrà assolverla
in modo civile, la Repubblica – che tutti amiamo – ne avrà
vantaggio perché il bene non può scaturire che dal cozzo delle
idee.
E’ certa in noi che la fiducia
delle idee, che gl’interessi, che l’ansito di vita che noi
interpretiamo, avrà col tempo la prevalenza. Frattanto sappiamo di
essere una minoranza e come tale, senza ricusare quelle
responsabilità che conseguono dall’esercizio del mandato che ci è
stato conferito, noi restiamo nel nostro ufficio di opposizione,
di controllo, di critica che è in ogni paese civile necessaria.
Lasciamo a Voi piena ed intera
l’azione del Governo esecutivo, a Voi che siete maggioranza, a Voi
che agite in una sfera di cose e di sistemi che non sono quelli
che Noi auguriamo.
Per questo noi siamo decisi a non
partecipare né alla suprema magistratura, né al Congresso di
Stato; ciò è imposto a Noi e a Voi dalla nostra rispettiva
funzione.
In altro terreno la nostra azione
può coincidere con la vostra vantaggiosamente, e cioè nelle
riforme del funzionamento amministrativo e della riorganizzazione
dello Stato che ha d’uopo di effettuarsi con sollecitudine per il
migliore e più felice andamento della Repubblica.
I socialisti dunque si collocavano
all’opposizione deliberatamente, dichiarando in pratica di non
volersi confondere con il resto del Consiglio, salvo casi
eccezionali. Il fallimento del Blocco Democratico aveva
senza dubbio lasciato segni profondi, e l’atteggiamento
isolazionista del gruppo socialista – operaio ne era la principale
conseguenza. E’ chiaro, comunque, che con tale posizione,
destinata ad inasprirsi ancor più, diveniva praticamente
utopistico por mano alle grandi riforme cui miravano, in primis
quelle istituzionali, su cui si discuterà a lungo nel ’18.
Come si è visto, nel 1917 i socialisti
avevano presentato in Consiglio, tramite istanza d’arengo, un
progetto per la riforma dei poteri pubblici che, pur essendo in
parte anche temperato rispetto a quelle che potevano essere
rivendicazioni tipiche della loro mentalità, ambiva comunque a
mutare alcuni istituti secolari della Repubblica, come la
Reggenza, ed altri più recenti, come il Congresso, ovvero, come lo
chiamavano loro, il Consiglio di Stato.
Lo stesso progetto, non essendo stato
discusso in Consiglio perché la Reggenza non lo aveva mai portato,
venne ripresentato nell’arengo del 7 aprile 1918. Esso mirava a
rendere più moderna la locale costituzione distinguendo nettamente
il potere legislativo da quello esecutivo e a creare finalmente
anche a San Marino una maggioranza organica di governo. I
socialisti, in prosecuzione alle riforme costituzionali
iniziate nell’Arengo del 1906, volevano trasformazioni
sostanziali. L’arengo infatti si era fermato al diritto di voto,
ma riforme politiche ben più profonde ne dovevano essere il
seguito. In realtà non vi si era mai giunti perché erano state
bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie di
utopisti sventati.
Secondo i socialisti, il sistema
sammarinese nello spirito morale e politico che lo informa e
nel criterio amministrativo che lo guida, era la negazione
di una bene ordinata democrazia. A San Marino mancava infatti
un governo vero e proprio e la Reggenza durava troppo poco per
assumersi l’onere di fare riforme di un certo peso
Essi avrebbero voluto, come
aspirazione massima, creare un presidente della repubblica con
durata maggiore, eletto per consapevole e precisa indicazione
della maggioranza, che avesse una fede, una volontà, un
programma garantiti dal gruppo consigliare che si assumeva la
responsabilità di pilotare la cosa pubblica. Questa soluzione era
considerata quella ideale, però si sarebbero accontentati, come
soluzione meno drammatica, anche di una Reggenza elettiva che
avesse un mandato più lungo e che non dovesse seguire tutti i
lavori politici, ma solo quelli più rappresentativi.
Il discorso sulla Reggenza era assai
importante per i socialisti, perché in questi anni, in cui non
c’era una vera e propria maggioranza di governo, ma maggioranze
che si assemblavano all’occorrenza sui singoli problemi, e non
c’era nemmeno un sistema burocratico ed amministrativo ben
organizzato ed autonomo, i Reggenti, come nei secoli precedenti,
avevano poteri molto più ampi di quelli che hanno oggi. Inoltre
tutto ciò che si faceva o non faceva era legato al loro attivismo
e alle loro capacità. Da qui il bisogno di una Reggenza
efficiente che fosse espressione di un gruppo di potere con
intendimenti e progetti chiari e precisi.
Il Congresso inoltre doveva essere
investito di funzioni di governo e diviso in dicasteri o
deputazioni, cioè:
1)
affari politici e diplomatici, giustizia, sicurezza
pubblica, milizia;
2)
finanze ed economato
3)
lavori pubblici
4)
istruzione
5)
annona, agricoltura, industria e commercio
6)
sanità e igiene
7)
stato civile
8)
poste, telegrafi, telefoni e comunicazioni
9)
beneficenza e assistenza
Esso doveva preparare le materie da
esaminare in Consiglio e con cui fare le leggi. La Commissione di
Bilancio infine doveva avere funzioni finanziarie fondamentali.
(appendice n° 6)
Il progetto venne discusso finalmente
nel Consiglio del 30 aprile, dopo che i Capitani Reggenti vollero
fare un invito alla cooperazione: La questione ponderosa che
oggi viene agitata, non è né deve essere monopolio di alcuno, ma
deve essere guidata dal consentimento di tutti compresi di un alto
interesse pubblico che alle loro ragioni sovrasta, estraneo e
superiore a qualunque competizione di classe e spirito di parte.
La coscienza dei bisogni, la visione dei mali non può sfuggire ad
alcuno, quale che sia la sua tendenza; e non può essere che
unanime il desiderio di cooperare a quei provvedimenti che
rispondono alle mutate condizioni politiche e trasformazioni
sociali.
Giacomini sottolineò che concordava
pienamente con la Reggenza e che occorreva trovare
l’accordo di tutte le parti del Consiglio, se si voleva
arrivare ad una radicale riforma degli istituti locali di cui vi
era impellente necessità. Siamo di fronte alla mancanza
di coordinazione. C’è la Reggenza la quale ha una vita troppo
breve e non può dare espletamento al suo programma, costretta anzi
a lasciare sospesi i migliori commi da essa progettati. C’è il
Congresso di Stato che in embrione rappresenta l’unico organo
amministrativo della Repubblica; ma non ha forza né autorità nelle
forme in cui è eletto e nel modo in cui funziona. Tutti dicono che
non si va e non si cammina, ma nessuno persiste nell’idea di
fronteggiare la situazione e risolverla nel modo migliore. Si
formi innanzi tutto l’amministrazione senza creare novità, ma
rifacendosi ai principi che sono già in uso.
Intervennero in seguito alcuni degli
uomini più carismatici del Consiglio, Babboni, Moro Morri,
Protogene Belloni ed altri per sostenere che erano d’accordo sul
bisogno di cambiare il sistema amministrativo, senza toccare però
l’istituto della Reggenza. Alla fine fu accettato per 34 voti
contro 4 di mettere mano alla riforma degli istituti
amministrativi dello stato, evitando però di modificare quello
della Reggenza. Fu deciso che nella seduta consigliare successiva
sarebbe stata ricomposta una commissione per porre mano alla
riforma.
Come sempre succedeva a San Marino
quando era ora di mettere mano a riforme piuttosto consistenti ed
estremamente impegnative, si tergiversò a lungo e non fu
nell’immediato nominata nessuna commissione per approfondire il
problema. Nel frattempo i socialisti continuarono ad uscire
dall’aula consigliare per ogni elezione semestrale della
Reggenza in segno di totale disaccordo sul metodo di nomina
utilizzato.
L’8 novembre 1919 in Consiglio venne
ridiscusso il problema giungendo finalmente all’istituzione della
commissione suddetta. Vi fu prima ampia discussione, in
particolare tra i socialisti e Giuliano Gozi, sempre più agli
antipodi tra loro. Gozi, sorretto nel suo pensiero anche dal
fratello Manlio, asserì che nelle riforme istituzionali si dovesse
procedere con saggezza ed estrema cautela, perché sebbene vi
fossero realmente istituti e uffici da riformare, nei Sammarinesi
mancava totalmente lo spirito di sacrificio, l’amore per la
pubblica cosa, la forza di carattere. La popolazione tutto
voleva e tutto si aspettava dal governo, ma non contribuiva a far
funzionare quegl’istituti che potevano farlo con un minimo di
buona volontà da parte di tutti. Tra l’altro molti tra i cittadini
migliori non volevano avere nulla a che fare con la politica ed il
Consiglio, mentre chi vi era coinvolto per non farsi odiare o
crearsi nemici era costretto a dire sì a tutti. Per questo ai
vertici del paese era giunta anche gente dalla moralità dubbia.
L’egoismo, l’opportunismo, l’ambizione costituiscono una piaga che
non può essere curata da nessuna riforma legislativa, ma soltanto
dal riflesso salutare di nuove e ben educate generazioni. Da
qualche tempo si era iniziato ad attuare riforme radicali, che
d’un tratto hanno demolito nella Repubblica secolare il sistema
patriarcale di famiglia di governo; inoltre per l’avvento
al potere di uomini nuovi, il filo della consuetudine è andato
sempre più smarrendosi sì che oggi la confusione trionfa.
Ovviamente l’attacco era contro i
socialisti. Il discorso comunque è assai interessante se si mette
in relazione al fatto che i Gozi saranno a capo del fascismo
sammarinese, e cercheranno soprattutto di ripristinare proprio
quel sistema di governo patriarcale di famiglia qui
apologizzato.
Gozi proseguiva il suo discorso
dicendo che ormai non erano chiare le funzioni di nessun istituto
sammarinese e che tutti giocavano allo scaricabarile dichiarandosi
incompetenti a prendere le decisioni più importanti e paralizzando
così la vita dello stato. Concludeva suggerendo qualche riforma e
ammonendo di far attenzione all’instaurazione di nuove oligarchie,
sempre possibili quando si andava a toccare un sistema
istituzionale che aveva dato buona prova di sé per tanti secoli.
Si badi che la riforma certamente arrecherà dei vantaggi, ma ci
esporrà anche a dei pericoli che sinora abbiamo evitati. Cito ad
esempio alcuni casi augurando che siano sventati. Oggi chi decide
per lo più è un organo collegiale, nel quale la responsabilità dei
singoli componenti non è sentita, ed è un male; però in ogni
singolo componente c’è maggiore possibilità di non soggiacere a
minacce e corruzioni e quindi di ostacolare ogni ingiusta pretesa;
e questo è un bene. Domani avverrà l’opposto: i termini saranno
invertiti, ma il bene e il male si equilibreranno ugualmente.
Ancora nei secoli passati l’Arengo si sentì numeroso e delegò i
poteri ad un Consiglio dei LX; oggi il Consiglio dei LX si sente
pur esso numeroso e delega i suoi poteri ad un Congresso dei X più
ristretto, non avverrà che in un giorno più o meno lontano anche
questo Congresso si senta numeroso e deleghi i suoi poteri a
pochissimi se non ad un solo individuo? Nei tempi passati in seno
al Consiglio si formarono delle oligarchie che ebbero il
predominio nella cosa pubblica e che sono state abbattute; ma non
vi pare in sostanza che si sia in procinto di costituirne una
nuova? C’è una differenza però: la vecchia oligarchia si costituì,
per forza di cose, di ottimati, di migliori uomini del Consiglio
ed esercitò il suo predominio in seno al Consiglio; questa nuova
invece verrà costituita per volontà di uomini sarà appartata dal
Consiglio e forse non risulterà formata dei migliori uomini di
esso. Infatti si osserva una spiccata tendenza nei Consiglieri di
divedersi in gruppi, in sotto gruppi a seconda dei diversi
principi e delle diverse influenze personali, ciascuno dei quali
vorrà acquistare il Governo e coprire tutti i seggi del Congresso.
Oggi un gruppo può farlo anche con persone mediocri, ma domani
quando per ciascun seggio occorrerà una persona di speciale
competenza lo potrà senza danno della Repubblica? Se non lo potrà,
richiederà con fortuna le persone competenti ai gruppi avversi? E
allora? Attenti alla dittatura! Sia dunque la riforma diretta a
rinsaldare il buon sistema di Governo, ma sin dall’inizio sventi
ogni e qualsiasi speculazione politica.
Gino Giacomini anche in questa
occasione ribatté immediatamente con foga le tesi di Gozi,
rispolverando per l’ennesima volta i soliti concetti propugnati
dal suo partito. Tuttavia nei mesi successivi non si giunse a
nulla in ambito istituzionale. Infatti i socialisti, esaltati da
quanto stava accadendo in Russia, arrivarono ad assumere posizioni
diverse rispetto agli anni precedenti. Adesso infatti si
convinsero che non era più sufficiente attuare piccole riforme, ma
occorreva abbattere del tutto il sistema borghese. La crisi
della società borghese e di questa repubblica medievale per noi è
definitiva. Non v’è riforma costituzionale che possa risolverla.
L’unica soluzione possibile era l’ascesa al potere del
proletariato. Saltò quindi qualunque opportunità di fare riforme
istituzionali, anche quelle su cui stava lavorando la commissione
preposta. Solo dopo la seconda guerra mondiale, quando al governo
della Repubblica andranno le sinistre, alcune delle riforme
istituzionali auspicate dai socialisti potranno avere finalmente
vita.
La novità del 1918 e soprattutto degli
anni successivi fu indubbiamente il tono più radicale e
massimalista, come si diceva all’epoca, assunto dal partito.
D’altronde anche in Italia, nel congresso socialista svoltosi a
Roma proprio in quell’anno, aveva preso il sopravvento l’ala
intransigente del partito, che subito aveva fatto un manifesto per
istigare gli operai alla rivolta contro la borghesia e il regime
che si era instaurato durante la guerra. L’ala riformista, più
temperata, si trovava ormai in posizioni di assoluto subordine, ma
aveva preso ugualmente la distanza dall’altra sconfessando le sue
linee più estremiste. Comunque ora aveva innegabilmente meno peso
nelle deliberazioni del partito.
Anche a San Marino il socialismo era
sempre più caratterizzato da più anime e adesso quella che
prevaleva e che prevarrà fino all’epoca fascista era proprio
quella massimalista, ben personificata da Gino Giacomini, ma anche
dalla maggior parte degli aderenti al partito. Pietro Franciosi,
da sempre meno focoso di Giacomini e più legato ad un socialismo
poco rivoluzionario e più parlamentare, disposto a cercare
collaborazioni trasversali con gli altri gruppi politici, anche
borghesi, per ottenere qualcuna delle riforme da lui tanto
auspicate, accetterà per forza di cose e per evoluzione d’eventi
in silenzio il massimalismo, anche se all’interno delle sporadiche
riunioni socialiste di questi anni si discuterà varie volte della
tendenza da assumere, ma prevarrà sempre ad ampia maggioranza
quella massimalista, relegando i pochi “concentrazionisti”, come
si chiameranno i socialisti moderati in questo periodo, in
posizioni di netta minoranza.
Il desiderio quindi sempre più
espresso sarà quello di favorire e proteggere gli sforzi che i
lavoratori sammarinesi sentiranno il bisogno di compiere
attraverso le varie forme dell’organizzazione di classe per
assurgere da gregge brucante e belante alla dignità di popolo
civile, così da creare una repubblica proletaria con la classe
operaia al governo. Tuttavia si aveva piena consapevolezza che la
classe operaia ancora non era pronta per assumersi un ruolo così
impegnativo. Infatti la si reputava poco organizzata e troppo
frammentata da divisioni interne per poter aspirare di andare al
governo e sostituirsi alla borghesia, perché a San Marino non
aveva potuto godere di alcun tipo d’industrializzazione, e questo
ne aveva impedito un’adeguata preparazione e strutturazione. Per
risolvere questo problema, e per poter coagulare tutti i
lavoratori sammarinesi, compresi i contadini, che erano ancora in
gran parte ostili al socialismo e fedeli alle classi conservatrici
e clericali, si pensava che fosse indispensabile mettersi a
contatto con le organizzazioni operaie dell’Italia e del mondo, e
seguirne con fedeltà e coscienza le orme e le direttive, ed
osservare i postulati proclamati nei Congressi nazionali e
internazionali dalle rappresentanze del proletariato, insieme
alla creazione di una Camera del Lavoro, antico pallino di
Franciosi, in cui la massa operaia, attraverso alle singole
organizzazioni di categoria, trovi l’organo capace di disciplinare
le sue forze economiche e politiche liberate dagli egoismi
particolaristici, dalle rivalità personali e dagli insani appetiti
che costituiscono gli elementi disgregatori per eccellenza, per
diffondere e infondere lo spirito fecondo ed epuratore della
solidarietà di classe, destinato a confondersi ed integrarsi con
l’altro più comprensivo della solidarietà sociale.
Questo istituto, che doveva servire
anche per inviare nel Consiglio i primi rappresentanti del
proletariato organizzato sammarinese per difendere i diritti del
lavoro contro ogni forma di sfruttamento, prese vita proprio
negli anni in questione. Su tale argomento venne svolto il comizio
del 1° maggio del 1918 e tanti altri comizi in giro per la
Repubblica, così come tutta l’organizzazione della Camera fu
ampiamente discussa e curata dentro diverse riunioni della sezione
socialista di Città, che in questi anni continuava ad operare
saltuariamente. Proprio nella sua adunanza del 14 dicembre 1918 si
diede l’input definitivo alla costituzione della Camera, dapprima
riunendosi varie volte con tutte le categorie operaie, che in data
16 aprile 1919 delegarono alla sua costituzione Giacomini,
Franciosi e Alfredo Casali, poi cercando con meticolosità un
segretario idoneo a tale compito gravoso e innovativo per San
Marino.
Non ci sarà occasione, insomma, in cui verrà trascurato il
desiderio di giungere alla creazione della Camera. Questo istituto
ebbe qualche difficoltà a partire perché non fu semplice trovare
un segretario stimato e reputato capace di rendere le categorie
operaie sammarinesi, da sempre soggette al sottile veleno del
corporativismo, unite e soprattutto più disciplinate e
corrette.
D’altra parte la mira ora era quella
di sostituirsi prima o poi alla borghesia che governava, accusata
di essere parassitaria ed incapace di gestire la cosa pubblica se
non mirando solo ai propri interessi. La maggioranza che siede
in Consiglio si esime da ogni obbligo di organizzazione. In questo
modo la classe borghese compie il sabotaggio della Repubblica,
detiene il potere e si rende assente da esso, regna ma non
governa; gode ma non paga, comanda ma non lavora. (…) Quel
che chiediamo, quel che cerchiamo, nell’ordine stesso di una
società che conserva i suoi più originali e antichi caratteri
borghesi, è un governo, governo di classe, di fazione, di
feudalità, sia pure armato di qualunque difesa contro il
proletariato che sorge e si prepara, ma che abbia un sistema, una
costruzione, un funzionamento e infine una responsabilità.
Tali polemiche erano scaturite dalle
gravi difficoltà che vi furono nei mesi estivi per radunare il
Consiglio. In pratica dal 13 luglio esso era andato continuamente
deserto per mancanza del numero legale fino alla fine di novembre.
La causa di ciò era stata la seduta consigliare del 27 giugno, e
l’ennesima discussione sulla requisizione del grano, che aveva
determinato la sospensione della seduta stessa per le turbolenze
scoppiate. In Italia infatti il grano veniva requisito a 120/150
lire al quintale, cioè ad un prezzo alto perché se ne voleva
mantenere elevata la produzione. A San Marino si discuteva di
requisirlo invece a 50/60 lire in quantità sufficiente a coprire
il fabbisogno interno. Ovviamente i proprietari terrieri erano
tutt’altro che d’accordo di svendere il loro prodotto a prezzi
così bassi e si accapigliarono fortemente coi socialisti, con
Giacomini in particolare che continuò ad accusarli di voler fare
solo speculazioni e togliere il pane alla povera gente.
Gli agrari, ormai in aperto dissidio,
si riunirono alla Fiorina per conto loro. Nella seduta consigliare
del 13 luglio si riuscì tuttavia a deliberare: per 25 voti contro
24 passò la requisizione a 50 lire al quintale. Da qui il
boicottaggio dei Consigli fino al 26 novembre. Gli agrari
parlarono di sopraffazione e tirannia degli uomini nuovi,
mentre i socialisti sostenevano che c’era una classe borghese
tardiva che stava impazzendo sempre più. Tra l’altro, pur
riconoscendo che il prezzo di requisizione era basso, continuavano
a sostenere che a San Marino le classi abbienti non pagavano
praticamente tasse, contrariamente a quelle italiane, per cui
potevano anche tacere se i loro prodotti venivano requisiti a
prezzi inferiori.
Le requisizioni negli anni seguenti
andarono quasi sempre maluccio, perché buona parte dei prodotti da
incamerare prendevano di nascosto la strada per il mercato
italiano, dov’erano meglio pagati. Non era facile per San Marino,
con le scarse forze dell’ordine di cui disponeva (3 carabinieri),
e un ufficio annonario composto da impiegati non professionisti a
tempo pieno, controllare la produzione e lo stoccaggio dei
prodotti agricoli. Le requisizioni verranno estese anche al vino,
alle olive, all’olio e ad altri prodotti, così come verranno
emessi tanti decreti per consentire ai Sammarinesi di avere
prodotti a prezzi esigui,
ma esse forniranno sempre risultati inferiori alle aspettative e
alle necessità del paese, tanto che nel 1919 la Repubblica sarà
costretta ancora una volta a comperare derrate dall’Italia,
nonostante che la produzione locale fosse ampiamente sufficiente
per garantire il fabbisogno interno. Il 19 agosto di quell’anno vi
furono anche tumulti provocati dalla requisizione del vino, poiché
parecchi operai, arrabbiati dal fatto che i cantinieri
continuassero ad esportare vino o a venderlo a prezzi superiori di
quelli previsti per legge, si erano recati nella cantina del
Borgo, insieme ai gendarmi e ad un’apposita commissione, per
verificarne la quantità. Per evitare ulteriori pericolose
polemiche, venne stabilito che il 40% delle giacenze fosse
riservato alla cittadinanza col prezzo previsto dal calmiere.
La scarsa collaborazione della classe
padronale, accusata senza mezzi termini di voler affamare la gente
e di pensare solo al proprio tornaconto anche in un momento grave
per la Repubblica, farà montare su tutte le furie i socialisti,
che accentueranno via via i loro toni antiborghesi esasperando al
massimo le tensioni con i ceti che consideravano nemici loro e del
popolo.
Un’altra battaglia che combatteranno,
legata sempre al loro odio contro i borghesi, sarà quella fiscale,
su cui premevano fin dal 1898, ovvero fin dai loro primi vagiti.
In questi anni i socialisti batterono in continuazione
sull’esigenza di istituire una riforma tributaria in grado di
colpire soprattutto i più benestanti. Abbiamo già visto come
questa richiesta sia stata alla base della spaccatura del
Blocco Democratico nel 1915. I socialisti tuttavia
presentarono l’ennesima istanza per istituire la riforma
tributaria progressiva nella seduta consigliare del 30 aprile
1918, e Giacomini affermò che occorreva moralizzare il paese
con un sistema moderno e più giusto d’imposizione, perché le
tasse erano prevalentemente indirette e gravavano soprattutto
sulle masse.
La riforma fiscale era considerata uno strumento di moralizzazione
e di equità sociale, perché tutti avrebbero dovuto pagare in base
al loro censo, e chi meno aveva meno avrebbe dovuto pagare, fino
all’esenzione completa per i più poveri. La riforma, tra l’altro,
era già pronta perché ai socialisti andava bene quella preparata
da Lorenzo Gostoli fin dal 1905, mai entrata in vigore grazie agli
espedienti economici in seguito trovati, in primis il prestito a
premi.
E’ chiaro che, essendo tale lotteria
ormai sospesa per il suicidio di Olinto Amati e per le mancanze di
denaro imputabili proprio alla condotta dello stesso, ora si
dovevano trovare nuovi introiti capaci di supplire al buco che si
era venuto a formare nel bilancio pubblico e che aumentava di anno
in anno. Come si è già ripetutamente detto, comunque, la riforma
tributaria per i socialisti non era solo questo, ma lo strumento
principale con cui si potevano ridurre, se non togliere del tutto
col tempo, le differenze sociali legate alla ricchezza
individuale, così da creare quella società comunista di uguali cui
aspiravano in particolare in questi anni, quando l’esempio russo
aveva creato grandi aspettative in tutti i socialisti d’Europa e
del mondo intero.
Franciosi nel 1918 scrisse vari
articoli sul Titano per esaltare il progetto Gostoli e per
denunciare l’esiguità delle tasse dirette che si pagavano, appena
11.000 lire su 652.492 di entrate, ovvero una percentuale
irrisoria rispetto a quella costituita dalle tasse indirette.
Questa mortificante differenza si vorrebbe giustificata in
Repubblica con un vieto pregiudizio, che con interessato artificio
si tien vivo; che a Sammarino cioè non si debba applicare verun
sistema tributario; altrimenti questo nostro Comune non si
distinguerebbe a tutto rigore da quelli d’Italia. Di qui
l’avversione generale alle tasse che è stata ingenerata con arte
subdola nell’animo di molti per nascondere e conservare il più
odioso dei privilegi – l’esonero della ricchezza da ogni peso –
dando ad intendere alle classi povere e meno agiate che dalle
tasse verrebbe colpito il loro lavoro e non la ricchezza…Menzogna
ed audacia ad un tempo! Che contribuiscono a far sì che le tasse
le continuino a pagare i poveri e i semipoveri su tutto quanto
sono costretti a comprare per i bisogni della vita; mentre la
ricchezza oziosa ed assorbente ne è esonerata. Quest’ultima
affermazione si doveva al fatto che nelle campagne si stavano
aizzando i contadini contro le tasse ed i socialisti che ne erano
i principali sostenitori.
Nel Consiglio del 28 dicembre 1918 se
ne parlò a lungo, con pareri assai discordi. Moro Morri, dietro
incarico dell’Associazione degli Indipendenti, un nuovo
gruppo costituitosi alla fine di aprile di cui faceva parte, che
rappresentava la maggioranza consigliare e che era avverso alla
politica partitica, disse che era necessario fare sacrifici da
parte di tutti, però per la scarsa ricchezza dei Sammarinesi non
pensava che la riforma tributaria progressiva potesse sanare i
problemi economici che vi erano. Invitò dunque il Consiglio ad
evitare i grandi sperperi che lo caratterizzavano da sempre.
Giacomini gli rispose però che la
Repubblica doveva evolversi come faceva il mondo intero e che la
tassa progressiva era necessaria per colpire i più ricchi ed
esentare i poveri, e ciò indipendentemente dalle condizioni del
bilancio. Disse inoltre che la maggioranza rappresentava una
squallida borghesia che non doveva continuare ad accanirsi
contro i socialisti che combattevano le grandi ricchezze, i
tesori accumulati dalla guerra, gl’indebiti lucri. Se non si
voleva naufragare, si dovevano compiere simili sacrifici.
Alla fine venne votato un ordine del
giorno che prevedeva forti economie, limitazione degli sperperi,
riforma del sistema tributario in modo giusto ed equo perché i
cittadini contribuiscano alla vita economica del paese. La
Reggenza fu incaricata di trovare persona competente per elaborare
un progetto perché quello di Gostoli era considerato non più
confacente ai tempi.
Nel giugno dell’anno successivo si affiancò ai consulenti
economici italiani reperiti una commissione di cui faceva parte
Franciosi e, per suggerimento dello stesso, anche Gostoli.
Nel frattempo i socialisti
continuavano a martellare in tutte le sedi possibili urlando che
la Repubblica doveva finalmente uscire da una politica economica
da sempre basata su espedienti, tombole, abilità da pitocchi,
che erano solo mezzucci da sostituirsi in fretta con
mezzi onesti, dignitosi, proprii.
Per contrastare la riforma fiscale, ad
un certo punto rispuntò di nuovo l’idea di riconvocare un arengo,
idea ancora una volta non scaturita dagli ambiti progressisti del
Paese, ma da quelli conservatori riuniti in assemblea a Serravalle
agli inizi del 1919, che pensavano tra l’altro di verificare se il
nuovo sistema politico instaurato nel 1906 andasse bene, o se
meritasse rivederlo tornando magari all’antico. Ovviamente i
socialisti in questa occasione lo osteggiarono dicendo che prima
occorrevano serie riforme, poi lo si sarebbe potuto anche
convocare come assemblea costituente. Alla fine però l’ipotesi
venne lasciata cadere e di arengo non si parlò più fino alle
elezioni del 1920.
Nei mesi successivi la commissione
studiò il problema accettando in linea di massima il progetto
Gostoli, con la riserva però di sottoporlo a Concino Concini, che
aveva già prodotto per la Repubblica un progetto di organico degli
impiegati nel 1910. Questo fatto, insieme alla scarsa volontà da
parte di molti di renderla davvero esecutiva, allungò il suo iter.
Solo agli inizi del 1920, infatti, risulta che Concini l’avesse
studiato e stesse per riunire la commissione per sottoporle i suoi
giudizi. Nel mese di giugno il Titano fece sentire le sue
critiche perché si stava andando troppo a rilento
nell’elaborazione del progetto fiscale; tuttavia nello stesso mese
venne fatto un decreto reggenziale con cui veniva stabilito che i
periti addetti alla catastazione avevano libero accesso alle
proprietà private pena una multa a chi lo avesse impedito, segno
certo che si stavano inventariando i beni che dovevano costituire
la base imponibile del nuovo sistema fiscale. Il 18 settembre del
1920 il Consiglio venne sciolto e si fecero elezioni anticipate,
per cui la riforma tributaria venne rimandata ancora. Nel
Consiglio nuovo scaturito dalle elezioni del 14 novembre, i 18
socialisti non entrarono per motivi che si spiegheranno più
avanti, per cui ci si limitò, nel 1921, ad aumentare alcune tasse
indirette, suscitando le ire come sempre dei socialisti, e a
bandire un prestito forzoso che diede comunque risultati modesti
ed insufficienti ai fabbisogni del periodo. La nuova riforma
fiscale venne promulgata solo il 16 marzo del 1922 dopo che era
stata riveduta ancora, questa volta dal ragioniere Alessandro
Rizzoli.
Questa legge comunque non era proprio
quella auspicata dai socialisti: Il progetto non corrisponde ai
criteri che noi abbiamo in materia fiscale, da applicarsi in un
paese piccolo e nuovo per le tasse come il nostro, dichiarò
Franciosi in un articolo del 19 marzo del ‘22. Il Consiglio veniva
accusato di aver voluto salvaguardare gl’interessi di alcune
categorie, di non aver voluto adottare il sistema semplice di
Gostoli, ma di aver prediletto un progetto misto, un po’
complicato per non dire faragginoso, parte a imposta normale a
base proporzionale e parte a imposta complementare a base
progressiva. Inoltre era stata radiata completamente la
tassa che riguardava i patrimoni; e ciò per sinistra influenza di
quei signori democratici che hanno fatto ancora una volta i loro
interessi, sostenendo il sacro diritto della proprietà inviolabile
ed intangibile. Invece era questa la parte migliore del progetto,
perché l’imposta patrimoniale è di facile applicazione e di sicuro
rendimento. Seguivano anche altre critiche, ma in sostanza si
può sintetizzare che la riforma varata non dava vita ad un sistema
tributario in grado di colpire i grandi capitali e di creare
quell’equità sociale cui i socialisti miravano come esigenza
prioritaria.
Altra iniziativa promossa dai
socialisti in collaborazione con la Società Mutuo Soccorso, che
comunque era costantemente sotto la loro influenza in questi anni,
fu la scuola di arti e mestieri che prese vita tramite
un’articolata relazione letta nella seduta consigliare del 16
marzo 1916. Questa iniziativa, oltre a qualificare mano d’opera
specializzata ritenuta indispensabile per le future industrie che
si volevano impiantare a San Marino, soprattutto per dar lavoro
alla troppa manovalanza disoccupata di questi anni, serviva sempre
per quel progetto complessivo dei socialisti che voleva innalzare
in genere il livello culturale della classe operaia in attesa
dell’imminente suo ingresso ai vertici della società, ascesa che
era considerata entusiasticamente, ma anche con una buona dose
d’ingenuità, imminente. La scuola comunque iniziò le sue lezioni
il 23 gennaio 1919 con tredici iscritti, di cui saranno promossi
in sette. Negli anni successivi il numero degli iscritti scemò
sempre più, perché le famiglie degli studenti spesso non
sostenevano i loro figli per tutti gli anni di scuola (3 + 2)
necessari per diventare abili e qualificati artigiani, mandandoli
a lavorare prima e facendo loro dunque disertare le lezioni. La
scarsa affluenza alla scuola, insieme indubbiamente al nuovo clima
politico che caratterizzò San Marino nei primi anni ’20, fecero sì
che essa venisse ufficialmente soppressa alla fine del 1922.
Nel 1918 si accentuarono ulteriormente
le polemiche tra socialisti e nazionalisti per colpa della guerra
in atto. Negli anni precedenti, come si è già evidenziato, anche
in Repubblica si erano formati schieramenti d’interventisti che
inneggiavano alla partecipazione bellica dell’Italia, beandosi dei
fiumi di retorica che sull’argomento stavano scorrendo. Senza
dubbio i più accesi interventisti erano Giuliano e Manlio Gozi,
due personaggi che poi diventeranno figure chiave del fascismo
sammarinese. Durante il periodo bellico non pochi saranno gli
scontri tra socialisti, il cui atteggiamento era quello del non
aderire né sabotare, ovvero erano schierati sulle stesse
posizioni dei socialisti italiani, e i Gozi. Sul Titano
frequentemente ci saranno sfottò e attacchi nei loro confronti, in
particolare di Manlio, che dai socialisti era considerato una
sorta di traditore perché da posizioni repubblicane ed
anticlericali, si era schierato con i preti contro di loro,
disertando e passando armi e bagagli sotto le ali candide e
protettrici di Don Mularoni, perché nel giugno del ’18 era
stato eletto in Consiglio presso la circoscrizione elettorale,
controllata dai cattolici, di Faetano. Questi scontri da
ideologici diverranno personali, come spesso accadeva e accade in
un paese piccolo e provinciale come San Marino, ed ebbero non poco
peso nell’odio che poi caratterizzerà il fascismo nei confronti di
chi gli era avversario.
Un episodio caratteristico di questo
scontro ce lo racconta il Titano del 21 luglio,
che scatenò polemiche contro due monopolizzatori di
patriottismo, ovvero i Gozi, che durante un
concerto in Città erano stati fischiati e mandati via, almeno
stando a quello che dice l’articolista. Essi erano andati dal
console italiano per dipingere la Repubblica come un
pericolosissimo covo di traditori, di disfattisti e di
bolscevichi, rinforzando l’immagine che della stessa stavano
dando alcuni giornali italiani. Il Popolo d’Italia,
infatti, nello stesso mese aveva sparato su Giacomini e i
socialisti accusandoli di disfattismo, ma Giacomini aveva risposto
tramite lettera dicendo che, pur avverso alla guerra, non aveva
mai pronunciato frasi irriverenti per rispetto al grande sforzo
bellico che stava facendo l’Italia. Lo si accusava di aver detto
Non un soldo, non un indumento per i combattenti. Secondo
lui invece erano alcuni Sammarinesi che spargevano veleno nei suoi
confronti e nei confronti dei suoi compagni. Comunque gli attacchi
dei giornali italiani continuarono, tanto che il 29 luglio il
console italiano Gori si sentì in obbligo di far affiggere un
pubblico manifesto per comunicare che non aveva mai ispirato
accuse o attacchi a San Marino o ai suoi partiti politici sui
giornali italiani, così come si andava dicendo.
Simili polemiche continuarono anche in
seguito, alimentando quell’antisocialismo, e soprattutto quell’odio
e quel desiderio di vendetta verso i suoi uomini più
rappresentativi, Giacomini e Franciosi in testa, che esploderà
pienamente nel ’22 con la presa del potere da parte dei fascisti.
Un altro episodio degno di attenzione,
se non altro perché mai evidenziato da nessuno, avvenne nel
Consiglio del 16 settembre 1919.
In tale occasione il neo eletto Giuliano Gozi, mentre si stava
discutendo di lavori pubblici, disse che la classe operaia era
aumentata a dismisura, passando da 150 a 500 unità, e questo aveva
ampliato il bisogno di fornirle lavoro, facendo dilatare i costi
legati proprio ai lavori pubblici che in cinque anni erano passati
da 200.000 a più di 1.000.000 di lire. La colpa era senza dubbio
da attribuirsi all’aumento dei prezzi della mano d’opera, ma
soprattutto all’ingrossamento del ceto operaio. Per scopi
elettorali e politici si sono tolti i contadini dalle campagne per
iscriverli nelle leghe operaie, si sono eccessivamente protetti
tanti cittadini dubbi e che non ricordavano nemmeno più di essere
tali e di poterlo divenire, per iscriverli ugualmente nelle leghe
operaie.
Ovviamente la critica era diretta ai
socialisti (accuso voi, socialisti, che li avete guidati e li
guidate e che mostrando di fare il loro bene avete loro procurato
niente altro che male ed insieme male alla Repubblica) che,
anche grazie alla politica annonaria che stavano perseguendo,
continuavano a favorire la fuga dalle campagne: Il contadino,
lavoratore per eccellenza, che è danneggiato dalla politica
annonaria come il grasso borghese e forse più, diserta e
diserterà la campagna, attratto dai più lauti guadagni del
bracciantato. Gozi era convinto comunque che vi fosse un
sistema per porre rimedio: Occorre riparare subito con savi
provvedimenti, se vogliamo salvare la Repubblica dal precipizio, e
soprattutto con la retta scuola di educazione morale politica e
civile.
La filippica di Gozi scatenò
all’istante la reazione veemente di Giacomini, che naturalmente si
sentiva attaccato in prima persona, e che perorò la causa della
classe operaia, fortemente disoccupata in quel frangente storico e
con gravi difficoltà anche di semplice sopravvivenza. Il governo
aveva gravi colpe in questo, disse, perché non si era mai pensato
di utilizzare la classe operaia a lavori produttivi e
maggiormente remunerativi con sgravio del Bilancio dello Stato.
Era assurdo poi anche l’altro teorema di Gozi sui contadini,
perché erano stati i padroni a costringerli a fuggire dalle
campagne col non concedere nulla, col non incrementare
l’agricoltura le quali deficienze hanno spinto i giovani contadini
ad uscire dalle famiglie per emigrare in Paesi stranieri in cerca
di lavoro più remunerativo. (…) Bisogna guardare bene il
problema, studiarlo e risolverlo. Noi abbiamo qui una densità di
popolazione che non trova posto. C’è l’economia agraria arretrata
e bisogna sollevarla, ma siccome la classe agraria non vuole e non
può così soltanto quando la proprietà sarà collettiva si avranno i
dovuti miglioramenti e si avrà lo sviluppo dell’agricoltura
connesso all’industria.
Poiché Gozi aveva accusato i
socialisti di non voler collaborare in alcuna maniera al governo
sammarinese e quindi al miglioramento del paese, Giacomini gli
rispose che il gruppo socialista aveva un programma sociale che
tende di modificare le basi della Società. Come può oggi entrare
al potere non avendo la maggioranza? Oggi dovrebbe fare il giuoco
degli avversari senza dignità per nessuna delle parti. I
socialisti dunque rinunciavano a qualunque collaborazione e
stavano alla finestra per vedere, ovviamente senza crederci, se i
loro avversari erano in grado di fare le riforme istituzionali e
di altro genere di cui la Repubblica necessitava.
Gozi rimbeccò ancora dicendo che il
sistema istituzionale sammarinese era ottimo, visto che il paese
era arrivato libero e sovrano fin lì, e che le riforme promosse
con l’arengo del 1906 stavano rischiando invece di farlo
precipitare in un baratro. Il Sig. Giacomini è sicuro che dopo
le riforme si camminerà meglio di prima? Io ne dubito perché
ritengo che una sola riforma possa essere utile e veramente
efficace; ma una riforma che non si può attuare, qual’ è quella di
trapanare tutti i crani dei sammarinesi per insinuarvi un nuovo
cervello con una nuova coscienza. Perché a S. Marino, coscienza,
amor patrio, buon senso, sono spariti per la erronea educazione
che da 20 anni a questa parte si impartisce. Riformiamo pure, ma
troveremo gli uomini idonei a reggere gli istituti? Educhiamo,
perché educare soprattutto bisogna, politicamente e civilmente.
Alla fine la discussione si placò, ma
è ben evidente che i socialisti stavano combattendo una battaglia
molto delicata, contro uomini e mentalità legatissimi al passato,
alla tradizione, alla dimensione politica patriarcale che esisteva
prima dell’arengo del 1906, personaggi che imputavano a loro e
solo a loro tutti i mali del paese, e che erano pronti a fargliela
pagare alla prima occasione.
VIII. 1919 – 1922: Gli anni
massimalisti
Negli anni in esame i socialisti
continuarono a darsi molto da fare per divulgare il loro verbo in
tutto il territorio. Essi godevano di molti simpatizzanti nei
Castelli di Città e Borgo, ma nelle campagne il ceto rurale era
ancora pressoché interamente sotto il controllo del clero e del
padronato. Queste furono le zone puntualmente battute per svolgere
la loro propaganda. Sicuramente gli oratori più infaticabili
furono Franciosi e Giacomini, che non perdevano occasione per
urlare il loro credo ai quattro venti.
Essendo entrambi insegnanti, la
cultura era per loro una priorità assoluta per le masse. Infatti
erano del tutto convinti che senza una educazione alle idee del
socialismo e senza un’elevazione culturale degli operai e del
popolo in genere, tra cui le donne, considerate del tutto
asservite alla cultura cattolica, non vi sarebbe mai stato il
tramonto del vecchio sistema politico e della classe borghese che
deteneva le redini del potere.
Furono decine, centinaia i comizi
svolti da loro nei primi vent’anni del socialismo sammarinese
lungo tutto il territorio, ma anche all’esterno dei suoi confini.
Spesso vennero anche minacciati per questo loro attivismo,
rischiando a volte di essere malmenati. Ma continuarono
imperterriti, convinti di essere nel giusto, certi di essere gli
epigoni di un futuro più equo e roseo. A volte questi comizi erano
rivolti ai pochi contadini di qualche modesto borgo di campagna, a
volte invece, come spesso succedeva per il 1° maggio, festa dei
lavoratori, venivano ascoltati da centinaia di persone. Un grosso
comizio fu quello del 23 febbraio 1919, per esempio, a cui
presenziarono più di 400 operai. Parlò Franciosi, per dire che la
locale classe padronale era arretrata e non aveva ancora saputo
progredire passando dallo stato agricolo alla fase industriale.
Inoltre non aveva neppure saputo migliorare il patto colonico
costringendo così molti contadini a fare altri lavori e ad
emigrare. Ora però in tanti erano rientrati trovandosi
disoccupati. La valvola dell’emigrazione non era più sufficiente,
così come i lavori pubblici. La soluzione quindi era la riforma
tributaria e l’impianto di qualche fabbrica, ma i vari progetti
elaborati negli anni in merito per un motivo o per un altro erano
tutti tramontati.
Giacomini, altro oratore, sostenne che
il governo era in mano agli agrari e che senza organizzazione da
parte degli operai le cose non sarebbero cambiate. Occorreva una
camera del lavoro per rendere consapevole e forte dei suoi
diritti e doveri la nostra classe operaia, che fin qui visse come
un gregge. Era l’unico sistema per farla emancipare. Alla
fine, come spesso succedeva, venne emanato un ordine del giorno da
presentare alle autorità con le tipiche richieste socialiste di
questo periodo: dare un assetto veramente democratico al governo a
mezzo della riforma istituzionale, difendere, tramite adeguata
legislazione, i consumi, produrre una riforma tributaria
progressiva reclamata da ragioni morali, giuridiche,
economiche, finanziarie e ad inizio di un’era di giustizia,
lenire la disoccupazione con l’avvio di lavori che non
rappresentino una carità mal fatta e sprecata, favorire al più
presto l’impianto di qualche industria locale, visto che ancora
non ce n’era praticamente nessuna e se ne sentiva un gran bisogno
soprattutto per creare posti di lavoro.
Un’altra iniziativa messa in opera dai
socialisti, sempre per divulgare con tutti gli strumenti possibili
il loro verbo, fu la cosiddetta Fanfara Rossa, erede della
Fanfara del Libero Pensiero degli anni precedenti, con cui
si andava nei Castelli rurali a portare musica, allegria e
politica. Essa debuttò l’11 maggio del 1919 promovendo una
passeggiata a Ca’ Berlone, dove parlò Franciosi. Qualche settimana
dopo la troviamo a Chiesanuova, dov’era stata trasportata in
camion; qui tennero comizi sempre Franciosi in compagnia di
Giacomini e di Giuseppe Forcellini, segretario di Stato, ormai
apertamente schierato su posizioni socialiste.
Anche diversi giovani continuavano ad
impegnarsi per il partito dall’interno del loro circolo J. Juarez,
capeggiato da Valdes De Carli e Alvaro Casali. A parte i comizi,
le iniziative culturali promosse dal circolo, e l’aiuto che
cominciarono a dare ai capi storici affiancandoli nella loro opera
di divulgazione del credo socialista, una loro prerogativa era
quella di organizzare i veglioni rossi, che servivano anche
per racimolare soldi per la causa socialista.
Tanta operosità e tanto zelo, insieme
alla naturale evoluzione dei tempi, portarono indubbiamente a
conseguire risultati importanti, come la cultura dello sciopero
che iniziò a manifestarsi a San Marino proprio in questi anni. La
storia ci ha lasciato parecchie tracce di manifestazioni dei
sammarinesi contro iniziative del governo, come quella avvenuta
contro la legge organica per gl’impiegati del 1910, o di protesta
in genere, come il corteo di un centinaio di persone che il 9
novembre 1918 aveva rumoreggiato davanti al Palazzo Pubblico
contro il caroviveri e l’inflazione galoppante. Tuttavia il primo
sciopero ufficiale in Repubblica venne fatto dall’Associazione
Impiegati per 24 ore il 26 novembre del 1918 per chiedere aumenti
di stipendio, visto che le paghe degli impiegati erano in loco
particolarmente basse, anche se i socialisti sostenevano che molti
di loro erano stati assunti in maniera clientelare, cioè senza una
vera necessità da parte dello stato, e che occorresse calarne il
numero perché erano troppi. Questa polemica era senz’altro legata
anche all’annosa diatriba che esisteva tra operai ed impiegati,
perché i primi reputavano gli altri dei pseudolavoratori che
gravavano già troppo sul bilancio statale.
Un altro sciopero venne organizzato
dai socialisti per il pomeriggio del 5 luglio 1919 contro il
caroviveri: un gruppo di operai si recò a protestare sul Pianello,
dopo che Franciosi aveva svolto sullo stesso argomento un comizio
al mattino.
La manifestazione più imponente
dell’epoca fu comunque organizzata per il 20 e 21 luglio 1919,
quando il gruppo socialista aderì allo sciopero generale
internazionale per chiedere il ritiro delle truppe alleate da
Russia e Ungheria, sciopero indetto dalla Confederazione Generale
del Lavoro e dal partito socialista italiano, in accordo con le
organizzazioni politiche ed economiche inglesi, francesi e belghe.
La partecipazione alla manifestazione risultò superiore alle
aspettative degli stessi organizzatori. Infatti, ad eccezione di
alcuni impiegati, si astennero dal lavoro tutti gli operai, i
braccianti, gli artigiani e i negozianti a dimostrazione che ormai
la cultura dello sciopero era ben diffusa.
Ancora uno sciopero fu proclamato nel
marzo del 1920 dagli operai delle vigne Manzoni-Borghesi. Questo
fu il primo sciopero gestito dalla Camera del Lavoro, il cui
battesimo ufficiale era avvenuto il 7 febbraio precedente.
Inizialmente i padroni non avrebbero voluto trattare con la Camera
non riconoscendole nessuna valenza, poi però decisero di scendere
a patti e di venire incontro ad alcune rivendicazioni dei loro
operai, visto soprattutto che l’astensione dal lavoro durava ormai
da molto tempo. Ovviamente il Titano ed i socialisti
urlarono subito alla vittoria, sbandierando ai quattro venti come
l’unione facesse la forza e come fosse indispensabile per il mondo
operaio abbandonare le divisioni e le invidie interne per aderire
compatto alla Camera del Lavoro e per prepararsi a salire ai
vertici del Paese.
Un altro sciopero, sempre appoggiato
dalla Camera, avvenne un mese dopo tra le addette alla mondatura
delle erbacce tra il grano; fu il primo sciopero femminile della
Repubblica. Un altro ancora, sempre deciso all’interno della nuova
Camera del Lavoro, venne proclamato per il 15 febbraio 1921 contro
la forte disoccupazione e per altri motivi ancora.
Nel 1919, a parte ciò di cui si è
parlato, non avvenne tant’altro degno di essere registrato in
questa sede. I socialisti rimasero sulle posizioni e sulle
rivendicazioni già messe a punto negli anni precedenti, senza
aggiungere toni o concetti troppo diversi o particolarmente
innovativi. Nel paese aumentarono un po’ le polemiche sui
rifugiati politici cui San Marino stava dando sempre maggiore
ospitalità, polemiche che comunque erano già apparse
sporadicamente su alcuni giornali italiani anche l’anno
precedente. Tra il 7 e il 13 giugno 1914 era avvenuta
l’insurrezione romagnola-marchigiana nota col nome di “Settimana
rossa”, una rivolta politica e sociale a carattere antimilitarista
che aveva provocato non pochi tumulti e pure qualche morto.
L’evento favorì il riparo a San Marino di molti insorgenti, che
comunque sfollarono dopo breve, quando seppero di non essere
ricercati dalla polizia. In territorio sammarinese rimasero solo
coloro che erano stati incriminati per qualche motivo.
Probabilmente il più famoso di tutti era Giuseppe Massarenti,
sindaco socialista di Molinella che dovette fuggire
precipitosamente dal suo paese perché accusato di essere complice
di alcuni tumulti qui accaduti nell’ottobre del 1914 che avevano
determinato la morte di cinque persone. Si rifugiò a San Marino
divenendo molto amico dei socialisti locali e di Giacomini in
particolare; qui rimase per quasi cinque anni, fino al 19 maggio
del ’19 appunto. Nello stesso anno, essendosi ormai calmate per
loro le acque in Italia, anche altri rifugiati se ne partirono da
San Marino.
Un altro fatto di un qualche rilievo
legato a quest’anno fu la cittadinanza onoraria al presidente
americano Wilson, personaggio inizialmente apprezzato anche dai
socialisti per la pacificazione che aveva portato in Europa, ma in
seguito criticato per il suo utopismo filosofico, letto in
contrapposizione al realismo russo, che veniva invece esaltato.
Franciosi, buon profeta, nel comizio da lui svolto in quell’anno
per il 1° maggio criticò aspramente le trattative che stavano
portando alla pace di Versailles, prevedendo che questa avrebbe
prodotto altre guerre.
Il governo sammarinese, venendo a conoscenza che Wilson avrebbe
gradito fare una visita alla più antica repubblica del mondo,
tramite Onofrio Fattori, inviato a Roma per ossequiarlo, lo aveva
invitato anche in visita ufficiale, invito però declinato per i
suoi eccessivi impegni.
Nel 1919 si sciolse anche
l’Associazione Sammarinese Indipendente, un’alleanza politica tra
uomini di varie provenienze nata appena l’anno prima,
sostenitrice che la politica di partito per il nostro paese è
mortalmente dannosa, composta da repubblicani, borghesi,
anticlericali e preti ovvero da un amalgama di persone
clerico-repubblicane, come la definì al suo apparire il
Titano del 2 giugno 1918.
L’Associazione fu un tentativo di
creare un gruppo antisocialista e soprattutto antipartito, perché
a San Marino erano ancora in tanti a rimpiangere il periodo
precedente all’arengo del 1906, in particolare il sistema molto
familiare e casereccio di gestire il Consiglio Grande e Generale
bonariamente, senza richiamarsi a particolari linee ideologiche o
a chissà quale disciplina partitica. Il tentativo fallì
probabilmente perché comunque le tendenze politiche ormai c’erano,
e non si potevano cancellare con un colpo di spugna, così come
sussistevano i personalismi che, senza una qualche disciplina,
non potevano starsene a lungo inoffensivi.
I socialisti invece sostenevano a
spada tratta l’esigenza di fondare nuovi partiti dalla fisionomia
ben marcata: solo dalla lotta dei partiti possono trarsi la
salvezza e il miglioramento della Repubblica, sostenne
Franciosi in un suo articolo del 1° ottobre 1919, in cui
commentava criticamente l’ennesimo tentativo di creare un amalgama
politico di stampo liberal-conservatore, ovvero qualcosa che
reputava obsoleto ed inutile a risolvere i tanti mali della
Repubblica.
Questa convinzione la ribadiranno
anche alla fine del ’19, quando fu proposto loro di collaborare
alla gestione del governo: Lo comprenda la classe borghese che
noi socialisti non assumeremo mai il potere finché perdurerà
questo sistema antiquato e dannoso agli interessi della
Repubblica, dichiararono decisi sul Titano del 9
novembre. Non può esservi a tutto rigore nessuna utile
conciliazione per la Repubblica. L’onore del Paese (…) e la
salvezza del Paese, sono intimamente legati alla sorte e
all’avvenire della classe lavoratrice quando questa si sarà fatta
nella repubblica il suo governo, sottolinearono ancora sul
Titano del 25 dicembre.
L’aspirazione socialista di avere
avversari politici raggruppati in formazioni partitiche non tardò
tuttavia a concretizzarsi. Infatti nel mese di giugno veniva
svolto a Bologna il primo congresso del Partito Popolare Italiano,
fondato da don Luigi Sturzo, e prendeva vita una formazione
politica che avrebbe avuto un grande futuro nella storia italiana.
A San Marino non si tardò ad emulare quanto facevano i cattolici
in Italia. Egisto Morri e Carlo Balsimelli, con l’aiuto di due
preti, ovvero don Bucci e don Barducci, tra la fine del 1919 e
l’inizio dell’anno successivo fondarono il Partito Popolare
Sammarinese, organizzazione partitica che mirò fin da subito a
coinvolgere tra le sue fila il vasto mondo contadino locale,
organizzandolo anche sindacalmente in leghe operaie o “bianche”,
come verranno definite per distinguerle da quelle “rosse” gestite
dai socialisti.
Queste leghe miravano a raggruppare i
lavoratori della terra sia per ottenere a loro vantaggio dei
miglioramenti economici e sociali in genere, in primis un nuovo
patto colonico per cui subito si daranno da fare, sia per
toglierli dal pericolo di finire fagocitati dai socialisti, che
già da tempo sbandieravano nei loro comizi l’esigenza di un nuovo
patto colonico, nonché dalla loro Camera del Lavoro. Nel giugno
del 1920 ci saranno elezioni suppletive per eleggere cinque
consiglieri: ben quattro eletti saranno del Partito Popolare.
L’anno dopo, per le elezioni generali, addirittura 29 saranno i
loro consiglieri eletti, lasciando i socialisti, che pur
arriveranno a 18 consiglieri, a masticare molto amaro. Infatti la
convinzione di questi ultimi, nel ’19 più che in seguito, era che
il partito socialista fosse destinato ad assumersi in toto il
governo della Repubblica, e che prima o poi avrebbero portato
dalla loro parte il vasto mondo contadino locale. In realtà non fu
così, per cui l’arrivo del Partito Popolare fece loro gradualmente
capire che a San Marino non sarebbe stato proprio possibile creare
uno stato sul modello russo. Infatti i Popolari nei primi mesi del
’20, tramite battaglie portate avanti dalle leghe bianche,
riuscirono a gettare le basi per il nuovo patto colonico,
immediatamente ribattezzato per spregio dai socialisti in “patto
coglionico”, e a ottenere dai padroni fin da subito delle
migliorie alle condizioni dei contadini.
Un altro fatto importante per la
storia del socialismo sammarinese fu la nomina di Gino Giacomini
nella direzione del Partito Socialista Italiano, ovvero nel suo
massimo organo, nomina avvenuta durante il congresso socialista
svoltosi a Bologna tra il 5 e l’8 ottobre a cui Giacomini
presenziò. In questo congresso prevalse completamente la linea
massimalista con un ordine del giorno che affermava il superamento
del programma riformista e la necessità di agire in vista della
presa del potere da parte del proletariato. Egli, pur restio
nell’accettare l’incarico, lo tenne per un anno abbondante, fino
al congresso di Livorno, poi vi rinunciò perché troppo
impegnativo.
L’anno si chiuse con due fatti. Il
primo fu un’aspra polemica contro l’apertura di un asilo in Città,
finanziato in parte dal Vaticano ed in parte da un fondo che il
governo sammarinese aveva accumulato per creare un’opera simile.
In territorio sammarinese funzionavano altri due asili, sempre
gestiti da suore o comunque sotto il controllo dei cattolici, e
questo ai socialisti non poteva di certo andare a genio. In
effetti un’altra battaglia degli anni successivi, con la
promozione di iniziative per racimolare denaro, verrà proprio
svolta per fondare finalmente un asilo laico.
Il secondo fu un manifesto del
partito, datato 31 dicembre, in cui si dichiarava che il paese si
era ridotto ormai in condizioni assai critiche per la
disoccupazione e per il caroviveri, che non c’era più nessuna
disciplina amministrativa e tutto era lasciato a se stesso,
che la maggioranza borghese non era all’altezza di mantenerne la
guida, né di attuare alcun tipo di riforma. Si stava andando
insomma incontro alla rovina. La Repubblica poteva essere salva
solo che un ordine nuovo sostituisca radicalmente il vecchio
sistema, con un governo esercitato dai Lavoratori, politicamente
democratico e moderno, amministrativamente ben costrutto e
organizzato in base a rigorose norme di disciplina e di
responsabilità, socialmente indirizzato a dare allo stato più
ampie funzioni di economia sociale. S’intimava al governo
l’adempimento dei compiti immediati politici finanziari
ripetutamente assunti. Non volendo essere complice della stasi
che paralizzava il Consiglio, i socialisti si dichiaravano pronti
ad uscirne in segno di finale protesta contro l’attuale regime
governativo e la classe dirigente, e istigavano il
proletariato sammarinese a tenersi pronto a sostituire le
istituzioni della borghesia e a gestire la cosa pubblica.
Nel 1920 il conflitto tra socialisti e
cattolici divenne molto più aspro, soprattutto perché finalmente
riuscì a partire la Camera del Lavoro, che secondo le mire
socialiste doveva assumere funzioni politiche molto marcate, oltre
a quelle sindacali. Il 17 gennaio Franciosi annunciò in Consiglio
la sua costituzione.
Il 5 febbraio il Titano se ne
uscì con un articolo in cui ribadiva ancora una volta che era
fondamentale organizzare la classe operaia e proletaria tramite la
Camera del lavoro, in seguito sarebbe avvenuta la presa del potere
da parte del proletariato per fare parecchie innovazioni: una
riforma tributaria capace di colpire i grossi capitali e togliere
le troppe disparità economiche esistenti, una riforma
dell’agricoltura adatta a dare la terra ai contadini, un sistema
annonario in grado di distribuire i prodotti a prezzi onesti e
popolari, un progetto per dare abitazioni a tutti requisendo le
case superflue ad uso privato e calmierando gli affitti,
l’assicurazione contro malattie e invalidità, la pensione per la
vecchiaia, inoltre costituzione del governo diretto a mezzo
dell’arengo, trasformazione degli organi politici, assetto
amministrativo con uno stabile congegno a funzioni responsabili,
distinte e coordinate, economie e discipline degli uffici pubblici
e degli impieghi. (…) Chi lavora, chi produce, chi soffre,
chi ha nozione del silenzioso sfacelo che devasta irrevocabilmente
questo nido sacrificato alla sordidezza buia del più tipico e
ripugnante egoismo di classe, si armi di volontà e di forza, e si
muova verso la meta che noi veniamo additando.
L’8 febbraio, tramite pubblico
manifesto, venne proclamata la sua costituzione. Il 7 marzo vi fu
la distribuzione delle sue cariche sociali presso il teatro
Titano: presidente venne eletto Gino Giacomini. Nel mese di
gennaio la Confederazione Italiana del Lavoro inviò a San Marino
Francesco Nicola, persona esperta ed adatta a far decollare la
nuova Camera, che rimarrà suo segretario fino al mese di giugno,
quando verrà sostituito da Domenico Viotto della Camera del Lavoro
di Brescia.
Nicola si mise subito alacremente
all’opera per sensibilizzare la classe operaia sammarinese alla
nuova e per i socialisti basilare iniziativa. Con un suo aiutante,
Ermes Moretti, iniziò a battere il territorio in lungo e in largo
per fare comizi: il 25 e 28 gennaio parlò in Borgo, il 26 a
Faetano, il 30 a Serravalle dove vi fu un’animata discussione con
don Bucci, il 1° febbraio a Chiesanuova, il 5 a Dogana per
organizzare gli operai dell’azienda Manzoni e di quella di
Franchini, l’8 a Serravalle per i braccianti, poi a Montegiardino
per un comizio ai contadini (qui il parroco aveva organizzato un
gruppo di fedeli per fischiarlo), il 14 nuovamente a Faetano, in
seguito in altri Castelli ancora. Questo attivismo doveva servire
per il raggruppamento dei nuovi nuclei, e il disciplinamento
delle vecchie leghe, come ebbe a dire il Titano del 5
febbraio.
All’inizio vi furono remore ad
associarsi alla Camera tra diverse categorie di lavoratori, ma in
seguito l’adesione fu massiccia, ad eccezione del mondo contadino
che ormai stava confluendo tutto nelle leghe bianche gestite dai
cattolici. Pure i braccianti vennero organizzati in Lega dalla
Camera, che spesso svolgeva la mansione di ufficio di
collocamento, in particolare per i lavori periodici.
Il 1° maggio, dopo un primo comizio
svoltosi in Città, i socialisti ne organizzarono un altro a
Domagnano, praticamente nella bocca del leone, visto che questo
Castello da sempre era in mano ai loro avversari. In effetti il
giorno dopo i cattolici vollero fare un controcomizio dove
parlarono don Bucci ed Egisto Morri.
Il 13 dello stesso mese la Camera
organizzò una grande adunanza di tutte le categorie dei lavoratori
per costituire una Cooperativa fra gli operai del paese con lo
scopo principale di assumere in comune l’insieme delle opere
edilizie governative. Subito dopo una rappresentanza formata da un
membro di ogni lega si recò dalla Reggenza per chiedere
l’assegnazione del lavoro della scuola elementare del Borgo, che
già da tempo doveva essere edificata. In effetti l’accordo per la
sua ultimazione venne stipulato immediatamente. L’unione fa la
forza, fu l’entusiastico commento del Titano, ormai
convinto di essere sulla strada maestra per portare il
proletariato al potere. Noi non crediamo necessaria la sommossa
di piazza, annunciò sempre il Titano, però era ritenuto
basilare che la Camera organizzasse il proletariato in un corpo
ordinato e disciplinato per prendere finalmente il potere.
In un articolo sulla rivoluzione russa
venne detto che il comunismo e l’equa spartizione dei beni era
nella naturale evoluzione delle cose e che la società senza
padroni e sottomessi era quella a cui bisognava aspirare. Gli
uomini avrebbero avuto dalla comunità tutto ciò che sarebbe loro
servito per vivere bene.
In un altro articolo ancora, incentrato sul grave problema del
caroviveri, fu affermato: Non c’è che un mezzo per risolvere
radicalmente il problema: l’abbattimento della società
capitalistica e il trionfo della rivoluzione comunista.
Su questa ideologia d’ispirazione russa ormai si muovevano i
socialisti senza troppe discrepanze interne.
Nel paese esistevano così due blocchi
di lavoratori contrapposti ed in forte attrito ideologico tra
loro. Era inevitabile che le tensioni crescessero sempre più. In
maggio, in effetti, si giunse quasi ad uno scontro perché
moltissimi contadini, anche armati, furono raccolti da don Bucci a
Domagnano per tutelare i campi dei padroni contro poveri
braccianti che avevano ottenuto di prestare qualche giornata
lavorativa, come ci narra il Titano del 16 maggio.
Praticamente l’articolista accusa i preti e i dirigenti del
partito popolare d’aver aizzato i contadini contro i braccianti
perché entrambi volevano svolgere dei lavori in un fondo agricolo:
i contadini erano mezzadri chiamati dal padrone del podere, i
braccianti erano disoccupati di Serravalle fatti assumere dalla
Camera del Lavoro. Questa aveva però evitato di sobillare i suoi
facendo sì che non avvenisse alcuno scontro perché, a suo parere,
i contadini erano ingenuamente cascati nella provocazione
ordita dai preti e dai padroni. Comunque per placare gli animi e
per svolgere opera di mediazione tra le parti, alla fine dovette
intervenire addirittura la Reggenza.
Il 6 giugno, durante una sua riunione,
la Camera del Lavoro votò un ordine del giorno in cui rifiutava
qualunque carità di lavoro da parte governativa,
auspicandosi invece una pianificazione seria dei lavori che
annualmente venivano assegnati agli operai, pretendeva che i
padroni fossero obbligati ad assumere braccianti in proporzione
alla terra posseduta, chiedeva la gestione diretta delle macchine
da grano.
Viotto dimostrava di avere anche
maggiore attivismo del suo predecessore, facendo frequenti comizi
un po’ per tutto il territorio. Grazie a quest’opera di
proselitismo e propaganda riuscì a far rinascere in Città la
defunta sezione socialista e a crearne una del tutto nuova a
Serravalle, Castello considerato asservito ai preti e ai padroni.
Così la Repubblica, con tre sezioni socialiste nei primi suoi
tre centri e con varie conferenze che terranno i migliori
elementi, potrà più facilmente preparare le coscienze e accelerare
il suo radicale mutamento. Occorreva però anche una biblioteca
circolante per diffondere la coltura fra le classi lavoratrici
e per propagandare la dottrina socialista.
Nel mese di luglio i problemi si
aggravarono. Le autorità sammarinesi si erano attivate fin dal 26
giugno per riuscire ad avere un prestito di 1.000.000 di lire dal
Credito Romagnolo con cui fronteggiare le impellenti necessità e
pagare gli stipendi. Pur ottenendo tale cifra, vi furono ritardi
nella sua consegna, per cui al 24 luglio il governo aveva potuto
ricevere solo 100.000 lire, mentre il rimanente doveva ancora
arrivare. Ovviamente questo fatto fu benzina sul fuoco e fece
aggravare i conflitti e le polemiche tra le fazioni, tanto che da
più parti iniziarono ad essere rivolti ai vari gruppi politici
esortazioni alla concordia e alla collaborazione per far uscire la
Repubblica dal pantano in cui si era cacciata. In più si creò una
delegazione che si recò a Roma per chiedere denaro e
l’innalzamento del canone doganale. Doveva farvi parte anche
Franciosi, che però rifiutò in nome dei suoi principi.
In pratica i socialisti non
accettarono alcun compromesso, né si dimostrarono disposti ad
alcuna forma di collaborazione con i borghesi, come
chiamavano i loro avversari. Le ore gravi chiedono sincerità
non indulgenza. La crisi attuale è il prodotto del disordine della
società, proclamarono decisi sul Titano dell’8 agosto.
Cominciarono a sostenere che di fronte allo sfascio generale in
cui si trovava il paese l’unica soluzione logica e contingente
sarebbe stato lo scioglimento del Consiglio e le
elezioni generali. Però con una nuova legge elettorale
nella quale sia stabilito il collegio unico e la rappresentanza
proporzionale insieme a metodi di votazione più pratici e sicuri,
fra i quali l’uso della scheda stampata. La Reggenza doveva
poi essere elettiva biennale e il Congresso o Consiglio di Stato
diviso in dicasteri. Il momento esige che sia investito del
governo della cosa pubblica chi può e deve anzi rispondere di una
forza nel paese. Chiedevano inoltre la creazione di un
comitato provvisorio di reggenza per governare temporaneamente lo
stato, e la nomina di una giunta a rappresentanza proporzionale
per organizzare le elezioni.
Durante un’assemblea della Camera del
Lavoro, svoltasi il 22 agosto, anche Viotto invitò gli operai ad
abbandonare i particolarismi per mostrarsi forti e compatti di
fronte agli eventi che stanno maturando. Nella stessa
occasione gli operai appoggiarono la decisione di far sciogliere
il Consiglio, inoltre venne deciso di convocare separatamente
le singole categorie di operai per richiamarle all’osservanza
delle norme disciplinari e dei principi di solidarietà che
regolano l’Associazione, con l’auspicio che tutti i lavoratori
e impiegati si unissero tra loro in patto fraterno, a fine di
rendere possibile, dalla fusione di tutte le forze vive del
lavoro, la rigenerazione morale ed economica della Repubblica pel
bene della Collettività.
Nel frattempo i cattolici non se ne
stavano certo inermi a guardare cosa facevano i socialisti. Il 3
settembre del 1920 diedero alle stampe il primo numero del
periodico La Libertà, che uscì con regolarità fino
all’agosto del 1923 controbattendo punto per punto le tesi
socialiste, e polemizzando violentemente contro i principali
esponenti del socialismo sammarinese, in particolare Franciosi e
Giacomini. Libertà è il retaggio del nostro Santo, Libertà è la
sintesi di tutto il nostro programma, sentenziarono sul loro
primo numero facendo capire chiaramente che il socialismo,
sostenitore dello statalismo, era naturalmente avverso a qualunque
forma di libertà. Nel loro programma spiccava come primo punto
l’integrità della famiglia e la tutela della moralità pubblica.
Volevano comunque anche l’abbattimento dell’analfabetismo, quindi
una incidente riforma scolastica, la tutela dei lavoratori,
l’indipendenza della Chiesa, la riforma tributaria, la riforma
della legge elettorale secondo il sistema del collegio unico, il
voto per le donne. Alcuni punti programmatici, come la riforma
fiscale e quella elettorale, erano comuni alle aspirazioni
socialiste. I punti di maggiore divergenza erano invece legati
alla proprietà privata, che i cattolici difendevano, purché non
fosse lesiva per i lavoratori, all’accettazione delle classi
sociali e della loro gerarchia, che però dovevano essere
accessibili a tutti e tendere al bene comune, alla condanna
categorica di qualunque forma di statalismo e di illiberalità.
Sino a ieri noi cattolici, lottammo
per la difesa dei sentimenti cristiani, oggi un altro compito ci
attende: il rinnovamento morale del popolo sulla base della
giustizia e del diritto cristiano, il riordinamento amministrativo
della Repubblica, il miglioramento economico delle classi sociali,
venne detto per mettere in luce la nuova verve che animava il
mondo cattolico sammarinese.
Bisogna difendersi dalla disastrosa propaganda bolscevica e
guidare il proletariato nella via dell’indirizzo cristiano. I
cattolici infatti miravano ad un nuovo ordine sociale basato
sull’armonia e sulla collaborazione di classe, sullo spirito di
equità e di giustizia cristiana, sul congiungimento della
proprietà col lavoro, mentre i socialisti volevano la
distruzione, il comunismo, la fine dell’individualità, la morte
delle soddisfazioni personali, l’eliminazione della famiglia,
l’abolizione di ogni leva di progresso.
In un altro articolo dal titolo molto
eloquente venne detto che i popolari erano d’accordo coi loro
avversari per la difesa dei lavoratori, per le forme
cooperativistiche, per l’organizzazione operaia, ma erano in netta
antitesi con loro perché questi combattevano la religione e
insultavano chi andava in chiesa, perché volevano tutti
salariati, tutti servi, mentre è assai più umano, più
soddisfacente avere il proprio campicello, i propri strumenti di
lavoro, perché favorivano solo i loro aderenti, perché
volevano la lotta di classe, per i tristi esempi di assenza di
libertà in Ungheria e in Russia, perché erano persuasi che la
felicità dell’uomo fosse tutta in un pranzo, in un bicchiere di
vino, in una donna, in un teatro, perché non avevano vincoli e
combinavano le famiglie a mesi e a giorni come fanno i cani e i
gatti. Inoltre erano provocatori e seminatori di zizzania,
mentre i popolari volevano rappresentare e promuovere l’ordine,
l’amore e l’armonia sociale, altri concetti chiave della loro
propaganda, che saranno puntualmente i cardini del loro pensiero
politico in questi anni.
Nei numeri successivi de La Libertà,
che copiava quasi in toto la logica e la stessa impostazione
grafica del Nuovo Titano, i cattolici non abbandonarono mai
tali cardini, così come non lesinarono veleni e frecciate ai
socialisti, che d’altra parte provvidero a ripagarli della stessa
moneta sul loro giornale, facendo spesso decadere il dibattito in
acidi e beceri personalismi strapaesani.
I popolari comunque ottennero un
grande successo nel mondo rurale, soprattutto perché seppero
organizzare diligentemente una decina di Leghe Bianche,
anche queste sul modello socialista a cui s’ispiravano sempre,
tanto che la stessa canzone Bandiera Rossa venne da loro
trasformata in Bandiera Bianca.
Grazie a questa organizzazione, in aprile i contadini presentarono
un’istanza d’arengo richiedente il restauro delle case coloniche,
con particolare attenzione per le loro condizioni igieniche, una
cattedra ambulante di agricoltura, il varo di una migliore
legislazione sociale e l’istituzione di una cassa per gl’infortuni
e le malattie, un collegio arbitrale per dirimere le questioni coi
padroni, un’adeguata viabilità rurale, l’esenzione dalle tasse.
In estate iniziò una forte agitazione
agraria, promossa e sostenuta in particolare da don Bucci, con
l’aiuto di un certo ragionier Giannitelli della Confederazione dei
Lavoratori. Il 23 agosto c’era stata un’imponente manifestazione a
Domagnano dove si proclamò lo sciopero generale grazie a cui fu
impedita la fiera di San Bartolomeo in Borgo il giorno dopo. Poi
altre manifestazioni seguirono, sempre piene di scioperanti finché
la Reggenza, nella figura di Marino Rossi, iniziò una trattativa
che portò in fretta ad un accordo coi contadini e alla fine dello
sciopero.
L’altra battaglia combattuta dai
popolari in questi mesi fu quella elettorale: le loro posizioni
erano quasi identiche a quelle socialiste perché volevano una
nuova legge elettorale basata sul collegio unico, ovvero in grado
di valorizzare e portare al potere le formazioni partitiche dotate
di una struttura logistica efficiente e non più solo i singoli
eletti, disgiunti da qualunque organizzazione politica, com’era
stato fin lì. D’altronde anche in Italia era stata varata
nell’agosto del ’19 una legge elettorale basata sulla stessa
logica. Si diversificavano dai socialisti nella richiesta di voto
alle donne, da questi ultimi rimandata a tempi futuri perché
consideravano il mondo femminile interamente soggiogato alla
cultura cattolica.
L’idea di sciogliere il Consiglio,
quindi, per indire elezioni generali fu sostenuta dalla
maggioranza dei Consiglieri. Il 18 settembre la Reggenza si vide
perciò costretta a convocare nuove elezioni per il 14 novembre.
Inoltre fu nominata una commissione di dieci consiglieri per
coadiuvarla in un momento tanto delicato, e venne deciso di
modificare la legge elettorale in base ai suggerimenti socialisti
e ad una proposta di legge da loro avanzata, che diventerà
effettivamente la nuova legge elettorale, anche se subirà qualche
modifica da parte della commissione preposta al suo studio.
Eccezionalmente fu prorogato il mandato semestrale della Reggenza
tra le proteste dei conservatori che volevano osservato lo
statuto. Il 1° ottobre, per rispettare in qualche modo la
tradizione, si fece comunque una finta cerimonia d’insediamento.
Il Titano ovviamente plaudì
alle deliberazioni del 18 settembre, che accoglievano in toto le
pretese socialiste, ma si premurò di dire che non voleva solo un
nuovo Consiglio con gente motivata al suo interno, ma un nuovo
ordine politico, istituzionale ed economico. Dare d’accetta a
tutte le mostruose vegetazioni che l’individualismo ha fatto
germogliare. (…) Espropriazioni, requisizioni, imposte fin dove il
supremo interesse della collettività lo esige. (…) Abolizione del
superfluo senza indulgenza. Chi avrebbe vinto le elezioni
avrebbe dovuto assumersi la responsabilità totale del governo.
I socialisti pensavano che le elezioni
sarebbero state una faccenda tra loro e i popolari, invece
inaspettatamente si consolidò un altro gruppo, l’Unione
Democratica, contenente al suo interno diversi personaggi da anni
in Consiglio, passatisti ed eredi della tradizione oligarchica
sammarinese, gruppo che avrà un grosso peso negli anni successivi
perché sarà l’humus su cui germoglierà il locale fascismo.
Costoro verranno sottovalutati dai
socialisti, che li definiranno ironicamente un misto politico
composto da il demosociale latte e miele e l’irsuto agrario, il
sovversivo ed il reazionario, l’inquisito e l’inquisitore, chi
tradì e chi fu tradito, e considerandolo una via di mezzo tra
i socialisti ed i clericali, insomma un fenomeno di aperta
inversione, di leggerezza politica che non guarda per il sottile a
precedenti personali, a idee e a programmi.
Ma le elezioni, e soprattutto il periodo successivo,
dimostreranno che proprio gli uomini dell’Unione saranno destinati
a gestire la Repubblica a lungo, mentre i socialisti saranno
costretti a scappare.
Tramite due riunioni, la Federazione
Socialista, ora comprendente anche la neonata sezione di
Serravalle, elaborò un ordine del giorno in cui dimostrava di
considerare una sua vittoria lo scioglimento del Consiglio, e un’autoaccusa
d’incapacità a gestire la cosa pubblica da parte della borghesia.
Dichiarava altresì di entrare nella lotta elettorale con rigida
condotta intransigente e con programma di carattere decisamente
massimale, nel quale i problemi della terra, della
disoccupazione operaia, della finanza, dell’industria,
dell’abitazione, dell’annona, dell’istruzione proletaria,
dell’igiene, dei servizi e delle aziende pubbliche e governative,
del riordinamento e della rigorosa disciplina degli uffici, del
rinnovamento delle istituzioni della Repubblica, siano propugnati
con preciso indirizzo e con radicale intento comunista.
Le elezioni del 14 novembre si
svolsero regolarmente portando in Consiglio ben 29 Popolari, 18
socialisti e 13 aderenti all’Unione.
I cattolici, ovviamente euforici per la schiacciante vittoria, si
dichiararono subito pronti a collaborare con chiunque sui punti
programmatici.
I socialisti invece, assai delusi nonostante il successo personale
riportato, due giorni dopo decisero di rinunciare al mandato
conferito loro dal corpo elettorale e divulgarono due manifesti
per spiegare la grave decisione. Nel primo dissero che il
risultato elettorale, pur aumentando sensibilmente il numero dei
consiglieri socialisti, non era adeguato né al meraviglioso
risveglio del proletariato internazionale, né agli interessi e
alle aspirazioni che qui il partito rappresenta e difende, né
infine alla dolorosa situazione prodotta essenzialmente dalla
crisi dell’assurdo regime che grava sulla Repubblica ad affrontare
la quale era necessario al Partito Socialista la fiducia e la
solidarietà dei lavoratori dei campi che il clericalismo, nelle
sue speculazioni, istiga e mette in urto con la classe lavoratrice
più matura e cosciente che si stringe attorno alla nostra
bandiera. (…) Le urne di domenica 14 novembre non hanno
modificato utilmente la situazione. Nessun partito ha ottenuto la
maggioranza effettiva di mandato, talché il governo della
Repubblica tornerà ad essere la risultanza di accomodamenti, di
combinazioni, giudicati assolutamente inadatti a risolvere i
gravi problemi del paese e incapaci di colpire le classi abbienti
per risanare le finanze. Per questo il Partito Socialista non
voleva alcuna corresponsabilità nel governo, lasciando tutto
l’onere della gestione agli altri gruppi politici. Nel manifesto
si specificava che il grave gesto non voleva essere una fuga, ma
la precisa volontà di organizzarsi ancora meglio per dar battaglia
in maniera sempre più capillare e pugnace affilando le armi per le
lotte successive. Una Repubblica dei lavoratori non è più
conciliabile né con la borghesia, né col clericalismo; né col
privilegio, né con la superstizione.
Il secondo manifesto era invece
rivolto ai contadini che, essendo ingenui, davano ascolto ai preti
e alle fandonie che venivano loro raccontate. Perciò i socialisti
avevano sentito l’esigenza di divulgare uno scritto a loro rivolto
in cui si dichiarava che il ritiro dal Consiglio serviva anche per
dimostrare la falsità della leggenda messa in giro ad arte
dai loro avversari secondo cui essi erano i padroni del
governo, dell’annona e degli altri istituti dipendenti dallo
Stato, e i responsabili di tutte le malefatte che essi,
invece, combattevano senza tregua. Il partito clericale,
responsabile di tutta l’arcaicità del paese, si era messo a
scimmiottare il partito socialista. Il giuoco d’incolpare i
socialisti di tutte le magagne, le colpe, gli errori di un governo
in mano a una stragrande maggioranza dei nostri nemici, è finito.
Le responsabilità erano ora tutte dei popolari, complici degli
agrari e della borghesia. Essi sicuramente non avrebbero molestato
né i ricchi, né gli speculatori, avrebbero continuato a
favorire l’emigrazione forzata, avrebbero lasciato i poveri nei
loro stracci e continuato a rovinare la Repubblica fino al
giorno in cui voi aprirete gli occhi. Allora i contadini si
sarebbero messi, come tutti i lavoratori, sotto la bandiera
socialista.
Ovviamente gli avversari dei
socialisti diffusero tutt’altre informazioni tra la gente,
fomentando il grande odio nei loro confronti che già serpeggiava
nei Castelli rurali, e sostenendo soprattutto che i socialisti non
erano entrati in Consiglio perché erano solo interessati alla
presa del potere ed alla rovina della Repubblica. Venivano
etichettati come eunuchi politici da parte de La
Libertà, che dedicherà ripetuti articoli con tale titolo per
accusarli di voler il disfacimento del paese e di essere dei
traditori: Come il medico si allontana dall’ammalato nel
periodo più critico; come il genitore abbandona il figlio nel
periodo in cui maggiore dev’essere la sua assistenza e la cura per
esso; così i socialisti lasciano che la Repubblica vada giù per la
china, lieti anzi della sua rovina che darà modo ad essi di
speculare e farsi poi seguire dalla grande massa dei lavoratori.
Questo è il primo tradimento del genere che la nostra
storia registra.
L’anno successivo, precisamente il 10
aprile, avverranno le elezioni suppletive per sostituire i
socialisti: 10 seggi consiliari andranno ai popolari, 8 ai membri
dell’Unione. Il partito popolare raggiunse così i 39 consiglieri,
tuttavia costoro erano per lo più inesperti e privi di qualunque
pratica di gestione politica, per cui venne deciso di stringere
alleanza con l’Unione, che poteva contare invece sui Gozi (Manlio
e Giuliano), Onofrio Fattori, Moro Morri ed altra gente ben
navigata nel governo del Paese, e piano piano affidarvisi
completamente. Nel giro di un paio di anni, le redini dello stato
sammarinese saranno prese totalmente dagli uomini dell’Unione, che
poi diventeranno i capi del fascismo locale, ed il programma dei
Popolari verrà in larga parte inficiato.
Il 1920 si chiuse con qualche polemica
stimolata dal Resto del Carlino contro una cinquantina di
profughi rifugiati in territorio dopo i tragici fatti di palazzo
Accursio a Bologna del 21 novembre, e con la certezza da parte
socialista che il nuovo governo sarebbe stato fallimentare e
destinato a crollare in breve tempo. Il Partito Socialista
attende, lavorando assiduamente, il suo irrevocabile domani,
annunciò con enfasi il Titano del 21 novembre.
In realtà il gruppo socialista si era messo da solo fuori gioco.
In seguito si renderà conto di aver fatto un grosso errore a
rifiutarsi di entrare in Consiglio, ma ormai sarà tardi e non ci
sarà più nulla da fare per evitare i tristi fatti che seguiranno
con l’avvento del fascismo anche in loco.
Il problema dei rifugiati diventerà
più pesante l’anno successivo, tanto che i socialisti nel 1920
dapprima penseranno a costruire una Casa degli esuli per
ospitarli, e nel 1921 inizieranno effettivamente a fabbricarla a
Serravalle raccogliendo soldi tramite collette, ma chiamandola
Casa del Popolo. Tra il 1920 e il ’22 circa 200 profughi
trovarono ospitalità in terra sammarinese, il più delle volte
aiutati proprio dai socialisti perché venivano indirizzati a San
Marino dalle camere del lavoro o dalle sezioni socialiste
italiane. Questo fatto farà diventare la repubblica sammarinese
sempre più il bersaglio di alcuni giornali italiani e di qualche
parlamentare, nonché dei fascisti del circondario che cominceranno
a minacciare spedizioni punitive per catturare gli esuli. In
verità non sappiamo qual nemico ci sia peggiore e quale sia il
flagello più temibile tra la reazione fascista e il massimalismo
bolscevico, diranno i cattolici sammarinesi dal loro giornale,
dimostrando di sottovalutare non poco il pericolo fascista.
I fatti precipiteranno dopo l’11
maggio, quando a Serravalle verrà ucciso da ignoti, dopo un
alterco, il dottor Carlo Bosi di Rimini. Il Titano del 22
maggio raccontò il fatto nella seguente maniera: la comitiva in
cui si trovava Bosi era arrivata in Repubblica semplicemente per
turismo. Per alcune sue grida di evviva e abbasso si era rivelata
fascista. Questo aveva toccato la suscettibilità di alcuni non
fascisti che si erano sentiti derisi e sfidati. Nel pomeriggio
l’auto aveva riportato le donne della comitiva a Rimini, mentre
gli uomini erano rimasti a passeggiare a Serravalle in attesa che
tornasse a prenderli. Tale fatto aveva provocato contatto con gli
avversari e subito erano volate offese e ingiurie. Arrivò l’auto,
la comitiva vi salì e prese la strada per Rimini; fu a questo
punto che da entrambi i gruppi partirono colpi di pistola. Sul
momento parve che tali colpi non avessero provocato danni ad
alcuno, ma a tarda sera giunse invece notizia che Bosi era stato
centrato mortalmente al capo. Rimase nell’ospedale di Rimini per
due giorni, poi morì.
Siccome del fatto vennero accusati
alcuni profughi, essi si riunirono per deplorare l’accaduto e per
confermare alla Repubblica i loro doveri di ospiti. Anche i
socialisti, protettori dei rifugiati, rigettarono le accuse che
venivano loro rivolte per il delitto, definendolo del tutto
casuale ed individuale. Infatti in questi mesi forte era l’odio
contro i rossi e le loro azioni, per cui ogni pretesto era
buono per attaccarli. Pare che la stessa Reggenza sostenesse che
l’uccisione di Bosi era da collegarsi alla violenza che
serpeggiava per il paese fin da un comizio operaio avvenuto nel
mese di febbraio. In quell’occasione i manifestanti erano andati a
rumoreggiare intorno alla casa di un Reggente e questo fatto era
stato interpretato come un atto di violenza, mentre i socialisti,
che erano stati gli animatori della protesta, sostenevano che la
manifestazione era stata tranquilla e civile. Secondo il loro
punto di vista, il governo aveva la volontà di gonfiare
elefantescamente gli avvenimenti generalizzando le
responsabilità. Simile atteggiamento avrebbe potuto però far molto
male alla serenità del paese, visti gli attacchi cui era
sottoposto dall’esterno.
In effetti non avevano torto, perché
questo periodo fu senz’altro uno dei più critici per il gruppo
socialista, fuori dal Consiglio ed in balia di gruppi politici che
lo accusavano di tutte le nefandezze possibili, e che boicottavano
sistematicamente le sue iniziative, come l’Ente autonomo, a cui
verrà tolto il sostegno ed il contributo governativo,
o il patronato scolastico, anch’esso decurtato negli stanziamenti,
o le tariffe orarie degli operai, che subirono in questo periodo
un generale ribasso. La Camera del Lavoro tentò anche di
riorganizzarli in federazioni (dei coloni, dei braccianti, degli
edili –ovvero scalpellini, muratori, falegnami, ecc.-,
dell’industria e abbigliamento –ovvero calzolai, sarti, ecc.-,
degli impiegati e salariati) per dar loro maggior forza, ma in
realtà il momento non era certo propizio a migliorare le
condizioni generali dei lavoratori.
Il 14 febbraio la Camera del Lavoro si
riunì proprio per parlare dei problemi del paese, soprattutto
della disoccupazione e degli atteggiamenti ostili verso le
iniziative socialiste. Venne deciso all’istante uno sciopero per
il giorno dopo. Vi fu quindi un grande comizio nell’atrio del
Palazzo con l’intervento di 800 operai. Parlarono Giacomini,
Viotto e De Carli. Giacomini invitò a stringersi attorno alla
Camera del Lavoro e a continuare la buona battaglia per la
conquista della Repubblica proletaria. Venne infine presentato
un ordine del giorno alla Reggenza.
Nei giorni successivi dai conservatori
venne però organizzata una contromanifestazione, e Manlio Gozi
ebbe parole violente contro i socialisti definendoli sabotatori
dello stato, ormai l’etichetta abituale con cui venivano
definiti dai loro avversari per gli atteggiamenti
anticollaborazionisti assunti fin dall’anno precedente.
Nonostante il clima avverso, i
socialisti continuavano comunque ad essere certi di dover entro
breve assumersi da soli l’onere del governo del paese. Sul
Titano del 27 febbraio si ribadì ancora che il governo era
destinato a rapida e sicura morte e che il partito socialista non
avrebbe più potuto sottrarsi al sacrificio di una eredità
gravosa e ad un dovere storico, e dovrà accettare il potere nelle
condizioni le più disastrose, in un ambiente ancora refrattario e
mal disposto ad un ordine nuovo, quando ancora gli avvenimenti di
fuori non avranno creato una condizione d’aiuto allo sviluppo
sociale della Repubblica. Purtroppo il socialismo sarebbe
arrivato al potere, sempre stando all’opinione dell’articolista,
solo perché i suoi avversari avrebbero disgustato tutti, non per
un’effettiva maturità politica dell’elettorato. Gli operai
dovevano dunque prepararsi e migliorarsi in vista dell’imminente
avvenimento.
Intanto il governo cercava di darsi da
fare, invece, per risolvere i guai del paese e la sua situazione
economica precaria. Il primo passo che fece fu l’emissione di un
prestito forzoso con titoli obbligatori per i cittadini che
avevano redditi mobiliari e immobiliari, e titoli facoltativi per
chi voleva contribuire spontaneamente. Si contava sulla
collaborazione della popolazione in attesa della riforma
tributaria cui si stava ancora lavorando. La scadenza del prestito
era fissata per il 15 febbraio, poi prorogata al 31 marzo per gli
scarsi introiti registrati. Alla fine furono raccolte solo 259.350
lire, una miseria se si calcola che il bilancio dello stato aveva
raggiunto un passivo di circa 3.000.000.
Invece si ottenne un grosso vantaggio
col nuovo canone doganale dall’Italia, arrivando ad ottenere un
forte innalzamento a lire 1.250.000 subito e a 1.500.000 in
seguito. Questo fu possibile perché lo stesso don Sturzo, per
aiutare i popolari, appoggiò la richiesta sammarinese. Inoltre fu
conseguito per lo stato un prestito di 2.000.000 di lire da una
banca con un interesse agevolato del 4%, poi si aumentarono le
tasse sulla carne, sul pane e sulla polvere da sparo.
Un altro successo fu la trasformazione
in legge del patto colonico voluto e sostenuto dai cattolici e la
promulgazione di leggi e iniziative, come la Cooperativa Popolare
Agricola e di Consumo, che fu un altro tentativo di togliere ai
socialisti il monopolio nel campo cooperativistico.
In definitiva il governo era tutt’altro
che inetto e moribondo, e stava ottenendo invece sensibili
migliorie. Il clima rimaneva comunque molto incandescente tra gli
schieramenti, tanto che a volte volavano cazzotti, o partivano
colpi intimidatori di revolver, come successe durante un comizio a
Serravalle dove Viotto, don Barducci e un missionario ebbero un
feroce scontro, o quando, il 6 maggio, rientrò da Roma l’auto che
riportava gli ambasciatori sammarinesi che erano andati a chiedere
l’innalzamento del canone. Alcuni giornali italiani crearono un
caso parlando di attentato alle autorità locali risultante da
tutta una propaganda di odio, e che è la continuazione di altri
atti di violenza attribuiti per lo più ai socialisti. Costoro
invece sostennero che era stata solo una bravata compiuta da
ignoti.
I fasci di Bologna e Ferrara avevano
inoltre minacciato un intervento per insediarsi nello Stato e
sostituire l’imbelle governo per dare un nuovo
assetto e far tabula rasa dei profughi. Di queste
minacce vennero informate le autorità italiane che provvidero a
sorvegliare alcuni accessi alla Repubblica, tuttavia il 23 maggio
due camion di fascisti, guidati da Italo Balbo, che a San Marino
aveva studiato, arrivarono in Città, poi si fermarono in Borgo e a
Serravalle. Alle 7 del mattino erano però già fuori territorio. Vi
furono comunque altre minacce di un intervento più massiccio.
Tra l’altro proprio in questi mesi un
rifugiato politico, l’avvocato ed ex capitano degli Arditi
Vittorio Ambrosini, si diede da fare per costituire una sezione
sammarinese del partito comunista italiano, rimediando anche
qualche adepto, soprattutto tra le file socialiste. Tra la fine
del ’20 e gl’inizi dell’anno successivo all’interno della
Federazione Socialista si discusse a lungo della tendenza da
assumere, finché non si giunse ad una votazione, svolta proprio
nei primissimi giorni del 1921, che assegnò 50 voti ai socialisti
unitari, e 30 ai comunisti puri. Per un mese i due gruppi rimasero
uniti sotto la bandiera della Federazione Socialista, poi i
comunisti puri, come si chiamavano, presentarono un ordine del
giorno che proponeva la costituzione di una sezione unica,
autonoma sia dal PSI che dal PCI, e aderente alla Terza
Internazionale. La richiesta venne però respinta dal direttivo
socialista: ciò fu l’inizio della spaccatura tra socialisti e
comunisti, che da questo momento si diedero un proprio comitato
esecutivo, e iniziarono a promuovere autonomamente alcune attività
politiche.
Tutti questi fatti e la paura
d’interventi fascisti indussero il governo ad adottare misure
eccezionali, tra cui la censura dei giornali, attuata con decreto
del 13 maggio 1921, la proibizione di riunirsi in assemblea
pubblica e l’arruolamento di un contingente di carabinieri
italiani per tenere sotto stretto controllo l’eccessivo dinamismo
della società sammarinese, anche se la scusa ufficiale fu quella
d’impedire un attacco fascista alla Repubblica, arruolamento
ufficializzato con decreto del 1° giugno.
Ovviamente i socialisti montarono su
tutte le furie, visto che erano reputati i principali responsabili
della confusione che regnava a San Marino. Siamo in regime di
dittatura poliziesca, siamo in piena reazione urlarono dal
Titano. Questa è la repubblica governata dal partito
clericale, che sotto il pretesto di difenderla, come la
popolazione energicamente reclamava, dalle minaccie delle
irruzioni fasciste e dall’insidia reazionaria che mira alla
soppressione del diritto d’asilo ai profughi politici, la cinge di
catene.
Ma in Italia San Marino era ormai
additato come un covo di vipere e una taverna di
briganti, per cui si continuò sulla strada della repressione e
della repentina espulsione dei rifugiati, che nel giro di poco
tempo dovettero quasi tutti andarsene dal territorio, riducendosi
da 189 ad una ventina appena. I carabinieri fecero comunque anche
parecchie perquisizioni nelle case dei socialisti, segno sicuro
che erano loro il principale bersaglio di certi atti intimidatori.
Non a caso negli stessi giorni venne divulgata tra la gente una
lettera aperta scritta da alcuni liceali contro quelle quattro
o cinque sinistre figure del socialismo sammarinese che hanno
fatto del partito una speculazione ed un mezzo di sfruttamento,
cioè Franciosi, Giacomini, Forcellini, longanimi protettori dei
profughi, che avevano saputo disseminare solo odio e
discordia. Franciosi, ipocrita e tergiversante, aveva fatto
della scuola un’assemblea politica, Giacomini era un
pescecane insaziabile ed inesausto sanguisuga del popolo,
Forcellini era un aizzatore ed istigatore instancabile.
Forti attacchi vennero riservati anche a Valdes Franciosi, figlio
di Pietro.
I carabinieri presero a fare irruzione
pure nelle feste private, soprattutto quelle promosse dai rossi,
arrestando chi cantava Bandiera Rossa. Per i socialisti
tuttavia tali azioni non erano da attribuirsi ai pochi fascisti
locali (consideravano il fascismo ancora solo una ipotesi per San
Marino) perché il gruppo socialista non era al governo, né aveva
istigato alla violenza. Quanto stava succedendo era invece solo
colpa dei governanti locali, facili ad allearsi con i reazionari
ed i fascisti italiani, perché tutti provenienti dal ceto
conservatore e oligarchico ostile al socialismo. I democratici
furono e sono tutt’ora i propugnatori i più animosi di questo non
ancora esaurito periodo di reazione liberticida. Essi
rappresentavano la borghesia agraria e le correnti politiche
più retrive che facevano dei socialisti i responsabili di
tutti i mali.
L’anno si chiuse con la raccolta di
firme da parte socialista per mandare via i carabinieri,
sottoscrizione cui aderirono ben 1.300 firmatari.
In realtà non servirà a nulla perché i carabinieri stazioneranno
ancora a lungo sul suolo sammarinese, precisamente fino al 1936.
La sottoscrizione rappresentò comunque l’ultima importante
iniziativa socialista prima dello scioglimento del partito, che
avverrà forzosamente l’anno successivo.
Il 1922 iniziò con forti polemiche tra
La Libertà, il giornale dei popolari, e Gino
Giacomini, definito senza mezzi termini uomo che da oltre un
ventennio fa pubblica propaganda di odio e che semina discordie
insanabili,
polemiche politiche ma anche di natura personale che dureranno per
vari mesi a testimonianza dell’odio personale che ormai
caratterizzava i rapporti politici.
Un importante fatto di quest’anno fu
finalmente il varo della riforma tributaria in data 16 marzo. Vi
furono tentativi fino alla fine per bloccarla, con contadini
rumoreggianti in agitazione all’esterno del Palazzo Pubblico, e
richieste di rinvio, soprattutto da parte dell’Unione Democratica
che, in segno di protesta, uscì dall’aula consiliare; comunque fu
tutto inutile perché la legge passò.
La riforma era sostanzialmente quella
elaborata da Gostoli all’inizio del secolo con revisioni di altri
consulenti, l’ultimo dei quali era stato il ragionier Rizzoli,
funzionario delle imposte italiane. I socialisti, in questo
periodo ipercritici su tutto, ovviamente la contestarono dicendo
che era monca, perché non si era attuata l’imposta sul patrimonio,
limitazione voluta dagli uomini della democrazia agraria,
ed anche perché la popolazione non era stata preparata
adeguatamente e ciò aveva creato forti malumori verso la nuova
legge tributaria. Inoltre non era equa, ed era più complessa di
quella ideata da Gostoli.
Il 1° maggio il Partito Socialista
organizzò la sua ultima grande manifestazione in Città, dove
parlarono Franciosi e Giacomini, mentre nel pomeriggio ne fu
predisposta un’altra presso la nuova Casa del Popolo a Serravalle,
ormai pienamente funzionante.
Il clima rimaneva comunque tesissimo
ed i fascisti italiani di tanto in tanto facevano le loro
apparizioni in territorio. In questi mesi nacque anche un nuovo
gruppo politico, il Partito Nazionale Sammarinese, composto
prevalentemente da fuoriusciti del partito popolare e
simpatizzanti per il fascismo.
Poiché i pericoli di un’involuzione
della situazione politica cominciavano ad essere ben reali, un
gruppo di cittadini, per preservare la Repubblica dai contraccolpi
di ciò che stava accadendo in Italia e per riportare alla
serenità del loro normale svolgimento i contrasti civili acuitisi
in seguito agli avvenimenti che si sono succeduti in questo
periodo, stava cercando di armonizzare tra loro i vari partiti
per concludere un patto di pacificazione.
I socialisti, consapevoli che il
momento politico era cambiato e che nel paese esisteva troppa
acrimonia, abbandonarono le posizioni isolazioniste su cui si
erano barricati, dicendosi disposti alla collaborazione e
sostenendo che nel Consiglio dovessero ritrovare posto tutte le
componenti politiche del paese, se si voleva davvero tornare ad un
periodo di pace. Alla fine il patto di pacificazione fallì perché
i partiti dovevano impegnarsi a non divulgare materiale a stampa
per fomentare i dibattiti politici, a propugnare il rispetto delle
leggi, delle istituzioni e dell’autorità costituita, ad adoperarsi
per calmare gli animi, per tollerare e rispettare ogni ideologia,
per mantenere la libertà e l’indipendenza della Repubblica, a
cessare le discussioni legate alle precedenti divergenze
politiche.
Tutti i raggruppamenti politici sottoscrissero tali clausole, ma i
popolari e i democratici pretesero che i socialisti riconoscessero
pubblicamente l’utilità delle azioni compiute dal governo, cosa
ritenuta da questi inaccettabile. Essi quindi presentarono un loro
patto in cui chiedevano il rispetto e la tolleranza per ogni
ideologia politica e per ogni tipo di propaganda, la possibilità
di divulgare stampe senza problemi, la sconfessione di ogni atto
di violenza e dei personalismi che inducevano a scontri più per
motivi individuali che per motivi politici, il riconoscimento
della tradizionale ospitalità per i delitti politici. Alla fine le
posizioni si dimostrarono troppo distanti tra loro ed ogni
possibilità di pacificazione saltò.
Il fascismo ormai dilagava senza freni
in Italia e cominciò a dare chiari segni della sua metodologia
violenta anche a San Marino, dove ufficialmente si costituì in
partito il 26 agosto. Nel mese di settembre una squadra fascista
proveniente dall’Italia, aiutata anche da locali, entrò a San
Marino per catturare l’onorevole Giuseppe Giulietti, qui
rifugiato, operazione che non ebbe buon esito perché egli riuscì a
non farsi trovare; tuttavia la sua casa venne devastata. Nello
stesso mese fu assalita e messa a soqquadro la Casa del Popolo a
Serravalle.
Il 1° ottobre venne insediata una
Reggenza filofascista, e nel pomeriggio iniziarono subito violenze
contro i socialisti. Giacomini riuscì ad evitare una bastonatura
barricandosi nella sua casa, ma il Titano dovette
sospendere all’istante le pubblicazioni.
Nella notte del 14 ottobre Giacomini
fuggì da San Marino in compagnia di Alvaro Casali e Secondo
Forcellini per recarsi a Roma, perché circolava voce che i
fascisti lo volessero morto. Dovette quindi rimanere in esilio
fino alla caduta del regime.
Il 26 ottobre avvenne un’irruzione dei
fascisti nella sede della Camera del Lavoro, dove bruciarono
mobili e minacciarono il suo segretario.
Nel mese di novembre furono bastonati
sia Valdes che Pietro Franciosi, a cui poi venne tolto il posto
d’insegnante nel liceo. Inoltre fu costretto ad espatriare per un
certo periodo.
Alla fine del 1922 del Partito
Socialista a San Marino non esisteva praticamente più traccia. Lo
si potrà rivedere vivo e attivo sulla scena politica solo
dopo il crollo del fascismo, ovvero più di vent’anni dopo. Nel
frattempo Franciosi morirà di vecchiaia, ma anche di delusione,
molti socialisti saranno costretti ad espatriare per salvarsi dal
fascismo e dalla miseria, altri cambieranno casacca per continuare
a sopravvivere, Giacomini insieme alla sua famiglia farà a lungo
la fame a Roma e Genova, dove sarà anche malmenato e incarcerato,
ma si dimostrerà pronto a tornare in battaglia appena spirerà un
vento più benigno per il suo incrollabile credo e per il suo
inesauribile attivismo politico.
APPENDICE
DOCUMENTARIA
Appendice n° 1
Manifesto redatto per il 1° maggio
1899
LAVORATORI!
Sia lecito ai
socialisti di questo paese, in un giorno consacrato alla festa del
lavoro che preconizza e propizia la risurrezione del proletariato,
di porgere agli operai sammarinesi una parola di ammonimento e di
speranza.
Oggi in quasi tutti i paesi, ove è
sorta la coscienza dei tempi nuovi e la fede nell’emancipazione
del proletariato, si festeggia con adunanze e passeggiate
campestri la nuova e grandiosa concezione della fratellanza umana.
Per noi, su questo monte arido,ove si
è spenta e resa arida ogni energia di uomini liberi, ogni pensiero
attivo e fecondo di progresso civile, ove inerti ed accidiosi
assistiamo al lento ma fatale dissolversi del nostro vecchio
stato, che si consuma nei tortuosi intrighi e nei brogli
vergognosi di una classe privilegiata usurpatrice dei diritti
altrui e dilapidatrice delle sostanze pubbliche,il primo Maggio
non segna né dimostrazione né festa.
Lavoratori!
Non disperate…..I socialisti sammarinesi facendosi interpreti dei
voti e dei propositi che si rinnovano in questo giorno memorabile
in ogni parte del mondo, vi fanno conscii che da voi soli, che
siete la forza e la potenza e che formate ogni ricchezza, dipende
il vostro benessere e che è il benessere del paese; che condizione
prima di vita civile è la partecipazione politica ed
amministrativa del popolo al governo dello stato; che anche nei
limiti dei nostri ordinamenti possono attuarsi riforme necessarie
ed opportune pel benessere economico e politico che invano
sperereste dalla classe dirigente. Non vani lamenti adunque, non
esecrazioni inutili e dannose, ma ferma volontà di gente che ha
coscienza dei proprii doveri e dei proprii diritti.
Chiedete il diritto di voto, ed un
sollecito controllo alle pubbliche amministrazioni.
Ecco il più
forte ed utile proposito che possa rendere bella e santa la
manifestazione del primo Maggio.
I SOCIALISTI
SAMMARINESI
Rep. S. Marino 1 Maggio 1899
Appendice n° 2
Istanze dei socialisti presentate
nell’arengo dell’8/10/1899
IL PARTITO SOCIALISTA DI S. MARINO
porta a
cognizione di tutti i cittadini della repubblica le 2 ISTANZE
presentate a suo nome nell’Arringo dell’8 Ottobre 1899, dirette a
difendere gli interessi del popolo ed il bene del paese.
*****************
1° - Il Partito Socialista di S.
Marino essendo venuto a conoscenza del proposito già stabilito
dal Governo di applicare delle imposte che verrebbero a gravare
principalmente sulla parte povera della popolazione, invita il
Consiglio a soprassedere ad ogni deliberazione d’ordine
finanziario, avendo motivo di credere che con una adatta riforma
del bilancio sia possibile far fronte almeno ad una parte del
disavanzo, per cagion del quale si vogliono applicare le imposte.
In ordine a ciò il Partito Socialista di S. Marino,
riserbandosi di sviluppare con studi che si renderanno pubblici le
economie e gli aumenti d’introito possibili in base all’attuale
bilancio, nota in massimo le grandi spese nel “MINISTERO DELLA
REGGENZA”, (Uscita – Capitolo 1°) e quelle segnate sotto il titolo
“FORZA PUBBLICA” (Uscita - Capitolo 4° ) in cui fra l’altro
si vede come 8
CARABINIERI CONSUMINO ANNUALMENTE PER £. 540 DI SCARPE; e per quel
che è dell’attivo nota altresì il poco profitto nella
“AMMINISTRAZIONE DEI TABACCHI”, ed il provento irrisorio di £.
6.500 dei “BENI DI PUBBLICA BENEFICENZA” che costituiscono
all’incirca un capitale di £. 200.000.
Qualora coi mezzi di cui sopra non si
riuscisse a cancellare il disavanzo esistente, il Partito
Socialista di S. Marino propone un sistema D’IMPOSTA UNICA SUL
REDDITO, CON ESENZIONE DEI REDDITI MINORI E PROGRESSIVITA’ PEI
MAGGIORI.
******************
2° - Il Partito Socialista
di S. Marino riconoscendo che gli inconvenienti di bilancio
già citati e l’irregolare funzionamento delle amministrazioni sono
determinate principalmente dalla mancanza di controllo pubblico;
che coll’attuale forma di governo gli
interessi ed i bisogni popolari non sono direttamente
rappresentati e soddisfatti;
che condizione prima di vita civile è
la partecipazione politica ed amministrativa del popolo al governo
della cosa pubblica;
che in quanto a forma, il nostro
governo è in contraddizione col suo nome di repubblica, rimanendo
inferiore in ordine politico al vicino regno d’Italia, dove
funziona il diritto di voto;
PROPONE CHE SI ATTUI UNA RIFORMA PER
CUI SIA ISTITUITO IL SUFFRAGIO UNIVERSALE CON LE ELEZIONI DEL
CONSIGLIO IN BASE DI ESSO.
----------------------------------------------
S. Marino Tip. P. Angeli 1899
Appendice n° 3
Statuto della Federazione Socialista
Sammarinese
11 novembre 1906
1. Tutte le
sezioni socialiste della Repubblica di San Marino iscritte al
Partito Socialista Italiano costituiscono la Federazione
Socialista Sammarinese.
2. La
Federazione ha per iscopo:
a - di
armonizzare e regolare l’azione delle sezioni locali;
b - di provvedere
al consolidamento delle sezioni locali esistenti, alla creazione
di nuove sezioni, allo sviluppo della potenza del proletariato
mediante un’assidua propaganda ed un insistente lavoro
d’organizzazione;
c - d’intervenire a regolare tutti i rapporti fra sezioni e
Partito nazionale.
3. Nessuna quota
è dovuta alla Federazione e le eventuali spese verranno sostenute
o in comune o conforme il bisogno da chi di ragione.
4. Organo di
propaganda politica della Federazione è il giornale Il Titano.
5. Organi di
Federazione sono:
a - l’Assemblea Generale delle sezioni riunite;
b - la Commissione esecutiva.
6. L’Assemblea
Generale è costituita dai soci delle sezioni riunite; è convocata
ordinariamente una volta ogni due mesi dalla Commissione
Esecutiva, e in via straordinaria quando ne sia fatta richiesta
per iscritto alla Commissione stessa da non meno di sette soci
delle sezioni federate.
7. L’Assemblea
Generale delle sezioni riunite è chiamata ordinariamente
1° - a discutere e stabilire l’indirizzo generale del Titano, ad
assumere la responsabilità amministrativa e politica, curandone la
diffusione e la sua progressiva vitalità.
2° - a discutere e deliberare sulla tattica
elettorale.
3° - a discutere preventivamente le questioni poste
all’ordine del giorno dal Congresso Nazionale interessanti la
vitalità del Partito.
8. L’Assemblea
Generale delle sezioni riunite è valida con la metà più uno degli
iscritti presenti e residenti in Repubblica.
9. La Commissione
Esecutiva sarà composta di cinque membri e dovrà scegliersi nel
suo seno un Segretario.
10. E’ compito
della Commissione Esecutiva di dare esecuzione ai deliberati delle
Assemblee Generali. Essa ha inoltre una funzione direttiva per le
iniziative che possa ritenere necessarie di prendere senza ritardo
e funziona pure come Giudice d’appello nelle questioni che non si
siano potute effettivamente risolvere dalle sezioni. Convoca
l’Assemblea Generale di sua iniziativa o quando ne è richiesta ai
sensi dell’articolo sei, dirige il lavoro elettorale curando che
sia distribuita utilmente la propaganda secondo i bisogni.
11. Le Assemblee
Generali mensili o straordinarie saranno tenute alternativamente
in Borgo e in Città.
12. I membri
della Commissione Federale Esecutiva sono scelti al di fuori di
quelli delle Commissioni esecutive sezionali.
Appendice n° 4
Elenco degli
iscritti alla Federazione Socialista nel 1907
1.
Albini Giuseppe
2.
Angeli Gino
3.
Balsimelli Alessandro
4.
Belloni Nullo
5.
Belloni Scipione
6.
Belluzzi Giuliano
7.
Bombini Augusto
8.
Bonelli Ario
9.
Bruschi Luigi
10.
Beccari Gaetano
11.
Beccari Giuseppe
12.
Belleffi Benedetto
13.
Calisesi Paolo
14.
Calisesi Pompeo
15.
Capicchioni Girolamo
16.
Capicchioni Settimio
17.
Casadei Achille
18.
Casali Alfredo
19.
Casali Sanzio
20.
Ceresa Attilio
21.
Cesarini Antonio
22.
Corsucci Angelo
23.
De Biagi Sante
24.
Della Balda Francesco
25.
Foschi Augusto
26.
Franciosi Antonio
27.
Franciosi Pietro
28.
Francisci Annibale
29.
Forcellini Domenico
30.
Forcellini Secondo
31.
Gardenghi Federico
32.
Giacomini Angelo
33.
Giacomini Gianetto
34.
Volpini Giuseppe
35.
Zani Angelo
36.
Giacomini Gino
|
37.
Giacomini Pio
38.
Giancecchi Doro
39.
Giovannarini Giuseppe
40.
Giovannarini Sanzio
41.
Ghiotti Luigi
42.
Graziosi Enrico
43.
Lividini Curzio
44.
Lombardi Luigi
45.
Lombardi Raffaele
46.
Macina Alessandro
47.
Macina Pietro
48.
Macina Reginaldo
49.
Macina Marino
50.
Marchi Giovanni
51.
Marchi Giuseppe
52.
Mariani Giuseppe
53.
Mariotti Marino
54.
Molinari Cafiero
55.
Montemaggi Raffaele
56.
Muratori Innocenzo
57.
Palmucci Lazzaro
58.
Ravezzi Arturo
59.
Reffi Alberto
60.
Reffi Marcello
61.
Reffi Rufo
62.
Salicioni Colombo
63.
Sapori Luigi
64.
Scorrano Amedeo
65.
Simoncini Lorenzo
66.
Simoncini Marino
67.
Simoncini Sivio
68.
Stacchini Angelo
69.
Tamagnini Giovanni
70.
Ugolini Francesco
71.
Ugolini Vito
72.
Vincenti
Giovanni
73.
Volpini Angelo |
Appendice n° 5
Atto di
ricostituzione della Federazione Socialista
20 dicembre 1914
La Federazione
Socialista nell’atto della propria ricostituzione prende impegni
d’intendere i propri sforzi alla ripresa di un movimento di
preciso carattere politico ed economico consono alle finalità e
alla pratica del Partito Socialista Internazionale, riafferma i
principii fondamentali della dottrina per cui il Partito è spinto
ad agevolare la naturale evoluzione che porta la società a
sostituire alla gestione privata la proprietà collettiva dei mezzi
di produzione, riconosce conforme alla concezione del determinismo
economico che la progressiva espropriazione e socializzazione si
attua con lo strumento della lotte di classe, conferma che la
realizzazione di questo obiettivo presuppone così nel vasto campo
dell’aggregato sociale come nella piccola convivenza della
Repubblica che in quello si identifica e vive la sua vita di
relazione tutta una lenta e graduale trasformazione di sistemi e
un progressivo elevamento della classe proletaria che non può
avvenire se non per virtù di esercizio che crea le forze e per
conseguenza di riforme che sono la sintesi di laboriose
maturazioni. Riconosce che nel campo dell’azione quotidiana per il
raggiungimento degli scopi sopra esposti due capisaldi sono da
ritenersi indispensabili: l’organizzazione operaia e l’azione
politica. Conseguentemente riconosce l’urgenza di organizzare la
classe operaia per il compimento della propria educazione di
classe in una schietta forma sindacale di categoria e a tale uopo
si propone di promuovere l’istituzione di una Camera del Lavoro
che risponda al carattere, alle forme, alla funzione degli
organismi proletari di tutti i paesi, che valorizzi ai fini
sociali gli aggregati operai attuali, che regoli e armonizzi
l’azione delle varie categorie, che organizzi i contadini e le
altre classi operaie disperse, e diriga il proletariato
sammarinese ad un’azione consapevole di resistenza, di pressione,
di conquista verso la classe borghese, azione che sarà tanto più
fruttuosa e rispondente al fine dell’emancipazione quanto più sarà
animata dalla fede di cui si rende assertore il Partito
Socialista. Riconferma il fine della conquista dei poteri pubblici
in virtù di proselitismo e di espansione politica e l’obiettivo di
una repubblica a forma sociale intesa ad agevolare le aspirazioni
e i bisogni della classe lavoratrice e rendersi strumento di un
progressivo ordine di eguaglianza economica e a maturare un
superiore assetto democratico e civile, capisaldi di questa
attuazioni sono: nell’ordine finanziario, un sistema tributario
globale e progressivo che abbia derivazione dalla capacità della
classe abbiente a corrispondenza di un indeclinabile dovere
civico, a rettifica dello squilibrio economico fra le varie
classi, a stimolo delle operosità industriale e commerciale.
Nell’ordine sociale, le pensioni agli invalidi e ai vecchi,
attuate possibilmente con l’utilizzazione dei beni di mano morta,
assistenza dell’infanzia e della maternità, incremento della
coltura popolare e professionale, tutela della disoccupazione,
difesa dei consumi, esercizio diretto dei servizi di prima
necessità,. Nell’ordine politico: democratizzazione del governo
sulla base delle forme costituzionali della Repubblica,
separazione della Chiesa dallo Stato sulla base del più largo
spirito di libertà, eleggibilità diretta della Reggenza,
definizione e riorganamento dei poteri pubblici in genere del
Consiglio di Stato in particolare, in ordine a una razionale
divisione di funzioni, di competenze e di responsabilità,
disciplina degli uffici. Ritiene che, ad asperire e a raggiungere
l’aspetto di una Repubblica che corrisponda agli intenti e alle
forme della civiltà sociale in pieno divenire, il Partito
Socialista Sammarinese deve esercitare un’azione distinta, chiara,
disciplinata che sia consona alla sua specifica funzione, che lo
differenzi da ogni altra tendenza, che lo preservi dalla
partecipazione attiva o passiva al sistema vigente di governo, e
dalle conseguenti responsabilità, e infine da compromessi politici
che lo destituirebbero della sua forza rinnovativa, onde, pur
rendendosi conto del carattere della vita locale e
dell’inevitabilità di contatti e di collaborazioni spontanee e
contingenti nell’ambito della vita cittadina, e pur riconoscendo
che le realizzazioni economiche e politiche cui mira il Partito
Socialista Sammarinese saranno conseguibili a prezzo di un’opera
paziente e equilibrata, che abbia piena sensibilità delle
condizioni storiche, politiche, ma che sia decisamente orientata
al proprio fine, determina che essendo inconciliabile con la
concettualità e la pratica socialista e democratica l’indirizzo
governativo e le forme statali attualmente in vigore, è da
escludere ogni partecipazione e ogni consenso agli ordini del
potere esecutivo. Ritiene che dopo il fallace tentativo di
concentramento democratico sia necessario accentuare il processo
di differenziazione pur tendendo a propulsionare le forze
politiche affini; dà mandato al gruppo consiliare di costituirsi
organo di controllo, di avvaloramento e difesa del programma
socialista in contrapposizione all’opera dei rappresentanti della
classe abbiente e conservatrice che con la finzione nominale della
repubblica, col,pretesto della tradizione, con l’inganno
sentimentale del patriottismo, consolida il proprio privilegio
economico ed oppugna ogni atto di reale progresso. Stima
inderogabile necessità recare in tutte le varie funzioni, opere,
istituzioni della vita pubblica ov’è concesso di rendersi utile a
scopo sociale, l’orientazione, il metodo, la consuetudine che son
propri alla dottrina e all’azione socialista per operare con
diritta consapevolezza quella trasformazione della vita civica
nelle sue varie manifestazioni, che è reclamata dal presente
rilassamento e disagio morale e politico; s’impegna a svolgere
un’opera di educazione, di propaganda, di organizzazione e di
vigilare che tutti i propri aderenti, specie coloro che hanno
attributo di rappresentanza, si uniformino al programma socialista
e alle deliberazioni del Partito, e non contravvengano a quei
principi di rettitudine politica che sono la bellezza e la forza
della fede socialista, e delibera infine, a presidio di questa
varia opera, la pubblicazione di un proprio periodico.
Appendice n° 6
La riforma dei poteri pubblici
Proposta del Gruppo Consiliare
Socialista
presentata all’Arengo dell’8 Aprile
1917
Da che il
Gruppo Socialista ha assunto nel Consiglio Grande della Repubblica
una linea di condotta autonoma e un atteggiamento e una disciplina
conforme alle idealità e al programma che lo indirizzano nella
vita pubblica, si è imposto l'obbligo di negare la propria
partecipazione alle elezioni della Reggenza.
A tale rifiuto
è stato indotto non dal futile desiderio di compiere un gesto o
una formalità o, peggio, una finzione di parte, quant' altre mai
condannabile nell'attuale momento, ma dal preciso e meditato
intendimento di. negare qualsiasi consenso, tacito o palese, ad un
ordine di cose che esso reputa cagione delle cattive sorti della
Repubblica.
Nel dar atto in
Consiglio della,deliberata astensione, il Gruppo espresse le
ragioni di principio e.di fatto che giustificavano il proprio
atteggiamento, e successivamente prospettò per accenni la riforma
che stimava idonea e atta a rimuovere le cause immediate che
ostacolano il regolare svolgimento della pubblica amministrazione
e ad assicurare, sull’esempio di ogni civile costituzione, un
più saldo ordinamento funzionale. Ma fosse o l'argomento
immaturo, o invisa la parte che lo presentava, o negativa la
volontà consiliare, sta di fatto che la proposta fu affidata
negligentemente ad una Commissione matrigna la quale fu
tratti a dimenticare il suo compito.
Ora, poiché il
Gruppo Cons. Socialista non vuol rendersi trascurato di uno dei
suoi più imperiosi doveri, precisa la sua critica, chiarisce i
suoi intenti e sottopone alla discussione del Consiglio il suo
schema di riordinamento, avvalendosi dell’Arengo non tanto per
assicurare alla proposta il diritto della precedenza,
quanto perché essa consegua quel requisito di pubblica importanza
che a giusto titolo le risulterà dal fatto di essere stata
affermata in pieno consesso popolare.
Non occorre sottile discernimento
critico per avere chiara percezione di quel fenomeno di
dissolvimento che travaglia e insidia tutta la nostra vita
pubblica. Distinti sono i segni di un temibile rilassamento nei
legami, nei rapporti, nei costumi nostri, e ciascuno si rende
consapevole di un ordine di cose profondamente disarmonico
e di uno stato d' animo perturbato, fatto di sfiducia e di
sospetti, di egoismi e di trascuranze che investe tutti i nostri
istituti politici e civili e invanisce ogni sforzo e ogni
iniziativa volti al bene comune. E’ specifico e palese
l’accentuarsi di quella piega e tendenza antisociale per cui
classi, gruppi e singoli, senza remora, senza temperanza e
senza misura
gareggiano in esorbitanze e mirano ad accaparrarsi o a consolidare
o ad estendere esenzioni, benefici, privilegi e tornaconti in
perfetto contrasto col bene pubblico; e tutto uno spirito e una
pratica consacrata di accattonaggio, di cui fan primo esercizio le
classi abbienti che per esimersi dai carichi fiscali si studiano
di trarre profitti da estranee derivazioni con evidente sacrificio
della dignità e autonomia dello stato, umilia e deprime la nostra
vita pubblica.
Dal fondamento anormale di questa
prassi finanziaria trae origine quella caratteristica forma di
attività. governativa, che si esercita in un continuo consumo
senza compensi e senza reintegrazioni, quella politica di
immediato, vario, dissennato accontentamento che. logora e
sperpera beni, cose e uomini, senza meditati intenti e senza
utilizzazioni durevoli, precludendo il conseguimento di un
migliore e perfettibile ordine amministrativo e politico e la
formazione progressiva di quegli istituti e presidi sociali capaci
di valorizzare ed elevare le forze economiche, morali e civili
della collettività.
Profonde e remote, cause che è fuor d'
opera investigare, hanno prodotto, questa alterazione dei nostri
costumi, essenziale tra tutte l'insufficienza e primordialità
dell'economia locale, che se assicurò alla Repubblica tanta
longevità oggi ne minaccia, la esistenza libera e feconda. Vero è
però che una causa contingente di.questo fenomeno si deve
ricercare nel fatto che la nostra vita dapprima raccolta e spinta
poi, sotto l'influenza e la pressione di eventi universali, in una
fase improvvisa di espansioni, di bisogni, di esigenze economiche
e sociali nuove, non che trovare nelle sua crisi di crescenza
ordini e poteri adeguati alle ulteriori necessità, ha dovuto
subire la costrizione di un vieto sistema di governo condannato a
insanabili incapacità.
L' Arengo del 1906, che pareva
felicemente destinato a rendersi stromento di tutto un nuovo
ordine di cose, si è fermato alla scheda, e colla scheda la
democrazia ha coperto una piaga profonda e ha ingannato
momentaneamente il male stesso che travagliava tutto il paese.
Le riforme politiche amministrative e
tecniche, che si presentavano come conseguente corollario di quel
primo atto di rinnovamento civile, furono bandite dai programmi
con sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati; e
rimase intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue
direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e
coi suoi vizi organici, coi, suoi costumi e con tutto il suo
armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di
commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano
in un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza
limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità.
E tale ancora rimane.
0gni manifestazione e ogni atto della
nostra vita pubblica offre motivo di malcontento a chi consideri i
fatti in sé e per sé come il prodotto di determinazioni personali
e immediate, e materia di critica a chi si rende consapevole delle
cause mediate e immanenti da cui rampollano.
Tutto ciò che ha attinenza e relazione
colla nostra vita pubblica: da una pratica di servizio a una
delibera consiliare, da una misura a una legge; da un atto
amministrativo ad un ordine di funzioni permanenti; da un caso
comune a un fenomeno complesso; dal fatterello di cronaca allo
scandalo irreparabile, tutto offre una categorica prova alla tesi
da noi pertinacemente sostenuta: che il sistema che ci regge,
nella sua struttura organica non meno che nello spirito morale e
politico che lo informa e nel criterio amministrativo che lo
guida, è la negazione di una bene ordinata democrazia.
Quei nostri avversari politici che
lamentano tutto il cattivo andazzo delle cose pubbliche, pur
rimanendo i più gelosi custodi e le volontà predominanti
dell’ordine costituito; che si trovano nell’imbarazzante caso di
dirigere le pubbliche faccende e di doverle ripudiare per la piega
che esse prendono inevitabilmente, non si fermino alle
constatazioni, ma ci seguano senza preconcetto sul campo d’esame
dove noi cerchiamo di individuare le cause e le origini prossime
del male e di trovare i rimedi risanatori che fanno all’uopo. Noi
ci asterremo di proposito dal trattare e proporre quelle riforme e
quelle soluzioni che costituiscono il substrato fondamentale e
dottrinario del nostro programma socialista, desiderosi come
siamo, di evitare tutti quegli argomenti di carattere
spiccatamente politico sui quali si accenderebbero irriducibili
contrasti.
L’ora che volge e gli avvenimenti che
maturano, reclamano un’opera di più facile intesa, un’opera
preliminare, che è il presupposto comune ad ogni ordine di idee e
di propositi sul funzionamento dello stato: l’assetto dei
poteri pubblici.
******
E’ ovvio trarre dai fatti constatati e constatabili questa
deduzione: che la Repubblica non ha un governo, nel
rigoroso senso con cui deve essere intesa e concepita la funzione
preminente, direttiva, coordinatrice e responsabile dello stato.
E’ un’affermazione cotesta che sembra a tutta prima paradossale a
chi fermi il pensiero su quella congerie di istituzioni che dal
Consiglio Generale ai Congressi, alle Commissioni, affaccenda un
numero così rilevante di uomini pubblici.
Ma dall’esito di un qualsiasi esame è facile rendersi convinti che
nel nostro ordinamento organico manca la vera e propria funzione
dell’amministratore, manca il corpo costituente il potere
esecutivo, depositario della volontà del Consiglio, delegato a
preparare, a elaborare e ad attuare tutto ciò che è materia di
pubblico governo, mentre tutti gli altri organi, che risentono
della mancanza di questo centro coordinatore, sono destinati a
sconfinare dall’orbita loro propria, legislativa, ordinativa o
consultiva.
A
tutt’oggi si continua ad equivocare ancora grossolanamente fra
Governo e Consiglio che alcuni confondono in una stessa
immedesimazione.
Il Consiglio legifera, determina, orienta ma non opera; chi opera,
chi prepara, chi si rende responsabile della esecuzione della
volontà consiliare è il governo, cioè il potere esecutivo. Noi non
abbiamo bisogno di ricorrere alla dottrina e al giure
costituzionale per avvalorare questo principio che ovunque è in
atto.
Ora, questo potere esecutivo, permanente, responsabile non c’è, e
il Governo della repubblica è la risultante, e potremmo dire lo
squilibrio, fra due forze politiche, il Consiglio Generale, troppo
esteso, vario ed estemporaneo per assumersi funzioni che esigono
una cura diuturna minuta e vigile, e la Reggenza troppo casuale e
effimera, per sostenere da sola il fondo amministrativo di uno
Stato ancorché piccolo.
Invero, chi
oggi impersona il Governo, benché per un processo di
discriminazione, varie funzioni sì giudiziarie che amministrative,
originariamente assommate nella suprema magistratura, siano venute
trasferendosi in organi e offici distinti; chi dirige nel suo
complesso movimento, e nel suo corso, la vita pubblica, è la
Reggenza, la quale, per l’inesorabile vicenda della sua caducità,
non meno che per la casualità della sua designazione, che è sempre
un giuoco cieco quando non è uno scherzo di cattivo genere, dà
luogo ad un governo provvisorio e alternativo, un governo
travagliato da una permanente crisi di gabinetto, in periodica
soluzione di continuità.
Data la breve fazione e finzione della
Reggenza seviziata, oltre che dall’impaccio di una
etichetta di stile alquanto pretenzioso e arcaico, dal carico e
dalla preoccupazione delle più opposte faccende, per cui è posta
essa sola allo sbaraglio delle più impensate circostanze, il
potere esecutivo si esaurisce, impotente alla attuazione di
meditati programmi amministrativi nel disbrigo minuto dei
provvedimenti giornalieri a cui ogni Reggenza attende in diverso
modo,
secondo le sue attitudini, i suoi
umori e le sue abilità.
Tendenza
incoercibile e fatale di questo potere aleatorio è quella di
sbarcare il lunario, evitando gli scogli, e di dar soddisfazione
al pubblico che reclama o postula.
Gli affari grossi e piccoli che
involgono responsabilità, vengono scaricati, così come si
presentano, ex novo, senza studi o riferimenti, al Consiglio
Grande, il quale, abbordato di sorpresa, pronuncia le sue
decisioni in materia di leggi o di finanze, di bilanci e.di
lavori, in un continuo sforzo d'improvvisazione, facendo e
disfacendo dall' oggi al domini come in un tela di Penelope.
L' assenza-di un potere investito di
facoltà preordinatrici ed esecutorie, espressione dello volontà e
dell' indirizzo della maggioranza, fa sì che ogni pubblico officio
perda di vista il limite delle proprie attribuzioni e dei propri
obblighi, talché mentre alla Reggenza spetta di inoltrare
ogni sorta di pratiche, al Consiglio è demandato il compito
sproporzionato di risolvere e di dar fondo a tutta la materia
amministrativa nei suoi particolari e dettagli attuabili e di
risolvere finanche casi di stretto carattere esecutorio, tecnico e
funzionale, mentre poi né l'una né l' altro sono in grado, per la
loro stessa natura, di dominare e di convogliare, nell' alveo di
ordinate branche, le varie funzioni e i vari servizi pubblici.
A destituire poi la Reggenza di ogni
efficacia rappresentativa nel suo affrettato transito di
Perseide al potere, che dà alla Repubblica un po' di
barbaglio decorativo e lascia il cielo che trova, contribuisce
l'elezione fatta per sorteggio, con che al Consiglio si inibisce
la scelta diretta e consapevole dei propri mandatari. Ne
consegue che ogni elemento di responsabilità, nell' esercizio del
potere, viene senz'altro di fatto annullato e la Reggenza diventa
un pesce d' Aprile a tutto scapito della autorità dello Stato e
della dignità di un libero paese.
Il potere fittizio e labile che ci
regge tuttora e l' assenza di un corpo consapevolmente delegato a
dirigere i pubblici negozi e a rispondere di fronte al Consiglio,
dei proprii atti amministrativi e politici, ha cagionato infinite
iatture al paese, estrema fra tutte quella di dover affidare
compiti e operazioni di grande importanza politica morale e
finanziaria alla discrezione di qualche cittadino posto così al di
fuori e al disopra del Governo, e sul quale il Governo stesso,
sprovveduto di sicuri presidi, non ha potuto esercitare
un'oculata opera di controllo.
Orbene, di fronte all'interesse
supremo della Repubblica, chi vorrà ancora farsi schermo di
formalismi e di tradizioni superate, chi vorrà
aduggiarsi in vieti pregiudizi e misoneismi, per negare alle
progressive sorti e fortune della nostra terra, quegli ordinamenti
che siano in corrispondenza colle nuove esigenze civili e diano
affidamento di un costume pubblico migliore?
L' irriducibile ossequenza a
forme, ad usi, a spoglie morte, che costituiscono un elemento di
disagio alla vita moderna, è atto di spiriti angusti e di menti
sviate che sentono il prestigio delle istituzioni solo nelle loro
caricature, e parodie deformi.
*****
Se il Gruppo Consiliare Socialista, il
quale al postutto non può essere indiziato e sospetto d'alcuna
aspirazione al potere, dovesse manifestare intero il proprio
pensiero in tema di riforme costituzionali, avrebbe facili
argomenti atti a dimostrare che per restituire la Reggenza ad una
autorità efficiente, occorrerebbe assegnarle anzitutto un periodo
di vita maggiore dell' attuale e corrisponderle una indennità che
le permettesse di attendere ai pubblici negozi senza personale
discapito. Mi poiché, conseguente alle proprie premesse, il
Gruppo vuol limitarsi alla presentazione delle riforme di più
immediata attuazione e che non toccano il fondamento delle
disposizioni statutarie più antiche, propone sul momento la nomina
della Reggenza per votazione diretta come conseguenza del
suffragio statuito per la scelta dei Consiglieri, dall' Arengo
1906.
Convenuto che alla Reggenza debba
conservarsi il breve transito semestrale che non può consentirle
se non un'investitura formalmente rappresentativa, si consolidi
il Congresso di Stato che fino ad oggi ha avuto funzioni
pressoché consultive, esercitate non oltre la breve seduta
in cui è chiamato a parere sulle quistioni cui piaccia alla
Reggenza di aver lume e chiarimento, e che rimane esautorato a
segno di confondersi in Consiglio nell' aggregato generale.
La Reggenza,
suprema magistratura della Repubblica,
abbia mansioni di presidenza più dignitose e meno defatiganti, non
sia la carica d'utilità, buona a tutti i servigi, ma diriga lo
Stato, il Governo, il Consiglio, i Congressi, e si riserbi di
attendere in modo particolare agli alti e delicati affari
politici e diplomatici, alla giustizia, alla sicurezza pubblica,
alle milizie.
Il Consiglio di Stato
venga investito di vere e proprie
attribuzioni di governo, quali sono implicite a un
ministero, a una giunta, a una deputazione, a quegli organi,
insomma, che ricorrono negli ordinamenti statali e municipali di
tutti i paesi. Sia diviso in Dicasterii o deputazioni, per
modo che ciascun membro venga posto a capo di una speciale branca
pubblica.
Senza intento né intenzione di
sconfinare dai limiti imposti, all' economia e al carattere di
questa nostra sintesi, stimiamo opportuno fin d'ora di tracciare
sommariamente la delineazione del Consiglio di Stato nel modo che
segue:
1.
Dicastero
- Affari politici e diplomatici – Giustizia – Sicurezza pubblica –
Milizie;
2.
=
- Finanze ed Economato;
3.
= - Lavori
pubblici;
4.
= -
Istruzione;
5.
= - Annona,
Agricoltura, Industria e Commercio;
6.
= - Sanità
e Igiene;
7.
= - Stato
civile;
8.
= - Poste,
Telegrafi, Telefoni e Comunicazioni;
9.
= -
Beneficenza e Assistenza.
Ogni deputato abbia in ordine
di subordinazione amministrativa gli uffici e i servizi propri;
curi le funzioni che si collegano al ramo cui è assunto; assista o
presieda il corpo consultivo annesso; vigili e controlli gli
uffici che gli sono soggetti.
Collegialmente e sempre sotto la
presidenza della Reggenza da cui riceve le funzioni, il
Consiglio di Stato prepari la materia che deve essere posta
discussione: le
leggi, i regolamenti, i progetti, i bilanci ecc. muniti
regolarmente dei riferimenti dei corpi consultivi; delle
relazioni di segreteria e dei singoli uffici; dia esecuzione alle
deliberazioni del Consiglio generale; prenda sotto
la sua responsabilità le deliberazioni che altrimenti
spetterebbero all'assemblea, quando l’urgenza sia tale da non
permetterne la convocazione; dia atto ai lavori approvati dal
Consiglio; regoli i contratti e i capitolati; autorizzi le spese
richieste preventivamente dai singoli uffici, e di conseguenza
esamini e controlli le fatture e le note di lavoro, di fornitura e
simili, prima che queste siano sottoposte al visto della
Commissione del Bilancio; infine sieda a lato della Reggenza nelle
convocazioni del Consiglio Generale e risponda della propria
opera.
Il Consiglio Generale
disciplini convenientemente, i proprii lavori adottando nuove
misure regolamentari intese: a fissare le sessioni ordinarie
specie per la discussione del Preventivo e del Consuntivo, il
quale ultimo è conosciuto, senza alcun atto ufficiale,
solo dopo la sua pubblicazione; a stabilire i casi d'
incompatibilità nella elezione del Consiglio di Stato e
simili; a riconoscere il diritto dell'astensione; ad adottare il
sistema di votazioni per scheda nelle nomine plurime, come
mezzo più dignitoso, più logico e più spedito; ad abolire ogni e
qualunque specie di sorteggio anche nella scelta dell'Avvocato dei
poveri, del Procuratore fiscale e simili; a enumerare i casi nei
quali si rende obbligatorio il raggiungimento dei due terzi nelle
votazioni sull'oggetto di spese, confermando esplicitamente
l'applicazione di questo criterio nei casi in cui 1a
votazione si riferisca ad oggetti che abbiano uno
stanziamento generico nel pubblico bilancio; a vietare la
ripetizione delle votazioni su oggetti respinti, anche quando si
ricorre all'espediente artificioso di decurtare la somma
richiesta; a determinare perentoriamente che in materia di lavori
pubblici due fasi occorrono per rendere perfette le deliberazioni
e cioè una votazione di massima sull' oggetto proposto e una
votazione di spesa previa presentazione del progetto tecnico e
finanziario; e che in sede di bilancio le votazioni in blocco non
debbano essere ammesse se non nel caso di lavori già in esecuzione
pei quali occorrano ordinari stanziamenti annuali; a vietare la
trattazione di argomenti non iscritti all' ordine del giorno e a
riconoscere l'urgenza solo nei casi aventi peculiari caratteri
d'interesse pubblico.
Con queste e altre norme di
procedura parlamentare il Consiglio assumerà una regola, una
disciplina, una condotta normale e uniforme, quale si addicono al
prestigio delle sue alte funzioni, oggi sminuite dalla casuale e
spesso contraddittoria pratica della quale è in balia.
La Commissione del Bilancio,
importantissimo organo di tutela e di controllo delle pubbliche
finanze, non sia immiserito al solo compito quindicinale di
visitare le note contabili, né abbia posizione subordinata
al Consiglio di Stato, cosi come prescrive il regolamento che
lo istituì, ma venga investito di ampi poteri di verifica e
revisione degli uffici contabili, di cassa, di posta dei
magazzini; sia chiamato a compilare col Consiglio di
Stato il Bilancio pubblico del quale è depositario; sia
considerato come corpo giuridico indipendente, e formato di
persone estranee al potere esecutivo e agli uffici.
A compiere il riordinamento proposto,
opiniamo convenga disciplinare i Corpi consultivi e le
Commissioni speciali che vorrebbero essere ridotte nel
numero dei loro componenti, per maggior utilizzazione del
personale e più agilità e prontezza di funzionamento; dare assetto
agli uffici amministrativi e tecnici per le
necessarie coordinazioni colle branche del potere esecutivo;
infine eliminare le cariche di ripiego e le istituzioni minori
cadute già in disuetudine o resesi inattive, e tutti gli organi,
le cui attribuzioni verrebbero riassunte dal Consiglio di Stato e
che risultano, col nuovo assetto proposto, anacronistiche o
pleonastiche.
*****
Con la presentazione di questo schema
di riordinamento dei poteri pubblici tracciato in linee
sintetiche, il Gruppo Socialista ha compiuto il dovere che più gli
premeva nell’attuale momento.
Non vana smania di nuovo; non
orgogliosa ostentazione di parte; non meschina speculazione
politica lo muovono; ma la fede nei proprii ideali e l’amore
ineguagliabile per la Repubblica; la coscienza di aver piena
visione della realtà presente, di saper interpretare i bisogni
sociali più sensibili e di rendersi conto come lo strumento civile
più valido a risanare la vita pubblica sia la riforma del sistema,
senza di che non si rimuove la causa prima di questo profondo
stato di alterazione e ogni sforzo pur stimabile è destinato a
naufragare, ogni opera pur buona è condannata a deperire non
trovando collocazione in ordine saldo che garantisca
ampiamente di sé, ogni uomo pur ben intenzionato alla pubblica
salute è tratto a guastarsi.
Vi sono ore nella storia d' ogni paese
in cui gli avvenimenti, lungamente forzati in mal costrutte forme
sociali, si presentano in rivincita, armati del terribile dilemma:
o rinnovarsi o perire, di fronte ai quali mal si risponde coi
meschini latinetti e colle giaculatorie della tradizione.
Questa ora è la
nostra!
San Marino, 8 Aprile 1917.
Il Gruppo Consiliare Socialista
Belloni
Scipione - Casali Alfredo - Cesarini Antonio - Franciosi Pietro –
Giacomini Gino – Giacomini Pio – Giovannarini Giuseppe – Reffi
Marcello