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                   All’ umile scalpellino

Girolamo Capicchioni

-mio mai conosciuto bisnonno -

 che affiancò gli altri padri del

 Socialismo sammarinese nella battaglia

 per il progresso dei ceti meno abbienti e

 del Paese intero

 

 

              

 

 

Verter Casali

STORIA DEL SOCIALISMO SAMMARINESE

dalle origini al 1922

 

 

 

SOMMARIO

 

 

 

Introduzione                                                            

 

 

I.          Il riformismo di fine Ottocento                               

 

II.         La nascita del Partito Socialista Sammarinese 

 

III.         Il nuovo secolo e la battaglia pro arengo             

 

IV.       Il dopo arengo e la rottura dell’alleanza democratica    

                                                                           

V.        1908 – 1910: la nascita  dell’Unione  Cattolica   Sammarinese

 

VI.       1911 – 1914: Una nuova alleanza democratica

 

VII.       1914 – 1918: Il periodo bellico                             

 

VIII.            1919 – 1922: Gli anni massimalisti                           

 

Appendice Documentaria

 

  

 

Introduzione

 

 

La storia del socialismo delle origini, a San Marino come nel mondo, è soprattutto la storia di un sogno: un sogno fatto di umanità, giustizia sociale, equità, lotta contro le disuguaglianze; un sogno che era anche una fede, un credo integralista pronto a scagliarsi con veemenza contro le altre fedi che in quel tempo fornivano agli uomini qualche motivo per vivere, qualche risposta esistenziale.

I padri del socialismo sono dunque da considerarsi allo stesso tempo sognatori e credenti, idealisti e proseliti; uomini, cioè, disposti a sacrifici, umiliazioni, sforzi personali anche ingenti in nome dei loro principi, della loro religione laica, dell’incrollabile mito di un futuro migliore, soprattutto per i meno fortunati.

Anche esaminando l’operato dei primi socialisti sammarinesi, Giacomini, Franciosi, Casali, Capicchioni, Forcellini e tanti altri che mi auguro di aver citato almeno una volta all’interno del presente volume, ci troviamo di fronte alla stessa fede granitica, allo stesso sogno, che non è mai utopia, ma sempre certezza di un cambiamento imminente, è sempre lotta concreta, a volte dura, per cambiare davvero l’esistenza, per trasformare subito, senza indugi e senza tentennamenti, la quotidianità sia nei suoi aspetti più astratti, ma soprattutto in quelli più concreti: il pane per tutti, le scarpe per i più bisognosi, la scolarizzazione di massa, il lavoro garantito ed equamente retribuito.

Naturalmente non è stata lotta indolore e priva di colpi bassi.

Il primo socialismo ha avuto più nemici che fiancheggiatori, in quanto la società in cui è germogliato era spesso mentalmente agli antipodi rispetto alle sue teorie e al suo credo, geneticamente portata a vedere nei socialisti dei distruttori dei valori del passato, dei senzadio, dei dannati, degli antitradizionalisti, caratteristica che in una società da sempre conservatrice come quella sammarinese era un vero e proprio peccato mortale. Tutto fuorché dei costruttori, insomma.

Invece i primi socialisti mirarono proprio ad essere edificatori del nuovo, e lo urlarono ai quattro venti, sempre, perché la distruzione del passato, che poi nelle loro intenzioni avrebbe dovuto essere soprattutto metamorfosi ed evoluzione, era vista come una necessità imperativa funzionale alla costruzione di qualcos’altro, più adatto ai tempi, migliore per la gente e per il mondo operaio, loro referente privilegiato.

Fu lotta dura anche perché l’intolleranza che sperimentavano ogni giorno sulla loro pelle rendeva molti di loro pure intolleranti, poco disposti ai compromessi, certi che il verbo che professavano non potesse confondersi o amalgamarsi con verbi professati da altri, spesso considerati profeti di mondi arcaici ed obsoleti.

Pur con tutte queste caratteristiche, a volte positive a volte no, abbinate non di rado ad una buona dose d’ingenuità, sono stati gli uomini che hanno gettato le basi della società moderna, che hanno creato i presupposti per la nostra collettività, non certo perfetta, ma forse un passo più avanti rispetto a quella in cui essi hanno vissuto e operato.

A loro vada dunque il nostro ricordo ed il nostro plauso. Mi auguro che il presente lavoro possa contribuire a farli conoscere meglio, come meritano.

 

Verter Casali

  

 

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I. Il riformismo di fine Ottocento

 

 

Parlare di socialismo, in particolare per i suoi primi anni di vita, ovvero gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del secolo successivo, significa ragionare soprattutto di riformismo, di volontà rinnovatrice costante, a volte programmatica, a volte drastica e sconvolgente, bramosa di modificare il mondo dalle sue basi.

Il socialismo sammarinese delle origini non fa eccezione a questa norma. Anzi, dopo anni di indifferenza nei confronti della locale situazione politica, uscirà allo scoperto proprio per chiedere cambiamenti, e per stimolare gli altri pochi giovani innovatori sammarinesi che, pur essendo di indole riformista, avevano aspirazioni più moderate e meno precise dei socialisti.

Per capire dunque in quale ambiente matura il socialismo nostrano, è doveroso fornire qualche informazione sul riformismo sammarinese protosocialista, e sugli ambienti e periodi in cui si evolve o si manifesta.

Il riformismo sammarinese si è sempre palesato in momenti storici ben precisi e per cause dai connotati ben definiti: quando in Consiglio stavano avvenendo turbolenze o dissidi tra i clan e i gruppi oligarchici; quando dall’esterno dei confini provenivano stimoli ideologici innovativi; quando la miseria non era più sopportabile e perciò determinava forte malumore tra la gente e desideri di cambiamento.

Il periodo in cui inizia a maturarsi l’ambiente in cui germoglierà il socialismo nostrano, cioè i decenni conclusivi dell’Ottocento, non presenta fino agli ultimi anni ‘90 particolari stimoli al riformismo, se non per quanto concerne le sollecitazioni ideologiche provenienti dall’esterno, essendo un momento storico di relativo benessere, di buone possibilità di lavoro per la classe operaia, di discreta tranquillità sociale.

Gli stimoli culturali e innovatori di oltre confine avranno in effetti qualche riscontro anche tra i Sammarinesi. Tuttavia questo tipo di riformismo era in fondo quello meno pericoloso e più tollerabile perché sostenuto e portato avanti da pochi individui, in genere giovani studenti particolarmente sensibili alle novità che assimilavano nelle università, o comunque in ambienti culturalmente e mentalmente più progrediti, all’esterno dei confini sammarinesi. Era quindi facilmente circoscrivibile.

Si può dire che certe tensioni, anche violente, come quelle tipiche degli anni risorgimentali, che tanto avevano influito pure sulla società sammarinese,[1] erano del tutto scomparse. E’ chiaro tuttavia che chi aveva vissuto da protagonista quel periodo, assorbendone la mentalità innovativa e riformista, aveva qualche incidenza sulle generazioni più giovani, raccontando le sue epiche imprese, parlando di Garibaldi, di Mazzini o degli altri eroi di quell’esaltante ed epico momento storico.

Pietro Franciosi, padre storico del socialismo sammarinese insieme a Gino Giacomini, pur non avendo partecipato agli eventi risorgimentali, essendo nato nel 1864, s’interessò a fondo al loro svolgimento e raccolse molte informazioni su tale epoca, che poi si premurò di trasmetterci attraverso vari scritti,[2] proprio ascoltando estasiato i racconti di chi vi aveva preso parte direttamente, e pungolandoli con infinite domande.

Anche Gino Giacomini da piccolo dovette subire profonda influenza dai racconti degli eventi risorgimentali, essendo suo padre Remo, per cui nutriva una sacra venerazione, un ex garibaldino che aveva combattuto a Mentana e Monterotondo. In realtà Giacomini rispetto a Franciosi si dimostrerà sempre un po’ più distaccato verso i fatti e le ideologie risorgimentali, e più interessato al pensiero di stampo marxista; tuttavia anch’egli appartenne a quella generazione di giovani cresciuti nei miti di Mazzini e Garibaldi e nella convinzione che, lottando, qualcosa si potesse ottenere per migliorare il mondo.

I fatti ed i personaggi risorgimentali, dunque, ebbero un’influenza profonda sulle coscienze dei giovani nati ad unificazione avvenuta, così come i protagonisti di tali episodi ne furono i venerati maestri. Il Risorgimento, comunque, è solo uno degli elementi che ha inciso sull’evoluzione della cultura politica locale. Ve ne sono altri legati alla peculiare situazione italiana ed internazionale dell’epoca storica che stiamo esaminando, e alla maggiore frequentazione dei Sammarinesi dell’università e degli studi in genere, perché rispetto ai periodi precedenti sono più numerose le famiglie che possono permettersi gli studi dei loro figli, grazie anche all’aiuto economico dello Stato, che ora fornisce con regolarità un contributo agli studenti.[3] Aggiungerei inoltre la permanenza di una cultura politica tendenzialmente democratica, che ogni tanto nel corso della storia ha lasciato puntuali tracce,[4] tipica del Sammarinese medio che da secoli viveva in una Repubblica, e che andava fiero di potersi etichettare come repubblicano.

Solo che era una democrazia arcaica e strapaesana quella che dominava la cultura politica dei più, e soprattutto la mentalità degli ottimati sammarinesi, coloro che oligarchicamente la gestivano nominandosi per cooptazione all’interno del locale Consiglio. Una democrazia la cui formulazione risaliva agli statuti del ‘600,[5] epoca in cui ovunque si erano consolidate realtà politiche assolutiste, che escludeva a priori le masse, o almeno le soggiogava senza remissione al volere dei padroni, o dei signori, come a lungo verranno chiamati, cioè di chi deteneva il potere economico e soprattutto culturale sulla piccola comunità.

E’ vero che all’interno del Consiglio per statuto dovevano essere rappresentati tutti i ceti della Repubblica (20 nobili, 20 cittadini e 20 del contado),[6] ma è anche vero che chi era nobile lo era perché apparteneva all’élite cultural-economica del paese, ovvero a quel ceto a cui il popolano medio si sentiva naturalmente e fisiologicamente assoggettato. Risulta senza sforzo intuibile, quindi, che alla vita politica dello Stato l’uomo del volgo, anche se consigliere, partecipava il meno possibile (da qui l’eterno e ossessivo problema di radunare il Consiglio per mancanza del numero legale), e, quando vi partecipava, aveva una parte il più delle volte passiva, o addirittura clientelare, nella gestione della comunità.

D’altra parte questa particolare forma di democrazia elitaria ci ha lasciato moltissime tracce di se stessa: a partecipare e a fare gli interventi e i dibattimenti nel Consiglio erano sempre gli stessi appartenenti al ceto elitario; chi prendeva le decisioni, aiutato a volte da pochissimi altri notabili, era sempre e soltanto il Reggente nobile, il cui collega non nobile, ovvero appartenente ai ceti inferiori, frequentemente era addirittura assente; gli organismi deliberanti, come in questo periodo l’importantissimo Congresso economico, erano composti solo dai consiglieri più influenti e carismatici. Si potrebbe continuare, ma inutilmente perché anche a rigor di logica si capisce che, in epoche che stavano diventando sempre più complesse, e dove anche i membri della locale elite cultural-economica dovevano ricorrere con costanza a consulenti esterni per avere suggerimenti su come comportarsi in certe situazioni, i rappresentanti del popolo, in genere analfabeti, o comunque sgrammaticati e sempliciotti, non avevano possibilità di determinare alcuna incidenza sulla gestione politica del minuscolo Stato, e probabilmente avevano anche qualche vergogna o timore ad esporsi troppo.

Tuttavia apparentemente San Marino era uno Stato democratico, una repubblica a tutti gli effetti perché tutti (ribadisco apparentemente) facevano parte del suo massimo organo politico, e perché i sacri statuti secenteschi, che erano alla base della sua conformazione socio-politica, accanto ad una dimensione oligarchica che avevano introdotto adeguandosi alle logiche dei tempi, avevano salvato anche l’apparenza democratica ereditata dal passato comunale in cui lo Stato sammarinese, che era poco più di un borgo, viveva grazie all’apporto più o meno coartato dei suoi cittadini.

Questi statuti avevano un’ambiguità di fondo: al loro interno sia il democratico, sia l’assolutista potevano pescare per avallare, per dare autorità alle loro asserzioni. L’episodio giacobino del 1797 ne è un esempio lampante, perché i giovani  democratici, che in quell’occasione combattono in nome dello statuto per un ritorno alla democrazia che in esso vedevano garantita e codificata, finiscono invece in galera proprio per le sue norme draconiane, vi rimangono per vari mesi perché non garantiti da niente, sono costretti ad umiliarsi alla fine per poterne uscire e ricevere paternalisticamente il perdono di chi all’epoca comandava con la stessa logica oligarco-democratica di sempre, logica funzionale alla mentalità politica dominante un po’ dovunque.[7]

Come vedremo, il richiamo al ritorno agli statuti, per quanto mal digerito dai socialisti, sarà l’espediente che permetterà nel 1906 di modificare il sistema oligarchico in auge, anche se in seguito saranno proprio gli statuti, o meglio la cieca venerazione nei loro confronti da parte dei più, a creare fortissimi dissidi tra il gruppo socialista e tutti gli altri e ad impedire riforme molto più importanti e innovative.  Ma andiamo per ordine.

Il riformismo degli anni ottanta dell’Ottocento è chiaramente rintracciabile nei primi liberi giornali nostrani, scritti da quei giovani studenti di cui si è detto.[8] Tuttavia ci sono rimaste anche altre importanti tracce che meritano di essere succintamente indicate, come la lettera del 24 febbraio 1880, scritta alle autorità sammarinesi dal console italiano Lossada, in cui si comunicava che in quel mese si erano svolte a San Marino due riunioni clandestine da parte di taluni cittadini del Regno notoriamente ascritti al partito degli internazionalisti. Il console avvertiva di essere particolarmente vigili su simili iniziative e su questo agitarsi di un partito il cui programma è di così evidente pericolo per la pubblica tranquillità che non ha bisogno di molte parole per essere dimostrato. Concludeva pregando di ordinare a chi era preposto a controllare l’ordine pubblico la più attiva sorveglianza allo scopo di allontanare qualunque, anche remota, causa di futuri disordini interni ed esterni.[9] 

Le autorità sammarinesi risposero al console in data 28: E’ vero che alcuni romagnoli sono venuti a S. Marino - dissero - e che si sono uniti per le strade e per le bettole a pochissimi dei nostri paesani sospetti di appartenere al partito degli internazionalisti, ma è vero altresì che sono stati sorvegliati dalla Polizia, la quale assicura che costoro non hanno tenuto veruna adunanza. Il nostro Governo non meno che tutti gli altri è personalmente convinto della necessità di opporsi con tutte le forze agli stolti e rei, conati di un partito, che ha per programma la distruzione degli attuali ordinamenti della società, e perciò noi useremo di tutta la vigilanza che la gravità del caso richiede, e adotteremo all’uopo quelle misure che valgano ad allontanare qualsiasi pericolo.[10]

Vi erano dunque sicuri contatti tra qualche Sammarinese interessato alle nuove ideologie di sinistra, e elementi esterni che forse vedevano nel territorio della Repubblica una sorta di porto franco dove poter parlare delle loro faccende con maggiore tranquillità, o magari vi venivano attirati dalla sua mitica dimensione politica repubblicana. D’altra parte ci sono giunte tracce di contatti simili anche per gli anni precedenti, sia durante le guerre d’indipendenza, sia dopo quando l’avvocato Giacomo Martelli di Borgo teneva rapporti frequenti con un gruppo mazziniano di Rimini, o con progressisti italiani di una certa rinomanza politica, come Cortellazzi e Valzania, più volte segnalati in territorio sammarinese; ed anche successivi, quando alcuni riformisti di sinistra locali parteciparono ai primi congressi socialisti che si svolsero nel circondario.[11]

Purtroppo è assai difficile ricostruire con rigore questa vita politica sommersa, che non aveva la possibilità di emergere più di tanto per paura di essere perseguitata. Tuttavia si può senz’altro affermare che tutti i movimenti politici che hanno interessato la zona geografica sammarinese hanno avuto ripercussioni anche all’interno della Repubblica, riscotendo limitati consensi ed adesioni da parte di quei pochi che, memori della sacra e mitica democrazia del passato ancora parzialmente leggibile tramite gli statuti in vigore, o entusiasti di fronte alle nuove ideologie, criticavano l’oligarco-democrazia che imperava a San Marino.

Già nel 1874, quando si era in piena crisi con l’Italia ed era stato posto sotto accusa il Borgo per il ruolo politico che esercitava col dare rifugio ai sovversivi, Palamede Malpeli avrebbe voluto far sciogliere temporaneamente tutte quelle Società Sammarinesi che hanno un colore politico, come disse in Consiglio, segno sicuro che qualche vaga organizzazione locale dall’attività politica indefinibile vi era già.[12] Nel 1882, poi, abbiamo un preciso riferimento ai gruppi politici esistenti in Repubblica grazie alle vicende che accaddero per l’inaugurazione del monumento a Garibaldi, morto proprio in quell’anno. Il 18 giugno Gemino Gozi e Vincenzo Tonnini, rappresentanti del comitato per l’erezione del monumento a Garibaldi, inoltrarono formale richiesta al Consiglio per avere un angolo di terreno dove collocarlo e 1.500 lire di finanziamento, richiesta che venne accettata senza problemi.[13] A metà luglio il governo fu invitato a presenziare all’inaugurazione del monumento insieme alle altre associazioni della Repubblica, ma sorsero dubbi e polemiche: Dopo lunga discussione, è verbalizzato negli atti del Congresso economico, per questo argomento di grave importanza politica sia per l’interno sia per l’Estero, il Congresso è stato di parere che il miglior partito da prendersi sia quello di procurare che le diverse Società non intervengano con le bandiere, ma tutte si raccolgano sotto la bandiera del Comitato ed ha incaricato i nobili Signori Pietro Tonnini e Giuliano Belluzzi di trattare in questo senso col Comitato medesimo.[14] La questione divenne tanto dibattuta da essere portata in Consiglio, dove si comunicò che all’inaugurazione sarebbero intervenute associazioni con le loro bandiere che non essendo tollerate nello stato vicino, potrebbero dar causa ad osservazioni e lagnanze per parte del medesimo. Il Consiglio stabilì di usare prudenza e di evitare simili provocazioni: ordinò dunque di limitarsi ad inalberare la bandiera locale, quella italiana e quella di Garibaldi, vietando di conseguenza tutte le altre. Si raccomandò alla Reggenza di non partecipare alla cerimonia qualora fossero state esposte altre bandiere.[15]

I gruppi politici che presenziarono, risentiti, non rinunciarono ai loro vessilli; così la Reggenza disdegnò la commemorazione. Questa faccenda, poi, dovette lasciare anche antipatici strascichi tra le parti. Infatti nel Consiglio del 22 febbraio 1883 il comitato che aveva curato la celebrazione comunicò di avere un disavanzo di 1.195 lire, e chiese al governo di coprirlo, non avendo possibilità di farlo in proprio; il Consiglio però respinse la richiesta. Nel mese di maggio fu riavanzata la stessa richiesta perché i membri del Comitato non sapevano proprio come rimediare i soldi in questione: alla fine il Consiglio accettò di coprire il debito, chiudendo così l’antipatica questione.[16]

Ma chi erano i gruppi politici che avevano provocato lo sdegnoso rifiuto delle autorità? Ce lo dice un dettagliato articolo del 5 settembre che fa la cronaca dell’avvenimento: erano la Società dei Reduci, il Comitato Garibaldino, una non meglio definita Associazione Femminile, la Società di Mutuo Soccorso, la Società degli Italiani residenti, la Società cinque febbraio, la Società Repubblicana, il Circolo Socialista anarchico rivoluzionario del Titano, la Società Concordia. Accanto ai gruppi locali, di cui è impossibile allo stato attuale delle conoscenze e dei documenti noti capire le tendenze e soprattutto l’attività, vi erano anche gruppi intervenuti dal circondario: Allo scoprimento del Busto marmoreo di Garibaldi - ci dice l’articolista - i vari oratori designati pronunziarono discorsi analoghi alla circostanza, più o meno temperati nella forma, ma tutti ispirati a sensi repubblicani e facendo voti per la universale espansione di questa forma di Governo. Il solo oratore che oltrepassò tutti i limiti della moderazione, fu certo Neri, di Mercatino Talamello (Pesaro), capo della Consociazione repubblicana Romagnola. Costui ebbe invettive contro la Monarchia e contro la sacra memoria di Carlo Alberto, contro i Pontefici, contro Napoleone III, e via, via concludendo con aperto appello all’insurrezione purché s’abbia a vedere sventolare il vessillo della repubblica sulle cime del Vaticano! [17]

In definitiva questo episodio, pur nella sua vaghezza, è un’ulteriore testimonianza dei contatti che i Sammarinesi avevano coi politici del circondario, e della diffusione che vi era dentro il territorio di gruppuscoli dai volti e dalle mire diverse, di certo importanti però come punti di riferimento culturale per chi aveva qualche interesse sociale e politico.

Gli anni ’80, comunque, al di là di questo episodio e delle polemiche rintracciabili sui giornali locali, non registrano particolari contrasti nei confronti del Consiglio, né attacchi sistematici dal suo interno, come succederà tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, né dal suo esterno con il sistema dell’istanza d’arengo, che nei momenti di crisi e di contestazione era puntualmente usato da chi aveva qualcosa da recriminare, o  accuse da muovere. Nel periodo in questione non sono riscontrabili istanze di questo tipo; ciò può essere senz’altro testimonianza che siamo ben lontani ancora dall’incandescenza degli anni successivi. D’altronde questo è un periodo ancora positivo per l’economia e per la società sammarinese. Non vi è carenza di lavoro, perché si sta procedendo ad edificare strade ed il nuovo palazzo pubblico, non le eterne richieste al Consiglio di sovvenzioni per sopravvivere o emigrare, non il disagio sociale che crescerà sempre più dalla fine dell’edificazione del palazzo pubblico in poi.

Vi sono sì le istanze intellettuali, testimoniate da qualche raro foglio, come quello diffuso dal figlio di Giacomo Martelli, Valerio, che nel 1885 rifiutò di essere cooptato all’interno del Consiglio perché riconosceva solo nel popolo il diritto di scegliere i suoi rappresentanti, e anche da qualche giornale italiano, come  il Corriere della Sera del 12 agosto 1886, in cui un articolista arrivato sul Titano si stupiva perché aveva trovato scritto sopra un muro di Città: Vogliamo il suffragio universale, viva Martelli, vogliamo il voto diretto, facendo poi un commento pieno degli stereotipi tipici con cui si vedeva dall’esterno la Repubblica: parole al primo aspetto bizzarre in una repubblica. Ma veramente questa repubblica non ha suffragio universale, né diretto. (...)  Insorge contro la vecchia Costituzione il signor Martelli. Martelli è un avvocato. Insorge in nome del suffragio diretto in una repubblica, che non conta più di 8000 sudditi, e dove ogni famiglia ha avuto o può avere un suo capitano-reggente, o il suo rappresentante nel Consiglio supremo! Le iscrizioni si leggono dappertutto; il movimento ingrossa e la revisione dello statuto non è forse lontana. Ne guadagnerà la Repubblica? Non oso affermarlo. Mutata la base dello Stato, questo cadrà in preda ai partiti; San Marino non presenterà più l’immagine di una tribù, o convento, dove tutti sono o sembrano essere felici ; dove l’autorità è esercitata in nome del vecchio diritto, che ha potuto resistere all’urto dei secoli, e alle insidie dei Papi e dei signori di Romagna, nonché alle blandizie di potenti capitani, come Napoleone Bonaparte.

Tuttavia sono episodi isolati, puramente speculativi, del tutto privi di appoggio popolare, perché la cittadinanza non aveva in quel momento grosse recriminazioni da fare o accuse da muovere, né era ancora sensibilizzata e educata a dire la sua. Non aveva poi la paura di nuove tasse o di qualche allarmante riforma fiscale, come succederà invece agli inizi del secolo nuovo. Gli atti consiliari sono precisa testimonianza dell’indifferenza ancora tipica di tutti nei confronti delle istanze politiche che ogni tanto facevano la loro fugace apparizione tra i Sammarinesi, e che scaturivano sempre da singoli contestatori o da gruppuscoli minuti, emarginati e forzatamente anonimi.

Vi erano pure altri gruppi più o meno politicizzati in territorio. Nel dicembre del 1889 fu fondato in Città, per opera di Alfredo Reffi e Pietro Franciosi, il “Circolo Titano” allo scopo di istituire un circolo di divertimento e di lettura, come scrissero all’interno del suo statuto, emulo di un gruppo analogo, denominato “Circolo Sammarinese”, che operava in Borgo. Si stabilì subito di permettere l’adesione al Circolo Titano anche dei membri del Circolo del Borgo, per stringere così vieppiù i vincoli di fratellanza fra i Sammarinesi, e probabilmente per superare quelle acredini che dai tempi dell’uccisione del segretario di Stato Giambattista Bonelli sussistevano tra i due Castelli.[18] Tale cordialità venne subito contraccambiata dal Circolo Sammarinese, che aggiunse al suo statuto la stessa possibilità. Nei mesi successivi si organizzarono feste e scampagnate, tuttavia nel 1891 emerse all’interno del Circolo anche uno spirito mutualistico e umanitario nei confronti dei più disagiati che in quell’inverno particolarmente inclemente stavano attraversando guai molto seri. Nella riunione del 19 gennaio 1891, infatti, all’unanimità si approvò di fare a meno di una festa da ballo già programmata  per erogare una metà di quel fondo a beneficio della carità pubblica stante la miseria e la stagione cattiva che perdurano a San Marino. Iniziative simili vennero attuate anche nel mese successivo, e nel settembre dello stesso anno fu deciso che i modesti fondi del Circolo (206,35 lire) fossero depositati in banca per continuare o per far continuare nel presente inverno la carità pubblica se il tempo imperversi e il bisogno urga.[19]

Dagli atti consiliari sappiamo che anche il Circolo Sammarinese ebbe simili attenzioni negli inverni più inclementi, trasformandosi, come quello di Città, da organizzazione ricreativa a gruppo con precisi intenti sociali e politici.

Oltre a questi due circoli, negli stessi anni erano presenti in territorio altri raggruppamenti che non si possono considerare solo ludici. Nel luglio del 1891 venne riorganizzata la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, già esistente nel 1882, che evidentemente si era sciolta negli anni successivi. Nella sua prima riunione, a cui presenziarono 21 reduci, si elesse come presidente Vito Serafini, e come presidente onorario Menotti Garibaldi, illustre, prode, ed emerito discendente dell’Eroe dei due Mondi. Il motivo che riportò in vita la Società dovette essere una lettera arrivata da Pesaro con cui s’invitavano i reduci sammarinesi a presenziare all’inaugurazione del monumento a Garibaldi in quella città, ma anche nell’intendimento che la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie Sammarinesi non si trovassero isolati, ma in piena relazione di amicizia, e fratellanza coi fratelli Italiani.

Della scarna documentazione lasciataci da questo gruppo è senz’altro importante, per l’argomento che stiamo trattando, il verbale della sua riunione del 15 maggio 1892 in cui si stabilisce di festeggiare il 31 luglio di quell’anno, ricorrenza dello scampo di Garibaldi in Repubblica. Interessante perché vengono convocate parecchie associazioni locali, probabilmente tutte o quasi, fatto che ci permette di sapere quali erano in quell’anno questi raggruppamenti: furono invitati  il Circolo Titano, il Circolo 1° Gennaio, l’Unione Mutuo Soccorso, tutti gruppi con sede in Città; i Circoli Unione, Sammarinese, Giovane, Garibaldi e la Federazione Anarchica del Titano, tutti di Borgo; il gruppo Fede e Lavoro di Serravalle.

Il 29 maggio avvenne la riunione organizzativa cui presenziarono i rappresentanti della SUMS (Luigi Tonnini e Ciro Belluzzi), quelli del Circolo Titano (Pietro Franciosi e un non meglio definito Marani), quelli del Circolo Giovane (Ignazio Grazia e Giuseppe Amati), quelli del Circolo Socialista (Ercole Casali e Giuseppe Palmucci), quelli del Circolo Sammarinese (Ivo Fabbri Natalucci e Telemaco Martelli), e infine quelli del Circolo Unione (sempre Telemaco Martelli con Costantino Amati). Aderì all’iniziativa anche il gruppo Fede e Lavoro con Pietro Francini e Marino Canti, però solo dalla riunione successiva tenuta il 16 giugno. E’ interessante rilevare come diversi di questi personaggi (Franciosi, Martelli, Grazia, Casali) li ritroveremo dieci anni dopo tra i principali attivisti pro-arengo, segno probabile che già nel ’92 vi era una qualche effervescenza socio-politica sostenuta dagli stessi individui che in seguito animeranno con le loro istanze riformiste la comunità sammarinese.[20]

E’ chiaro che non possiamo spingerci troppo in là in simili affermazioni, perché senza dubbio dei gruppi elencati ben pochi dovevano avere una fisionomia marcatamente politica. A conferma di ciò si può dire che il Circolo Titano accettò l’invito di partecipare alla celebrazione con la clausola senza politica e senza partiti, perché il Circolo del Titano ha il solo del divertimento e in pari tempo ha il dovere di partecipare alla festa del 31 Luglio, festa nazionale e tributata all’Eroe dei due mondi, superiore ad ogni partito e già consacrato nelle pagine immortali della Storia Civile.

Tuttavia l’associazionismo di cui questi gruppi sono indubbia testimonianza, ricreativo o no che fosse, è di per sé importante per farci ipotizzare un possibile dibattito al loro interno sui problemi del paese e sulle speranze per un futuro migliore, dibattito che quindi è lecito definire di natura politica. Purtroppo ci è giunta solo documentazione parziale in merito, per cui non conosciamo molti dettagli né dell’esistenza di queste associazioni, né della loro attività, informazioni che sarebbero indispensabili per farci capire meglio la loro incidenza all’interno della società sammarinese. Non penso però di essere lontano dal vero nel sostenere che un magma politicizzato embrionale e acerbo, capace di aggregare probabilmente diverse decine di individui, era già in divenire molto prima degli anni dell’arengo del 1906 e stimolava i rari ed oscuri socialisti sammarinesi, presumibilmente dalle idee ancora poco chiare, ad assumere sempre più connotati ben distinti.

 

 

 

 

 

II. La nascita del Partito Socialista Sammarinese

 

 

In effetti è proprio in questi anni che il socialismo nostrano, non più vincolato all’anarchismo o ad altre ideologie, comincia ad assumere lineamenti più definiti ed individuabili. Abbiamo visto come già nel 1882 esistesse sicuramente in territorio un gruppo anarchico che si definiva anche socialista, così come abbiamo sue periodiche tracce anche negli anni successivi, fino al 1892, sempre che quel “Circolo Socialista” che abbiamo individuato fosse lo stesso degli anni precedenti, com’è assai probabile. Sappiamo poco o niente, però, di quello che faceva, se non relativamente alla sua rara propaganda a favore degli operai, o celebrativa della Comune di Parigi.[21] E’ legittimo perciò ipotizzare che non avesse un’attività particolare in territorio; che fosse cioè più un fenomeno culturale ed emulativo, sostenuto solo da quei pochi che anche negli anni precedenti avevano aderito a ideali per l’epoca estremisti e sovversivi, come poteva essere il mazzinianesimo o l’internazionalismo.

E’ ben strano infatti che nella documentazione d’archivio di un paese piccolo come San Marino, dove qualunque fatto disturbatore della sua usuale tranquillità, o qualsiasi contestazione al suo sacro  conservatorismo ultrasecolare imperante, aveva subito forti ripercussioni all’interno del Consiglio, o degli altri suoi organismi politici, non vi siano tracce del gruppo socialista fino al 1898, quando richiese il permesso di tenere un comizio nel Teatro Concordia di Borgo in occasione del 1° maggio.[22] E’ presumibile, dunque, che il gruppo socialista, evolvendosi all’interno di un’associazione di stampo anarchico/comunista/internazionalista, iniziasse a distaccarsene verso il 1892, anno del Congresso di Genova, che ha senz’altro stimolato tale separazione.

Questo gruppo, tuttavia, per un lustro non diede segno di sé all’interno della società sammarinese, verosimilmente perché era ancora assertore di quella tattica astensionista, tesa a snobbare la politica di stampo parlamentare, promossa in Italia ed in Europa da parecchi raggruppamenti socialisti, ma anche per altri motivi che vedremo fra breve.

Se il primo documento ufficiale dei socialisti sammarinesi è del 1898, la nascita del gruppo è però da far risalire a qualche anno prima. Sulla data precisa in passato ci sono state molteplici disquisizioni, e ce ne saranno sicuramente anche in futuro, perché manca un atto ufficiale di nascita. Una certa tradizione storiografica si è dimostrata propensa a collocare la leggendaria nascita del Partito nel 1892, precisamente il 14 agosto, ovvero pochi giorni dopo il congresso di Genova che diede vita al Partito Socialista Italiano. Un’altra ha sempre sostenuto che i fondatori del socialismo sammarinese lo procrearono una domenica di primavera del 1893, prendendosi per mano sotto una grande quercia di Cailungo, e giurando di essere fedeli fino alla morte agli ideali socialisti. I padri fondatori del socialismo nostrano, stando sempre a questa tradizione, furono Alfredo Casali, Antonio De Biagi, Tullio Giacomini, Ettore Ghironzi, Giovanni Vincenti, Marco e Rufo Reffi, Giuseppe Giovannarini, Marino Ravezzi, Angelo Corsucci, Giuseppe Amati, Raffaele Montemaggi e Gino Giacomini.

Sfogliando il Titano della prima metà del nostro secolo, cioè di un periodo in cui erano ancora vivi diversi dei presunti fondatori, si ha conferma del 1893 come anno di fondazione, perché solo dagli anni successivi si consolida la tradizione legata al 1892. Sul numero 164 del 1° maggio 1954 viene addirittura riprodotta la fotografia della mitica quercia di Cailungo, e si ribadisce nuovamente che l’anno di fondazione ufficiale del partito era da considerarsi il 1893.

In realtà il problema è sottile e, aggiungerei, anche di poco peso perché, come si è già detto, nei suoi primi anni di vita il socialismo nostrano, schivo e anonimo, fu prevalentemente un fenomeno culturale giovanile, generato più per spirito emulativo nei confronti del socialismo italiano e internazionale che per altro. Di sicuro non nacque per immergersi fin da subito in bellicosi agoni politici tesi a ribaltare la situazione sammarinese esistente: il silenzio che lo caratterizza fino al 1898 ne è sicura conferma. Probabilmente i dubbi sulle due date scaturiscono dalla gradualità con cui il socialismo sammarinese uscì allo scoperto. In effetti abbiamo visto che nel 1892 esisteva un “Circolo Socialista” che forse fu il feto della compagnia che nel ’93 giurò sotto la quercia.

E’ anche probabile però che il gruppo dei giovani del ’93 fosse di tendenze un po’ diverse dal “Circolo”, ovvero più aperto al socialismo di stampo turatiano scaturito dal Congresso di Genova, e meno alle teorie anarchiche e internazionaliste fin lì in voga. Può essere indicativo di questa diversità il fatto che al giuramento del 1893 non partecipano Ercole Casali e Palmucci, i rappresentanti del Circolo Socialista del 1892. Vi partecipa però il giovanissimo Alfredo Casali, figlio di Ercole, che rincontreremo come direttore del Titano e come strenuo sostenitore della linea dura e intransigente del partito nei primi decenni del Novecento.

Per concludere questo argomento, che in verità non nobilita più di tanto il socialismo sammarinese, vorrei evidenziare che il giuramento del 1893 coinvolge solo giovani e giovanissimi (Giacomini ha poco più di 14 anni), fatto che potrebbe lecitamente far ipotizzare che fu soprattutto l’ultimissima generazione, nata sul finir degli anni ’70, in piena epoca di Sinistra Storica al potere in Italia, cioè, quella che si seppe distaccare con maggiore facilità e senza grossi rimpianti dagli ideali anarchici, risorgimentali, garibaldini, mazziniani, rivoluzionari in genere, così centrali nella cultura politica delle generazioni a loro precedenti (si pensi a tal riguardo che Ercole Casali aveva chiamato una sua figlia col nome di Garibaldina, ed un altro figlio Marat).

A prescindere dalla sua data di nascita, comunque, è bene tornare al 1898, anno – questo sì – veramente importante, in cui il gruppo socialista cominciò ad operare concretamente nella realtà sammarinese divulgando un numero unico in occasione del 1° maggio, giornale recentemente ristampato in occasione del suo centenario.[23]

Perché tanto ritardo tra la nascita del gruppo e il suo primo vagito? Non è facile dare risposte certe perché al momento non disponiamo di alcun documento con cui ricostruire la sua vita tra il 1892/93 e il 1898. E’ possibile che il gruppo fosse troppo giovane e inesperto, soprattutto nei suoi personaggi più carismatici (Giacomini e Casali). E’ possibile pure che questi giovani si ritrovassero poche volte insieme, e quindi non potessero ideare e sostenere chissà quale attività, perché impegnati a lavorare o studiare fuori territorio (è sicuramente il caso di Giacomini, che prima come apprendista barbiere a Rimini, poi dal ’96 come studente a Urbino, passa lungo tempo fuori San Marino). E’ possibile che, sulle orme di altri gruppi italiani assolutamente ostili alla politica parlamentare, i socialisti sammarinesi snobbassero le questioni politiche e sociali locali in attesa della rivoluzione totale e dell’abbattimento del sistema borghese a livello mondiale, aspirazione che all’epoca era piuttosto diffusa tra i giovani e le forze più estremiste. Questa ipotesi può essere avallata proprio da un articolo del numero unico del 1898 in cui un anonimo articolista, firmatosi A. T., afferma che i socialisti di San Marino dovevano cambiare tattica se volevano ottenere migliorie per il paese, abbandonando l’astensionismo che li aveva fin lì contraddistinti, per agire dall’interno delle istituzioni, con l’intento di modificarle e di renderle più consone ai tempi.

Questo suggerimento fu però respinto con una nota di redazione (con molte probabilità scritta da Gino Giacomini, che era il principale artefice del numero unico, non a caso stampato proprio ad Urbino dove egli in quel momento stava studiando) in cui non ci si dichiarava d’accordo con l’opinione espressa, ovvero si sosteneva che la tattica astensionista era ancora da prediligere rispetto alle altre.

Tuttavia non venivano apertamente respinti altri suggerimenti che l’articolista offriva, cioè di pretendere una ripartizione più equa dei tributi, visti i problemi di natura finanziaria che il paese stava incominciando a soffrire, di richiedere una serie di pubbliche riforme, di avviare una propaganda sistematica tra la gente, in particolare tra i contadini ed i proletari in genere, per creare un partito forte e cosciente, di avvalersi del troppo trascurato arengo semestrale come pubblica tribuna per la propaganda e la difesa delle idee socialistiche.

Sfogliando il giornale risulta evidente che siamo ancora di fronte ai primissimi passi del gruppo, e che si stava cominciando a discutere al suo interno per mettere a punto una qualche strategia d’intervento adatta ai bisogni ed ai problemi sammarinesi. Comunque vedremo che alcuni dei suggerimenti avanzati nell’articolo appena citato avranno un certo peso nelle azioni del gruppo socialista degli anni successivi.

Accanto a questa discussione interna, però, occorre annoverare un altro importante fattore che permetterà ai socialisti nostrani di consolidare sempre più una strategia d’azione: l’uscita allo scoperto di un’importante figura come Pietro Franciosi, uno dei pochi uomini locali dotati di quel forte carisma che solo la cultura poteva dare in un paese dove l’analfabetismo si aggirava intorno all’80% della popolazione, e di grosso ascendente sulla classe operaia, per l’umanitarismo che da anni lo stava caratterizzando nei rapporti con i ceti lavoratori e più poveri della piccola società sammarinese.

Franciosi già nel 1893 aveva pronunciato un importante discorso dove, da buon positivista non ancora schierato su posizioni politiche dichiaratamente di sinistra, tendeva soprattutto a sottolineare l’importanza delle finanze pubbliche per la vita di uno Stato moderno, e l’esigenza che le spese venissero frenate con un’amministrazione più oculata di quella fin lì tenuta. E’ vero che noi non dobbiamo turbarci per quella questione finanziaria che turba in un modo serio gli altri Stati d’Europa, affermò, perché a San Marino la situazione non era tragica come altrove. Tuttavia bisognava pensare al futuro, perché il rischio di cadere in rovina non era da trascurare.

Franciosi proseguiva facendo un raffronto tra il florido passato, dove piovevano ricchezze da tutte le parti (il riferimento sottaciuto è alla vendita delle onorificenze), ed il misero presente, in cui erano venuti a meno tali cespiti determinando una pericolosa involuzione della situazione finanziaria, accentuata dalla poco oculata politica dei lavori pubblici, vero disastro per le finanze sammarinesi, che avevano determinato anche il totale esaurirsi dei risparmi accumulati (il cosiddetto fondo di riserva) negli anni precedenti.

I lavori sotto accusa erano il nuovo Palazzo Pubblico, l’erigendo cimitero monumentale di Montalbo, la strada di collegamento con Mercatino Conca. Queste infrastrutture non solo avevano depauperato le casse pubbliche, ma avevano determinato, secondo il nostro, uno sconquasso sociale non più sanabile, togliendo alle campagne moltissimi contadini allettati dallo stipendio da operai. Il Governo non è stato né troppo logico, né troppo saggio nell’approvare pei lavori pubblici spese rilevanti e superiori di molto alle nostre condizioni finanziarie. Di più va incontro, se prosegue di tal passo, ad una crisi finanziaria, ed in compenso riceve tutto giorno dai beneficiati parole di biasimo e di rimprovero. Inoltre in conseguenza di questa grande rilassatezza e di questo troppo concedere ha messo in una cattiva posizione la vera classe operaia che amalgamata, per troppa connivenza dei governanti, con una caterva di miseri spostati forastieri e di villani venuti in città dal contado sdegnosi del nobile mestiere dell’aratro, si sente deteriorata nel morale, derubata nel finanziario e prevede un triste avvenire.

I problemi finanziari del paese erano dunque legati a queste cause. La chiacchiera che imputava il dissesto di bilancio all’accresciuto numero di impiegati statali era priva di fondamento, perché lo Stato disponeva solo di 131 funzionari regolarmente stipendiati, numero che Franciosi giudicava minimo ed indispensabile per gestire la Repubblica. Aveva valore analogo anche l’altra chiacchiera che accusava  la pubblica istruzione ed il ricovero dei malati di mente presso istituti italiani di essere i principali responsabili del dissesto verso cui si stava andando. Tutte falsità messe in giro ad arte per nascondere le vere origini dei problemi finanziari in cui il Paese stava addentrandosi. Franciosi istigava perciò tutti, governanti e governati, a controllare maggiormente la pubblica amministrazione e a pensare nuove strategie economiche, come la creazione di apposite Commissioni attive e volonterose per istudiare al più presto dei sistemi finanziari d’incoraggiamento e d’appoggio alle industrie ed ai commerci locali; oppure concordare nuovi patti più lucrosi sui proventi doganali col generoso, leale ed amico Governo Italiano; o ancora cercare di trarre qualche vantaggio dai fiorenti Istituti di credito che debbono molto all’autorizzazione ed alla tutela da voi a loro concessa. Egli non era propenso ancora a varare riforme tributarie basate sul concetto di imposta progressiva sul reddito, come già si stava ventilando da parte di qualcuno, ovvero dai socialisti, come vedremo, ma ad aumentare quelle indirette sì, anche se sarebbe stata una riforma impopolare, perché la Repubblica aveva bisogno di ampliare al più presto i suoi introiti.[24]

Il discorso di Franciosi del 1893, pur movendo critiche all’operato del governo, non si allontanava in realtà più di tanto da toni piuttosto pacati e ottimisti. All’epoca in cui venne pronunciato la situazione non era ancora così brutta come lo sarà in seguito, anche se evidentemente ve n’erano già i sentori, per cui Franciosi non poteva farsi portavoce di un malumore che era soltanto in fase embrionale. Inoltre aveva appena ventinove anni, ed era al suo primo intervento ufficiale: sbilanciarsi più di tanto, dunque, era umanamente impossibile. Nelle sue parole vi era sì, anche se appena sussurrato, un invito ai governanti a ricercare un tipo di rapporto più democratico con la cittadinanza, basato sulla fiducia e sull’aiuto reciproco in ogni momento, in particolare in quelli di travaglio economico, considerati l’anticamera di possibile travaglio politico. Non più, quindi, governanti/padri e governati/figli, com’era stato sempre a San Marino; ma governati/governanti e viceversa, come se si fosse un’unica grande famiglia priva, al suo interno, di differenze tra i suoi componenti, e dove ognuno avrebbe dovuto contribuire gratuitamente alla causa comune per quello che poteva.

Leggendo per intero il discorso, risulta evidente che le idee espresse da Franciosi prendevano avvio da istanze di natura economica e da computi che si prefiggevano di essere rigorosi e fiscali, così come il positivismo dell’epoca richiedeva. Ma è altresì chiaro che il riformismo del giovane professore è ancora pienamente legato ad un socialismo utopistico ed ideale, tutto ruotante intorno alla fiducia di poter sistemare le cose semplicemente evidenziandole, criticandole e collaborando per comprenderle appieno allo scopo di risolverle. Man mano che Franciosi avanzerà negli anni, e la situazione socio/politica sammarinese diventerà più instabile e precaria, si renderà conto invece che le faccende locali non erano così facilmente risanabili come si auspicava, soprattutto perché i governanti al potere, radicati in una rigida e irremovibile logica costituzionale, da cui essi facevano totalmente dipendere la sopravvivenza della vetusta e gloriosa Repubblica di San Marino, e che nel corso del tempo aveva assunto venature addirittura sacrali e mistiche,[25] non erano tanto disposti a mutare le prassi di sempre per ricercare quelle collaborazioni che Franciosi sognava.

D’altra parte lo stesso Franciosi non sfuggiva del tutto alla logica conservatrice che tendeva a vedere nel riformismo troppo incisivo pericoli inimmaginabili. Le parole che pronuncia contro i contadini inurbatisi e contro i miseri spostati forastieri sono chiari indicatori di una mentalità sempre ancorata agli stereotipi del passato, basati sulla netta distinzione tra “cittadini”, ovvero gli abitanti di Città ritenuti superiori, e tutti gli altri che dovevano starsene al loro posto, a svolgere mestieri “nobili”, come etichetta il lavoro dei contadini, anche se insufficienti a garantire spesso la semplice sopravvivenza.

Nel ’93 Franciosi si stava dunque appena affacciando alla cultura progressista e socialisteggiante. Negli anni successivi, però, il suo atteggiamento politico e culturale tese a mutarsi. Se leggiamo infatti il suo secondo discorso, pronunciato cinque anni dopo, sempre in occasione del 1° ottobre, si coglie netta la profonda involuzione socio – economica della situazione sammarinese, ormai ritenuta non più sanabile con piccoli ritocchi e con la collaborazione auspicata nel ’93, così come risulta evidente una certa maturazione politica del professore, che lo aveva indotto ad avere idee più chiare e concrete sul da farsi, a prendere posizioni più risolute, ad accantonare quegli stereotipi che abbiamo rilevato insieme a buona parte di quel pensiero utopistico di cui è intriso il discorso del ’93.[26]

Partendo questa volta da un’analisi di stampo marxista dei problemi dell’epoca, segno certo degli studi fatti in materia da Franciosi negli anni precedenti, egli precisò che la società si era profondamente modificata e che quindi i sistemi politici un po’ dovunque si erano dovuti adeguare, o si stavano adeguando, alle nuove realtà maturatesi. Anche San Marino, che pur godeva di una situazione migliore di tanti altri Stati, aveva l’interesse a seguire queste nuove strade e a riformarsi in qualche cosa. Non spaventatevi - aggiunge Franciosi quasi volesse tranquillizzare l’uditorio - io sono temperato nel chiedere perché non sono un novatore di moda e di mestiere, non voglio parlarvi di radicali riforme fuori di proposito e della vita normale. No, Franciosi era un riformatore che guardava al passato della Repubblica, che non voleva stravolgere più di tanto la tradizione democratica di cui si sentiva erede: tuttavia occorreva avere il coraggio di attuare precise innovazioni, perché ormai era una dimensione politica troppo arcaica, troppo legata al Seicento, tipico secolo spagnuolo. Le riforme da perseguire dovevano dunque avvenire nel rispetto di una certa tradizione politica e storica, nel ritorno allo spirito prettamente comunale di cui i locali statuti erano pervasi prima delle trasformazioni a cui erano stati sottoposti alla fine del XVI secolo e successivamente. Per quanto il nostro paese non si trovi nelle critiche condizioni degli altri, - precisa - per quanto questa piccola comunità d’Italia nella maggioranza dei suoi figli viva di tradizioni quale modesto e vetusto esempio delle municipali franchigie e si serbi per ora tranquilla paga e felice, noi sappiamo che può succedere agli stati o meglio ai governi ciò che succede ai popoli, che, se non rinnovano di quando in quando la razza, s’indeboliscono.

Quali i cambiamenti prioritari? Franciosi riprende, ampliandoli, gli argomenti già esposti nel ’93:  Fin qui non vi è stato davvero malessere economico; e quindi pochi e parziali furono i brontolii. Fin qui è stato il popolo che ha avuto bisogno del governo, non questo di quello. Ma io penso al domani. Penso che domani sarà il Governo che dovrà ricorrere ai cittadini per aiuto per ristaurare le finanze più che esauste. E allora di fronte ai doveri si reclameranno i diritti, tanto più che il popolo Sammarinese è rimasto privo di sovranità dal momento che l’Arengo dei Padri di famiglia ha cessato di funzionare e fu ridotto lettera morta. Ed ecco che le mie moderate riforme politiche e le mie proposte finanziarie potrebbero benissimo tutto prevenire, ammonire tutti.

Le riforme che venivano proposte erano diverse:

1.   pareggio dei ceti e abolizione della nobiltà perché non sussistevano più ragioni storiche o sociali adatte a giustificare simili distinzioni tra cittadini;

2.   abolizione delle onorificenze e del  ridicolo commercio che se ne faceva: meglio il sudore e il sacrificio nostro che il ricevere danaro a scopo di beneficenza dai decorandi, dichiarò;

3.   rinnovo periodico ogni tre anni di un terzo dei consiglieri tramite elezioni, così da comporre un Consiglio formato d’aristocrazia e di democrazia, d’elemento conservatore e rinnovatore.  I venti neo eletti avrebbero potuto  scuotere davvero la poltroneria politica e portare una nota giovanile in mezzo alle vecchie opinioni. Se i padri di famiglia non ritorneranno tutti al potere col rimettere in vigore lo storico Arengo, avranno però il diritto di affidare le sorti della patria a persone di loro fiducia.

4.   definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa, per separare un po’ più questi due Enti nel cerimoniale e per unirli un po’ più nell’essenziale a maggiore vantaggio dell’intero paese. (...) Vorrei che i due Enti si mettessero d’accordo nel trasformare tante istituzioni ecclesiastiche o mani morte, oggi inerti ed atrofiche, in qualche cosa di vitale e di utile per la maggioranza della popolazione.

5.   restrizione dei costi pubblici ed eliminazione degli sprechi; maggiore intelligenza negli stanziamenti;

6.   istituzione di una tenue tassa progressiva per portare il pareggio stabile nel Bilancio e per stanziare giustamente in esso un fondo fisso annuo ed importante per i lavori pubblici. Tale imposta doveva colpire tutti i redditi al di sopra delle 500 lire con aliquote crescenti che andavano dallo 0,50 al 6%.

Le idee contenute all’interno di questo importante discorso rappresentano le prime linee programmatiche del nascente riformismo sammarinese. Sicuramente non dovevano essere condivise da tutti, visto che ancora non si può certo parlare di un gruppo riformista uniforme dotato di un piano politico mirante a coinvolgere la cittadinanza e a pretendere quello che ancora si chiedeva con garbo, aspettandoselo come  legittima concessione dall’alto. Fino al 1902 - 1903 non si coalizzerà simile alleanza, per cui in questi anni che stiamo esaminando registriamo un riformismo fatto di idee solitarie e spesso disparate, più che di propositi dal seguito ampio.

Che comunque si stesse dibattendo a vari livelli della dimensione politica di San Marino ce lo testimonia anche uno scritto del locale commissario della legge pubblicato nel 1899 con lo scopo di fornire informazioni sulla realtà legislativa della Repubblica, ma anche tutto proteso a dimostrare che la costituzione locale era il non plus ultra della democrazia : Il reggimento è adunque di specialissimo tipo democratico non di nome, ma di forma e, quello che più monta, anche di sostanza. (...) Il governo più democratico, anche se interamente privo della funzione elettiva, è quello in cui tutti i cittadini, invece del diritto di nominare, hanno la probabilità di essere nominati. (...) Il popolo prende parte al governo, perché il governo vive vicino ed in mezzo ad esso. (...) Questi novemila Sammarinesi incarnano davvicino l’ideale di Prévost - Parabole che vagheggiava un popolo di politici.

Era nato dunque un dibattito di natura politica e istituzionale teso, nella sua parte riformista, a chiedere ritocchi alle consuetudini della Repubblica e alla sua logica statutaria secentesca; ma deciso, nella sua parte conservatrice, a lasciare le cose come stavano, con la convinzione che per San Marino quella forma politica rappresentasse la migliore possibile, e che le istanze riformiste fossero solo pretese esotiche, come vennero definite da più parti, nate dalle mode culturali provenienti da oltre confine e da nient’altro.

Questo dibattito fu comunque la linfa da cui prese nutrimento e vigore il gruppo socialista sammarinese per uscire definitivamente dal suo astensionismo ed intraprendere la lotta politica a tutti gli effetti.

Franciosi pronunciò il suo discorso del 1898, in un momento storico particolarmente travagliato per la Repubblica, soprattutto perché la situazione economica del paese era tornata ad essere alquanto precaria ed incerta, dopo una trentina d’anni di relativa tranquillità finanziaria dovuta ad inaspettati introiti straordinari che San Marino aveva saputo rimediare a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, grazie alla vendita delle onorificenze, al nuovo canone doganale che aveva iniziato a percepire dall’Italia dopo la convenzione del 1862, al commercio di francobolli suoi e ad altro ancora.

Queste entrate avevano permesso di realizzare infrastrutture immani e estremamente costose per la usualmente spartana realtà sammarinese, come il Palazzo Pubblico, alcune strade e l’erigendo cimitero di Montalbo, opere con cui si era temporaneamente azzittito il ceto operaio, in costante crescita proprio per l’abbondanza di lavoro del momento.[27]

La fine del Palazzo, costato la folle cifra di 350.000 lire, coincise però grosso modo con l’inizio del periodo di crisi finanziaria e l’arresto di investimenti per edificare infrastrutture. Da lì in avanti, accanto alle lamentele della classe operaia, per il lavoro che non c’era più, e dei contadini, incappati come i loro colleghi d’oltre confine in una tragica crisi agricola internazionale, emergeranno in continuazione polemiche per il bilancio statale, ogni anno sempre più deficitario, e per la faciloneria con cui i governanti sammarinesi lo amministravano, permettendo costanti abusi e più che probabili ruberie. Ovviamente le polemiche di natura economica aiutarono non poco lo sviluppo di quelle di natura istituzionale e politica.

Una simile instabilità finanziaria favorì lo studio di nuove ipotesi economiche per potenziare il bilancio statale (stampa di carta moneta, maggiore coniazione di moneta, soprattutto aurea e argentea, avvio di una lotteria internazionale, ecc.). Tuttavia, per una serie di motivi legati all’Italia, che aveva non poche diffidenze a permettere troppo alla Repubblica, alla paura d’imboccare strade eccessivamente nuove e azzardate, al dilettantismo della classe politica e altro ancora, nessuna delle tante idee elaborate poté concretizzarsi.

Nel ’95 rispuntò dunque un vecchio progetto da tempo accantonato proprio per merito del rinvenimento delle entrate straordinarie di cui si è detto: il varo di una riforma tributaria capace di elevare i bassissimi cespiti ordinari della Repubblica e di stabilizzare così il bilancio.

Fino a quel momento il fisco a San Marino era stato sempre un argomento tabù. La classe operaia e rurale, infatti, era poverissima, quindi poco tassabile; il ceto borghese era pressoché inesistente; i personaggi benestanti della Repubblica, ovvero quelli che avrebbero in teoria potuto e dovuto pagare di più, erano ai suoi vertici essendo praticamente tutti consiglieri: si guardavano bene, quindi, dal sostenere innalzamenti tributari. Nel corso dei secoli, infine, si era consolidato tra tutti il pensiero che essere liberi, indipendenti e repubblicani significasse anche pagare pochi balzelli. A lungo i socialisti, negli anni successivi all’arengo, ironizzeranno sulla confusione che in Repubblica si faceva tra libertas e liber  tas.

Il problema fiscale fu comunque il combustibile che eccitò le fiamme del riformismo sammarinese, e l’arma più potente che i pochi innovatori locali poterono adoperare per creare quel forte consenso, altrimenti in larga parte inspiegabile, che verrà alla luce con l’arengo del 1906.

Nel 1898 il deficit di bilancio aveva ormai raggiunto le 120.000 lire, per cui il Congresso economico, dopo aver tentennato per alcuni anni, era giunto alla conclusione che non vi fossero altre strade da percorrere se non quella che portava ad inasprire sia le tasse rustiche ed urbane, sia  quelle indirette sul vino, fino a quel momento pressoché esente, insieme ad altri beni di largo consumo.[28]

Il discorso di Franciosi del 1° ottobre si sviluppò quindi su questo dibattito che stava coinvolgendo animatamente il paese. Ma anche il Partito Socialista Sammarinese prese vela per lo stesso motivo: il 1° maggio del ’99 affisse in giro per il paese un manifesto in cui istigava gli operai a pretendere riforme sociali tra cui il suffragio universale e un sollecito controllo alle pubbliche amministrazioni (appendice 1).

Nell’arengo dell’ottobre dello stesso anno, invece, Angelo Corsucci e Tullio Giacomini, qualificandosi come suoi rappresentanti, presentarono alla Reggenza due istanze dirette a difendere gli interessi del popolo e del bene del paese. La prima invitava il governo a rinunciare ai suoi propositi fiscali, essendovi tra i socialisti la convinzione che con una adatta riforma del bilancio, cioè con tagli e risparmi, si potesse ugualmente far fronte almeno ad una parte del disavanzo, per cagione del quale si vogliono applicare le imposte. Se poi non fosse stato proprio possibile evitare il ricorso a nuove tasse, era senz’altro meglio adottare un sistema di imposta unica sul reddito, con esenzione dei redditi minori e progressività pei maggiori. In pratica i socialisti, ricollegandosi pienamente alle discussioni di indole tributaria che si stavano svolgendo anche fuori dei confini sammarinesi, si auspicavano una riforma che non andasse a danneggiare le classi popolari, come invece avrebbe sicuramente fatto il progetto in discussione, quasi interamente imperniato sulle tasse indirette, ma ricadesse prevalentemente sui possidenti e su chi aveva un certo reddito. Vedremo inoltre nel prosieguo di questo studio che essi attribuivano ad un fisco equo la possibilità di livellare le sproporzioni esistenti tra benestanti e non, ed anche precise capacità moralizzatrici.

La seconda istanza era strettamente dipendente dalla prima: Riconoscendo che gli inconvenienti di bilancio già citati e l’irregolare funzionamento delle amministrazioni sono determinate principalmente dalla mancanza di controllo pubblico; che coll’attuale forma di governo gli interessi ed i bisogni popolari non sono direttamente rappresentati e soddisfatti; che condizione prima di vita civile è la partecipazione politica ed amministrativa del popolo al governo della cosa pubblica; che in quanto a forma, il nostro governo è contraddizione col suo nome di repubblica, rimanendo inferiore in ordine politico al vicino regno d’Italia, dove funziona il diritto di voto; propone che si attui una riforma per cui sia istituito il suffragio universale con le elezioni del Consiglio in base di esso (appendice 2).

Il socialismo sammarinese, dunque, partendo dalle contingenze locali e allacciandosi ai grandi dibattiti di indole riformista che si stavano sviluppando nei paesi civilizzati, arroccandosi in particolare sul bisogno d’introdurre anche a San Marino il suffragio universale prima di varare qualunque altra innovazione, soprattutto di natura tributaria, era ormai sceso apertamente in campo deciso a non limitarsi più a fare politica passivamente attraverso l’astensionismo, com’era in pratica fin lì avvenuto.

Il Consiglio esaminò l’istanza d’arengo nella sua seduta del 23 novembre: Angelo Corsucci ed il Dr. Tullio Giacomini - si legge nel verbale di quel giorno - qualificandosi rappresentanti il partito socialista reclamano contro le tasse da istituirsi e perché nelle elezioni si adotti il Suffragio Universale. Il Consiglio prende in considerazione la riforma del sistema amministrativo e respinge ogni altra domanda non riconoscendo l’esistenza di partiti ad eccezione di quello dei Sammarinesi Repubblicani.[29]

In definitiva il governo sammarinese si mostrava sensibile al desiderio di non colpire le masse con altre imposizioni, mentre non accettava assolutamente la possibilità di sconvolgimenti politici di nessun genere, così come sdegnosamente respingeva l’esistenza, all’interno di quell’isola felice che doveva essere la Repubblica, di gruppi politici innovativi rispetto alla cultura politica usuale.

Le istanze dei socialisti, insieme al malumore che contro le nuove tasse vi doveva essere tra la popolazione, ebbero la forza di lasciare in sospeso per qualche tempo l’idea della riforma tributaria. Per far fronte ai bisogni che comunque rimanevano, il Congresso economico del 18 novembre fu costretto a deliberare l’attivazione dell’ennesimo debito con la locale Cassa di Risparmio per poter acquistare i tabacchi.[30] Nei primi mesi del secolo nuovo, inoltre, fece passi con l’Italia per poter avere un ritocco del canone doganale. Erano ovviamente solo espedienti che non servivano a risolvere il problema alle radici, per cui le polemiche non si poterono sopire, ed in tutte le sedi istituzionali continuarono ad essere discussi i progetti più disparati per sanare il bilancio così da evitare la per tutti temibile riforma fiscale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III. Il nuovo secolo e la battaglia pro arengo

 

 

Dopo l’exploit del ’99, nei primi anni del Novecento i socialisti sammarinesi svolsero un’attività politica piuttosto ridotta. A parte qualche articolo di Gino Giacomini sul “Risveglio”, giornale socialista di Forlì, con cui continuava a chiedere prima di qualunque altra riforma l’istituzione del suffragio universale, e una serie di 52 istanze d’arengo sottoscritte da 105 capifamiglia, in parte socialisti, in parte democratici, presentate in ottobre al Consiglio, sempre per chiedere il diritto di voto, non vi fu altro.

Tale quiete è forse spiegabile con una nuova assenza dalla Repubblica di Giacomini, mente e attivista principale del piccolo gruppo. Infatti, dopo essersi diplomato maestro elementare, a partire dalla fine del 1900, grazie anche all’intercessione di Franciosi, riuscì a trovare lavoro prima a Morciano, poi presso le scuole elementari di Montelabbate. Qui rimase ad insegnare fino al novembre del 1902, data in cui il Consiglio di San Marino con diciotto voti favorevoli, tredici contrari e sei astenuti, lo nominò maestro presso la scuola elementare di Borgo, dopo che 124 cittadini avevano sottoscritto a suo vantaggio una petizione in cui lo si richiedeva come insegnante presso quella sede, essendo ritenuto giovane capacissimo e che gode la stima dell’intero paese.

Giacomini, trionfante ma anche molto polemico con i governanti sammarinesi a cui attribuiva la colpa di aver dovuto aspettare tanto un lavoro in territorio, scrisse a Franciosi il 15 novembre per dirgli: La ringrazio con affetto del compiacimento con cui ha accolto la mia nomina a maestro del Borgo. La volontà del popolo ha trionfato delle male arti della camorra nobile. Finalmente potrò rientrare in patria! Arriverò gli ultimi del mese.[31]

Il ritorno di Giacomini a San Marino, insieme ad alcuni avvenimenti del 1902, diedero una scossa al paese: nei primi mesi del 1903, infatti, prese avvio una campagna sistematica a favore dell’arengo e del rinnovo del Consiglio Principe e Sovrano, come ancora si appellava, tramite suffragio elettorale.

Prima di arrivare a questa data, comunque, è bene fornire qualche rapido accenno ad altri fatti accaduti in precedenza che si possono considerare il detonatore degli avvenimenti successivi.

Nel 1901 vennero sottoposti a verifica economica tutti gli uffici della Repubblica, soprattutto perché erano emerse gravi irregolarità legate alla gestione del cassiere governativo.[32] Fu pure l’anno in cui, nel mese di settembre, in Consiglio si lesse la relazione elaborata dalla commissione finanziaria nominata dal governo per avanzare suggerimenti atti a sistemare le traballanti finanze locali.[33] Essa proponeva:

1.   di raddoppiare la tassa urbana;

2.   d’imporre un tributo dell’8%  sull’estimo dei beni di manomorta (si prevedeva d’incassare circa 4.800 lire all’anno);

3.   d’istituire una tassa per il porto d’armi (si prevedeva di incamerare 1.000 lire all’anno);

4.   d’imporre una tassa sui cani (si prevedeva d’incassare 600 lire all’anno);

5.   d’istituire una tassa dell’1% sulle assicurazioni (si prevedeva un incasso di 1.000 lire annue);

6.   d’introdurre una tassa dell’1% o del 2% sugli stipendi degli impiegati, sui compensi dei liberi professionisti e degli esercenti, e sugli utili degli Istituti di credito;

7.   d’imporre una tassa sul vino di 0,50 lire per soma che avrebbe fornito circa 10.000 lire annue;

8.   d’introdurre una tassa sul bestiame;

9.   di fare diverse economie sulle spese usuali.

Tale progetto finanziario, che faceva grande affidamento sulla tanto aborrita tassa sul vino di cui si stava inutilmente discutendo da cinquant’anni, determinò ovviamente grande dibattito e infinite polemiche all’interno del Consiglio; tuttavia vi fu una proposta avanzata dal consigliere Marino Borbiconi che incontrò l’appoggio della maggioranza; lasciamo in proposito parlare direttamente il verbale di quella seduta consiliare: Il Consigliere Marino Borbiconi caldeggia con lodevoli parole la massima di trattare tutti i cittadini in ugual modo, di essere miti ma equi nelle imposte, senza gravare, cioè, una classe a vantaggio di un’altra. Dice che le tasse non solo sono necessarie a ristorare le nostre finanze: ma a renderci ancora avveduti e saggi nell’impiegare il danaro pubblico. Conclude coll’esprimere il voto che lo studio d’applicazione delle minime tasse, ormai ritenute più che utili e salutari, sia affidata ad un finanziere anche estero il quale, considerato il nostro bilancio, saprà facilmente distribuire a chi spetta il giusto, benché esiguo, contributo da corrispondere al Governo. Il Consigliere Onofrio Fattori si associa a quest’ultima proposta del Borbiconi, ed anche il Consigliere Pasquale Busignani dimostra con buoni argomenti che le tasse sono scuola di moralizzazione per i contribuenti e per i Governi. Alla fine anche la Reggenza aderì a tale proposta e chiese al Consiglio se si era tutti concordi nel nominare un finanziere idoneo e capace a redigere un concreto progetto tributario. Tutti assentirono, dando mandato alla stessa di reperirlo.

Remo Giacomini, padre di Gino, dichiarò tuttavia che, prima di applicare nuove tasse, sarebbe stato opportuno fare un referendum con cui chiedere l’opinione del popolo, visto che alla fine sarebbe stato proprio questo a subire le conseguenze maggiori dalla riforma tributaria. La sua richiesta, che si dimostrerà importantissima per gli avvenimenti successivi, al momento non ottenne però l’appoggio di nessuno.

Nel gennaio dell’anno seguente la Reggenza comunicò al Congresso di Stato d’aver preso contatti con Lorenzo Gostoli, segretario d’Argenta in pensione, competentissimo in materia finanziaria, e buon amico del nostro Paese. Nel mese di giugno si dovettero contrarre altri debiti per 20.000 lire con la locale Cassa di Risparmio; un mese dopo arrivarono le proposte elaborate da Gostoli, il quale  evidenziò il bisogno immediato di creare un ufficio anagrafico ed un ufficio tecnico senza dei quali non è possibile una buona amministrazione, e coi quali soli si può sperare ed assicurare una giusta e retta applicazione di nuove Tasse e le desiderate economie nelle spese, disse.[34]

Il Governo, tramite avviso pubblico datato 12 luglio, comunicò alla popolazione che l’elaborato di Gostoli (composto da sei fascicoli che rappresentavano solo la prima parte della riforma che aveva in mente) era a disposizione per quelle annotazioni, che ciascun Cittadino intendesse fare a pubblica utilità; poi provvide a nominare alcuni organismi preposti all’esame dello stesso progetto.

Si era dunque arrivati ad una soluzione che prevedeva l’innalzamento mirato e scientifico dei tributi. La parte più progressista del Consiglio, però, non era pienamente d’accordo, e la richiesta di Remo Giacomini di fare un referendum sull’argomento ne è la precisa conferma. Egli trovò altri consiglieri disposti ad appoggiarlo in tale istanza: l’amico Ignazio Grazia, con cui già il 15 giugno del 1900 aveva scritto un volantino diffuso tra la popolazione per denunciare gli abusi e le ruberie che avvenivano all’interno della pubblica amministrazione, e per criticare l’introduzione di qualsiasi riforma tributaria in un sistema politico che facilitava simili illegalità,[35] e Telemaco Martelli, altro suo amico, progressista moderato, con il quale, il 27 agosto del 1902, aveva firmato un manifesto contro il Consiglio, in cui si istigava la popolazione alla rinnovazione mediante suffragio popolare di un consesso il quale, pei suoi intrighi e maneggi illeciti e vergognosi da una parte, per le sue transazioni e acquiescenze servili e incoscienti dall’altra, si è reso indegno di continuare a reggere le sorti della Repubblica.[36]

Le posizioni che si stavano consolidando erano insomma due: la prima, appoggiata dai conservatori, voleva la riforma tributaria senza toccare il sistema costituzionale sammarinese; la seconda, di stampo progressista, auspicava sempre la riforma, ma solo dopo aver modificato la costituzione oligarchica che sopravviveva dal XVII secolo, per evitare che le nuove entrate fossero gestite con i metodi ambigui e fumosi di sempre, sistemi che avevano permesso e stavano permettendo ancora prevaricazioni e abusi di ogni genere.

Nel 1902 successero anche altri fatti degni di nota per l’argomento che stiamo affrontando. Il 23 gennaio Pietro Franciosi venne cooptato come consigliere nobile all’interno del Consiglio, nomina che egli rifiutò, come già aveva fatto Telemaco Martelli un paio di settimane prima. Martelli, consenziente, era stato però subito rieletto come consigliere non nobile.

Tramite lettera aperta datata 29 gennaio diffusa tra la cittadinanza, desideroso probabilmente di seguire la strada tracciata da Martelli, Franciosi fece sapere che avrebbe accettato solo la carica di consigliere senza la nobiltà, perché non poteva più ammettere l’obsoleta divisione in ceti (nobili, cittadini, terrieri) del Consiglio.[37] Alla fine però la proposta di Franciosi fu rigettata: la nomina gli venne revocata del tutto, e il professore se ne dovette rimanere fuori dal massimo organo istituzionale della Repubblica.

La vicenda diede a Gino Giacomini l’opportunità di scrivere a Franciosi in data 28 febbraio una lettera nella quale sosteneva che l’abolizione della nobiltà e della divisione in ceti era una pretesa minima rispetto ai veri bisogni politici del paese. L’esigenza prioritaria, sostenuta dai socialisti a spada tratta e con coerenza, perché era la stessa ormai da diversi anni, doveva invece essere il voto: La coscienza pubblica si orienti in senso veramente democratico e tenda esclusivamente alla conquista del diritto di voto prima che lo sfacelo sia completo. Questa è la prima logica ed utile riforma, le altre saranno una conseguenza inevitabile. Ecco la nostra pregiudiziale.[38]

Con questa "pregiudiziale", poco dopo, sempre in occasione della festa dei lavoratori, i socialisti sammarinesi diedero alle stampe il secondo giornale della loro storia, intitolato “1° Maggio in Repubblica”. Questa pubblicazione, molto più articolata e ricca di contenuti della precedente del 1898, presentava al suo interno diversi articoli di Franciosi, di Gino e Tullio Giacomini, che ne erano i direttori responsabili, di Alfredo Casali e di altri ancora, tutti più o meno accomunati nel chiedere l’elezione dei consiglieri per voto diretto, che era la rivendicazione principale su cui i socialisti avevano trovato una qualche convergenza e si erano ormai radicati.

Venivano però avanzate proposte anche per altre innovazioni, come la riforma tributaria e il decentramento amministrativo, ovvero la creazione di tanti comuni autonomi. Se queste riforme siano più che pressanti, lo addimostra la latente bancarotta delle nostre istituzioni, gli abusi ed i favoritismi criminosi che continuamente si commettono e nel Consiglio e in non poche amministrazioni, il progetto di nuove tasse che non si sa, se debbano ancora andare ad ingrassare le pancie di alcuni nostri maggiorenti, oppure a sollevare di qualche po’ il nostro esausto bilancio. E poiché queste riforme non si otterranno se non con l’unione di tutte le forze vive del paese, i nostri lavoratori devono sentire anche il bisogno dell’organizzazione operaia, scrisse il giovane Alfredo Casali. Insomma, i socialisti ormai davano l’impressione di avere tutt’altra impostazione e tutt’altro spirito rispetto ai tempi precedenti, e per questo cominciavano a fare molta paura alla bigotta società sammarinese. Soprattutto erano decisissimi a pretendere l’aumento dei diritti politici prima di qualunque altra riforma di natura finanziaria: Ma chi potrà imporre di pagare le tasse a questo popolo se lo tenete come un cane fuori dalla porta, privo dei diritti civili e politici?, venne affermato in un articolo firmato “Il Positivista”. Se deve contribuire nel campo finanziario economico – continuava – vorrà di logica naturale conseguenza prendere prima parte allo svolgimento della vita amministrativa – politica; altrimenti tutte le leggi di tasse, di fiscalità non avranno forza, non saranno osservate e naufragheranno tutte.

Il giornale contiene tanti altri articoli interessanti che in questa sede è superfluo riassumere. E’ pervaso soprattutto da una forte e nuova volontà di iniziare a cambiare davvero qualcosa a San Marino, partendo da poche, granitiche rivendicazioni, e da una possibile alleanza con altre forze democratiche locali più moderate. Non a caso il numero unico si chiude con una precisa asserzione che suona come una enunciazione di guerra: Dichiariamo di aver accettato la collaborazione degli amici democratici che in quest’ora di rivendicazioni popolari si sono schierati in battaglia con noi.[39]

La volontà belligerante di cui si è detto stava caratterizzando anche altri progressisti più moderati dei socialisti. Il 6 aprile dello stesso anno Remo Giacomini, Telemaco Martelli e Ignazio Grazia presentarono un’istanza d’arengo tesa a chiedere l’istituzione del referendum per creare un nuovo istituto con cui allacciare precise collaborazioni con la cittadinanza quando dovevano essere varate leggi particolarmente onerose per la comunità. Ovviamente questa iniziativa non era altro che la formalizzazione della proposta già avanzata da Remo Giacomini l’anno precedente, ed era strettamente legata all’idea di sottoporre al giudizio della popolazione, tramite referendum, il nuovo progetto fiscale a cui Gostoli stava lavorando. Il Consiglio questa volta non rigettò la richiesta, ma prese tempo decidendo di esporre il problema ad alcuni suoi consulenti esperti in materia, in particolare a Pietro Ellero con cui i governanti erano in buoni rapporti già da parecchi anni.[40]

Nei mesi successivi le considerazioni degli esperti giunsero in Consiglio: tutte erano più o meno dell’avviso che la Repubblica avesse ormai necessità di qualche innovazione di natura costituzionale, pur senza dover snaturare le sue peculiarità secolari. Per questo si suggeriva di abbandonare l’idea del referendum, per ripristinare invece l’antico arengo dei capifamiglia, che poteva essere ora utilizzato con funzioni referendarie per interpellare la popolazione su argomenti di forte interesse collettivo.

Il Consiglio, timoroso d’instaurare organismi che avrebbero potuto minare la sua assoluta autorità sullo Stato, soprattutto in un momento storico in cui stavano emergendo un nugolo di idee innovative ed esotiche, come continuavano a definirle i membri dell'antica intellighenzia, tergiversò ulteriormente intorno alla questione, facendo inviperire ancor più sia i socialisti, sia i riformisti moderati del paese, che adesso potevano appoggiare le loro rivendicazioni anche su pareri autorevoli di personaggi carismatici estranei al contesto sociale sammarinese e alle sue polemiche strapaesane. Venne in definitiva provocata l’esasperazione necessaria per favorire una grande coalizione antioligarchica in nome del ritorno all’arengo, organismo che gli statuti del Seicento, cioè l'insieme di norme che fungevano ancora da costituzione della Repubblica, avevano accantonato, ma mai del tutto abolito.

Sempre in quell'anno il piccolo gruppo socialista, deciso ormai a giocare un ruolo da protagonista nello scenario politico locale, si costituì in sezione e Gino Giacomini presenziò, nel mese di settembre, al VII congresso del Partito Socialista Italiano ad Imola. Per l'occasione vennero poi in visita a San Marino Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Giungiamo così ai primi mesi del 1903 quando, dopo ripetuti incontri tra i diversi sparuti gruppi di innovatori, si arrivò, in nome del ritorno all'arengo, a fondare un nuovo raggruppamento, denominato “Associazione Democratica Sammarinese”, composto da quasi tutti i riformisti sammarinesi più o meno moderati, ovviamente anche dai socialisti. Il 15 marzo l’Associazione si presentò alla cittadinanza in un’assemblea pubblica, durante la quale divulgò il suo programma che raccoglieva in pratica le aspirazioni rinnovatrici di tutte le anime che la componevano, e che si riprometteva di iniziare un lavoro serio, ordinato, concorde per combattere i mali da cui siamo vessati, i quali hanno la loro radice nel Consiglio dei LX. Prevedeva infatti la sovranità popolare, la restaurazione dell’arengo, l’applicazione del referendum, l’elezione periodica dei consiglieri, la soppressione dei ceti, il riordino delle finanze e della pubblica amministrazione in genere, l’imposta unica e progressiva sul reddito ed altro ancora.

La nuova Associazione, inoltre, si diede subito da fare per pubblicare un periodico da cui divulgare le sue aspirazioni e con cui cercar di sensibilizzare l'amorfa e per lo più analfabeta cittadinanza. Il  1° aprile uscì per la prima volta il loro giornale che avrà grande peso nella lotta pro arengo e, in seguito, nella vita del socialismo sammarinese in genere: il Titano. Direttore venne nominato l’avvocato Telemaco Martelli, riformista moderato.

I socialisti, visti dalla conservatrice società sammarinese come dei terribili senzadio pronti ad abbattere le chiese, la religione, la famiglia e le sicurezze di sempre, preferirono inizialmente starsene nella penombra, proprio per non dare al movimento riformista connotati troppo rivoluzionari e sconvolgenti, per non spaventare cioè nessuno in un momento in cui le idee sul da farsi probabilmente non erano nemmeno troppo chiare, né vi doveva essere fiducia assoluta e uniformità di vedute tra le diverse componenti dell'Associazione, nonostante il programma comune di cui si è detto. D'altra parte dagli articoli del Titano di questi primi mesi di vita del giornale si capisce con chiarezza che non era stato messo a punto ancora un preciso piano per muoversi armonicamente e con strategia pianificata contro il sistema politico imperante.

Il 1903 fu caratterizzato da tali novità e da poco altro. Il 1904, invece, vide scoppiare diversi scandali di natura finanziaria, in cui risultarono più o meno coinvolti alcuni membri dell'oligarchia. Fu l'occasione buona per inasprire i toni della polemica e per eccitare gli animi della gente contro la sorda camorra nobiliare e la disonesta maffia che governava il paese, pronta a ideare riforme tributarie che avrebbero portato via soldi ai poveracci, ma facilona, inaffidabile e truffaldina nella gestione del denaro di tutti, almeno così sbandieravano i progressisti.

Probabilmente però i riformisti moderati non se la sentirono di affondare più di tanto il coltello nella ferita, né di alzare troppo il timbro degli strilli. La loro indole, la loro cultura e la loro provenienza sociale li portava ad essere innovatori "gentili", consci cioè che anche nel sistema politico sammarinese qualcosa bisognasse modificare secondo le linee che stavano furoreggiando in Italia e un po’ dovunque, ma non disposti a grossi sconvolgimenti delle istituzioni locali, né a sostenere quella laicizzazione draconiana dello Stato cui pensavano i riformisti più iconoclasti, né assalti all'arma bianca nei confronti dell'antica intellighenzia sammarinese, né l'omogeneizzazione economica cui aspiravano prevalentemente i socialisti.

Costoro, invece, provenienti soprattutto dal mondo operaio e popolare, imbevuti delle culture più rivoluzionarie dell'epoca, arrabbiatissimi contro i padri/padroni pseudoaristocratici del Paese che facevano il bello ed il cattivo tempo senza doverne rendere conto a nessuno, volevano molto di più rispetto al tanto conclamato ritorno all'arengo, che predicavano soprattutto per esigenze contingenti, non per reale convinzione. Il loro era un sogno di modificazione totale della società sammarinese, di democratizzazione somma, di incondizionato ridimensionamento dei poteri politici e culturali della Chiesa, di equa spartizione della ricchezza e delle proprietà, di graduale presa del potere da parte dei ceti popolari.

L'arengo, scrisse sul Titano Gino Giacomini nel maggio del 1905, era solo l'espediente grazie al quale dovevano trovare coesione temporanea le sparse membra della democrazia sammarinese. Infatti egli aveva la convinzione che sarebbe stato impossibile raggrupparle in altra maniera, magari all'ombra di un unico programma politico, essendo troppo diverse per tendenze e finalità. Ovviamente i socialisti, che rappresentavano l'ala riformista più radicale, facevano paura a tutti, anche a chi voleva promuovere innovazioni, però senza rischiare di rimetterci del suo o di mettere troppo a soqquadro il paese.

Per questi motivi fu proprio il piccolo gruppo socialista a prendere in mano le redini della protesta e ad innalzare il tono della polemica. Infatti, dopo un anno di contestazioni piuttosto "garbate" verso il potere, il Titano, a partire dal 1° aprile 1904, cambiò direttore passando dalle mani di Martelli a quelle di Gino Giacomini, senza dubbio più focoso e provocatorio del suo predecessore. Per la verità costui anche nel primo anno di vita del periodico era stato il suo principale autore e ne aveva quasi sempre firmato l'articolo di fondo. Assumendo però la responsabilità della direzione, le inflessioni del giornale si fecero in genere più arroventate e provocatorie, cominciarono a fioccare le accuse, le offese e le denunce, infuriarono gli scontri verbali e non, si accrebbero i livori personali, sempre latenti in una realtà piccola dove tutti si conoscevano e avevano contatti quotidiani, la battaglia contro l'oligarchia dominante diventò assai più cruenta, nonostante ci si preoccupasse in continuazione di assicurare la cittadinanza che il cambio del direttore non avrebbe mutato più di tanto la logica politica temperata che sottostava al periodico.

In realtà non fu così ed il Titano, pur definendosi ancora "organo della democrazia sammarinese", assunse via via una fisionomia sempre meno moderata e sempre più aggressiva e socialisteggiante. D'altronde proprio dal giornale Giacomini fece intendere senza ambiguità che non era più il momento di tergiversare, né di essere ambigui, perché occorreva avere il coraggio di affondare definitivamente il colpo per affossare quella che lui ormai considerava l'agonizzante oligarchia al potere.

A causa di questa nuova irruenza del periodico, anche la locale classe operaia, considerata troppo accondiscendente e servile nei confronti dei padroni e dei governanti, ed eternamente soggetta ad uno sfacelo di coscienza che le impediva di divenire compatta e combattiva, venne frequentemente stigmatizzata. Vi furono inoltre feroci critiche per l'intero popolo sammarinese: A voler aspettare la maturità politica, non diremo socialista o repubblicana, ma semplicemente democratica e civile della metà più uno dei cittadini Sammarinesi - venne scritto sul Titano del 1° aprile 1905 - ci sarebbe da far la barba lunga come quella di Matusalem.

Proprio per sollevare le capacità intellettive e critiche degli operai sammarinesi, e creare tra loro maggiore aggregazione, si diede vita ad un insieme di iniziative culturali che dovevano avere lo scopo di educare i ceti meno colti, tra cui la cosiddetta "Università Popolare", che a partire dal 1904 organizzò per qualche tempo conferenze e lezioni di natura politica e sociale aperte a tutti. A queste attività fornì la sua esperienza e collaborazione anche Annibale Francisci, direttore del giornale socialista ligure "La Lima",  rifugiatosi per qualche tempo a San Marino perché condannato a sedici mesi di galera per diffamazione.

Sempre per creare un più incisivo spirito di corpo tra gli operai, si cominciò a enfatizzare maggiormente il significato del 1° maggio e ad organizzare manifestazioni di massa. Nel 1903, infatti, la Società Unione Mutuo Soccorso per la prima volta lo festeggiò ufficialmente. L'anno successivo le forze progressiste si adoperarono ulteriormente per accrescere  il concorso di popolo a tale ricorrenza. Nel 1905, poi, due cospicui gruppi organizzati, uno proveniente da Serravalle, uno da Città, guidati folcloristicamente dalle locali bande musicali, si radunarono a Domagnano, fornendo la chiara dimostrazione che il mondo operaio, stimolato soprattutto dai socialisti che erano i principali fautori delle manifestazioni, e che già prima del 1903 celebravano con passione il 1° maggio, stava raggiungendo una coesione impensabile solo pochi anni prima.[41]

Furono questi gli anni in cui anche il professor Pietro Franciosi aderì con maggior entusiasmo e convinzione alla causa socialista. Egli aveva già pubblicato un articolo sul “1° maggio” socialista del 1902,[42] poi aveva fornito di tanto in tanto qualche suo pezzo al Titano, ma iniziò a scrivere sistematicamente sul giornale solo a partire dal 1906. Il momento in cui Franciosi iniziò ad interessarsi con piena dedizione alla causa riformista si può individuare a partire dal suo discorso sull'esigenza di ripristinare l'arengo pronunciato per l'insediamento dei Reggenti il 1° ottobre 1904.[43]

In precedenza il professore si era già reso promotore di istanze innovatrici, come abbiamo visto, tuttavia fu proprio a partire dalla fine del 1904 che egli iniziò a stringere un sodalizio con Giacomini e col gruppo socialista in genere in nome del ritorno all'arengo. In seguito quest'alleanza si consolidò sempre più, anche se i due personaggi, oggi considerati padri del socialismo sammarinese, erano dissimili per età, per foga, per background culturale e per personalità, quindi a volte illuminavano lo stesso socialismo di luci di diversa intensità e ispirazione.

Franciosi era sicuramente un uomo formatosi ai tempi della Destra storica italiana, molto più attaccato alle tradizioni secolari di San Marino, giunto al socialismo attraverso l’umanitarismo che lo caratterizzava fin dai tempi del liceo, quando si prestava a favore dei più poveri come distributore, ovvero portando alle loro case prodotti rimediati tramite la pubblica beneficenza, ma pure tramite un lungo percorso intellettuale di studio e di approfondimento dei testi di Marx e di altri pionieri del socialismo.

Giacomini, invece, di 14 anni più giovane, essendo nato nel 1878, aveva avuto un’altra storia alle spalle, e soprattutto si era formato culturalmente non tanto tramite la tradizione risorgimentale, ma direttamente sui testi di Turati, Prampolini, Costa, Bissolati all’inizio, poi sulle teorie marxiste. Dall’ABC tentai poi di salire a più alte sfere di acquisizione scientifica della dialettica marxista, alla quale sono rimasto sempre fedele attraverso gli scritti di Sorel, Labriola, e agli originali di Engels, Vassalle, e degli altri, e mi misi a fare propaganda spicciola da quel soldato volontario e volenteroso che sono sempre stato, ci dice lui stesso all’interno delle sue inedite memorie autobiografiche.[44] Poi aveva frequentato i circoli socialisti del circondario, in particolare quello di Rimini, quando aveva fatto l’apprendista barbiere, e quello di Urbino, quando negli ultimi anni dell’Ottocento era tornato agli studi, svolgendo continua opera di propaganda e arringando le folle coi suoi primi comizi.

I socialisti, pur avendo al loro interno più tendenze fin dal principio, che comunque in questi anni non determinarono spaccature particolari, dovevano più che altro dibattersi tra la loro volontà riformistica totale e, per i tempi, ultra avveniristica, e l'indole serafica e reazionaria del Paese che, è bene sottolinearlo ancora, quasi per intero li vedeva come potenziali distruttori della patria, della religione, della famiglia e della tradizione, ovvero dei cardini su cui, secondo la mentalità dei più, si reggeva da sempre la vetusta e sacra Repubblica, scaturita dalla costola di un santo che non avrebbe di certo ben digerito e aiutato una ciurma così sacrilega e blasfema, almeno secondo l’opinione dei tanti conservatori e cattolici che così andavano dicendo soprattutto tra gli abitanti del contado.

Lo scontro ad un certo punto da politico divenne personale, infiammandosi soprattutto tra i Giacomini (Remo e Gino) e i Gozi (Gemino e Federico) che, per le discussioni fomentate e le offese vicendevoli profuse sia in Consiglio che fuori, in varie occasioni quasi giunsero alle mani ed ebbero per anni pendenze in tribunale per denunce reciproche. La piccolezza del Paese portava ieri come oggi a tramutare gli antagonismi ideologici in livori individuali, in vendette più o meno sottili, in faide familiari dal sapore provincialotto. Occorre costantemente tener conto di questa peculiarità, quando si studia la realtà sammarinese, altrimenti molti passaggi della sua evoluzione storica non sono sempre ben comprensibili e spiegabili.

Con questo clima surriscaldato dagli scandali, dalle polemiche ideologiche o personali, dalla crisi finanziaria incombente, si giunse al 1905. Fu l'anno della svolta della lotta politica intrapresa, quello in cui le tante controversie sfociarono nella costituzione di un consistente Comitato pro-arengo che costrinse il Consiglio a convocare l'assemblea dei capifamiglia del 25 marzo 1906. L'iniziativa di questa nuova forma di battaglia politica fu senza dubbio presa da Gino Giacomini e dal gruppo socialista, di cui era ormai l'indiscusso capo carismatico, ispirati dal discorso di Franciosi di cui si è detto.

Nel mese di marzo del 1905 il Titano, per incalzare maggiormente la cittadinanza e accelerare la battaglia antioligarchica, da mensile divenne quindicinale. In luglio il giornale istigò i consiglieri di indole democratica a dimettersi in blocco, così da indebolire il Consiglio e costringerlo a convocare il tanto desiderato arengo. Il suggerimento però non venne colto perché vi furono da parte di alcuni non poche perplessità a mettere in atto un gesto così drastico.

Per buona sorte del gruppo riformista, tuttavia, il 12 agosto la fazione oligarchica del Consiglio fece un errore madornale che causò il rapido precipitare degli eventi: elesse Gemino Gozi Segretario degli Interni al posto del defunto Giuliano Belluzzi. Tale nomina venne presa dai consiglieri democratici come un'arrogante sfida nei loro confronti, perché proprio nei riguardi del neo-segretario essi avevano sollevato non pochi sospetti e accuse in passato. Lo si considerava, infatti, personaggio dall'onestà dubbia, dunque indegno di ricoprire incarico tanto prestigioso e delicato per la gestione dello Stato. Tra l'altro i riformisti lo ritenevano anche una sorte di traditore della loro causa, avendo egli da giovane, come molti di loro, aderito al mazzinianesimo di fine Ottocento e collaborato alla redazione dei primi giornali sammarinesi, estremamente critici nei confronti del locale regime patriarcale. In seguito, però, era diventato uno dei membri più influenti della ristretta oligarchia che gestiva la Repubblica, dimenticandosi in fretta dei suoi ideali riformisti giovanili. Questa nomina fu in sintesi la goccia che fece traboccare il vaso: nei primi giorni del mese di settembre sette consiglieri progressisti diedero perciò le dimissioni e uscirono dal Consiglio.

Negli stessi giorni, inoltre, vi fu la rifondazione della sezione socialista di Borgo, che per problemi interni, legati a scarsa partecipazione alla sua vita e attività, nonché per carenze di natura economica ed organizzativa, era venuta ad un certo punto a disgregarsi. Per iniziativa di qualcuno venne ricostituita il 2 settembre del 1905 con la presenza di diciassette sostenitori,[45] che si accrebbero in seguito di altri elementi.[46]

Il 17 settembre, all'interno di un’altra riunione della nuova sezione socialista, Giacomini affermò che l'ora era finalmente matura per iniziare l'agitazione a favore della rapida convocazione dell'arengo, e per  consolidare al massimo l'alleanza con i progressisti delle altre tendenze. Così fu fatto: venne infatti creata una commissione esecutiva composta da Antonio Cesarini, Alfredo Casali, Gino Giacomini e Giuseppe Giovannarini che, in data 20, scrisse a tutti i gruppi politici ed operai di San Marino, invitandoli a ritrovarsi per giungere ad un accordo di tutte le frazioni della democrazia sopra un comune programma di riforme costituzionali.

I socialisti, consapevoli di non potersi mettere direttamente a capo del movimento innovatore, perché avrebbero creato troppo allarme nel Paese, essendo considerati dai più soggetti estremisti, avversi al cattolicesimo e perturbatori dell'ordine pubblico, all’interno di una nuova riunione del 20 settembre decisero di dare solo il primo input al moto riformista, lasciandone la direzione ai progressisti moderati.[47]

Il Partito Socialista - si legge sul Titano del 1° ottobre 1905 - si assume così un semplice compito d'iniziativa e di spinta, non di direzione, giacché per quanto le riforme costituzionali reclamate possono essere, per esso più che per altri, una condizione indispensabile di sviluppo, esse formano il sostanziale e principale, se non unico, obiettivo di quelle frazioni della democrazia che hanno un programma esclusivamente politico e come tale più vicino alla realizzazione, ed è quindi al partito democratico che spetta il posto di capitano nella presente battaglia, mentre il partito socialista combatterà vigorosamente e con slancio giovanile in qualità di semplice soldato fermamente deciso di guadagnarsi il diritto a non lontane promozioni.

Nel mese di ottobre ci si preoccupò di verificare il reale interesse della popolazione alla contestazione politica che stava montando. Il 29 in Borgo venne tenuta un'assemblea aperta a tutti, a cui presenziarono più di 600 cittadini, dove si capì che l'agitazione pro-arengo avrebbe goduto di un certo appoggio popolare. Fu stabilito quindi di continuarla. In questa occasione vennero nominati i dirigenti del movimento: il giovane avvocato Gustavo Babboni, riformista moderato di Serravalle, venne eletto presidente; Pietro Franciosi, evidentemente non ancora troppo compromesso con il partito socialista, vice presidente; Moro Morri segretario. Questa carica inizialmente era stata offerta a Gino Giacomini che, rimanendo coerente con la linea già manifestata, la rifiutò affermando che egli ed i suoi compagni socialisti dopo aver dato il moto di propulsione al movimento intendono, perché la loro qualità di sovversivi non impauri alcuno, di mettersi alla coda.[48]

In realtà nei mesi successivi la natura battagliera ed estremista dei socialisti emergerà con frequenza, determinando scontri a non finire sia con i capi del Consiglio oligarchico, sia pure con Babboni, Morri e gli altri riformisti moderati, che in genere venivano accusati di essere troppo accomodanti con i detentori del potere, e poco convinti delle riforme politiche da propugnare, soprattutto di quelle più innovative e meno legate alla plurisecolare tradizione culturale e costituzionale sammarinese.

Tra l'altro nelle campagne i conservatori, in stretto connubio con i sacerdoti, iniziarono a svolgere una sistematica opera di persuasione verso i contadini per convincerli che i socialisti, una volta ribaltato il governo, avrebbero abolito subito la religione cattolica, depredato le chiese ed eliminato il clero. Per questi motivi già dal 18 novembre del 1905 emersero all'interno del gruppo dirigente socialista seri dubbi sul da farsi, se cioè continuare l'agitazione o ritirarsi per il grande malanimo che stava montando nei loro confronti, soprattutto all'interno dei Castelli rurali. Giacomini, comunque, risolse il problema sostenendo che era doveroso proseguire nella propaganda e dare aiuto alla democrazia pur intervenendo nella lotta con criteri socialisti.[49]

Così venne fatto e, pur mordendo il freno, il gruppo socialista si adoperò per smorzare l'impeto, a volte fin troppo esagerato, che lo animava. Continuò quindi a combattere fianco a fianco con i riformisti più moderati con l’obiettivo di abbattere una volta per tutte l'odiatissimo governo oligarchico sammarinese.

La massiccia partecipazione registrata dall'assemblea del 29 ottobre 1905 indusse il Consiglio a rendersi conto che non erano solo quattro giovani a spingere per la convocazione dell'arengo, come fin lì aveva pensato. Il 16 novembre, dunque, si decise a convocarlo, con tempi e modalità tutte da definire, però.

I riformisti ovviamente esultarono e s'impegnarono ancor più per organizzare e proseguire la battaglia. Tra le iniziative degne di nota merita senz'altro citare la nascita, nel mese di ottobre, di un nuovo "Circolo di studi sociali", promosso da Annibale Francisci, fondato per divulgare tra i lavoratori sammarinesi informazioni di natura politico/culturale e sollevare la modesta o addirittura inesistente dimensione intellettuale del locale mondo operaio. D’altra parte questo fu sempre un chiodo fisso dei socialisti, che imputavano all’ignoranza e all’analfabetismo grosse colpe per l’arcaica situazione politica e sociale sammarinese.

Come si è già detto poco fa, dopo la convocazione dell'arengo sorse nella sezione socialista grande discussione sull'apporto da dare al movimento, perché c'era chi voleva affrontare una battaglia con aspirazioni prettamente socialiste, ovvero di riformismo radicale e di sinistra, e chi invece era convinto che bisognasse per il momento accontentarsi delle aspirazioni più temperate dei democratici moderati, quindi starsene quanto più possibile calmi.

La sezione per ben due sere di seguito (21 e 22 novembre) si adunò per discutere sulla questione. Alla fine prevalse l'opinione di evitare assolutamente spaccature all'interno del Comitato pro - arengo: Preoccupato della fitta rete di viltà e di arti subdole - si legge all'interno del libro dei verbali della sezione - con cui gli uomini più nefasti di nostra terra tentano di riafferrarsi al potere che loro va mancando sotto i piedi, accaparrandosi l'incosciente appoggio di elementi campagnoli formanti anche oggidì, per il loro analfabetismo e attaccamento al prete, la Vandea locale, e non volendo correre l'alea con un atteggiamento troppo deciso di perdere sia pure momentaneamente l'intero frutto del suo operato, delibera di tener saldo il suo programma di riforme da ottenersi a mezzo dell'Arringo, di sostenerlo in seno al Comitato pro - Arringo, di inserirlo nel Titano, di comunicarlo nell'assemblea dei capifamiglia, ed all'ultimo momento, con un manifesto, renderlo di nuovo pubblico unito ad una preventiva risposta e disanima al programma sia politico che finanziario, il quale probabilmente potrà essere redatto dalla Reggenza, ma non di farne una assoluta questione capitale che provocando scissione e indebolimento del Comitato suddetto venga a compromettere financo l'accettazione del programma minimo di quest'ultimo; e tutto ciò in linea di eccezionale, momentaneo esperimento, deliberando fin d'oggi, e solennemente che, qualora i risultati definitivi d'Arringo, malgrado tanta buona volontà e abnegazione, non fossero soddisfacenti, disporrà perché tutte le sue forze di partito e quelle dei singoli suoi componenti siano coordinate al più fiero combattimento, di maggiori sacrifici, pur personali, magari scendendo in piazza, perché finalmente in questa Terra, indegno simulacro di Repubblica, in mano a volgari e disonesti tirannelli, trionfi almeno il diritto costituzionale, primo passo a ben più importanti e sostanziali conquiste dell'evoluzione economica - sociale.[50] 

I mesi successivi furono piuttosto tranquilli. Anche il Titano, sempre così caustico e battagliero, dopo le deliberazioni del 22 smorzò di molto i suoi toni e attese l'evoluzione degli eventi. Il Comitato pro - Arringo, ovvero il gruppo riformista che in nome del ritorno all'arengo era riuscito a trovare una qualche forma di precaria coesione, si prodigò per divulgare tra tutta la cittadinanza i suoi scopi ed i motivi per cui occorreva accantonare l'antico Consiglio nominato per cooptazione sostituendolo con uno elettivo. Inoltre organizzò un gruppo di studio per redigere un progetto di legge elettorale, che venne portato a termine e divulgato tra la cittadinanza nel mese di gennaio dell'anno nuovo.

Questo documento, che poi in parte diventerà realmente la prima legge elettorale sammarinese,[51] in alcuni suoi aspetti era alquanto all'avanguardia. Considerava, per esempio, l'arengo alla stregua del corpo elettorale della Repubblica, assegnandogli il compito di rinnovare il Consiglio per intero ogni cinque anni. Prevedeva inoltre l'istituzione del referendum facoltativo.

Il governo sammarinese, invece, non aveva le stesse preoccupazioni dei riformisti, soprattutto di quelli più oltranzisti. Costoro, infatti, davano per scontato che il Consiglio andasse ormai rinnovato, e che il convocando arengo dovesse servire in particolare a questo. I governanti, al contrario, non erano affatto convinti che la popolazione volesse i mutamenti promossi dai socialisti e dagli altri progressisti più arrabbiati, per cui avevano intenzione di utilizzare l'arengo con una veste nuova rispetto a quelle del suo remoto passato, in cui era stato o governo tout - court della Repubblica, soprattutto quando occorreva assumere deliberazioni particolarmente pesanti, o assemblea elettorale in cui modificare i connotati del Consiglio, come era accaduto per l'ultima volta nella lontana seconda metà del XVI secolo.

Essi erano dell'idea solo di interrogare i capifamiglia tramite una sorta di referendum una tantum per sapere se davvero vi fosse la volontà di apportare cambiamenti alla costituzione sammarinese, oppure no. Da qui il nuovo esacerbarsi della situazione a partire dal mese di febbraio, quando iniziarono a conoscersi le norme del regolamento a cui sarebbe dovuto sottostare l'arengo.[52] Franciosi sul Titano del 18 febbraio parlò senza mezzi termini di progetto capestro, di regolamento carcerario, di popolo imbavagliato, di forche caudine sotto cui si costringeva a transitare il massimo organo politico dello Stato. L'arringo sovrano è convocato con mani e piedi legati; non può parlare, non può discutere, non può scegliere. Un vero assurdo costituzionale, poi, veniva giudicato l'articolo 19 del regolamento, perché prevedeva che, per essere valide, le deliberazioni dell'arengo dovessero essere approvate almeno dai due/terzi dei capifamiglia. L'articolo si concludeva con precise critiche ai tre membri riformisti che componevano la commissione che aveva elaborato il regolamento, tra cui il presidente Gustavo Babboni.[53]

Sul Titano successivo, uscito il 25 febbraio, fu Gino Giacomini ad urlare al tradimento e a sferzare le forze democratiche, che si erano accontentate della convocazione dell'assemblea dei capifamiglia, dimostrandosi altresì troppo pronte ai placidi riposi. Egli pensava che l'arengo dovesse essere concepito come assemblea costituente di fronte a cui avrebbe dovuto cessare ogni potere. In altre parole, Giacomini sosteneva che, una volta convocato l'arengo, spettasse solo a questa assemblea qualunque decisione di natura politica, quindi anche la sua stessa autoregolamentazione. Il Consiglio, insomma, avrebbe dovuto limitarsi a starsene in disparte.

Ovviamente queste bordate ferirono diversi progressisti moderati che non avevano mai pensato ad un arengo come quello ipotizzato dai socialisti. Il più offeso fu proprio Gustavo Babboni, che da questo momento in poi tenderà a prendere le distanze dai riformisti più radicali, e a cavalcare quel riformismo mitigato e conservatore che si dimostrerà alla lunga il vero trionfatore dell'arengo del 1906. Tra l'altro le tensioni emerse iniziarono a incrinare l'alleanza democratica che si era appena formata: non a caso sarà destinata a frantumarsi completamente ad appena un anno dall'arengo.

Comunque nei mesi successivi si fece di tutto per tenere sotto la cenere il focolaio che si era acceso, perché fondamentale era abbattere il Consiglio oligarchico: non si doveva assolutamente fornire alla cittadinanza l'impressione che le forze progressiste fossero tra loro in attrito, né impaurirla più di tanto, perché a farlo già ci pensavano le forze conservatrici.

Molti temono che trionfando il programma del Comitato Pro - Arringo le cose cambino al punto di dare la repubblica in mano ai socialisti, in mano ai liberali, i quali dovrebbero mettere tutto a soqquadro, venne scritto sul Titano del 25 marzo, uscito nello stesso giorno in cui si stava svolgendo l'arengo. Prima di tutto bisognerebbe che questi tali si convincessero che i socialisti, i liberali, hanno combattuto sempre per l'ordine, non per il disordine, e che se molte cose ora camminano meglio, in gran parte si deve a loro. Secondariamente dovrebbero pensare che quello che vogliono i socialisti e i liberali lo vuole pure una grande categoria di persone che è religiosissima. Basta leggere l'elenco dei cittadini facenti parte del Comitato Pro - Arringo per convincersene. (…) Noi vogliamo che il popolo si assuma il dovere di scegliere, di eleggere ogni tanti anni i suoi rappresentanti. Li scelga fra le persone di principi ultra conservatori o clericali addirittura, ma si prenda il disturbo, a garanzia di tutti, di rinnovarli a determinati periodi, e non una volta per sempre come taluni desiderano!

Come sia andato a finire l'arengo del 25 marzo 1906 tutti lo sanno: la stragrande maggioranza degli 805 capifamiglia votanti optò per il Consiglio elettivo, abolendo di fatto il Consiglio Principe e Sovrano che dalla fine del Cinquecento dominava la Repubblica nominandosi tramite cooptazione. Il Titano del 15 aprile uscì in un tripudio di retorica e di forti speranze per il futuro, certo che ormai la Repubblica di San Marino avesse imboccato la strada maestra della contemporaneità. Non impiegherà molto, in realtà, ad accorgersi che non era proprio così. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV. Il dopo arengo e la rottura dell’alleanza democratica

 

 

Il problema ora era quello di organizzare le prime elezioni politiche della Repubblica. Anche in questo caso si giunse in fretta alla redazione di una legge idonea a regolamentarle, utilizzando in gran parte la proposta già elaborata nei mesi precedenti dai riformisti del Comitato pro-arengo, con l'aggiunta tuttavia di qualche sostanziale mutamento. Sul Titano del 27 maggio Franciosi si lamentò che le imminenti elezioni non avrebbero avuto disposizioni troppo nitide e troppo chiare, come sarebbe stato desiderabile, non avendo contribuito a definire la lotta neanche la democrazia, la quale nella scelta dei candidati doveva attenersi ad una maggiore omogeneità, e doveva forse fissare le linee larghe ma precise di un programma di presentazione. In pratica deplorava il fatto che il gruppo riformista non fosse stato capace di trarre dal mosaico della propria composizione un colore di carattere, e perché non si presentava al battesimo elettorale né con un nome né con un disegno, ma come un gruppo di sessanta candidati troppo variopinto e disomogeneo.

Inoltre tra loro, in particolare tra i candidati presenti nelle liste dei Castelli rurali, vi erano addirittura elementi stranieri e, diciamolo pur francamente, nemici della causa riformista. Nonostante questi appunti, Franciosi era comunque ottimista per il futuro: L'opera di selezione e di orientamento verrà in seguito, quando, passato questo momento caotico, i vari problemi, da quello costituzionale, diciamo così, oggi informe, che deve essere integrato con altri postulati politici ed ampliato da nuove forme, al problema tecnico che involge tutto l'organamento amministrativo dello Stato, al problema operaio, scolastico e di tutti i pubblici servizi, determineranno vari criteri e varie correnti che ci auguriamo almeno in un punto concordi: nell'intesa cioè di studiare, di lavorare, di escogitare nuovi impulsi di vitalità, di riparare cioè al danno fatto dal cessato governo malamente prodigo e allegramente vagabondo.

La maggior parte delle aspettative esplicitate da Franciosi, che erano poi le stesse del gruppo socialista, saranno in realtà destinate a non realizzarsi, o a farlo tra mille intoppi e colpi bassi, che naturalmente provocheranno e manterranno a lungo nel Paese un clima assai teso e un forte immobilismo. Ma il 1906 fu anno di grandi sogni e di enorme ottimismo, per cui i socialisti rimasero ben lontani dal capire fino in fondo quanto fosse tortuosa e in salita la strada delle riforme da loro agognate, e quanto fosse difficile, in un paese prevalentemente rurale e ultraconservatore come San Marino, del tutto privo di cultura politica e di organizzazioni partitiche, perché fino al 1908-1909 non si consoliderà un altro gruppo organizzato oltre a quello socialista, modificare anche una virgola della sua perenne e sacra tradizione socio/culturale.

Le prime elezioni politiche della Repubblica di San Marino durarono in pratica tutta l'estate del 1906, avendo inizio il 10 giugno e conclusione il 2 settembre, perché in alcuni seggi vi erano stati problemi e irregolarità varie, per cui si erano dovute rifare. I socialisti in tale periodo ebbero altre polemiche coi loro alleati democratici a causa di alcuni candidati non concordati insieme, tuttavia anche in questo caso preferirono non sollevare polveroni in nome di una effettiva svolta democratica del paese. Il nuovo Consiglio alla fine risultò composto da 38 membri il cui nome era presente nella lista dei sessanta candidati proposti dal gruppo riformista, e da 22 conservatori.[54]

Apparentemente era "La fine dell'oligarchia", come titolò il Titano del 1° luglio, in realtà era solo un nuovo Consiglio dalla fisionomia ancora ineffabile, e dai proponimenti tutti da definire, dove l’unico gruppo che aveva una embrionale forma di partito politico, mantenuta tra mille difficoltà perché la sua attività era costantemente rallentata dalla carenza di mezzi economici e di iscritti pronti a darsi da fare, era quello socialista, e dove i cosiddetti riformisti provenivano da tutti i ceti sociali e quindi non erano spesso concordi sulle strategie politiche da mettere in opera, non avendo ideologie comuni.

Il gruppo democratico, comunque, l'otto luglio diffuse tra la gente un suo programma politico in quattordici punti con cui esplicitava i suoi proponimenti, ovvero:

 

1.      Soluzione del problema finanziario economico del Paese sulla base delle maggiori possibili economie e, occorrendo, di una più equa ripartizione di tributi da sottoporsi a referendum ai Capi famiglia e ai Maggiorenni.

2.      Miglioramento d’ordine finanziario e politico da recarsi nella prossima rinnovazione del Trattato col Regno d’Italia.

3.      Istituzione di un Ispettorato generale ad honorem o retribuito, per il controllo del regolare funzionamento di tutti gli uffici amministrativi, civili e scolastici e di tutti i pubblici servizi.

4.      Organico per gl’Impiegati.

5.      Impianto dell’Ufficio Tecnico. Sistemazione del Cimitero della Pieve. Costruzione dei Camposanti Rurali. Miglioramenti delle strade consolari e rurali. Costruzione di edifici scolastici e di case operaie.

6.      Studio per migliorare il servizio postale, di comunicazione e di trasporto.

7.      Riordinamenti scolastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a Elementare. Esperimenti di patronati e refezioni scolastiche nei centri più popolosi. Miglioramento del Collegio Convitto Governativo.

8.      Riforma delle Leggi sulla igiene, sulla sanità e sulla sicurezza pubblica. Progetto per la conduttura dell’acqua potabile.

9.      Studio per eliminare o correggere il problema dell’emigrazione.

10. Istituzione di una Cattedra ambulante e di premi per incoraggiare l’agricoltura e l’impianto e lo sviluppo delle industrie.

11. Legge elettorale. Estensione del diritto di voto.

12. Riforma della legislazione civile, penale e giudiziale.

13. Legge sulla cittadinanza e sulla immigrazione dei forensi.

14. Abrogazione della Legge 22 Marzo 1860 sul conferimento dei titoli equestri e nobiliari.[55]

Questo programma era sottoscritto da 29 consiglieri, tra cui i cinque socialisti eletti,[56] numero che rappresentava l'effettiva consistenza del gruppo democratico riformista. Leggendolo risulta evidente che anche in questo caso i socialisti preferirono non calcare la mano per inserire al suo interno rivendicazioni troppo forti, accontentandosi di quelle più urgenti e su cui poteva avvenire un'ampia convergenza.

Così ebbe termine questa prima fase di lotta politica. Il Titano, esaurito il suo scopo pro - arengo e pro - elezioni, dal 3 settembre interruppe le sue pubblicazioni. Nel frattempo il gruppo socialista si rinforzò creando, in data 12 ottobre, un'altra sezione in Città. Subito Gino Giacomini propose di fondare una Federazione Socialista Sammarinese per dare più forza al movimento, pur nella garanzia delle autonomie dei due gruppi. La sezione di Borgo, inoltre, delegò Alfredo Casali a presenziare (a sue spese però) al congresso socialista di Roma. L'undici novembre avvenne la prima adunanza generale della Federazione, presenti 33 membri su una settantina di iscritti (cfr. appendici n° 3 e 4). In questa occasione si decise di ridare alle stampe il Titano, come organo del partito questa volta, e si votò lo statuto in cui, tra le altre cose, si proponeva di favorire lo sviluppo di altre sezioni e di armonizzare l'attività delle esistenti, di fare una assidua propaganda ed un insistente lavoro di organizzazione per promuovere la potenza del proletariato, ed altro ancora. (appendice n° 3) La prima Commissione Esecutiva della Federazione risultò composta da: Gino Giacomini, Annibale Francisci, Pietro Franciosi, Girolamo Capicchioni, Nullo Belloni.[57]

Il 1° dicembre uscì il primo numero del Titano con la nuova veste di "Organo quindicinale della Federazione Socialista Sammarinese", da cui venne divulgato il "Programma minimo" dei socialisti. Essi si ripromettevano di essere fedeli al "programma massimo" del Partito Socialista Italiano, ma di volersi prodigare anche per i bisogni contingenti sammarinesi. Da qui questo programma minimo che prevedeva le seguenti rivendicazioni:

 

In ordine ai pubblici poteri

 

1.            Estensione del diritto di voto ai maggiorenni ed ai cittadini della Repubblica residenti all’estero.

2.            Nuovo sistema di votazione alla sede del seggio. Costituzione di un segretariato elettorale formato da tre alunni delle scuole elementari per redigere le schede degli analfabeti. Metodo di scrutinio a sezioni divise.

3.            Unificazione delle due circoscrizioni elettorali di Fiorentino e S. Giovanni.

4.            Elezione dei Capitani Reggenti a voto consigliare diretto.

5.            Trasformazione del Congresso di Stato in Corpo esecutivo diviso in dicasteri.

6.            Applicazione del Referendum.

7.            Riforma civile del cerimoniale e abolizione delle onorificenze.

8.            Avviamento alla legislazione sociale. Riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative di lavoro. Contribuzione annuale governativa al fondo pensioni istituito dalla Società Operaia Unione e Mutuo Soccorso.

9.            Ufficio governativo d’emigrazione.

10.       Codice commerciale.

11.       Codice civile. Personalità giuridica dello Stato di fronte alla chiesa. Funzioni dello Stato civile distinte dalle pratiche del culto. Denunzia diretta delle nascite e decessi. Matrimonio civile. Trasformazione a beneficio di Istituti di assistenza dei beni delle confraternite religiose.

12.       Obbligatorietà scolastica fino alla terza elementare. Miglioramento e riforma didattica generale delle scuole elementari, specie di campagna, refezione gratuita, facilitata dalle cucine economiche, agli alunni poveri delle scuole dei centri maggiori. Ricreatori festivi, Edifici scolastici. Istituzione nel capoluogo di una scuola serale di disegno applicato all’industria.

13.       Sistemazione delle finanze dello Stato senza ricorso a nuovi oneri pubblici; e in caso di assoluta necessità applicazione della tassa unica progressiva sul reddito con esenzione dei redditi minimi, in confronto di qualunque soluzione finanziaria a base di nuovi tributi o rimaneggiamento dei già esistenti.

14.       Appoggio al progetto di Stazione Climatica che non impegni il governo se non per ciò che possa riguardare disposizioni di esclusiva indole amministrativa.

15.       Case operaie.

16.       Organico degli impiegati.

17.       Istituzione della Cattedra ambulante d’Agricoltura.

18.       Miglioramento dei pubblici servizi. Uffici governativi disciplinati secondo un criterio di unità direttiva e soggetti al controllo di un Ispettorato extra consigliare.

19.       Soluzione del problema dell’acqua potabile.

20.       Nuovo ordinamento della pubblica armonia.

21.       Applicazione del sistema metrico decimale da iniziarsi negli esercizii pertinenti all’azienda pubblica.

22.       Nuovo orientamento delle opere pie. Trasformazione della beneficenza a domicilio. Servizi di assistenza.

 

In ordine all’organizzazione proletaria

 

-  Miglioramento del patto colonico.

- Modernizzazione del Mutuo Soccorso e nuovo impulso alle Cooperative di lavoro.

- Istituzione di Cooperative di resistenza e di consumo.

- Casa del Popolo e Casa del Lavoro.

 

Un programma, dunque, che era tutto fuorché minimo, visti i gravissimi ritardi della Repubblica su tutti i fronti, nonché la diffidenza e la paura che i socialisti continuavano a suscitare tra la cittadinanza e tra i loro stessi alleati democratici, ovvero la scarsa possibilità che avevano di consolidare alleanze per la sue realizzazione. Non a caso fin dal mese di novembre al loro interno  sorsero dubbi e discussioni sul comportamento che avrebbero dovuto tenere in Consiglio, soprattutto nei confronti dei loro alleati democratici. Venne deciso di stare a vedere l'evolversi degli eventi per capire che piega avrebbe preso il riformismo per il momento solo promesso alla gente, ma anche per essere di controllo e d’iniziativa e di protesta per ciò che loro riguarda.[58]

Nel gennaio del 1907, però, scoppiò subito un'altra tumultuosa grana: nel Consiglio del giorno 3 si cominciò a discutere sul come festeggiare il primo anniversario dell'arengo. Dopo litigi e scontri vari, si giunse a deliberare di celebrarlo anche con una funzione religiosa. Franciosi aveva protestato  risolutamente, così come Giovanni Vincenti; nel Consiglio del 10 gennaio si erano poi aggiunte le proteste anche di altri. Nonostante le contestazioni, alla fine era prevalso il partito favorevole alla commemorazione con funzione religiosa, e ciò aveva suscitato il malumore di chi pensava che tale ricorrenza non avesse nulla da spartire con preti e chiesa, in primis dei socialisti più radicali di cui Gino Giacomini era il riconosciuto capo carismatico.

Il giorno 12, durante un'adunanza della Federazione, che poteva ormai contare su una settantina d’iscritti (appendice n° 4), Giacomini propose il distacco dei consiglieri socialisti dal gruppo democratico, reo, a suo giudizio, di non aver fatto nulla fin lì. Franciosi gli rispose che era impossibile far tutto in una volta, e che meritava distaccarsi dai democratici solo dopo aver percorso un po’ di strada insieme e dopo aver dato tempo ancora per compiere qualcosa.[59]

Il problema di fondo non era solo legato allo scarso attivismo dimostrato dal nuovo Consiglio nei suoi primi, pochi mesi di vita, ma soprattutto alla grossa difficoltà che molti democratici avevano di seguire i socialisti lungo la loro idea forte di laicizzare perentoriamente la Repubblica. San Marino era uno Stato confessionale, da sempre legato anima e corpo al sapere cattolico, fondato, secondo la tradizione assunta da tutti per vera, addirittura da un santo. I più, dunque, avevano concreti ostacoli di natura culturale e mentale ad ipotizzare l'abbandono di questa cultura che permeava di sé scuola, istituzioni e tutta la vita sammarinese, per abbracciarne un'altra che era in fondo ai suoi primi, impacciati passi.

La riunione del 12 gennaio terminò con l'idea di temporeggiare ancora sia per andar cauti e guardinghi nelle prime avvisaglie di battaglia contro tutte le vecchie istituzioni, specie quella della Chiesa che ha troppi fautori e proseliti, sia per non perdere terreno. Ci si limitò a chiedere a Franciosi le dimissioni dal comitato organizzatore della ricorrenza, cosa che egli fece senza problemi.

Cinque giorni dopo, però, la Federazione tornò a riunirsi per approvare un ordine del giorno proposto da Giacomini sulla questione. In tale documento si ribadivano le accuse di scarso attivismo nei confronti del Gruppo Democratico, di non impegnarsi più di tanto per attuare le riforme promesse nel suo programma dell'otto luglio, di boicottare sistematicamente la nomina di socialisti all'interno di commissioni di un certo peso, di permettere la celebrazione dell'arengo con riti chiesastici. Si invitavano perciò i consiglieri socialisti a richiamare il Gruppo Consigliare Democratico al rispetto del proprio nome e all'attuazione del proprio programma, prevedendo inoltre una celebrazione prettamente laica dell'importante ricorrenza.[60]

Sul Titano del 20 gennaio Franciosi volle una volta per tutte precisare la posizione dei socialisti in materia, stigmatizzando la religione di Stato come un indubbio avanzo di oscurantismo. Non può più esistere una Chiesa di Stato - aggiunse. Ogni uomo se la fa da sé la Chiesa, ogni uomo ha diritto alla sua religione senza urtare a quella degli altri. (...) Noi vogliamo l'indipendenza dello Stato contro ogni chiesa e contro ogni setta; vogliamo insomma uno Stato estraneo ad ogni confessione e professione di fede. (...) Abbia la chiesa nelle cose puramente spirituali assoluta ed inviolata libertà; e nelle miste e civili quella sola che le leggi consentono ad ogni altro cittadino od ente dello Stato. La maschera ormai era stata gettata: i socialisti, anticlericali ed iconoclasti per antonomasia, erano pronti a combattere l’oscurantismo della nostra religione, istillato nella mente dei gonzi, in particolare dei contadini e delle donne.

La religione è nemica del progresso e della civiltà, ed è mezzo e strumento d’ignoranza e di corruzione, ribadì in un altro articolo del 5 febbraio. Il problema dell’anticlericalismo e della laicizzazione dello Stato era dunque una grossa barriera da superare nei rapporti con buona parte degli altri democratici, e sarà proprio su questo fronte, insieme a quello della riforma tributaria di cui parleremo, che i socialisti e i riformisti meno moderati perderanno le loro battaglie più grosse, attirandosi ingenuamente sempre più addosso gli strali del vasto e ultraconservatore mondo cattolico locale.

Nonostante le polemiche, non fu comunque possibile eliminare l’aspetto religioso dalle celebrazioni del 25 marzo, per cui vi furono due manifestazioni commemorative: una ufficiale con funzione religiosa (che prevedeva l’esposizione della teca di San Marino ed un te deum alle 10.00 di mattino), e una laica voluta fortemente dai socialisti e dagli altri pochi anticlericali che vi erano, aderenti in particolare al "Fascio Giovanile Repubblicano Sammarinese". Gino Giacomini nell’occasione pronunciò un discorso in cui risultava evidente  che l’alleanza che aveva permesso la costituzione del comitato pro - arengo stava scricchiolando ed era ormai al termine della sua breve e inquieta esistenza: Più fausta per il popolo e per la Repubblica è questa modesta e semplice e schietta nostra dimostrazione - disse - che non la cerimonia pia ed ufficiale che riuniva, in festoso corteo, riformatori e reazionari, democratici e conservatori, dei quali il fiero dissidio doveva essere oggi sedato all’ombra di quella chiesa che vide aiutò e concluse ben altri tradimenti. (...) La festa d’oggi doveva essere festa civile e neutrale, ed è per questo che noi, che vogliamo rispettate le nostre idealità civili ed anticlericali, ci allontaniamo sdegnosi dal connubio che sa di tradimento.[61]

La cerimonia anticlericale si concluse con la tumulazione di una lapide evocativa dell’evento, lapide che dopo un mese sarà fatta asportare dal governo. I socialisti, in segno di disprezzo per tale decisione, pubblicheranno provocatoriamente a lungo sulla prima pagina del Titano il testo della lapide.[62]

Chi sfogliasse le pagine del giornale socialista di questi anni si stupirebbe non poco della velenosa asprezza con cui venivano portati attacchi al clero locale ed alla cultura che promuoveva. D’altronde il problema era proprio nel dominio culturale delle masse che gli uni non volevano perdere, mentre i socialisti, i repubblicani (che si richiamavano prevalentemente alla dottrina mazziniana, ma non avevano un partito vero e proprio) ed i laici oltranzisti volevano acquisire. I preti venivano etichettati come superstiziosi, come padroni delle campagne, come maiali religiosi eternamente soggetti a profonda degenerazione sessuale e altro ancora. Ogni pretesto era buono per metterli in cattiva luce e per sottolineare la loro spregevolezza.

Le pretese che venivano avanzate per ridimensionare il loro peso sociale erano: una netta divisione tra Stato e Chiesa, una drastica riduzione dei privilegi che il clero ancora deteneva, lo sviluppo di istituti laici di beneficenza, l’evoluzione della scuola, che veniva considerata lo strumento principale per togliere il potere ai sacerdoti. La scuola moderna deve mirare anche da noi all’unico scopo di accrescere le generazioni indipendenti d’intelletto e di carattere, deve curare razionalmente lo sviluppo mentale col far apprendere al fanciullo e all’alunno tutto ciò che è conquista ed affermazione di scienza positiva, e non l’empirismo dogmatico e partigiano, venne dichiarato in un  articolo pubblicato il 18 agosto sul Titano. Inoltre bisognava smettere di favorire solo il Liceo per potenziare le scuole elementari e creare scuole tecniche di specializzazione, come esigono gl’interessi degli uomini e le condizioni dei tempi, per favorire gli operai, che erano invece lasciati in uno stato di abbrutimento e di totale ignoranza.

Con le troppe libertà che lo Stato ha dato da qualche anno alla Chiesa notiamo che il Clero sammarinese alza sempre più il capo e si fa sempre più reazionario, mentre il livello di coltura dei fedeli cade sempre più in basso. (...) Nel suo piccolo il nostro Clero mette in pratica anche fra noi il segreto delle tradizionali abilità del Vaticano di saper sfruttare la moltitudine, tenendone vivo in essa il fanatismo a proprio vantaggio. Così ancora Franciosi in un articolo dal titolo assai esplicito: "La Chiesa soggetta allo Stato" del tre settembre 1907, in cui si auspicava la promulgazione di una legge sulla Mani Morte e altro ancora per fissare le condizioni di vita della Chiesa e tenerne il controllo permanente. Interessante rilevare come questa battaglia verrà combattuta dalle forze laiche anche con le armi dei tanto vituperati avversari, adottando a volte i loro stessi registri linguistici, e sfruttando la figura del Santo patrono come personaggio carismatico cui inchinarsi non tanto per le sue virtù sacrali, quanto per la sua dimensione di operaio e lavoratore. Ovviamente lo scopo era quello di sostenere nuove posizioni senza spaventare troppo il popolino, che era abituato a leggere l’esistenza tramite punti di riferimento rigidi, stereotipati e ripetitivi, ovvero in maniera semplicistica, utilizzando i suoi stessi paradigmi interpretativi per comunicargli messaggi diversi da quelli cui era assuefatto.[63]

Negli stessi mesi di queste crepitanti polemiche, la Federazione Socialista discusse la possibilità di organizzare una manifestazione per sollecitare l'apertura della Stazione Climatica su cui il Consiglio stava trattando con alcune ditte italiane. Sebbene tale stabilimento fosse un'aspirazione importante dei socialisti, per creare opportunità di lavoro per i tanti disoccupati locali favorendo l'ascesa sul Titano dei turisti, cioè fondando l'unica industria che in questo momento pensavano potesse avere San Marino, emersero varie perplessità, perché la stazione doveva essere in realtà, nelle intenzioni dei suoi finanziatori italiani, una sorta di casinò, per cui si aveva timore che potesse compromettere le sorti morali della Repubblica.[64] A lungo si parlerà di questa Stazione Climatica negli anni successivi, senza tuttavia approdare a nulla di tangibile per la paura che si aveva, anche tra diversi socialisti, di creare problemi di ordine morale e pubblico tra la cittadinanza. Come è risaputo, un casinò, dalla vita piuttosto breve e travagliata, potrà essere impiantato dal governo delle Sinistre solo sul finire degli anni '40.

Un altro problema sentito come prioritario in questo 1907 dalle infinite utopie fu quello del consolidamento del bilancio che riuscì a trovare anche una qualche soluzione, almeno per alcuni anni. Sulla pubblica finanza i riformisti avevano combattuto le loro battaglie più aspre imputando al vecchio governo incapacità e approssimazione proprio in questo vitale aspetto della vita politica della piccola comunità. Le accuse erano state ulteriormente avvelenate dalla riforma fiscale fatta elaborare a Lorenzo Gostoli, consulente governativo, che il vecchio Consiglio stava per varare agli inizi del 1906, e dalla vendita di onorificenze, gli obbrobriosi ciondoli come venivano costantemente definiti dal Titano, che continuava imperterrita, anche se in maniera meno massiccia degli anni precedenti, per rimediare tutti i soldi possibili per le esauste casse statali.

Sulle tasse si combatterà una lunga e articolata battaglia negli anni successivi, ma in sintesi si può dire che le posizioni che si consolideranno saranno prevalentemente due: quella dei socialisti, che auspicavano già da tempo, fin dal 1899, come si è visto, un fisco capace di colpire progressivamente i redditi e di gravare prevalentemente sui benestanti, e quella dei loro avversari che o non volevano alcuna riforma fiscale, o la volevano poco incisiva soprattutto nei confronti di chi deteneva maggiore ricchezza. Poiché molti dei loro alleati democratici erano proprietari terrieri e benestanti, si capisce subito perché il fisco era l’altro grande problema, oltre al ridimensionamento della cultura cattolica, su cui era pressoché impossibile trovare accordi e compromessi.

Nel 1907 i socialisti di tanto in tanto torneranno timidamente sul problema della riforma fiscale; ma è chiaro che il nuovo Consiglio non poteva permettersi di varare subito leggi politicamente troppo impopolari, che avrebbero intimorito la popolazione ed offerto il fianco ad attacchi e strumentalizzazioni di tutti i tipi. Nel paese perciò fiorì un fitto dibattito sulle varie possibilità che vi potevano essere per incrementare gl’introiti statali. Protogene Belloni, per esempio, in dicembre divulgò una sua lettera in cui si dichiarava contrario alla riforma fiscale, mentre avrebbe preferito che si fosse discusso con l’Italia per migliorare la convenzione e soprattutto per ottenere l’esenzione fiscale di tutti i prodotti tassati alla fonte importati da San Marino, non solo del sale, dei tabacchi e della polvere da sparo com’era stato fin lì. Ovviamente la Repubblica avrebbe poi per proprio conto provveduto a gravarli di tributi.[65]

Altri negli stessi mesi parteciparono con le opinioni più svariate al dibattito che si aprì. Alla fine comunque si preferì soprassedere all’idea della riforma fiscale, rimandandola a tempi indefiniti, per battere altre strade. La prima era figlia di una vecchia idea suggerita già una ventina d'anni prima dal console sammarinese a Vienna Coloman Koenig, che la Società Unione Mutuo Soccorso aveva dimostrato di appoggiare tramite lettera alla Reggenza fin dal dicembre del 1900, ovvero la creazione di un Prestito a premi, una sorta di lotteria internazionale patrocinata dalla Repubblica e finanziata da qualche banchiere. La seconda prevedeva un tangibile miglioramento della convenzione con l’Italia, cioè un innalzamento della quota di denaro che veniva fornito a San Marino come canone doganale. Ad entrambe queste innovazioni finanziarie mise mano subito Olinto Amati, mente economica dei riformisti, che per anni verrà da costoro esaltato come genio della finanza locale, almeno fino a quando non si troverà coinvolto in un brutto affare proprio legato al prestito a premi.

Tra l’altro Amati già in passato aveva rivolto appelli al Consiglio per intraprendere la strada della lotteria internazionale, appelli che però erano sempre caduti nel vuoto per quella tipica paura che avvinghiava i prudenti e conservatori governanti locali quando all’orizzonte si affacciava una qualche novità di cui non si riusciva bene a capire la portata. Prima di istituire il prestito a premi fu però necessario discutere con le autorità italiane per verificare se avessero obiezioni in merito. A tale scopo, ma anche per parlare della nuova convenzione, nel mese di febbraio del 1907 vennero inviati a Roma l’avvocato Babboni ed Amati, il ragazzo ed il mediatore, come vennero sprezzantemente etichettati dai conservatori, loro avversari politici, per intavolare trattative con i governanti del Regno e verificare come fossero disposti ad aiutare la Repubblica per i suoi impellenti bisogni finanziari. Qui dovettero rimanere per diversi mesi e discutere a destra e a manca dei problemi in cui versava il loro paese, fin quando in giugno la nuova convenzione addizionale poté essere firmata.

La lunga permanenza, tuttavia, venne adeguatamente compensata perché Babboni ed Amati riuscirono ad ottenere ciò che volevano, in particolare la possibilità di avviare il prestito a premi ed un concreto rialzo del canone doganale. Franciosi sul Titano del 21 luglio esaltò non poco l’operato dei due inviati sammarinesi, sottolineando i vantaggi economici che la Repubblica avrebbe ricevuto grazie alle meravigliose novità contenute nella nuova convenzione: per esse nel nostro Bilancio scomparirà per sempre la tetra cifra del disavanzo per dar luogo ad annui risparmi e costituire un fondo di riserva che renderà sempre più sicuro l’avvenire della Repubblica, sottolineò con eccessivo ottimismo.

D’altra parte che con la convenzione addizionale interessasse esclusivamente migliorare il più possibile i cespiti d’entrata è ben chiaro anche da una lettera di quei giorni dell’onorevole Luigi Luzzatti, consulente ed amico sammarinese, che dopo essersi congratulato per quanto ottenuto, quasi arrivò a sgridare i politici sammarinesi per l’approssimazione con cui fin lì avevano gestito le loro finanze, e per i pericoli che vi erano in una politica di bilancio incauta e troppo facilona. Il prestito che hanno l’intendimento di emettere deve essere davvero l’ultimo debito della Repubblica e insieme con quello del 1906 inaugurare l’era di un bilancio equilibrato e forte, senza il quale la Repubblica comincerebbe ad assaggiare anch’essa il frutto avvelenato dei disavanzi cronici, che la condurrebbero a sicura ruina. (...) Il dilemma si impone così : o parsimonia nelle spese o nuovi balzelli. Questi ultimi essendo difficili in un paese relativamente povero, è indispensabile porre sovra ogni altro compito quello della vigilanza austera sulla finanza dello Stato, disse.[66]

I vantaggi economici ottenuti dalla Repubblica erano legati ad una nuova quota annuale e proporzionale che l’Italia si era dichiarata disponibile a dare anche sulle tasse indirette ricavate su alcuni prodotti, cosa che avrebbe fornito per quell’anno alle casse sammarinesi tra le 30 e le 40.000 lire, ed il prestito a premi. Per quest’ultimo, tra l’altro, l’Amati si era già dato molto da fare ed aveva individuato nel banchiere Casareto di Genova il finanziatore dell’intera operazione. La Repubblica fin da subito avrebbe incassato come compenso una grossa cifra, negli anni a venire avrebbe continuato a ricevere altri utili di una certa consistenza.

Il prestito a premi tuttavia non durò fino al 1969 come stipulato, ma solo fino al 1917 perché per irregolarità nella sua gestione dovute all’Amati, che in quell’anno verrà arrestato ed in seguito si suiciderà, e per precise responsabilità anche del Casareto, si dovettero sospendere le estrazioni. Si faranno vari tentativi prima e durante il periodo fascista per ripristinare pienamente l’iniziativa, ma con risultati assai scarsi. La seconda guerra mondiale provvederà ad affossare definitivamente il prestito a premi.

Nel 1907, comunque, non erano per nulla prevedibili i guai che sarebbero stati provocati dall’Amati, che fino alla sua tragica fine beneficerà di fiducia illimitata da parte dei progressisti, socialisti compresi, e delle forze che dominavano il Consiglio. Inoltre il prestito rappresentava l’espediente con cui allontanare l’aborrita riforma fiscale, aborrita soprattutto dai proprietari terrieri e dal ceto economicamente più abbiente, che, è bene ribadirlo, aveva parecchi rappresentanti anche all'interno del gruppo democratico, e mostrare alla cittadinanza che l’arengo del ‘906 era stato una reale necessità della Repubblica, visto che gli uomini nuovi al potere in quattro e quattr’otto avevano saputo risolvere gli eterni problemi finanziari che la soffocavano.

Accanto alla questione economica sussistevano comunque tanti altri problemi da risolvere. Tra le istanze che cominciarono ad emergere con insistenza in quell’anno, il gruppo socialista appoggiò soprattutto quelle relative al miglioramento del mondo operaio ed all’istituzione di una camera del lavoro. In questo primo periodo del Novecento la società sammarinese era ancora prevalentemente rurale, anche se in rapida trasformazione, con uno stuolo di contadini che dal loro mestiere non riuscivano a trarre spesso neppure di che sfamarsi, e con più del 70% della popolazione lavoratrice che sopravviveva con l’agricoltura.

Gl’ingenti lavori pubblici degli ultimi decenni dell’Ottocento avevano però indotto tantissimi contadini a cessare il loro mestiere di sempre per lavorare tra i muratori, i braccianti e gli altri operai impegnati alla realizzazione delle nuove infrastrutture. Franciosi alla fine dell’Ottocento si era anche lamentato di tale fatto in uno dei suoi discorsi, perché con tale trend si stava rapidamente modificando la plurisecolare struttura della società sammarinese Il lavoro del contadino e la squallida vita a cui dava accesso non erano comunque più ambiti dai giovani e da chi non si accontentava più semplicemente di sopravvivere a fatica. La società si stava mutando culturalmente e morfologicamente e l’aumento degli operai ne era una ineluttabile conseguenza.

Questi lavoratori, meno chiusi e meno emarginati dalla vita sociale, ebbero la possibilità di evolversi maggiormente dei contadini tramite l’opera della Mutuo Soccorso e l’indefessa attività del professor Franciosi, amico e consigliere di tutti gli operai e loro strenuo difensore. I contadini non subirono le stesse attenzioni da parte dei riformisti sammarinesi, almeno negli anni a cavallo tra i due secoli, probabilmente per la loro disperata arretratezza culturale, ma forse anche per quella mentalità tipicamente locale, erede della secolare divisione tra città e contado, che vedeva nei lavoratori dei campi degli esseri inferiori indegni di frequentare i rari ambienti o circoli progressisti e all’avanguardia del paese.

Nei primi anni del nuovo secolo i contadini furono una grossa incognita per i riformisti perché non si sapeva con precisione quale sarebbe stata la loro risposta alle istanze che stavano portando all’arengo. Non a caso molti progressisti pensavano che il mondo rurale avrebbe evitato qualunque trasformazione politica del paese votando a favore del Consiglio chiuso ed oligarchico.

Inoltre i socialisti in genere dal ceto rurale erano guardati con grave sospetto, come se fossero dei senzadio pronti a demolire tutte le sicurezze legate alla fede ed agli stereotipi ereditati dal passato. Nonostante l’arengo avesse dimostrato che anche i contadini non erano così refrattari come si pensava tra i progressisti, la situazione non era cambiata gran che, per cui ora si doveva risolvere il grave conflitto che aveva sempre contrapposto gli uni agli altri.

Dal Titano del 1907 e degli anni successivi si evince chiaramente quanto il mondo riformista sammarinese avesse ormai a cuore il problema e come capisse che disdegnare il ceto contadino, come aveva praticamente fatto fin lì, non cercare di sensibilizzarlo più di tanto alle innovazioni che si stavano propugnando, sarebbe stato senz’altro molto pericoloso, perché avrebbe lasciato la classe numericamente più consistente della società sammarinese, quella economicamente più importante, in balia dei loro avversari, ovvero degli odiati preti e dei vituperati padroni, che approfittavano di ogni occasione per alimentare l’odio contro i socialisti, e che esercitavano sul ceto rurale un fortissimo controllo economico e culturale.

Nella "Lettera aperta ai lavoratori dei campi", scritta da Franciosi per il Titano del 10 marzo 1907, questo problema balza agli occhi in maniera lampante: Voi giacete ancora sotto una doppia servitù morale e materiale - venne scritto -. Siete troppo ligi ai preti ed ai padroni, i quali vi sfruttano di santa ragione e nello spirito e nel corpo. La lettera era stata indotta dalle celebrazioni del primo anniversario dell’arengo che, come si è detto, era stato festeggiato dai socialisti con cerimonia prettamente laica. Quell’evento era stato usato per istigare i contadini contro Giacomini e compagni, in quanto il testo della lapide era stato considerato dai cattolici un insulto alla fede, per cui ora si cercava di correre ai ripari. Non portateci il broncio se abbiamo murato da noi una lapide, continuava l'articolo, ognuno doveva essere libero di professare la fede che voleva e non subire le intolleranze degli altri. Laicismo vuol dire libertà per tutti e da per tutto, per gli amici e per gli avversari. (...) Unitevi adunque a noi che vi esponiamo delle verità intangibili, che impieghiamo le nostre forze per liberarvi dal doppio giogo, che col nuovo patto colonico e con altre riforme a vostro riguardo aiuteremo a redimervi.

Il patto colonico era in realtà la risposta progressista che i socialisti avrebbero voluto dare ai contadini, ancora regolati dalle norme del vecchio Statuto Agrario del 1813. Prima di tutto però sapevano essere  indispensabile abbattere i pregiudizi che il ceto rurale aveva nei confronti del mondo laico - riformista, ed a quest’opera, che si dimostrerà lunga e problematica, più caratterizzata da fallimenti che da vittorie, ci si iniziò ad impegnare proprio dal 1907 con passeggiate di propaganda, come venivano allora definite, presso i Castelli di campagna per far opera di divulgazione degli ideali socialisti e di proselitismo. Nel mese di aprile si organizzò una di queste passeggiate, probabilmente la prima in assoluto, a Ca’ Berlone, dove si riuscì a far balbettare ad uno sparuto gruppo di contadini  le prime strofe dell’Inno dei lavoratori. Quel balbettio diventerà in breve linguaggio e forte linguaggio, e ben lo intenderanno i nostri avversari che ora giuocano sull’equivoco!, annunciò con enfasi il Titano del 17 maggio.

Simile opera di sensibilizzazione proseguì nei mesi successivi e venne attuata ogni volta che ve n'era la possibilità anche negli anni seguenti, soprattutto per opera di Giacomini e Franciosi, oratori e camminatori instancabili, pronti ad accorrere ovunque vi fosse bisogno di divulgare il loro credo politico. Già moltissimi contadini - dice Il Titano del 23 giugno - di Acquaviva, Fiorentino, Chiesanuova chiedono con insistenza che i socialisti vadano nelle loro campagne per agitarvi un nuovo migliore patto colonico.

Se coi contadini era praticamente ancora tutto da organizzare, non così succedeva per il mondo operaio dove già da tempo Franciosi in particolare, ma anche Giuliano Belluzzi, Giacomini e altri progressisti ancora avevano iniziato ad incidere. Oltre alla Società Mutuo Soccorso, a cui va riconosciuto il merito di essere stata la prima organizzazione operaia locale, agli inizi del secolo erano stati fondati nuovi gruppi operai. I primi a riunirsi in cooperativa, o meglio in "Lega", come si diceva all’epoca, erano stati gli scalpellini nel 1903, da sempre i lavoratori culturalmente più evoluti e anche meglio pagati. Poi si erano aggregati i manovali e i picconisti. Nel maggio del 1907 erano stati i falegnami a gettare le basi per una loro Lega di cui sarà chiesto il riconoscimento nel Consiglio del 25 giugno. In autunno saranno i calzolai ed i fabbri a raggrupparsi.[67]

Alla fine del 1907, insomma, buona parte del mondo operaio sammarinese aveva una propria organizzazione disposta a dialogare con le altre perché tutte erano sotto l’influenza del professor Franciosi, che di diverse fu pure presidente, e di Giacomini, il cui carisma era leggermente inferiore per la sua più giovane età e forse per il titolo di studio meno altisonante, essendo maestro elementare. Nel 1908 l’opera continuò perché ci si diede da fare per creare anche una Lega dei braccianti agricoli, con il chiaro scopo di portare il verbo socialista all’interno del ceto rurale e di aumentare la propaganda nei Castelli di campagna, come venne stabilito nella riunione della Federazione in data 27 maggio, e un’altra degli impiegati statali, un’ottantina di persone in tutto, che stavano spingendo per creare una loro legge organica.

La vita di queste leghe era mantenuta attiva tramite banchetti conviviali che di tanto in tanto ognuna organizzava, dove oltre a mangiare si ascoltavano gli oratori di turno; tramite passeggiate domenicali o partecipazione a manifestazioni, come ricorrenze (di Garibaldi, di Mazzini, ecc.); tramite serate danzanti, come quella organizzata il 9 gennaio 1908 presso il teatro Titano.

Durante questa festa, organizzata da tutte le Leghe, gli oratori furono Franciosi, che sostenne la necessità da parte governativa di creare un premio per stimolare l’impianto di qualche industria in loco per abbassare l’alto tasso di disoccupazione, Giacomini, che evidenziò il bisogno di creare una Camera del Lavoro, l’avvocato Babboni, che parlò sui diritti e i doveri degli operai, Olinto Amati, che sostenne la necessità di essere compatti nelle elezioni per impedire il dominio politico dei conservatori e degli oligarchi, il ragionier Reffi, che esaltò il lavoro, Giuliano Belluzzi, organizzatore della festa insieme a due rappresentanti di ogni Lega, che parlò dell’unione e della solidarietà fra operai, augurandosi che anche gli impiegati creassero al più presto una loro organizzazione. Dopo aver ballato, mangiato ed ascoltato gli oratori, la festa terminò con la raccolta di 55 lire che andarono in parte a colmare un piccolo debito creatosi per i festeggiamenti di Garibaldi avvenuti poco tempo prima, in parte ad alcuni operai che si erano infortunati e si trovavano in stato di bisogno.[68]

Il meticoloso attivismo dei socialisti, che indubbiamente stava riscotendo graduali ma crescenti successi in tutti i settori, mise piano piano in allarme i loro avversari politici. Costoro, pur non appartenendo ancora a nessun partito costituito, erano uniti dal tradizionalismo, dal cattolicesimo e dalla paura di stravolgere più di tanto la sacra dimensione socio - politica della loro vetusta Repubblica. Erano cioè o conservatori tout – court, o riformisti molto, molto guardinghi e temperati, poco disposti cioè ad appoggiare innovazioni, spesso considerate estremiste, come quelle propugnate dal socialismo di questo inizio ‘900, o propensi ad appoggiarne qualcuna, magari in termini meno radicali di quelli pretesi dagli innovatori più convinti, e sempre nel nome della salvaguardia della sacra tradizione locale.

Nei primi mesi del 1907 il gruppo socialista era ancora speranzoso di poter avviare riforme in profondità, pur avendo già notato ripetutamente che l’alleanza coi democratici non stava dando i frutti sperati, e che occorreva di frequente scendere a compromessi mal tollerati. Tuttavia alla fine dell’anno ormai all’interno del partito si era fatta strada l'idea che nei suoi presunti alleati la mentalità conservatrice fosse assai più radicata di quella riformista, almeno rispetto alle aspirazioni all'avanguardia cui mirava il gruppo socialista, e che la strada fin lì sostenuta dell’alleanza con gli altri democratici non avrebbe portato a quei benefici auspicati e perseguiti con tenacia.

Fu chiaro, in altre parole, che l’Alleanza Democratica nata per reclamare l’arengo si era ormai esaurita tutta in quella richiesta e non aveva più la forza e la volontà necessarie per mettere in opera le altre innovazioni programmate nei mesi addietro, riforme che dai socialisti erano state sempre reputate assai più importanti dell’arengo stesso, da loro considerato solo il primo inevitabile passo per modernizzare lo stato sammarinese, ma niente più.

Agli inizi dell’anno vi erano già stati sporadici attriti con gli alleati, come in occasione del primo anniversario dell’arengo, insieme a critiche anche pesanti all’operato del Consiglio; ma il momento in cui si consumò la rottura totale furono i mesi di novembre e dicembre del 1907, quando vennero esaminate e bocciate nell’aula consigliare diverse istanze presentate dal gruppo socialista per ottenere alcune di quelle riforme da tempo agognate. Le richieste avanzate, messe a punto nell'adunanza della Federazione del 3 ottobre, miravano a far revisionare il vecchio e logoro statuto, ad istituire ufficialmente il referendum, a trasformare l’istituto della Reggenza da sorteggiato in elettivo, a riordinare il sistema scolastico, a rendere obbligatoria la scuola elementare nei suoi primi anni, a creare un contributo governativo per il fondo pensioni e un organico per gli impiegati, ad adottare un codice civile, a riformare, laicizzandoli completamente, i cerimoniali statali ed altro ancora.

Quasi tutte le richieste, sebbene contenessero qualche cosa di comune col manifesto - programma del gruppo consiliare democratico, fu evidenziato sul Titano del 19 gennaio del 1908, furono sonoramente bocciate: ciò mostrava in maniera indubbia che l’alleanza democratica non le aveva ben appoggiate, ed ormai era da considerarsi colata a picco. Il mosaico democratico consiliare sta disgregandosi dopo un anno di simulata fusione, proclamò il Titano del 1° dicembre 1907, perché gli elementi di destra erano riusciti a trovare un’unità d’intenti nella salvaguardia della sacra tradizione, mentre dopo l’arengo, che aveva dato origine a strane e non sempre comprensibili alleanze, tra i democratici non vi era stato più un grande accordo. L’articolo prosegue dicendo che i socialisti si erano attenuti al programma elaborato di comune accordo, pur rinunciando a pretese più ampie e più consone ai loro ideali, mentre una parte della democrazia ha dimenticato di assolvere a molti suoi obblighi. (...) All’alba della nuova repubblica un ordine nuovo doveva stabilirsi sulle macerie. Bisognava rompere i ponti col vecchio sistema, estirpare il vecchio tronco dalle radici, (...) rifare ab ovo la compagine dello Stato, disciplinare gli uffici, rinvigorire ed allargare le pubbliche funzioni amministrative e politiche, ossigenare e disinfettare l’ambiente viziato.

Insomma ci si aspettava un’opera radicale di riordinamento, invece  il Consiglio aveva smarrito in fretta le sue mete ripiombando nei vecchi vizi del passato: Il consueto e vieto sistema guadagnò gli uomini che erano partiti in guerra contro di esso. Durante l’anno appena trascorso vi erano state alcune buone iniziative e conquiste, ma l’opera riformatrice era stata assai parziale, frammentaria e casuale, interrotta tra l’altro da lunghe pause e tentennamenti. Inoltre molti democratici non si erano dimostrati tali: alcuni avevano cercato di collocare la loro persona al di sopra del gruppo, non lavorando in comunione con gli altri per una corretta gestione politica dello stato. Quel groviglio caotico di uomini e di cose non aveva quindi più ragione di sopravvivere : L’ibridismo, le alleanze innaturali, gli accoppiamenti bastardi abbiano fine e ciascuno assuma il posto, l’atteggiamento, il nome che i propri istinti, i propri interessi, le proprie idealità gli impongono e gli consentono.

In realtà, se si sfoglia la raccolta delle leggi di questo periodo,[69] ci si può rendere conto che qualcosa, non molto per la verità, già si era fatto rispetto al programma dell’otto luglio, e altre innovazioni, sempre fedeli a quelle linee di condotta, si realizzeranno negli anni successivi. Evidentemente però a Giacomini e ai socialisti più oltranzisti non bastava, e soprattutto non soddisfaceva la lentezza con cui si procedeva nell’esecuzione delle riforme, in particolare di quelle ritenute più importanti. Simile pigrizia la imputavano al sistema politico sammarinese, privo ancora di partiti, a parte quello socialista, quindi di solide alleanze governative, nonché alla tradizionalista mentalità dominante, che doveva ancora abituarsi ad una logica riformista assolutamente inusuale per i costumi locali.

Come conseguenza delle gravi polemiche contro i consiglieri democratici, il 17 dicembre il Comitato Esecutivo della Federazione socialista inviò una lettera al presidente del Gruppo Democratico per comunicargli che i consiglieri socialisti erano stati sempre contrariati nelle loro proposte, e ciò aveva provocato dannoso ritardo nel mettersi con giusta lena a concretizzare il programma comune in 14 punti dell’8 luglio. Per cui i consiglieri socialisti (ora quattro perché nel mese di settembre era morto Domenico Forcellini) si ritiravano dallo stesso gruppo ripromettendosi di appoggiare unicamente le innovazioni gradite alla Federazione, e di trovare forme di alleanza solo con i consiglieri affini, cioè disposti a seguirli lungo i percorsi consoni alla loro ideologia e ai bisogni ritenuti prioritari per la Repubblica.

Il Gruppo Democratico rispose subito affermando che le ragioni prodotte dai socialisti per avallare le loro dimissioni erano pretestuose ed infondate. La Federazione socialista si riunì quindi un’altra volta il 17 gennaio dell’anno nuovo per ribadire che il gruppo democratico non stava dando prova d’interessamento e di solerzia per l’attuazione del proprio programma amministrativo e politico, che stava infirmando le riforme promesse, che aveva permesso la distribuzione di ulteriori onorificenze venendo così a meno ad uno dei capisaldi del programma, che in diverse occasioni di voto all’interno del Consiglio non aveva votato compatto, che non si riusciva a raggiungere accordi preventivi su nulla, che a volte aveva votato insieme ai conservatori confondendosi col gruppo oligarchico per differenziarsi dai socialisti ed affini, che aveva permesso riti chiesastici nella solenne cerimonia governativa del primo anniversario dell’Arringo.[70]

Alla fine la Federazione rimase dunque ferma sulle posizioni assunte, rifiutandosi di ritornare sui suoi passi e di ritirare le dimissioni dei suoi consiglieri, posizione confermata ancora una volta tramite lettera del 21 gennaio 1908 in cui si ribadivano sempre le stesse critiche e accuse.

Il nuovo ordine non è stato instaurato, sparò anche il Titano del 31 dicembre, perché non vi era stato il coraggio di abbandonare i vecchi sistemi e di dar continuità operativa alla democrazia, spesso indecisa di fronte ai conservatori ed ostile verso i socialisti. A che cosa miravamo con le nostre istanze? Di ricostruire, dopo la rivoluzione dell’Arringo, il nostro piccolo Stato su basi nuove ed omogenee ai moderni tempi. Tuttavia i governanti o per ignoranza o per opportunismo non avevano voluto capire il bisogno impellente di evolversi. Che i conservatori, siedano a destra o a sinistra o nel centro, tentano sempre di contrastare ogni riforma e di voler far credere ad occhio e croce che le nostre istituzioni e le nostre consuetudini, siano pur vecchie come il brodetto, debbonsi sempre mantenere, anche se inutili e nocive, e dichiararle invulnerabili

Non era stata solo la bocciatura delle istanze l’unica causa della rottura dell’alleanza: infatti per tutto l’anno, a partire dalle polemiche di gennaio sul primo anniversario dell’arengo, i socialisti dichiaravano di aver notato costante ostruzionismo nei loro confronti, nonché il manifesto desiderio da parte della maggioranza dei suoi 29 sottoscrittori di non volersi realmente e pienamente assoggettare al programma accettato da tutti l’8 luglio 1906.

L'anno si chiuse dunque con queste polemiche e la drastica scissione all’interno del gruppo democratico,  frattura che peserà non poco sulla gestione del paese negli anni successivi. Il 1908 si aprì perciò tra immense polemiche, anche perché i socialisti ritenevano che molti dei loro ex alleati facessero ormai comunella fissa con gli elementi più retrivi della parte reazionaria del Consiglio.

I più dei nostri governanti o non concepiscono per ignoranza questo potente bisogno di muoversi, o per opportunismo vi si oppongono – evidenziò pure Franciosi sul Titano del 19 gennaio. Essi sono inconsciamente invasi dal terrore di un pericolo ignoto; per la loro inettezza non sanno pensare astrattamente, non hanno concezioni concrete, non sentono il bisogno di migliorare sé e il paese. Nonostante l’incessante progresso che li circonda, la pusillanimità naturale li assale ad ogni pié sospinto. Non assurgono a nuove concezioni di vita e s’aggrappano alla cieca fede religiosa come unico conforto.

Il gruppo socialista si ripropose di favorire caso per caso le iniziative consiliari di suo gradimento, di mantenersi in pieno accordo coi consiglieri disposti a cooperare con loro, ma di opporsi a tutto ciò che non avrebbe condiviso, a prescindere da chi l’avesse proposto.

Finalmente il Gruppetto Consigliare Socialista si è sciolto dai legami che l’avvincevano ai Democratici – venne scritto sul Titano del 23 febbraio da Alfredo Casali – Ed era tempo! Le aure nel seno di questo sedicente Gruppo Democratico, s’erano già rese irrespirabili per coloro che volevano fare qualche cosa per il bene della Repubblica. Bisognava darsi dunque da fare per ricreare un altro gruppo composto solo da veri democratici, liberato dalle molte scorrie ereditate dal vecchio governo oligarchico. Secondo l'articolista, infatti, il gruppo democratico da cui i socialisti erano usciti aveva due anime: l’una, quella più numerosa, era formata dai reietti dell’antica oligarchia, dagli ignavi, dai conservatori arrivati alla democrazia per preoccupazioni elettorali, tutti imbevuti di vecchi pregiudizii, delle antiche usanze, e attaccati al logoro Statuto; l’altra, formata dagli entusiasti della democrazia, dagli assetati di nuove riforme, dai veramente amanti della Repubblica era però più esigua e stentava quindi ad imporre le sue idee nel Consiglio. Da qui il bisogno di por termine all’alleanza per poter combattere battaglie più robuste e radicali, senza troppi vincoli, proibizioni o compromessi, e sensibilizzare sempre più la cittadinanza sammarinese alle teorie socialiste, così da aumentare di peso all'interno del locale panorama politico e sociale.

 

 

 

 

 

 

 

V.  1908 – 1910: la nascita dell’Unione Cattolica Sammarinese

 

 

Consumata la diaspora, il gruppo socialista si mise solerte all'opera per perorare la sua causa e cercare di arruolare proseliti ovunque, soprattutto nei Castelli rurali. Così il 31 dicembre del 1907 Franciosi, Giacomini e Rufo Reffi si recarono ad Acquaviva ad arringare i suoi abitanti; il sei gennaio altri propagandisti presenziarono al banchetto dei muratori presso l'hotel Titano, anche qui a svolgere attività analoga; il 9 dello stesso mese, in quest’occasione insieme ad altri riformisti di indole più moderata, parteciparono alla festa delle leghe operaie; il 25 marzo, anniversario dell'arengo, organizzarono nella piazza Garibaldi una conferenza dove parlò, tra gli altri, anche A. Valmaggi, segretario della Camera del lavoro di Forlì, a cui la Federazione si era rivolta per istituirne una anche a San Marino; il 1° Maggio fu il repubblicano Venanzio Ugolini, invitato dal Fascio Repubblicano Sammarinese, ad intrattenere con un discorso il popolo, in unione a Franciosi e Giacomini.

Senza continuare in questo elenco, che per il periodo di cui stiamo trattando sarebbe piuttosto lungo, si può riassumere col dire che praticamente non passava ricorrenza senza che i  socialisti, a volte in collaborazione con riformisti "affini", come li chiamavano, organizzassero qualche manifestazione con lo scopo di educare e sensibilizzare la popolazione alla loro causa e con la brama di lenire, soprattutto nelle campagne, la soggezione che la gente aveva nei confronti della Chiesa, del clero e del padronato. Quando non c’era la ricorrenza spesso la si creava. Gli argomenti prediletti, più sostenuti e gridati, erano tutti quelli del Programma minimo varato alla fine del 1906, che costituirà una sorta di bibbia del primo socialismo sammarinese. Dal 1907 un’altra tematica che verrà cavalcata spesso e volentieri sarà l’istituzione di una Camera del Lavoro, per organizzare in maniera ottimale il mondo operaio e per educarlo alla dottrina socialista. Se n’era parlato per la prima volta  nella riunione della Federazione socialista del 3 aprile 1907, perché Franciosi l’aveva fatta mettere all’ordine del giorno.[71] Da quel momento in poi per molti anni, precisamente fino al 1919 quando verrà effettivamente istituita, divenne una tematica fissa dei socialisti. Nei comizi presso i Castelli rurali un argomento costante era invece quello di un nuovo patto colonico a vantaggio dei contadini, con cui si sperava di riuscire finalmente ad attirare simpatie alla causa socialista anche da parte di questa categoria sociale.

 Inoltre i socialisti incominciarono a sparare a zero sui borghesi, fatto che causerà ripetute minacce alla figura di Franciosi, sui consiglieri che se ne stavano continuamente assenti dal Consiglio, e su tutte quelle persone che, a loro giudizio, impedivano alla Repubblica di fare qualsiasi passo in avanti.

Un altro argomento intorno a cui svilupparono puntuali polemiche fu l’organizzazione degli uffici della Repubblica, ritenuti in preda a totale anarchia, ad anormale costruzione e costituzione tecnica, in difetto di personale abile, disciplinato, controllabile, dove gl’impiegati spesso non rispettavano neppure il regolare orario di lavoro. Ve n’erano anche di bravi, ma in tanti facevano praticamente i loro comodi. Molti, tra l’altro, venivano accusati di essere stati assunti al di fuori di qualunque regola e senza competenze specifiche.

Anche i pubblici uffici, in definitiva, erano soggetti alla stessa precarietà ed improvvisazione che i socialisti vedevano in tutti i settori statali: Il governo di San Marino vive troppo alla giornata; ogni cosa ha una caducità affrettata ed intempestiva; tutto è posticcio, tutto è creato per il momento, senza durata, senza una finalità precisa e permanente. (…) Tutto è incerto, tutto è dubitante, tutto è aleatorio.[72] Era dunque fondamentale creare un ispettorato degli stessi, composto da controllori estranei al Consiglio, insieme a normative rigorose per disciplinarli, perché la società stava facendosi più complessa, per cui gli uffici dovevano diventare più efficienti, come un po’ tutto a San Marino. La critica produsse qualche delibera consigliare in merito, ma in realtà gli uffici perseverarono in buona parte dei loro difetti anche negli anni successivi.

Un’altra polemica riguardò le due Segreterie, degli interni e degli esteri, che all’epoca praticamente detenevano tutti i principali incarichi amministrativi e politici della Repubblica. I socialisti volevano un segretario degli interni salariato ma non consigliere, mentre quello degli esteri, da definirsi o Segretario politico o Ministro della Reggenza, non doveva essere salariato, essere consigliere ed avere una nomina solo temporanea.[73] La questione portò effettivamente ad un regolamento varato il 12 luglio del 1909 che recepiva le proposte socialiste.[74] Il primo segretario degli interni eletto tramite concorso e sottoposto a tali regole fu l’avvocato Giuseppe Forcellini, già segretario amministrativo a Pesaro, che sarà un importante militante del partito socialista, tanto da dover poi condividere con gli altri capi del socialismo locale le persecuzioni fasciste.

Un ulteriore chiodo fisso dei socialisti in questi anni era l’impianto di una prima industria capace di fornir lavoro ai tanti disoccupati che la Repubblica annoverava, soprattutto durante i mesi invernali quando il lavoro nelle campagne era fermo. Prendendo esempio da quanto aveva fatto Urbino, la Federazione socialista cominciò a fare istanze perché venisse dato un premio in denaro a quell’industriale che avesse impiantato una fabbrica capace di impiegare qualche decina di operai. In giugno in effetti il Consiglio votò un premio di 40.000 lire per chi avesse creato un’industria capace di dar lavoro a non meno di un centinaio di operai.[75] La proposta suscitò varie adesioni tra gl’industriali italiani, ma vuoi per la mancanza di materie prime della Repubblica, vuoi per la carenza dei trasporti, delle vie di comunicazione, dell’acqua o dell’elettricità, vuoi per difficoltà burocratiche o fiscali a volte avanzate dall’Italia, non fu possibile in questi anni creare nessuna industria con le caratteristiche richieste.

Tutto questo dinamismo, giudicato pericoloso da chi era abituato a non aver troppi concorrenti nella trasmissione dei valori, della morale e degli ideali, nonché i toni spesso ingenuamente eccessivi e iconoclasti utilizzati con sistematicità contro il clero e a favore di una drastica laicizzazione dello Stato, provocarono negli stessi anni una maggiore organizzazione dei cattolici, fino alla costituzione di un gruppo dalla spiccata fisionomia politica, che si dimostrerà pronto a concorrere con i gruppi politici laici per mandare in Consiglio i suoi candidati.

Il Titano del 31 luglio 1907 sottolineava che la lotta per laicizzare la piccola repubblica era più importante a San Marino che  in Italia, perché proprio per la sua leggendaria nascita, dovuta ad un santo, pareva una figliazione degli ordinamenti religiosi primitivi, costringendola ad essere un sopravivente comune dello Stato pontificio. La stessa figura di Marino, il santo protettore, andava ridimensionata perché egli nella piena luce del secolo ventesimo e in tanta effervescenza di libertà sembrava una creatura allevata in mezzo a quattro accerchianti conventi. Il potere della Chiesa a San Marino era illimitato, secondo l’articolista, che era in questa occasione Gino Giacomini: Soverchia gli ordinamenti civili, presiede a tutti gli atti principali della vita pubblica, ha in cura ed in tutela il governo, lo battezza e lo benedice, lo rapina e lo batte (…) Lo Stato è una emanazione della Chiesa, né più né meno.

La laicizzazione dello Stato passava necessariamente attraverso il mutamento di quegli istituti in mano alla Chiesa. Da adesso in poi aumenteranno notevolmente le polemiche sul matrimonio civile, che i socialisti e i riformisti anticlericali volevano ad ogni costo e che si riuscirà invece ad inserire nella legislazione sammarinese solo dopo la seconda guerra mondiale (lo stesso Giacomini andrà a sposarsi in civile a Verucchio non potendolo fare a San Marino), sulla scuola, sul catechismo, ancora insegnato come una qualunque altra materia scolastica, sulle istituzioni della Repubblica e su tutto ciò che veniva reputato nelle mani dei cattolici, o comunque sotto il loro influsso.

Nel 1909 i socialisti iniziarono una forte polemica sulla scuola, che volevano obbligatoria fino alla terza elementare, agevolata, tramite l’istituzione del patronato scolastico per i più poveri, migliorata nella sua edilizia, spesso fatiscente, utile anche per la classe operaia, a favore della quale si istigava l’istituzione di una scuola di arti e mestieri e di corsi serali. Con i loro strali riuscirono a stimolare l’evoluzione degli eventi e a indurre il Consiglio a formulare un progetto per il miglioramento scolastico. Tuttavia la sua concretizzazione avvenne con relativa lentezza, sia per i costi che si dovevano affrontare per edificare scuole nuove in tutti i Castelli, sia perché le polemiche politiche del periodo, con la forte contrapposizione tra cattolici e laici, determinarono rallentamenti a tutti i livelli.

Tra l’altro l’innovazione prevedeva l’istituzione del posto di direttore didattico, e l’unico a San Marino ad avere l’abilitazione necessaria era Gino Giacomini, fortemente inviso al locale e potente ceto conservatore che ne boicottò la nomina per chiamata bandendo un concorso pubblico aperto anche ai cittadini esteri. Tale fatto provocò la dipartita da San Marino di Giacomini che, disgustato e stizzito, nel 1910 andò a fare il direttore didattico ad Argenta, dove in precedenza aveva vinto un concorso. Solo nel 1913, essendo cambiate le condizioni politiche, come vedremo, venne assegnato l’incarico a Giacomini che quindi rientrò a San Marino. 

E’ chiaro che simili polemiche, di frequente forti ed astiose, ripetute in tutte le occasioni possibili, insieme alle costanti accuse distribuite a profusione a destra e a manca e alla martellante propaganda anticlericale e pro laicizzazione dello Stato, fatta anche nelle campagne, da sempre piazzeforti dei conservatori, cominciarono ad allarmare non poco il clero locale, il padronato e chi nella religione vedeva l’unica o la migliore cultura possibile, e pensava che la conservazione dei valori del passato fosse sempre la soluzione migliore anche per i tempi nuovi. I contrasti crebbero quindi gradualmente, ma con costanza, finché nel luglio del 1908 i cattolici ed i conservatori intransigenti diedero alle stampe il loro primo periodico, il Pro – Patria, subito ribattezzato sarcasticamente Pro – Pappa dai socialisti, il cui numero iniziale uscì il giorno 5.[76]

Il pretesto che favorì l’edizione di tale giornale furono le elezioni parziali che si dovevano svolgere il 12 dello stesso mese per eleggere cinque consiglieri venuti a meno per dimissioni o altro dal 1906. Il Titano per l’occasione continuò a sparare a zero sui cattolici sia per quella solita politica arrabbiata anticlericale che lo animava sempre, sia perché aveva reali timori che si potessero dare una qualche organizzazione e mandare in Consiglio i loro candidati. Soprattutto si aveva paura del Castello di Domagnano, da sempre conservatore e filo - cattolico, oscuro fortilizio della Vandea, come verrà eternamente etichettato, per l’opera di propaganda politica che negli anni prima, ai tempi dell’arengo, vi aveva svolto Don Michele Bucci, e per quella che ora stavano svolgendo Don Terenzi e la famiglia Marcucci, gli assoluti dominatori del luogo, come li consideravano i socialisti.

Il Pro–Patria in realtà sarà creatura dalla vita breve, perché legata esclusivamente a queste elezioni. I cattolici, infatti, presumibilmente non erano ancora motivati ad organizzarsi per contrastare con sistematicità i loro avversari politici tramite la fondazione di un vero e proprio partito che, a parte un tentativo temporaneo di cui parleremo fra breve, prenderà vita solo nel 1919 con la fondazione del locale Partito Popolare. Il giornale comunque, pur ripromettendosi di non voler essere aggressivo e bellicoso, dichiarò che non avrebbe tollerato le imposizioni e le intemperanze della piazza e dei partiti sovversivi, cioè dei socialisti a cui riservò feroci attacchi: Voi non siete socialisti. Voi non avete principii democratici e liberali. Voi per salire avete raccolto nel vostro seno tutti i relitti ed i detriti immondi della cloaca Massima. Politicamente assicurava di non voler far propaganda per nessuno essendo apartitico: La nostra Repubblica non deve essere di uno o di un altro partito ma deve appartenere indistintamente a tutti i cittadini. Come sottintendeva già nel suo titolo, il giornale era uscito solo per sostenere la patria in un momento storico particolarmente travagliato in cui i socialisti stavano urlando troppo.

Questo foglio dimostra con chiarezza che ancora in questo periodo i cattolici, al di là dell’ostilità violenta contro i socialisti, non avevano idee politiche chiare, né si volevano impegnare più di tanto nell’agone politico, senz’altro per quell’avversione verso il mondo dei partiti promossa dalla Santa Sede e molto in voga presso il cattolicesimo italiano del periodo. Non a caso le elezioni suppletive del 1908, in cui i cattolici non proposero ufficialmente loro candidati, furono favorevoli ai progressisti ed ai socialisti, che riuscirono a far eleggere Alfredo Casali. Il Titano del 26 luglio sostenne entusiasticamente che il partito usciva dalle elezioni ingigantito e sicuro del consenso e dell’aiuto della classe lavoratrice che dietro ad esso si è messa risolutamente. Le elezioni del 12 corrente costituiscono né più né meno che la sua (dell’oligarchia) condanna e preludono al colpo di grazia che le verrà dato nel prossimo anno, ovvero nelle elezioni del 1909 quando, in base alla legge elettorale dell’epoca, si sarebbe dovuto rinnovare il Consiglio per un terzo.

Forse proprio grazie a questa poco lungimirante foga ed alla superficiale convinzione che San Marino ormai avesse mutato realmente e miracolosamente pelle, il Consiglio, durante la Reggenza di Olinto Amati, riformista anticlericale di vecchia data, si mise a discutere di religione nella scuola e di catechismo, chiedendosi se fosse giusto che nelle elementari il catechismo venisse considerato una materia di studio a tutti gli effetti. Tra l’altro i socialisti, i repubblicani ed i progressisti radicali continuarono a chiedere con sempre maggiore insistenza alcune riforme relative all’istituto della Reggenza (elezione diretta, mutamento dei loro costumi e della cerimonia d’insediamento) ritenute assolutamente inconcepibili dai conservatori.

Nella seduta consigliare del 31 ottobre avvennero forti scontri tra conservatori e riformisti perché fu esaminata un’istanza socialista proprio relativa ai Reggenti. L’orda barbarica balzò come un sol uomo - ci racconta il Titano del 15 novembre nella cronaca che fece dell’evento – risoluta a farla finita contro i socialisti ai quali deve essere negato il diritto di vita: urlò, inveì, si alzò minacciosa contro i pochi nostri compagni che resistevano sereni ma forti, mostrò i pugni, alzò i bastoni, fece luccicare qualche fredda canna di revolver. Le intemperanze dei vandeani ossessionati, però, non sortirono effetti: Tutte questa inutile consunzione di piccole o grandi violenze ed ingiustizie non farà spostare di una linea la condotta del Partito Socialista che ha una funzione altissima da compiere e che è sicuro del suo domani. E’ il Partito Socialista che ha dato nuovo vigore alla Repubblica.

In realtà la violenza degli scontri non si doveva solo alla riforma della Reggenza, ma soprattutto al problema del catechismo che secondo gli anticlericali doveva essere insegnato solo nelle chiese e non a scuola. Si cominciò a ventilare, sicuramente con troppa leggerezza e con troppa fretta da parte progressista, la possibilità di abolirlo del tutto. Già nel Consiglio dell’8 ottobre si era arrivati ad una votazione in merito che aveva dimostrato la volontà di parecchi consiglieri di abolire il catechismo, provocando in seguito immense polemiche nel paese. La questione venne lasciata in sospeso per qualche mese, anche se il Titano del 25 ottobre considerava ormai la soppressione del catechismo cosa fatta, e plaudiva alla locale scuola che aveva il dovere di essere neutrale in fatto di credenze, di separare morale e religione, e di impedire ogni tentativo di penetrazioni estranee. Ovviamente se gli anticlericali plaudivano, i cattolici fremevano di sdegno e di rabbia, confortati in questo dai sentimenti del popolo, ancora quasi tutto saldamente vincolato alla cultura della Chiesa.

Le istanze riformiste che con sempre maggiore frequenza venivano presentate in Consiglio, insieme alla lotta ormai serrata nei confronti del catechismo e della religione, spinsero i cattolici ad organizzarsi sempre meglio fino a fondare un gruppo dai precisi connotati di partito politico ed un loro giornale pronto a ribattere colpo su colpo la propaganda anticlericale che proveniva dal Titano. L’organizzazione prese avvio nell’inverno tra il 1908 ed il 1909 per raccogliere firme a vantaggio del mantenimento del catechismo nelle scuole. Il 5 febbraio 1909 venne indetta la prima riunione del gruppo cattolico in cui si stabilì di inviare per tutto il territorio propagandisti a favore della causa cattolica e del catechismo come materia d’insegnamento. Nel mese di aprile il gruppo cattolico si fece vivo in Consiglio presentando due istanze d’arengo a favore dell’agricoltura e delle case operaie, dimostrando così di voler combattere i socialisti con le loro stesse armi.

Il 16 maggio, dopo alcune riunioni preliminari, giunse alla sua fondazione vera e propria con una riunione sul piazzale della Pieve, dove parlò l’avvocato Bertini dell’Unione cattolica italiana, e con l’uscita del giornale Sorgiamo, numero unico dato alle stampe proprio per celebrare l’inaugurazione del gruppo.[77] Il suo programma era assai semplice: L’Unione ha per iscopo di riunire e concentrare tutte le forze cattoliche di questa Repubblica e di promuovere il bene Religioso, Economico e Civile del popolo Sammarinese, basato sul Vangelo e sull’insegnamento della Chiesa Cattolica, proclamò dal suo giornale. Voleva insomma il rispetto totale e inflessibile della religione cattolica e delle avite istituzioni di questa Patria diletta, che sono la ragione piena della nostra esistenza politica.

Tramite manifesto diffuso il 9 maggio, faceva sapere ai Sammarinesi di essere nata a protezione degli ideali cattolici e contro le camorre politiche. Amici, fratelli il momento è nostro: guardate come i partiti che si contendono il dominio del popolo hanno scoperto il loro gioco e sono apparsi quali nemici veri della sua Fede. A noi il correre animosi alla difesa dei nostri diritti più santi; a noi, i forti figli di Marino, il proteggere validamente, vittoriosamente quella Libertà eterna ch’egli colla Croce portò, e che nel Cristianesimo ha la sua origine e la sua attuazione piena ed universale.

La difesa della religione andava poi di pari passo con la difesa delle istituzioni del passato, perché a San Marino dominava una sorta di mentalità sacrale che tendeva a mescolare in continuazione le istituzioni con la morale e con la religione: L’Unione Popolare è qua per difendere lo Statuto sammarinese, è qua per opporsi a tutti quegli insensati che credessero di poter mettere a soqquadro impunemente quelle istituzioni che hanno formato, e formano tuttora il più glorioso retaggio di questa secolare Repubblica, venne detto senza mezzi termini, facendo capire che le velleità riformiste dei socialisti e degli altri progressisti più all'avanguardia erano solo pericolose utopie devianti.

L’Unione in definitiva sorgeva come gruppo teso a conservare quasi per intero il passato, con qualche lieve velleità riformista che si manifesterà di tanto in tanto, soprattutto a partire dalla fine del 1909 e prevalentemente a favore del ceto rurale, quello che più di tutti rappresentava il suo forte e corposo punto d’appoggio.

Se in questo periodo i cattolici stavano crescendo e organizzandosi sempre meglio, i socialisti soffrivano invece di un grave momento di crisi interna dovuta principalmente ad apatia verso le questioni del momento da parte dei più, e di scarsa partecipazione alla vita e alle riunioni promosse dalla Federazione. Con fatica riuscivano a ritrovarsi per fare attività o per discutere tra loro. Alcuni, Giacomini in primis, sentivano forte l’esigenza di rilanciare l’azione socialista nel paese e di tornare a fare propaganda intensa nei centri rurali; tuttavia ci si rendeva conto che non sarebbe stato facile. Il male è così diffuso che la colpa non è di nessuno, disse all’interno di una riunione della Federazione del 29 settembre, per sottolineare che gli entusiasmi del periodo dell’arengo si erano ormai assai affievoliti in generale. In quell’occasione venne deciso d’inviare propagandisti in vari Castelli, cosa che avvenne però con fatica e solo molto parzialmente, forse per la scarsa voglia di chi doveva andare ad arringare le folle in un momento così bollente e minaccioso. Franciosi infatti continuò ad essere bersaglio di feroci attacchi e critiche per il suo attivismo anticlericale ed antiborghese, tanto che nel mese di febbraio del 1910 ben 836 cittadini si sentirono in dovere di sottoscrivere un attestato di stima a suo favore.

Nella seconda metà del 1909 la situazione rimase piuttosto tranquilla, almeno fino al mese di agosto. In giugno avvennero le elezioni per rinnovare un terzo del Consiglio, ma non sortirono effetti particolari, essendo i cattolici ancora piuttosto disinteressati agli agoni politici. In pratica furono rieletti quasi tutti quelli che erano stati precedentemente sorteggiati per uscire, ed il Consiglio rimase in balia di alleanze contingenti che si aggregavano o disgregavano sui problemi del momento portati avanti in genere dalla Reggenza, che in questi anni aveva ancora una forte funzione di stimolo, coordinamento e traino delle attività consiliari e politiche. 

In luglio si discusse un progetto approntato da Olinto Amati per l’emissione di carta moneta. Era l’ennesimo tentativo che si faceva di rimediare ulteriori entrate per lo Stato senza varare la detestata riforma fiscale in cantiere già da tempo. Il bilancio in questo periodo non era deficitario, però risultava appena sufficiente per la normale amministrazione, non certo per avviare quelle innovazioni, più che altro di natura infrastrutturale, che tutti agognavano per modernizzare la Repubblica, sviluppare il turismo, che timidamente stava iniziando, le scuole, le vie di comunicazione ecc. Il nuovo organico degli impiegati, per fare un esempio, era già pronto da settembre, tuttavia non fu possibile renderlo effettivo per svariati mesi perché mancavano i soldi necessari. Pensando che una buona risposta ai problemi economici potesse essere la stampa di carta moneta, si arrivò addirittura ad un passo dalla fondazione di una banca di Stato nel giugno del 1910; ma l’Italia, come già aveva fatto una trentina di anni prima, quando era emerso un progetto analogo,[78] creò mille intralci finché l’ipotesi tramontò del tutto.

Giungiamo così ad agosto, mese in cui il Consiglio, approfittando di alcune contingenze favorevoli, il giorno 3 affrontò di nuovo il problema del catechismo votandone l’immediata soppressione per 27 voti contro 5. Naturalmente l’Unione montò su tutte le furie, principalmente perché non si aspettava che in quella seduta si sarebbe affrontata e risolta in modo tanto sbrigativo e drastico la questione del catechismo. Il 5 diffuse tra la popolazione un manifesto contro la sua abolizione in cui sosteneva che una minoranza audace con sfacciato opportunismo aveva soppresso il catechismo nelle scuole violentando in tale maniera anche lo statuto fondamentale e secolare della Repubblica, precisamente in quell’articolo che appartiene alla maggior eredità tramandataci dal Santo Patrono ed autore della nostra libertà, quell’eredità morale che della libertà stessa è la sostanza, la forza, la vita.[79]

L'articolo a cui ci si riferiva era la rubrica 33 del libro I degli statuti secenteschi, ancora in vigore, che trattava delle funzioni e del salario del pubblico precettore, e che prevedeva l’insegnamento della dottrina cristiana a tutti gli scolari, insieme ovviamente ad altre discipline. Con l’abolizione del catechismo, insomma, secondo l'Unione il Consiglio aveva alterato una disposizione statutaria senza averne alcun diritto, perché nell’arengo del 1906 si era cambiato solo il sistema di nomina dei consiglieri, con la precisazione, però, che tutte le altre norme dello statuto sarebbero rimaste immutate.

L’abolizione del catechismo nelle scuole per l'Unione era stato un oltraggio alla coscienza dei credenti, ed una sopraffazione ai diritti dei cittadini. Se la popolazione non si fosse ribellata fin da subito, gridò, quella minoranza sarebbe cresciuta di numero e di potenza in fretta e non vi sarebbero più state garanzie statutarie cui appellarsi, poiché, come avevano abolito il catechismo, avrebbero potuto calpestare lo statuto in qualunque sua parte. Non permettiamo che si attenti alle nostre più sacre tradizioni - concludeva il manifesto - Noi non vogliamo imporre ad altri la nostra fede, ma nemmeno altri devono imporre a noi e inculcare ai nostri figli la loro miscredenza.[80] La richiesta era unica e categorica: il ripristino immediato dell’insegnamento del catechismo nelle scuole.

Ancora una volta, quindi, l’Unione collegava tra loro religione ed istituzioni urlando con convinzione che a San Marino non si poteva né doveva toccare nulla, perché altrimenti tutto sarebbe potuto andare in rovina. Gli anticlericali, però, avevano di certo fatto il passo più lungo della gamba, perché in Italia non vi era stata ancora l’abolizione del catechismo nelle scuole, anche se ne stavano discutendo animatamente, e San Marino era ancora troppo intriso di cultura cattolica per poter serenamente accettare una riforma tanto strutturale, una vera e propria bomba culturale. L’abolizione del catechismo fu senz'altro un intempestivo e grave errore, la classica goccia che fece traboccare il vaso stracolmo di acredine e livore, perché diede ai cattolici la forze morale e materiale per intraprendere una guerra santa, una crociata contro gl’infedeli, nonché il leitmotiv su cui organizzarsi e da cui decollare con spirito integralista.

Non a caso il 3 settembre 1909, ad appena un mese dalla tanto aborrita abolizione, vide la luce il primo numero del San Marino, organo dell’Unione Cattolica Sammarinese, subito ribattezzato Somarino dai suoi avversari, che si riprometteva di essere la guida dei cattolici e un veicolo di perfetta armonia tra i cittadini, dichiarando che avrebbe combattuto su tre fronti: quello religioso, quello economico – sociale e quello politico.[81] Evidenziò subito che la sua nascita era stata causata più che altro dall’abolizione del catechismo sancita dal Consiglio, sottolineando ancora una volta la volontà di difendere le tradizioni sammarinesi dagli attacchi delle nuove forze politiche che si erano sviluppate. Le nazioni adesso riguardano la nostra Repubblica come un prezioso cimelio di tempi antichissimi – denunciò – Guai pertanto a quei cittadini che osassero manomettere le patrie istituzioni: in esse soltanto ha la sua ragione d’essere la nostra piccola terra!  

I dirigenti dell’Unione accusavano i loro nemici progressisti di non aver mantenuto la parola su quanto dichiarato prima dell’arengo, ovvero che il cambiamento dell’assetto politico sammarinese non avrebbe minimamente influito sul credo religioso dei Sammarinesi, religione che non era solo considerata l’ambito in cui professare la propria fede, ma elemento istituzionale a tutti gli effetti in quanto parte integrante dello statuto sammarinese, quello che aveva permesso, secondo la coscienza collettiva, il consolidarsi della dimensione statuale di San Marino. Ciò che noi vogliamo ad ogni costo e a qualunque sacrificio, come cittadini dell’ordine e difensori della fede ereditata dagli avi nostri è l’osservanza dello statuto. Avremo sempre parole spiranti fuoco contro i profanatori delle sue leggi; grideremo con tutto lo sdegno di un animo repubblicano, di un cuore ferito nei suoi ideali e nei suoi sacrosanti diritti contro quei vili denigratori che attentano scemare la bellezza, avvilirne l’importanza dichiarandolo non più rispondente ai bisogni dei tempi e lo spogliano della sua aureola immortale riducendolo un arlecchino. Bello, sovranamente bello il nostro statuto! Nobile l’ingegno che lo ha ispirato! Sante, Divine le leggi che vi s’inculcano, sanzionate dall’approvazione dei secoli![82]

Nei giornali dei mesi successivi la polemica tra cattolici e socialisti continuò ad oltranza, sempre con gli stessi toni e basandosi sugli stessi concetti. Le tensioni si ampliarono di giorno in giorno; ogni Consiglio divenne sede di infinite polemiche e di violentissimi scontri verbali. La cittadinanza, sobillata sia dai conservatori che dai progressisti, anche tramite comizi di propaganda che venivano svolti ogni tanto nei singoli Castelli, divenne sempre più eccitata ed infervorata.

Il 6 gennaio del 1910, in una delle tante riunioni organizzate dall’Unione, fu deciso un maggiore impegno nel sociale per migliorare le condizioni del proletariato. Il 17 gennaio, durante un altro comizio tenutosi a Serravalle, Don Barducci e Don Nicolini propugnarono la costituzione di una società per migliorare le condizioni dei contadini. Il clima politico divenne incandescente, finché non scoppiò la Sommossa, come venne chiamata, del 26 febbraio 1910 contro la legge che istituiva l’organico degli impiegati. In pratica in quel giorno il Consiglio avrebbe dovuto varare la legge che istituiva l’organico per gli impiegati, aspirazione socialista di vecchia data, ma fin da un paio di giorni prima erano stati affissi per il territorio manifesti manoscritti in cui si sosteneva che il governo stava per deliberare spese enormi a vantaggio della classe degli Impiegati e a danno del povero popolo lavoratore dei campi. Perciò s’invitavano i contadini a partecipare ad una marcia pacifica di protesta sul Pianello nel giorno in cui era stato convocato il Consiglio.

Alla marcia parteciparono in molti, ma non fu per nulla pacifica: infatti vari consiglieri progressisti, insieme alla stessa Reggenza, vennero offesi senza mezzi termini dai dimostranti. Un consigliere poi, visto il brutto, aveva osato tirar fuori da una tasca della sua giacca una pistola (in questi anni non era inusuale girare armati), fatto che, esasperando ancor più la folla, gli aveva fatto passare un brutto quarto d’ora. Dopo un assedio di varie ore, in cui il Consiglio venne praticamente bloccato all’interno del Palazzo Pubblico, l'assembramento si sciolse ponendo termine al brutto episodio. Gli animi rimasero però surriscaldati a lungo. I progressisti ed i conservatori si lanciarono strali sempre più astiosi dai loro giornali, gli uni sostenendo che i preti, invece di curare esclusivamente le loro mansioni spirituali, istigavano le masse analfabete e credulone contro lo Stato e contro il bisogno che aveva il paese di evolversi e progredire; gli altri asserendo a spada tratta che i riformisti, coi socialisti in testa, bramavano la morte del paese, perché ne volevano mutare l’anima religiosa ed istituzionale, essenza stessa della sua esistenza plurisecolare. A lungo le due fazioni si rimpallarono la responsabilità della sommossa del 26 febbraio.

Nel prosieguo dell'anno la polemica tra laici e clericali divenne ancora più violenta e acida. Ormai l’Unione disponeva di una sua organizzazione e, fatto ancora più importante, di un suo periodico da cui ribattere tutte le accuse del Titano, ribattezzato con disprezzo Tetano. Proprio dal San Marino l’Unione sbandierò la teoria che tutta la conflittualità esistente nel paese fosse stata generata soltanto dai socialisti, colpevoli di aver trasformato la monarchia costituzionale che reggeva lo stato sammarinese in precedenza in una monarchia czaresca non interessata ad altro se non alla laicizzazione dello Stato ed alla distruzione della religione.[83] Erano stati i socialisti a non mantenere le promesse fatte all’elettorato durante la campagna pro-arengo, quando erano state fornite ampie garanzie a tutti che la riforma avrebbe solo inciso sull’assetto politico della Repubblica, senza modificarne in alcun modo l'ordine culturale e religioso. Smentendo tali impegni, dunque, ed iniziando una sistematica opera di scristianizzazione, o quanto meno di lotta dura contro il cattolicesimo e il clero locale, i socialisti erano stati i principali fomentatori delle discordie in atto.[84]

Grazie ai fatti del 1910, il gruppo socialista capì che la forza dell'Unione Cattolica era direttamente proporzionale alla debolezza e alla disunione dei riformisti e degli anticlericali. Iniziò quindi a temere seriamente l'instaurarsi di una Repubblica guelfa,[85] perché i cattolici stavano dimostrando di essere capaci di buona organizzazione, di possedere larghi consensi e di saper creare alleanze coi democratici moderati. Si pensò bene, comunque, di gettare acqua sul fuoco per smorzare i rancori latenti, per cui l’avvocato Babboni propose la convocazione di una riunione informale di consiglieri per decidere con maggiore serenità e senza fretta il modo con cui risolvere il grave disaccordo in atto.

La riunione ebbe luogo il 20 marzo con la partecipazione di 36 consiglieri di tutte le correnti. Dopo lunghe ma pacate discussioni, si sciolse con un ordine del giorno che sollecitava il Consiglio a varare definitivamente la legge organica per gli impiegati, e ad amministrare con maggiore oculatezza economica la Repubblica. Venne infine indirizzato ai gruppi in conflitto un caloroso ma fermo invito ad abbassare il timbro della polemica, così da giungere in tempi rapidi ad una totale pacificazione degli animi per il bene del Paese.[86]

In effetti in aprile le tensioni diminuirono. I due giornali politici del paese continuarono però ad adoperarsi per creare simpatie alle loro cause illustrando a turno i programmi ed i desideri dei due gruppi di cui erano la voce. Il San Marino con un articolo dal titolo molto chiaro (Quello che vogliamo noi) si proponeva per la Repubblica: pace e progresso per tutta la cittadinanza, il varo dell’organico per gl’impiegati, il consolidamento del bilancio, una riforma fiscale che colpisse tutto il reddito sammarinese e non solo i terreni ed i fabbricati, una legislazione migliore per il ceto rurale.[87]

Qualche giorno dopo uscì anche il Titano con un articolo dalla logica analoga in cui si esponevano le aspirazioni del gruppo socialista, e cioè: revisione dello statuto con l’approvazione dell’Arringo a mezzo del Referendum, riordinamento scolastico, istituzione del matrimonio civile, legge sui beni delle Mani morte, legge sugli infortuni sul lavoro, trasformazione delle decime da obbligatorie in facoltative, fondo pensioni per gli operai vecchi o invalidi, impianto di un forno normale, costruzione di case popolari, impianto della linea telefonica, acqua potabile in tutto il territorio, impianto di un ufficio metrico, miglioramento dell’illuminazione artificiale.[88]

Come si può constatare, i due gruppi che si fronteggiavano avevano programmi molto diversi. Pur in fase di tregua, inoltre, si capiva bene che entrambi erano figli di logiche forti e inflessibili, e che non avrebbero sottomesso le loro aspirazioni a particolari compromessi. I socialisti continuavano a non transigere sull’esigenza di laicizzare lo Stato e di attuare riforme alla sua costituzione. I cattolici al contrario, sicuri dell’appoggio della maggioranza della popolazione (la scuola deve essere religiosa in omaggio alla gran maggioranza cattolica ed allo statuto – imporre oggi grandi riforme, non apprezzate dalla mentalità e coscienza popolare, è compiere opera disastrosissima, sottolinearono sul loro periodico),[89] non avrebbero mai accettato di mettere in discussione la validità della loro cultura religiosa, né avrebbero tollerato l’abbandono della tradizione statutaria in cui da secoli i Sammarinesi erano immersi, o l’avrebbero accolta solo in tempi estremamente dilatati, come essi stessi fecero sapere sempre dal loro giornale.

Che scoppiassero dunque nuovi scontri era inevitabile: l’occasione venne data dalla conferenza pubblica tenuta dall’Unione a Domagnano il 16 maggio 1910 per la celebrazione del suo primo anniversario. Ad un certo punto parlò anche don Barducci, che invitò con parole forti lo Stato a ripristinare il catechismo nelle scuole. Remo Giacomini ritenne le frasi usate dal prete offensive nei confronti della Repubblica, per cui provvide a denunciarlo alle autorità giudiziarie. La polemica approdò naturalmente subito in Consiglio, dove avvennero feroci scontri tra i socialisti e Babboni, il quale nell’occasione si schierò dalla parte di don Barducci. Alla fine la denuncia finì in nulla perché il giudice appurò che il prete, pur usando linguaggio focoso, non aveva in realtà offeso nessuno, per cui non era passibile di alcuna pena.[90]

A parte questo episodio, che è sintomo indubbio del fuoco che stava sempre covando sotto la cenere, nei mesi seguenti i toni rimasero temperati, anche se i socialisti capirono che l’Unione non sarebbe più stata solo un movimento ideologico, ma un partito politico a tutti gli effetti. Lo compresero soprattutto in occasione delle elezioni suppletive del mese di luglio in cui si dovevano eleggere cinque consiglieri per completare il numero di sessanta. Già in un suo numero di giugno il Titano si era domandato se l’Unione se ne sarebbe rimasta in disparte anche in quelle elezioni, così com’era fin lì successo, o se avrebbe presentato suoi candidati. La risposta arrivò nel giro di pochi giorni, perché risultò evidente che i cattolici si stavano dando un gran da fare per le elezioni. I democratici allora cominciarono a ripensare al bisogno di riallearsi, puntando su idee e programmi comuni, per scongiurare il pericolo clericale.

In realtà per i dissapori di sempre non fu possibile raggiungere nessun accordo, così le elezioni di luglio videro trionfare in Borgo, fin lì considerata roccaforte dei riformisti, il cattolico Salvatore Berti che per quattro voti (129 a 125) venne preferito al socialista Giuseppe Giovannarini. Questo esito ebbe forti ripercussioni tra i consiglieri democratici provocando le immediate dimissioni  di sei di loro (Angeli Giuseppe, Amati Giuseppe, Casali Alfredo, Giacomini Remo, Grazia Ignazio, Martelli Telemaco). Infatti qualche tempo prima la parrocchia di Città, comprensiva fino a quel momento anche di Borgo, era stata sdoppiata. Al momento dello sdoppiamento i consiglieri che erano stati eletti nelle votazioni precedenti come rappresentanti di Città avevano optato per l’una o l’altra circoscrizione elettorale, cosicché una parte aveva scelto di rappresentare la parrocchia di Città, l’altra quella nuova di Borgo. Quando questi ultimi videro che gli elettori del Borgo avevano preferito un clericale ad un democratico, si domandarono se effettivamente la loro opzione corrispondesse alla volontà di chi votava in questo Castello. Da qui la decisione di dimettersi in blocco per far riconvocare in quella circoscrizione altre elezioni suppletive tramite cui chiarire il dilemma.[91]

Anche questo fatto alimentò non poche discussioni tra le varie forze politiche del paese. Il Titano comunque apprezzò l’iniziativa precisando che era stato un atto di onestà e di fierezza utile a mostrare alla cittadinanza la consistenza del pericolo clericale, gruppo che era privo di teste pensanti, come venne detto in un articolo ad elezioni avvenute, ed una palla di piombo legata ai piedi della Repubblica capace di trascinarla sempre più in basso rispetto alle conquiste politiche raggiunte, ma abilissimo ad organizzarsi e ad attirare simpatie fra la gente. La colpa di ciò che era successo era solo dei democratici che, non sapendo essere compatti negli ideali e nei sentimenti, erano in quel momento molto più deboli dell’Unione.[92]

 

 

VI. 1911 – 1914: Una nuova alleanza democratica

 

 

Sull’esigenza di ricreare un’alleanza democratica la Federazione socialista discusse a lungo e il Titano continuò a battere anche nei mesi successivi, soprattutto attraverso la penna di Alfredo Casali, suo direttore in questo periodo, unico consigliere socialista ad essersi dimesso. In ottobre ritornò alla carica per sostenere che, senza un blocco democratico basato su un programma unitario, non si poteva né contrastare i cattolici, né attuare riforme legislative, né consolidare il bilancio, ovvero non si sarebbe potuto dar vita a nessuna di quelle riforme che tutti i democratici reputavano prioritarie. Per giungere alla realizzazione del blocco i socialisti si dichiararono disposti persino a rinunciare temporaneamente alla lotta di classe ed alle astiose polemiche antiborghesi. Per Casali, infatti, era basilare e prioritario dar vita ad una lotta per la formazione di un ambiente democratico dove più liberamente ciascun partito possa a suo tempo svolgere il proprio distinto programma secondo la propria sorte.[93]

Tuttavia all’interno della Federazione socialista i pareri in merito erano discordi, perché l’ala più oltranzista voleva che i consiglieri socialisti si dimettessero tutti e che non facessero comunelle con nessuno per combattere battaglie esclusivamente di indole socialista. L’ala moderata invece, capeggiata da Franciosi, era più disposta a trovare collaborazioni, e soprattutto era assolutamente avversa ad uscire dal Consiglio. Franciosi disse chiaramente all’interno della riunione della Federazione del 20 dicembre 1910 che i socialisti dovevano rimanere in Consiglio come partito di opposizione e di controllo, facendo nel contempo maggiore propaganda e lavorando di più sul territorio. Alla fine vinse questa linea, con la clausola, però, che alla prima sopprafazione che commetterà il Consiglio, tutti i Socialisti si dimetteranno da Consiglieri.[94]

I democratici comunque non riuscirono per il momento a trovare sufficienti punti di convergenza e ad allearsi, per cui i socialisti continuarono i loro sistematici attacchi al Consiglio, ritenuto per nulla repubblicano e democratico, e contro i preti e i signorotti, indecisi in ogni manifestazione di sua vita, preda ormai dell’opportunismo più sfacciato.

Secondo il Titano il paese era in balia di una caterva di borghesucci ignoranti spesso vendicativi e settari, con un sistema amministrativo distruggitore di ogni migliore energia, che non ha ideali, che non ha un programma di rinnovamento, che non ha vita se non per l’inerzia e la viltà dei Sammarinesi. Il popolo aveva grosse responsabilità nella grave situazione politica che stava attraversando la Repubblica, essendo sempre prono ai voleri del signore e dei preti, analfabeta, schiavo dei pregiudizi religiosi, senza ideali politici, diviso da viete rivalità di campanile, avvilito nella sua miseria e lasciato in grande abbandono di fronte ai gravi problemi della vita.

Colpe vi erano però anche nel partito socialista, a volte troppo inerte ed apatico, sofferente cioè degli stessi mali di cui si poteva accusare il paese. Occorreva dunque che i compagni di buona volontà si rimboccassero le maniche, perché tanto c’era ancora da fare se si voleva veder veramente migliorato lo Stato sammarinese e la situazione socio – politica dei suoi ceti meno abbienti.

Ma quali erano i problemi più urgenti che i socialisti volevano risolvere? Più o meno sempre gli stessi, ovvero: revisione dello statuto con l’approvazione dell’Arringo a mezzo del Referendum; riordinamento scolastico; istituzione del matrimonio civile; creazione di una legge di mano morta; trasformazione delle decime da obbligatorie in facoltative; creazione di un fondo pensioni per operai invalidi o vecchi; creazione di una legge sugli infortuni; impianto di un forno normale; costruzione di case popolari; impianti capaci di portare l’acqua potabile ovunque; miglioramento del sistema d’illuminazione pubblica; impianto di un ufficio metrico e del telefono.

Ormai il Titano ce l’aveva con tutto e con tutti. Volle chiudere il 1910 con un altro fiammeggiante articolo pieno di accuse e di recriminazioni: nel paese mancava ogni cosa; le leggi erano arcaiche e del tutto inadeguate; l’acqua potabile mancava ovunque e nessuno se ne preoccupava; la scuola popolare, nonostante il 73% di analfabetismo esistente, non interessava a nessuno; la popolazione era costantemente sotto la minaccia del pauperismo; la vita del Paese era ancora regolata dal diritto canonico; il commercio, l’industria e l’agricoltura erano lasciati nel più desolante abbandono, così come l'igiene pubblica. Il prete prende d’assalto la Repubblica e tutti tacciono. Che cosa fa il Governo, che cosa fa il Consiglio di fronte all’immensa mole di questi problemi che mettono sull’orlo della bancarotta il nostro paese? Il Governo e il Consiglio nulla sanno e fingono di nulla sapere. Essi stanno tranquilli nel loro limbo ovattato di bambagia clerico – moderata. Non si affronta il problema della scuola perché si teme l’istruzione, non si fa la questione tributaria perché non si vuole colpire il ricco (cane non mangia cane), non si cerca di sollevare economicamente la popolazione perché la pancia piena non ha mai pensato per quella vuota, non si vogliono leggi nuove perché si ama vivere come ai tempi dello spagnolismo e dell’inquisizione, urlò il giornale col suo numero del 25 dicembre.

Cosa bisognava fare dunque per porre rimedio a tanto sfacelo? Occorreva organizzare comizi, avanzare petizioni, gridare a squarciagola la propria protesta ed il proprio sdegno per scuotere il governo con violenza. Bisognava insomma stringersi in fraterno connubio per protestare contro la latitanza del Governo e per reclamare i bisogni del paese e agitarne i primi vitali problemi. Solo il paese poteva salvare il paese aggregandosi secondo un piano preciso.

Nel 1910 non successe tanto altro degno di nota. Fallita l’ipotesi della carta moneta, ritornò in auge tra i socialisti l’idea della riforma tributaria progressiva, sempre però osteggiata dalla maggioranza del Consiglio. Si cominciò a parlare anche di creare una Cooperativa di consumo per calmierare i prezzi delle merci di largo consumo e fronteggiare il caro viveri che stava facendosi sempre più pesante. Nel mese di settembre si svolse un congresso dell’Associazione Italiana di Avanguardia, un gruppo anticlericale che aveva scelto San Marino come sede mandando su tutte le furie i cattolici dell’Unione, e gratificando invece gli anticlericali locali.

Nel 1911 la situazione politica rimase ingarbugliata come in precedenza, ed i toni del conflitto tra i vari raggruppamenti non mutarono, né si moderarono. Per tutta la prima metà dell’anno le dimissioni dei consiglieri democratici e la strategia da tenere per rimpiazzarli furono i problemi dominanti. Non si avevano pareri univoci sul da farsi. C’era chi si era ormai avvilito e non voleva più aver niente a che fare con la politica; chi sosteneva che non bisognasse lasciare spazio ai conservatori e che fosse indispensabile riprendere posto tra i sessanta; chi proponeva altre ipotesi ancora.

Interessante per comprendere il particolare momento politico in cui navigava il Paese è la corrispondenza scambiata in questo periodo tra il Titano e l’avvocato Telemaco Martelli, riformista moderato e  protagonista del movimento pro – arengo, nonché uno dei consiglieri dimissionari. In una sua lettera del 18 gennaio 1911, per esempio, egli manifestava una grossa sfiducia nei confronti del panorama politico sammarinese, soprattutto perché dall’arengo in poi, pur essendovi anche state alcune riforme importanti, non vi era stata nessuna reale vittoria democratica. Sottolineava poi che un grosso problema irrisolto, che creava non poche incongruenze all’interno dello Stato sammarinese e nella sua gestione, era senza dubbio l’eccessiva ingerenza della Chiesa ed il ruolo predominante da essa detenuta sulla piccola comunità. I democratici ed il popolo lasciavano fare, così non si poteva creare nessun ordine nuovo, né si poteva dar vita ad una graduale laicizzazione dello Stato. Il Consiglio ormai era del tutto fagocitato da queste forze e calpestava impunemente le leggi per favorire i clericali. Le dimissioni dei consiglieri del Borgo si dovevano alla ripugnanza (…) di puntellare ancora e di perpetuare (…) il presente stato di cose. Tutti i liberali avrebbero dovuto prendere una decisione analoga, perché il paese si meritava un Consiglio fatto di soli clericali e assolutamente statico di fronte ai problemi ingenti che vi erano.[95]

Il Titano della settimana successiva provvide a rispondere a Martelli dicendo che non era con la fuga dal Consiglio che si risolvevano i problemi. Era vero che il gruppo clericale si trovava ormai ai vertici dello Stato, ma la colpa era anche dei democratici per tutto ciò che non avevano fatto fin lì, e per le alleanze ogni tanto intrecciate coi conservatori su problemi specifici. Bisognava uscire da simile impasse per ricreare una forte alleanza anticlericale e per governare secondo linee programmatiche, nonché per scuotere la intorpidita compagine del paese trascinato verso il più ignobile avvenire.[96]

Il 31 gennaio si svolse in Borgo una riunione di una quarantina di elettori democratici per discutere della situazione politica del paese e sul come muoversi. Ne scaturì un ordine del giorno in cui si affermava che considerato che l’opera della democrazia in Consiglio è impotente a far argine a sistemi contrari ad una retta amministrazione e a sani principi politici, era meglio che tutti i consiglieri democratici si dimettessero.

Il Titano commentò questi nuovi fatti evidenziando che c’erano solo due modi per combattere le consorterie che si sono annidate in Consiglio: Concentrazione delle forze democratiche per fare un’opposizione energica ed un controllo attivo o dimissioni in massa delle forze democratiche per lasciare intera la responsabilità del mal governo ai consorti clerico moderati. Quest’ultima soluzione sarebbe più energica e risolutiva, conclusero. Era comunque doveroso per gli elettori non accrescere i voti dei conservatori nelle eventuali elezioni successive, ovvero astenersi.[97]

Nelle stesso numero del giornale c’era un’altra lettera di Martelli in cui diceva che in un paese retrivo come San Marino, non bastava criticare con le parole o con la stampa il sistema per cambiarlo, ma occorrevano mezzi più forti come la non partecipazione al Consiglio. Boicottare il Governo clericale: questo doveva essere il dogma a cui attenersi, perché il Consiglio era composto da un mucchio di analfabeti che non avrebbero potuto governare lo Stato senza l’aiuto dei democratici. La polemica sul comportamento da tenere proseguì ad oltranza anche in seguito. In Consiglio non vi è maggioranza democratica – disse il Titano del 19 febbraio – ma un’accozzaglia di opportunisti, di nessun partito, che sono i più nocivi al buon funzionamento degli ingranaggi governativi e soprattutto all’educazione del popolo.

Nel frattempo i socialisti continuavano a fare opera di proselitismo andando per i Castelli della Repubblica a sensibilizzare la gente al loro pensiero e alle loro velleità politiche. Nel mese di febbraio, accompagnati dalla Fanfara del Libero Pensiero, sorta da un paio di mesi in contrapposizione alla Fanfara della Nova Iuventus dei clericali, fondata nel giugno precedente, si erano recati a Faetano, rocca fin qui ritenuta inaccessibile perché in mano di signorotti e di preti. Aveva parlato Franciosi per sostenere che la Repubblica era caduta dall’oligarchia dei nobili in quella non meno triste dei borghesi. Il comizio di Faetano non era stato casuale: infatti aveva avuto origine da alcune minacce apparse sul San Marino rivolte a Franciosi, che si ritenevano partite proprio da qualcuno di Faetano. Era insomma nato come sfida dei democratici contro i conservatori, per vedere se, andando sul posto, si potevano magari menare le mani. Nulla in realtà accadde, per cui il comizio riuscì a svolgersi in tutta tranquillità.

Dopo tante perplessità, i governanti sammarinesi arrivarono comunque alla deliberazione di sostituire i consiglieri dimissionari del Borgo attraverso elezioni suppletive da svolgersi agli inizi di aprile. Nel frattempo tra i democratici continuavano le discussioni per vedere cosa fare. Degna di attenzione è una lettera riportata dal Titano del 26 febbraio scritta da alcuni democratici liberi pensatori che, in contrasto con le tesi che siamo venuti esaminando fin qui, si auspicava un’alleanza tra cattolici e democratici da basarsi su tre punti fermi:

1.                      Scegliere di comune accordo i candidati al Consiglio fra i cittadini i più idonei qualunque sia la loro fede politico – religiosa.

2.                      Difenderci reciprocamente contro le possibili violazioni ai diritti della fede, ovvero garantire libertà di culto ed evitare religioni di Stato.

3.                      Migliorare la scuola primaria rispettando l’abolizione del catechismo.

Ovviamente i Socialisti non furono per nulla d’accordo con questo compromesso, e criticarono apertamente le ipotesi avanzate, ribadendo che i cattolici non avevano idee, non si proponevano di riformare nulla, avanzavano solo vaghe promesse che non sarebbero mai state mantenute per la mancanza di denaro e per la non volontà di farvi fronte applicando qualche ulteriore tassa. Tra l’altro li accusavano di star attuando una campagna elettorale subdola perché non avevano pubblicamente dichiarato chi erano i loro candidati, limitandosi a suggerirli, come forse stava succedendo all’insaputa dei loro avversari, solo alle orecchie dei pavidi elettori di stampo clericale.

Anche la parte democratica del Borgo aveva naturalmente i suoi torti e le sue responsabilità in ciò che stava succedendo, perché qui dominava uno spirito bottegaio indipendente ed utilitario. Vi erano poi troppi contadini soggiogati dai preti, e pure assoluta mancanza di un proletariato di lavoratori organizzati, per cui non era possibile programmare nessuna lotta politica ed elettorale. Inoltre i democratici erano in disaccordo tra loro, perché i più avevano criticato le dimissioni dell’anno precedente dei loro rappresentanti, e non erano disposti a seguire la stessa strada. Tutta questa intricata situazione aveva portato la democrazia del Borgo ad adagiarsi in un sonno letargico assai vicino alla morte, senza idee e senza prospettive nelle imminenti elezioni.[98]

La situazione di stallo in cui era piombato il Consiglio, la paura dell’accrescimento delle forze clericali, l’indecisione sul da farsi dei democratici, l’avvilimento politico di tanti consiglieri determinò anche all’interno della Federazione socialista grave dibattito e qualche battibecco. Come in Italia, che negli stessi anni vide costantemente scontri tra socialisti di diverse tendenze, si erano ormai consolidati due schieramenti ben precisi: i riformisti, che non volevano uscire dal Consiglio perché convinti che solo lì potessero essere di giovamento al ceto operaio ed alla causa socialista, disposti quindi a scendere a continui compromessi con gli altri consiglieri di indole moderata per promuovere qualche innovazione; i rivoluzionari, di indole prettamente marxista, portati più alla lotta di classe e alla rivoluzione sociale, contrari a qualunque tipo di compromesso, decisi a combattere la loro battaglia senza stare in Consiglio.

Il 22 marzo la Federazione ebbe un’infuocata riunione in cui i due schieramenti si fronteggiarono. Franciosi sottolineò che per dimettersi da consigliere occorrono forti ragioni perché le dimissioni si spiegano solo in segno di protesta contro qualche pessimo deliberato del Gran Consiglio, oppure quando per un’azione concorde coi consiglieri affini si è certi di portare una crisi nel Consiglio stesso, in modo d’avere il Paese con noi nelle susseguenti elezioni. Ma noi non ci troviamo né nell’uno né nell’altro caso e colle dimissioni corriamo il rischio di disgustarci il corpo elettorale e di perdere anche il collegio di Città, come i Democratici hanno perduto quello del Borgo per le loro intempestive dimissioni e per il conseguente dolce far niente. Non è men vero che la nostra opera sia stata fin qui negativa in Consiglio. Il solo pensarlo significa non aver fiducia in noi stessi e non essere nati per la lotta e per la disciplina tanto necessari in un partito. Noi fummo iniziatori delle migliori proposte presentate in Consiglio e se tutte non vennero accolte fu questione di preparazione e di tempo. Intanto vediamo che ogni Reggenza viene includendo nel suo programma qualche nostro progetto che dapprima fu considerato utopia; e se da qualche tempo l’azione nostra in Consiglio si è alquanto indebolita, è dipeso unicamente dal fatto che i consiglieri socialisti, separati dai democratici, si sono raffreddati e non hanno continuato a svolgere un’opera assidua e feconda. Si richiama dunque al dovere ognuno di essi indicandogli la vera via da seguire. Non è neppure vero che stando noi in Consiglio ci rendiamo responsabili di quanto si commette ivi dalla maggioranza. Il verbale, la tribuna pubblica, il giornale ci attestano che noi stiamo là dentro come tutte le minoranze per controllare l’operato della maggioranza, per protestare all’uopo in modo che il pubblico conosca chi fa bene e chi fa male, chi merita lode e chi biasimo. Poco patriottica e poco leale è la scusa portata da taluni che dobbiamo dimetterci perché il governo, versando in cattive acque finanziarie, pensa oggi di ricorrere alle tasse. Ma per qual cosa è indicato nel nostro programma lo studio per l’applicazione dell’imposta progressiva sul reddito netto? D’altra parte non possiamo deliberare le dimissioni senza un accordo preventivo con le leghe operaie, al di cui aiuto dovemmo ricorrere per mandare in Consiglio alcuni nostri rappresentanti. (…) Noi dobbiamo pertanto rimanere in Consiglio e lavorare di più di dentro e di fuori in modo che con la nostra opera di penetrazione nello stato delle masse possiamo agire nelle riforme politiche e sugli avvenimenti economici a pro della Repubblica e delle classi operaie finché quella si trasformi e questa venga sempre più verso il socialismo, convinta dal risultato dei fatti. (…) Dichiaro fin da ora che se prevarrà la tendenza delle dimissioni, io mi allontanerò dal Consiglio e dalla Federazione ad un tempo a scanso di responsabilità davanti al socialismo e alle classi lavoratrici.

Girolamo Capicchioni si schierò con Franciosi, mentre Vincenti, Casali, Ario Bonelli, Giuliano Belluzzi si dichiararono invece propensi alle dimissioni per non condividere l’operato di un Consiglio conservatore e inetto. Alla fine si giunse alla votazione: 22 presenti votarono a favore delle dimissioni, 7 contro.[99]

Per qualche ignoto motivo alla fine le dimissioni non andarono comunque in porto; tuttavia nei mesi seguenti dalle diverse idee e tendenze si sviluppò un intenso dibattito sul Titano, soprattutto tra Franciosi e Alfredo Casali, con articoli però anche di altri. Casali sostenne la tesi che i socialisti dovessero dimettersi dal Consiglio in blocco perché al suo interno, per totale assenza di gruppi politici dalla fisionomia precisa e dai programmi predefiniti, c’era solo confusione e anarchia, senza alcuna possibilità di creare durature alleanze di governo. Solo distanziandosi totalmente dalle istituzioni che reggevano il paese il gruppo socialista si sarebbe collocato nella posizione giusta per educare politicamente la popolazione. Nessuna grande riforma sarà mai possibile se prima non si sarà riformato il paese! Solo così in Consiglio e fuori sulle cricche, sulle camarille, sulle clientele, avranno il sopravvento le sane divisioni dei veri partiti politici lottanti nel nome di un ideale, ribadì sul Titano n° 31 del 30 luglio.

Di simili istigazioni Casali si rese protagonista anche successivamente, essendo ormai convinto che, senza lo sviluppo vero e proprio di raggruppamenti partitici dai connotati ben definiti e dai programmi ferrei, non vi potessero essere altri compromessi con nessun gruppo, tanto meno con i democratici di cui non ci si poteva più fidare. Inoltre senza partiti il Consiglio sarebbe stato sempre in preda agli individualismi e agl’interessi personali.

Franciosi, mantenendo le sue posizioni più moderate e concilianti, aperto sostenitore più della collaborazione di classe che della lotta di classe, com’ebbe a dire in un suo articolo, continuava a proclamarsi assolutamente avverso all’astensione dalla vita consiliare. In altri paesi è già stato dimostrato come il governismo del partito socialista non sia per nulla in contraddizione coll’antigovernismo per cui altrove il partito socialista era schierato all’opposizione, evidenziò in un altro articolo a sostegno del suo punto di vista. Un partito può addivenire occasionalmente ministeriale, rimanendo quello che è. I nostri amici intransigenti non lo ammettono. Ma pure è così perché la tattica socialista varia di paese in paese, e nello stesso paese da epoca in epoca, da situazione a situazione. In definitiva egli voleva che il partito continuasse a starsene in Consiglio appoggiando di volta in volta le leggi gradite, ed opponendosi alle altre. Vi è in Consiglio una situazione democratica che si tiene in piedi per un filo; non saremo proprio noi a recidere quel filo. Sarebbe un’aberrazione imperdonabile se, data la situazione attuale, il nostro piccolo gruppo non contribuisse col suo contegno alla effettuazione di qualche riforma politica civile ed economica.[100]

Casali ribadì sullo stesso giornale che i socialisti dovevano invece ritirarsi subito dal Consiglio per non compromettersi con un organismo politico tanto inabile, e per poter essere liberi di combattere dall’esterno, non come i buoni democratici del Borgo che si sono allontanati dal Consiglio per agire all’infuori di esso, mentre invece si sono dati completamente alle cure dei propri interessi.

Il dibattito tra Franciosi e Casali, che in quel momento erano le voci principali dei due raggruppamenti che si fronteggiavano all’interno del socialismo sammarinese, essendo Giacomini lontano,[101] proseguirà anche in seguito contribuendo a determinare una graduale ma sempre più netta scissione tra riformisti e massimalisti, o rivoluzionari, come preferivano definirsi all’epoca.

Le posizioni dei singoli erano di solito abbastanza affini all’interno di ciascuno schieramento, ma a volte anche divergenti. Interessante per mostrare un’altra faccia della fitta disputa in corso è senz’altro la lettera del 21 settembre 1911 dell’ex consigliere G. Vincenti, dimessosi per protesta contro la non assunzione a direttore didattico di Giacomini, fatto ritenuto un vero e proprio schiaffo morale inflitto al nostro partito. Da quel momento, secondo lui, i socialisti sarebbero dovuti uscire dal Consiglio: I Socialisti in Consiglio, messi come sono, non possono esercitare nessun controllo, non possono avere influenza morale alcuna, non possono neanche essere partito d’opposizione. Possono tutt’al più servire da bersaglio indifeso alle frecce nemiche, o da attaccapanni alle giacche sgualcite nere dei consiglieri della maggioranza.

Vista la situazione stagnante e senza futuro, proseguiva, i socialisti del Borgo dovevano cercare di sostituirsi ai democratici usciti dal Consiglio, magari accontentandosi per il momento di svolgere opera eminentemente democratica, cioè accantonando gli ideali e le aspirazioni spiccatamente socialiste. Un atteggiamento così conciliante avrebbe contribuito a formare nel paese un ceto borghese meglio costituito economicamente, uno Stato meglio ordinato, una costituzione dei partiti netta, un complesso di servizi pubblici e di assistenza meglio svolti, ovvero avrebbe creato condizioni ideali in cui il partito si sarebbe potuto sviluppare in modo migliore. In quel momento, però, bisognava mettersi in testa che il gruppo socialista poteva solo essere tromba di risveglio delle sparse forze democratiche, sprone alla lotta imminente, additatore della via che deve condurre alla vittoria, ma niente più.[102]

Egli sognava, in definitiva, come altri all’interno della Federazione, di ricoprire di nuovo un ruolo simile a quello che i socialisti avevano svolto nel movimento pro – arengo, quando erano stati i catalizzatori e unificatori di tutte le forze democratiche. Però era convinto che ciò potesse essere fatto solo dall’esterno del Consiglio, perché da dentro avrebbero avuto troppi vincoli e impedimenti. Le battaglie più belle sono state combattute quando tutti eravamo fuori dal Consiglio, venne detto da qualcun altro sul Titano del 15 ottobre, perché con rappresentanti socialisti in Consiglio tutti s’illudono e dormono.

Franciosi era ovviamente di tutt’altro avviso: Dunque noi pochi che continuiamo a rimanere in Consiglio, e partecipiamo occorrendo, al governo della cosa pubblica (…) non siamo più socialisti autentici, perché accettiamo il principio della collaborazione di classe- disse sul Titano del 1° ottobre. Il mulo deve essere sempre un animale che tira calci sempre, altrimenti non sarebbe mulo. Così per taluni nostri compagni il proletariato deve sempre imprecare, mordere, dibattersi con tutti e sempre: questa dev’essere la sua naturale belluina caratteristica finché noi gli abbiamo dato, per questo solo merito e per questa forza sola, l’impero del mondo. Ebbene è tutta qui la questione. Chi fa più bene al proletariato, colui che cerca di mantenerlo in questa sua bestiale condizione di assoluta inferiorità o coloro che vogliono elevarlo e rafforzarlo rendendolo capace non solo di mordere ma anche di ragionare, non solo di ribellarsi alle ingiustizie sociali ma anche di collaborare alla creazione di quel nuovo diritto umano e di quella nuova orientazione della società che l’ingiustizia sopprime in teoria e in pratica? Che cosa giova di più agli operai, lasciarli in balia di se stessi, o difenderli dove c’è il modo e renderli forse utili capaci di prender parte al movimento sociale e politico senza disordine e senza arresto? (…) Collaborazione e lotta di classe, non si escludono ma s’integrano. (…) Perciò fanno ridere coloro che vorrebbero in noi una astensione assoluta e un assenteismo dalla vita pubblica.

La collaborazione può essere un incidente del nostro cammino, ma non un sistema e non deve sostituire la lotta, disse un altro articolista sul Titano del 26 novembre. I compagni rivoluzionari sammarinesi hanno, secondo me, il torto di una estrema rigidezza di atteggiamento, ma solamente verbosa e quel che è peggio sono ottimi critici, ma fiacchi assertori e propagatori dell’idea nostra. Dall’altro canto i riformisti coi loro atteggiamenti minacciano di confondere il partito socialista con le file della borghesia snaturandone gli scopi, i concetti, la fisionomia.

I contrasti all’interno del gruppo socialista spinsero il partito a verificare, tramite ripetute riunioni svolte nel corso e sul finir del 1911, il percorso da fare da lì in poi. In ottobre venne deliberato di lasciare libertà di decisione ai quattro socialisti ancora in Consiglio, che conclusero alla fine di rimanere al loro posto. Il 29 dello stesso mese il gruppo tornò a riunirsi (con una cinquantina di presenze), e decise di svolgere più propaganda tramite comizi ed assemblee per svegliare la popolazione, avvalendosi anche di oratori esterni.[103]

La controversia proseguì a lungo anche nel 1912, portando lentamente in crisi la Federazione che smise a un certo punto di riunirsi e si sciolse fino al 1914. Un destino analogo lo ebbe anche la sezione del Borgo. Solo la sezione di Città visse una qualche esistenza sporadica ed occasionale tra il 1912 e il 1914, quando si sciolse anch’essa, per ricomporsi nel 1918.[104] Prima di rescindersi, comunque, alla fine del 1911 decise che i consiglieri socialisti dovessero dimettersi dal Consiglio, nonostante che la fazione moderata non fosse per nulla d’accordo. Rimaniamo al nostro posto per non fare il giuoco dei nostri peggiori nemici che si allieterebbero di vederci divisi per assalirci alle spalle quando fossimo sfiancati dalla lotta fraterna, sottolineò Franciosi sul Titano del 14 gennaio 1912.

Sempre Franciosi tornò sui problemi della Federazione il 10 marzo: Anche noi, è inutile dissimularcelo, siamo divisi in destra e sinistra, in riformisti e rivoluzionari, in positivi e negativi nella pratica dei principii. Anche noi sogniamo, alla guisa dei nostri compagni d’Italia, la ricostituzione rigorosamente unitaria del partito, con eliminazione degli estremi. Ma anche noi diciamo e non facciamo, e nulla concludiamo. Si capisce che, sentendosi fra noi la ripercussione di quanto si fa in Italia, l’unità assoluta sarà un pio desiderio. Del resto se la scissione si vuole, sarebbe bene una volta tanto intendersi, e ciascuno seguire la propria tendenza con carattere specifico e con la divisione della responsabilità nella azienda delle cose. E’ addirittura inutile che alcuni dei nostri si ritirino in disparte senza manifestare a che mirino e che cosa vogliano. E’ addirittura pericoloso che altri facciano gl’impermaliti e i dissenzienti e dicano male dei loro compagni che hanno fatto e fanno ogni giorno qualche cosa per la causa proletaria. Manifestiamoci pure in tendenze, ma cerchiamo nel decentramento quella possibilità d’intese transitorie da essere utili al partito e alle classi lavoratrici. Non disperdiamo le nostre energie; non perdiamoci in invidiucce personali e in lotte intestine. (…) Non perdiamoci in diatribe o in aperta inazione e apatia che inacidiscono o snervano. Fuori o dentro il partito, con l’una o con l’altra tendenza, occorre agire e continuare a fare del buon socialismo.[105]

Oltre ai problemi interni, i socialisti ne avevano comunque anche di esterni: la loro mentalità tendenzialmente intransigente e integralista li portava infatti ad essere eternamente litigiosi con tutti, anche con quelle forze di cui avrebbero voluto essere gli alleati nella battaglia anticlericale ed anticonservatrice. Per questo nel mese di marzo del 1911 bisticciarono per l’ennesima volta con l’avvocato Babboni, con cui già in tante altre occasioni avevano avuto scontri e polemiche: Vorremmo che il comm. Babboni e compagni non fossero soltanto i liberali dell’occasione per sciorinare un elegante orazione, ma avessero una vera direttiva laica anticlericale in ogni loro atto della vita pubblica, dissero sul Titano del giorno 12. L’ascesa al potere dei clericali, secondo i socialisti, era dovuta solo a loro che non avevano mai avuto una vera politica di schietto e sincero laicismo.

Nelle settimane successive si tentarono comunque abboccamenti e avvennero anche riunioni per vedere di mettere a punto una strategia comune, ma democratici e socialisti proseguirono nel lanciarsi accuse a vicenda. Agli inizi di aprile, per esempio, furono i liberali ad accusare i socialisti di essere stati la causa dell’immobilismo in cui era caduto il Consiglio con il loro allontanamento dal gruppo democratico alla fine del 1907.[106]

Ogni buona aspirazione associativa, dunque, era destinata puntualmente a far naufragio. Giungiamo così alle elezioni del Borgo che, contrariamente a quanto programmato, non vennero svolte in aprile, ma alla fine di maggio perché nei mesi precedenti si era sviluppato qualche focolaio di colera in territorio e si era quindi preferito evitare gli assembramenti e le opportunità di contagio.

Con tutti i battibecchi dei mesi precedenti, le elezioni suppletive di maggio non portarono ovviamente a niente di buono per i democratici, anche perché questi alla fine si limitarono ad istigare la popolazione all’astensionismo sia per costringere i clerico – moderati ad assumersi in toto la responsabilità della conduzione della cosa pubblica, sia per verificare il numero degli elettori democratici in Borgo. I cattolici invece dissero che l’astensionismo predicato dai loro avversari si doveva solo alla paura di una sonora sconfitta.

Le elezioni videro la partecipazione di 105 votanti su 400; per il gruppo democratico simile risultato era senz’altro un segno positivo che l’elettorato aveva voluto fornire. D’altra parte anche il San Marino era concorde nel dire che la Repubblica stava attraversando un periodo di inerzia spaventosa che rischiava di condurla verso una fase di decadimento morale. Non c’erano buone relazioni tra popolazione e governo, che per questo motivo era senza ideale, gretto, dottrinario. Il popolo non s’interessava di politica e rimaneva estraneo alle istituzioni. L’arengo era stato solo un fuoco di paglia che non era riuscito ad instaurare una democrazia effettiva. La debolezza del governo, dovuta prevalentemente al disinteresse del popolo, lo portava ad essere succube dell’Italia e mai bastante a se stesso.[107] Di inerzia intellettuale e di periodo di decadenza parlò spesso anche il Titano, sostenendo che la gioventù operaia non aveva  più attenzioni per la politica, era apatica e non aveva più gli slanci del passato.

La situazione politica sammarinese giunse a modificarsi sostanzialmente nel 1912 perché si riuscì quasi per miracolo a consolidare un’alleanza tra le forze democratiche. La prima metà dell’anno vide un fitto dibattersi tra i gruppi e all’interno dei gruppi stessi per trovare una soluzione con cui uscire dalla situazione di spaccatura e di divisione in cui si era. Diversi socialisti fin dal mese di gennaio avevano avanzato l’ipotesi di demolire la vecchia organizzazione socialista per allearsi con gli anticlericali moderati riuniti da qualche tempo nell'associazione del "Libero Pensiero", per combattere il prete la cui potenza e prepotenza è ridotta nel nostro paese intollerabile. Non bisognava confondersi più di tanto con gli altri raggruppamenti, però, perché in quel particolare momento storico, la via dell’intransigenza doveva essere considerata come la strada maestra del socialismo sammarinese. Le alleanze con gli altri, insomma, potevano essere ricercate, ma solo in modo parziale e momentaneo.[108]

Il problema mantenne aperto sul Titano il dibattito iniziato l’anno precedente. Franciosi, deciso anticlericale e perciò conciliante con tutti coloro che ce l’avevano coi preti e la Chiesa istituzionalizzata, era indubbiamente favorevole ad un'alleanza tesa a liberare il nostro Governo e la nostra società da ogni vincolo religioso, da ogni forma di superstizione, da tutte le ibride tutele con cui il cattolicesimo ancora vincolava la società. Date le condizioni del nostro vecchio paese, che cosa si può attendere da un puro programma socialista, privo dell’appoggio di molti altri cittadini?, si chiese. Senza alleanze con le altre forze anticlericali, in definitiva, i socialisti ed il paese tutto non sarebbero mai riusciti a risolvere quello che era il problema massimo che vincolava a sé tutti gli altri problemi impedendone la risoluzione, ovvero il dominio imperante del clericalismo, considerato tout court sinonimo di conservatorismo cieco e ottuso.[109]

A questo articolo rispose Casali a fine mese sostenendo che il locale socialismo non aveva potuto fin lì raccogliere un gran frutto perché non abbastanza intenso è stato il lavoro di dissodamento. Più che nuove alleanze, sosteneva, era basilare fare un maggior lavoro di propaganda e sensibilizzazione tra la gente per creare più adesioni alla causa socialista.[110]

Casali anche nei mesi successivi perseverò nel caldeggiare la sua linea di odio totale verso il Consiglio e di disprezzo verso eventuali alleanze ipotizzanti un fascio-minestrone di indole democratica. Continuò anche a sostenere con accanimento che i socialisti avrebbero dovuto dimettersi in blocco dal Consiglio per iniziare una lotta più dura dal suo esterno. Avvennero però alcuni fatti che permisero la prevalenza temporanea della linea moderata, e quindi della logica che spingeva per l’alleanza democratica. In particolare crebbe l’eterna discussione sulle riforme statutarie che i democratici continuavano a volere ad ogni costo, ed i clericali ad osteggiare con ogni mezzo, e si sviluppò una violenta polemica coi cattolici, col vescovo del Montefeltro, con quello di Rimini, ed in seguito con il Vaticano stesso, a causa di una legge, detta dei Benefici vacanti, che il Consiglio stava dibattendo e che prevedeva la limitazione di alcuni privilegi del clero.

Tale legge venne promulgata il 27 aprile; con essa si sottoponevano tutti gli atti dell’autorità ecclesiastica relativi alla destinazione dei beni ecclesiastici, alla provvista dei benefici maggiori e minori, e all’attribuzione di rendite dei benefici all’exequatur e placet, cioè all’assenso, della Reggenza e del Congresso di Stato. In qualche modo, cioè, la Chiesa e le sue proprietà in territorio venivano assoggettate al controllo dell’autorità laica, e questo ovviamente creava forti malumori, soprattutto in un momento in cui le polemiche relative all’abolizione del catechismo erano ancora molto accese.[111]

Nel mese di marzo era stato fatto circolare un volantino avverso alla legge, redatto dal vescovo del Montefeltro, su cui i socialisti avevano sparato a zero considerandolo un vero e proprio attentato alla sovranità dello Stato, e da cui Franciosi, antireligioso nel senso scientifico della parola, come si definiva, era partito per tentar di creare finalmente in Repubblica una forte alleanza all’insegna dell’anticlericalismo (liberare il nostro Stato dalla Chiesa, legiferare in senso laico, ecco il programma di buon lavoro, ecco il prologo indispensabile all’instaurazione di una Repubblica veramente democratica e vitale[112]).

L’alleanza non si consolidò, ma le tensioni rimasero molto vive per parecchio tempo, tanto che il 16 maggio i cattolici organizzarono una manifestazione di protesta a Serravalle, e in seguito le polemiche si sprecarono attraverso una miriade di scritti e di accuse reciproche dentro e fuori del Consiglio, e minacce di sciopero del clero e di chiusura delle chiese.  Il 27 settembre furono tutti i preti di San Marino a riunirsi ad Acquaviva per vedere il da farsi. Nel giugno del 1913 la stessa Santa Sede intervenne nella diatriba, ma inutilmente perché la legge, che era stata redatta dall’onorevole Scialoja, consulente della Repubblica, sulla falsariga di una legge analoga italiana, rimase per il momento invariata.[113]

L’intesa tra i democratici venne partorita però solo nel mese di settembre. Nel frattempo emersero altre idee per sistemare la situazione politica, anche perché per il mese di giugno erano previste le elezioni triennali che avrebbero dovuto rinnovare per un terzo il Consiglio, quindi occorreva trovare soluzioni veloci per affrontarle. In maggio i socialisti ipotizzarono di sciogliere il Consiglio per rinnovarlo integralmente. I cattolici invece cominciarono a chiedere la convocazione di un altro arengo per discutere la situazione, e per esaminare la legge sui benefici vacanti. Alla fine non successe nulla di quanto auspicato e si arrivò il 23 giugno regolarmente alle elezioni di una terza parte del Consiglio.

Per protesta contro la legge sui benefici vacanti, i cattolici invitarono i loro elettori a disertare le urne. In un articolo apparso sul San Marino del 1° luglio dichiararono che il popolo, di cui loro si sentivano i principali esponenti, voleva il rispetto assoluto dei principi religiosi, il consolidamento del bilancio ed un’amministrazione migliore e più competente, un maggiore sviluppo dell’industria, in particolare di quella agraria, la delimitazione dei poteri del Consiglio, l’assegnazione ad ogni ufficio di un bilancio da gestire in proprio, e la responsabilità specifica delle sue mansioni sotto il controllo del governo, l’incremento dell’istruzione primaria in particolare nei centri rurali, la convocazione in assemblea del popolo prima di varare leggi importanti, specie in fatto di principi.[114]

In effetti vi fu scarsissima affluenza a queste elezioni: solo nei Castelli di Montegiardino, Domagnano e San Giovanni si riuscì ad arrivare ad un risultato definitivo, mentre negli altri, per problemi vari, i comizi elettorali dovettero essere riconvocati. Su 26 consiglieri da nominare alla fine se n’erano potuti eleggere solo 6. Dopo tali disastrosi risultati, i socialisti continuarono a reclamare le dimissioni dell’intero Consiglio, mentre i cattolici proseguirono nella loro richiesta di convocare un arengo.

Conseguenza logica e necessaria della grave crisi che attraversa ora la repubblica, saranno indubbiamente le elezioni generali, scrisse Casali sul Titano del 7 luglio. Se così fosse stato, i democratici dovevano scendere con vigore nella lotta, se non si vuole fare il giuoco dei clericali i quali mirano a convocare l’Arringo dei padri di famiglia per far suscitare dei tumulti e per far ritornare indietro di un secolo la Repubblica. Grave ed estremamente difficile è il momento che ora attraversa il paese! Le finanze pubbliche sono rovinate; le istituzioni democratiche che ora ci reggono, conquistate dopo lunghe lotte, sono cadute in discredito e sono prese a dileggio; i clericali minacciati nei loro secolari privilegi di dominatori, lasciate le cure del paradiso ai gonzi ed ai poveri di spirito, attentano alla salute della Repubblica!. Da tutto ciò emergeva chiaro il bisogno di un’alleanza tra tutti i democratici che dovevano avere il coraggio di accantonare i vari punti di vista, per creare un programma unitario così da fronteggiare compatti il gruppo conservatore. Solo l’unione di tutte le forze schiettamente democratiche può rappresentare il baluardo necessario per coloro che attentano all’integrità morale e politica della Repubblica.

Emerse dunque l'idea di un “Blocco Democratico”, per impedire che il potere fosse detenuto completamente dai clericali. Alfredo Casali aveva dunque modificato opinione di fronte alla minaccia conservatrice che si faceva sempre più consistente e che stava cavalcando benissimo la questione del catechismo e la nuova polemica sui benefici vacanti. Tra l’altro, proprio per opporsi a questa legge, il clero sammarinese continuava a minacciare un suo sciopero con chiusura delle chiese al pubblico, e a chiedere la convocazione di un arengo, che senz'altro in quel momento sarebbe stato disastroso per la causa democratica, visto il malumore di indole religiosa che serpeggiava tra la popolazione.

Tutti questi fatti spinsero i socialisti rivoluzionari ad accantonare i loro atteggiamenti integralisti, ed i democratici ad infittire le discussioni tra tutti per giungere ad un qualche accordo tra le parti, cioè ad un’alleanza politica capace di osteggiare adeguatamente i clericali presentandosi in forza e compatta alle nuove elezioni. In agosto ancora sembrava che non si riuscisse a giungere a nulla, ma in settembre, a pochi giorni dalle elezioni, svoltesi il giorno 22, l’alleanza riuscì parzialmente a consolidarsi e a dare avvio ad una serie di comizi in Città e Borgo, pur tra lo scetticismo di molti che non erano del tutto convinti che potesse durare più di tanto.

I socialisti ritenevano che la solidità del “Blocco Democratico” sarebbe stata direttamente proporzionale alla serietà del suo programma, e alla fermezza con cui si sarebbe potuto tenervi fede dopo le elezioni. Esso prevedeva:

1.           Consolidamento del bilancio;

2.           Sviluppo e ordinamento delle scuole primarie;

3.           Riforme civili e laiche;

4.           Miglioramento dei servizi pubblici e realizzazione       dell’acquedotto;

5.           Legislazione del lavoro.

Su questi punti, sui bisogni tangibili dello Stato, sul grave problema della riforme politiche e della laicizzazione della società sammarinese, si sperava che il Blocco potesse godere di una certa longevità, altrimenti sarebbe durato pochissimo: Se però invece che i programmi si vorrà stare attaccati alle persone, se prevarranno, come purtroppo fin qui si è avverato, le questioni personali, le piccole meschine rivalità di chiesuola, l’unione della democrazia è condannata a morire ignominiosamente quando ancora è nelle fasce. [115]

I riformisti si erano messi sulla buona strada per riprendere in mano il potere, e in effetti l’esito delle votazioni risultò a loro favorevole; ma non era ancora finita, perché il 1912 fu anno politicamente travagliatissimo. Le elezioni di settembre, infatti, non riuscirono ancora a completare il numero dei consiglieri mancanti. Inoltre parecchi consiglieri clericali si dimisero per l’esito a loro sfavorevole che avevano sortito, così vi fu l’esigenza di convocare altre elezioni suppletive per la fine di novembre.

L’opportunità comunque fu ulteriormente vantaggiosa per i democratici, che approfittarono delle nuove elezioni per rinsaldare la loro alleanza, e per redigere un programma più dettagliato di quello elaborato per le elezioni di settembre. Il 18 ottobre si riunirono per stabilire come muoversi e per nominare un comitato direttivo con il compito di produrre un programma ancora più energico attorno cui stringersi compatti. Nei primi giorni di novembre vi furono varie riunioni tra i democratici. Verso metà mese il programma era ormai definito e ipotizzava:

 

1.           Laicizzazione graduale dello Stato tramite

             a) Istituzione del matrimonio civile;

             b) Abolizione delle decime;

             c) Abolizione del foro ecclesiastico;

             d) Riforma della legge notarile.

2.            Riforma della legge sull’igiene, sulla sanità e sicurezza pubblica.

3.           Codice civile, di commercio, di procedura civile e riforma della legislazione penale.

4.           Consolidamento del bilancio.

5.           Conduttura dell’acqua potabile.

6.            Riordinamento scolastico. Istruzione obbligatoria fino alla 3a classe elementare ed istituzioni sussidiarie.

7.           Legislazione del lavoro.

8.           Costruzione di edifici scolastici, di case operaie e di cimiteri rurali.

9.           Studi di mezzi atti a favorire l’agricoltura, l’industria e il commercio. Istituzione di una cattedra ambulante di agricoltura.[116]

 

La laicizzazione dello Stato, obiettivo posto in cima al programma democratico, appagava immensamente i socialisti spingendoli per il momento ad accantonare altre pretese troppo radicali. Le elezioni di novembre furono una nuova grande soddisfazione, perché i cattolici, in aspro dissidio per la legge sui benefici vacanti e per i propositi di istituzione del matrimonio civile, sempre più sbandierati dai riformisti, frustrati sia per la mancata convocazione dell’arengo, sia per la non rinnovazione totale del Consiglio, così come avevano cominciato a chiedere quando avevano visto che non c’era possibilità di riunire l’assemblea dei capifamiglia, si astennero lasciando campo libero ai loro avversari. Il Titano cominciò a gridare alla vittoria: Finalmente circa 31 Consiglieri, compresi gli otto Socialisti, hanno formato un gruppo democratico con un programma vario e completo sotto l’aspetto politico, economico, sociale, disse con soddisfazione ad elezioni concluse.[117] Il nuovo gruppo democratico[118] veniva invitato a mettersi subito all’opera per consolidare il bilancio e per erigere l’acquedotto da tempo agognato.

I socialisti però si ripromettevano di essere ben vigili sull’azione del Governo affinché il Blocco non deviasse dal percorso che si era dato con il programma sottoscritto, perché per il bene del paese e per la solidità della nuova alleanza avevano rinunciato a diverse delle loro istanze peculiari. I socialisti italiani si erano sempre opposti alla teoria del blocchismo, venne scritto, perché toglieva forza e prestigio agli ideali per cui combattevano. Tuttavia essendo San Marino ancora in uno stato semifeudale e in mano di due caste: il prete e il signorotto, l’alleanza con gli altri democratici era l’unica strada percorribile per far uscire la comunità, in tempi che si prevedevano lunghi, dalla sua arretratezza di stampo medievale. Solo dopo un effettivo miglioramento della sua situazione sociale e politica i socialisti avrebbero posto fine all’alleanza per riprendere da soli la loro strada, che consideravano solo momentaneamente abbandonata.[119]

La nascita della nuova alleanza democratica, decisa a rimanere compatta e ferma nel suo programma fino al suo compimento, rasserenò gli animi dei socialisti, esasperando invece i sentimenti dei cattolici e dei conservatori, relegati dal Blocco all’opposizione. Dai loro giornali del periodo emerge con chiarezza il fastidio di trovarsi in simile posizione e soprattutto il timore che avevano per quel primo punto del programma democratico che prevedeva la laicizzazione dello Stato.

Alla fine del 1912 divulgarono un manifesto in cui spararono a zero sul programma del Blocco e sulla volontà d’istituire il matrimonio civile, che si temeva avrebbe tolto qualunque valore a quello religioso. Ventilavano inoltre che la politica di laicizzazione che stava maturandosi sempre più avrebbe portato il nuovo governo ad impadronirsi dei beni delle parrocchie e dei conventi per pagare nuovi impiegati ed istituire nuovi uffici pubblici.[120]

Nel mese di maggio del 1913 il San Marino, in un articolo intitolato "Il nostro programma", concepito in contrapposizione al programma del Blocco, volle divulgare tra la popolazione alcune idee tutte tese ad esaltare la conservazione del passato e delle vetuste consuetudini della Repubblica, che non doveva essere serva di affaristi, ma sovrana e rispettata. Laicizzare uno Stato come il nostro non è civiltà, ma antipatriottismo e barbarie; consoliamoci che sui destini di questa terra gloriosa vi è ancora qualcuno che veglia: il Santo Patrono Marino ed il Popolo Cattolico che ha tutto un programma di Fede e Patria.[121]

Fede e patria erano in effetti i due capisaldi a cui l’Unione Cattolica si era sempre ispirata. La fede era ovviamente quella del cattolicesimo più integralista, la patria era quella statutaria e consuetudinaria, quella cioè derivata direttamente dal Medioevo e dagli statuti secenteschi.

I cattolici avevano indubbiamente anche qualche idea di stampo più moderno, ed anche moderate velleità riformiste in alcuni campi. Appoggiavano, per esempio, l’ipotesi di riforma fiscale progressiva, ma non accettavano assolutamente la volontà di attuare innovazioni profonde di natura istituzionale e culturale come quelle professate dai progressisti in genere e dai socialisti in particolare, a loro giudizio ancora non adatte per lo Stato sammarinese. Per l’Unione la brama di infondere la cultura laica e di cambiare le consuetudini statutarie era del tutto fuori luogo, perché il popolo, massicciamente cattolico e attaccato alle sue tradizioni, non ne aveva bisogno e non le desiderava.

I conservatori, inviperiti perché c’era al potere un gruppo a loro avverso, diedero battaglia feroce a sostegno delle loro idee, diffondendo tramite stampa e soprattutto dai pulpiti delle chiese i loro messaggi ed il costante richiamo ai valori del passato che, urlavano,  il Blocco voleva violentare e soppiantare. Richiesero a gran voce e con continuità le elezioni generali per rinnovare in toto il Consiglio, predicando l’astensione dalle elezioni suppletive o parziali. Oggi non è più la vera democrazia che governa – affermarono sul loro giornale del 28 settembre 1913 – non sono più i mandatari del popolo al potere, ma pochi uomini in cui la sfacciata impertinenza li portò al comando, trasformando la libera terra di S. Marino, in una terra czaresca di assoluto impero.

In un altro articolo del 23 novembre, intitolato Cosa vogliamo noi, ribadirono di desiderare una sola cosa: che la Repubblica fosse riportata alle sue origini in quanto riguarda la parte religioso – morale. Essendo stata fondata da un santo, infatti, essa poteva e doveva basarsi solo sui fondamenti della religione. Era lecito tener conto dei tempi e dell’evoluzione della civiltà, ma i dogmi e i principii della religione cattolica non possono assolutamente subire modificazioni, nel vario succedersi di tempi e di persone. Si doveva  tener presente che a San Marino i cattolici erano la maggioranza, per cui non era giusto che venissero soggiogati da una minoranza di miscredenti.

Il San Marino in definitiva tornava a chiedere il ripristino del catechismo nelle scuole, voleva che il matrimonio religioso avesse lo stesso valore di quello civile, qualora questo fosse stato legalizzato, pretendeva infine, per le leggi che riguardavano la Chiesa, dopo le velenose polemiche che vi erano state sulla legge dei benefici vacanti, sempre un accordo preliminare tra autorità politiche e religiose.

Naturalmente il Titano rimbeccò le tesi dell’Unione con lunghi articoli, sostenendo che lo Stato non doveva scendere a patti con nessuno nel varo delle sue leggi, e altro ancora secondo quella logica laica e statalista da cui era stato caratterizzato fin dalla sua nascita.

Al di là di quanto già detto, il 1912 non registra altri fatti meritevoli di essere evidenziati più di tanto, a parte l’avvio a fine anno di scuole serali per adulti, grazie alle prestazioni gratuite di alcuni maestri,[122] e il rinfocolamento della vecchia polemica sulla riforma fiscale, che per qualche anno era rimasta piuttosto sopita. Questo perché il bilancio stava ormai dando chiari segni di essere ancora una volta insufficiente ai nuovi bisogni dello Stato e a quella modernizzazione auspicata dagli innovatori più decisi. Nel  preventivo del 1912 - 1913 s’ipotizzava un disavanzo superiore alle 70.000 lire (359.986 in entrata, 432.592 in uscita).[123]

Olinto Amati, factotum delle finanze di questo periodo, tramite volantino diffuso tra la gente, suggeriva di accrescere le entrate per mezzo della stampa di carta moneta, progetto a cui stava ancora lavorando, e con altri mezzi finanziari, senza ricorrere per il momento a nessuna riforma tributaria. I socialisti, invece, la consideravano necessaria non solo per aumentare le entrate, ma soprattutto per moralizzare l’economia sammarinese, da sempre basata non sul coinvolgimento economico del cittadino nella gestione dello stato, ma sul reperimento di denaro tramite tasse indirette e più che altro su espedienti di vario genere. Inoltre essi ritenevano che solo attraverso una giusta riforma fiscale si sarebbe livellata un po’ la società, togliendo ai ricchi per favorire i poveri.

Le operazioni finanziarie erano amorali, secondo Alfredo Casali, e inducevano il cittadino a disinteressarsi dei problemi economici perché non faceva alcuna fatica ai soldi che andavano a rimpinguare le casse statali. I sammarinesi pagavano 218.000 lire annue di tasse indirette su un totale di 230.000 lire di gettito fiscale, tuttavia non se ne accorgevano nemmeno perché non le consideravano balzelli che uscivano dalle loro tasche. Un aggravio di quelle dirette, quindi, non sarebbe stata una tragedia per il popolo: Di questo parere non sarà certamente la maggioranza consigliare che rappresenta la plutocrazia sammarinese. Alla riforma tributaria, al tenue sacrificio di tassarsi convenientemente essa preferirà le operazioni finanziarie e, se queste non bastassero, ritornerà alla vendita dei ciondoli e dei titoli nobiliari e, magari, metterà all’incanto gli uffici consolari della Repubblica. Ciò non costa sacrificio materiale alcuno, ed è soprattutto comodo per le inviolabili tasche di loro signori. Inoltre una riforma tributaria basata sui singoli redditi avrebbe permesso di abolire la tassa sul grano, considerata ingiusta ed obsoleta dai socialisti, ma non da Amati che la riteneva invece indispensabile per non far crollare le entrate. Il problema delle tasse e della riforma tributaria non era cosa da poco, perché, come si vedrà fra breve, sarà proprio questo il capolinea del Blocco Democratico.

Pur tra perplessità e contrapposizioni, per fortuna solo verbali, nel 1913 il Blocco tenne, nonostante due elezioni suppletive svolte nel mese di aprile e di novembre per completare il numero di sessanta consiglieri che per dimissioni, o per problemi nei seggi o per altro ancora non era mai completo. Inizialmente la nuova maggioranza consigliare seppe muoversi con entusiasmo all’interno del programma che si era dato. I socialisti in questo periodo si mantennero calmi e poco litigiosi verso i loro alleati, anche perché la loro organizzazione era in forte crisi per lo scioglimento della Federazione e della sezione di Borgo. Solo quella di Città rimase in qualche modo operativa e cercò di sostituirsi alla Federazione, ma anch’essa si riunì solo due volte nel 1912 (il 7 e il 27 dicembre), una volta nel 1913 (il 28 febbraio), due volte nel 1914 ( il 2 gennaio e il 12 luglio), almeno stando al suo libro dei verbali, poi chiuse i battenti fino al 24 maggio del 1918.[124]

Nelle due riunioni del ’12 Alfredo Casali diede le sue dimissioni dal Titano, non riconoscendosi nella tendenza che doveva assumere il giornale a causa dell’alleanza degli otto consiglieri che ora poteva annoverare il gruppo socialista con gli altri democratici. Nell’adunanza del 7 venne poi deciso di cedere il giornale al Blocco dietro precise condizioni, ovvero:

1.              di riaverlo alle stesse condizioni se non fosse stato seguito il programma concordato,

2.              di accettarlo con debiti e crediti (in realtà aveva solo debiti),

3.              di poter avere almeno due socialisti nella redazione,

4.              di poter disporre di una colonna per la propaganda e per l’organizzazione operaia,

5.              di conservare lo stesso titolo, serie e numerazione,

6.              di continuare a stamparlo nella Tipografia Sociale.

Nel febbraio dell’anno successivo la sezione venne informata che erano state approvate tutte le condizioni eccetto le numero 3 e 4, ma accettò ugualmente di rinunciare al giornale. La cessione venne comunicata nel Titano del 25 marzo in cui fu scritto che per necessità politica e di difesa civile contro il pericolo clericale il gruppo socialista si era dovuto unire con i democratici; perciò il giornale veniva affidato per un tempo indeterminato al Blocco. Dal 1° aprile divenne Organo del Gruppo Consigliare Democratico con Tullio Ceccoli come direttore.

Naturalmente nei mesi seguenti il periodico cambiò completamente i suoi toni, anche se alcuni socialisti, come Franciosi, che mantenne elevatissimo il numero dei suoi articoli (108 nel 1913), continuavano a scrivervi. Gli argomenti prediletti furono più o meno sempre gli stessi: l’esigenza di riformare lo statuto per svecchiare la Repubblica, i problemi del bilancio e della riforma tributaria, la necessità di avere partiti politici in Repubblica per dar vita ad un sistema parlamentare moderno, il bisogno di un sistema scolastico più efficiente, soprattutto a livello di scolarizzazione di base, l’urgenza di laicizzare lo stato e così via.

Comunque questi sono anni che possiamo considerare di relativa crisi del partito socialista, perché la linea moderata che aveva portato all’alleanza coi democratici non soddisfaceva tutti, e non rispondeva a quanto stava avvenendo in Italia, dove sempre più stava prevalendo la linea rivoluzionaria. Già nel congresso socialista di Modena del 1911 si era visto con chiarezza come i riformisti, che detenevano ancora le redini del partito, fossero spaccati in destra e sinistra, e come i rivoluzionari fossero in rapida crescita. Nel congresso dell’anno successivo, svoltosi a Reggio Emilia, i rivoluzionari riuscirono a prendere in mano il partito, espellendo addirittura i riformisti di destra che, favorevoli alla guerra di Libia e al “ministerialismo”, cioè a stare nel governo, furono accusati di essere troppo filogovernativi e poco socialisti. Il XIV congresso dei socialisti italiani, svoltosi ad Ancona nell’aprile del 1914, confermò la linea rivoluzionaria ai vertici del partito e la condanna del socialismo troppo accondiscendente col potere governativo.

E’ chiaro che i socialisti sammarinesi non potevano restarsene indifferenti verso quanto stava accadendo presso i loro cugini italiani, e qualche articolo di questo periodo apparso sul Titano ci fa capire assai bene che i dibattiti locali erano gli stessi che si svolgevano anche in Italia. Quindi i rivoluzionari sammarinesi, da sempre diffidenti verso i democratici moderati, ed in questo periodo in acido conflitto con Manlio Gozi, capo dei locali repubblicani e futuro uomo forte del fascismo sammarinese insieme al fratello Giuliano, dovevano guardare al Blocco Democratico con sospetto e probabilmente anche con disgusto.

Non così ovviamente Franciosi e gli altri socialisti riformisti. Finalmente l’unione tra socialisti e democratici nella repubblica buona – contro il comune pericolo – è un fatto compiuto e ne riceve oggi la sua sanzione definitiva. In Italia ciò non sarebbe stato possibile ai tempi che corrono, scrisse sul Titano del 6 aprile. Perché in Italia (…) i partiti sono maturi ed hanno un campo più lato su cui lottare, per svolgere ciascuno il proprio programma. A San Marino, dove il campo è più ristretto e i partiti sono meno evoluti, ciò non è ancora possibile. La vita nostra è troppo circoscritta e non può far seguire per adesso a nessun partito una tattica aprioristica. I partiti liberali, dal democratico al socialista, debbono star uniti per un tempo indeterminato, finché non avranno posto la Repubblica in una posizione veramente laica e civile. (…) La democrazia distruggendo un po’ alla volta le sopravvivenze chiesastiche e feudali, e mettendo tutti i cittadini nelle medesime condizioni iniziali di lotta, dà al proletariato il modo di conquistare nella società presente una sempre maggiore potenza politica, che è quanto dire la possibilità di realizzare i suoi ideali di uguaglianza sociale. (Sarà poi ripresa la via maestra del socialismo quando il proletariato sammarinese diverrà così forte nelle sue organizzazioni e politicamente così maturo da imporsi da se stesso ai suoi avversari; ossia quando il socialismo comincerà ad essere un fatto perché sarà riuscito a spostare la somma degli interessi verso le classi proletarie.[125]

In realtà il Blocco Democratico vivrà poco più di un anno, poi tramonterà per sempre. Nel 1913, comunque, fu suo compito reggere lo stato sammarinese e industriarsi per fare qualcosa, non molto per la verità, del suo vasto programma. Fu sempre il Blocco che permise il ritorno di Gino Giacomini a San Marino, affidandogli per chiamata la direzione didattica. Proprio in campo scolastico possiamo registrare le principali novità di questa breve fase politica, come l’accelerazione della costruzione di alcune scuole rurali, o l’istituzione del patronato scolastico, per favorire la scolarizzazione dei fanciulli più poveri.[126]

Un’altra novità da tempo agognata dai socialisti fu l’istituzione di un ispettore degli uffici pubblici, fatto che avvenne con decreto dell’11 ottobre 1913. Nel periodo vi fu anche un potenziamento della burocrazia statale. Si cercò di migliorare le strade e il sistema di comunicazione con la riviera, che avveniva tramite un servizio di due corse giornaliere di un’auto pubblica, per favorire il turismo che stava timidamente nascendo anche a San Marino. Si pose mano al problema dell’acqua potabile accelerando la costruzione dell’acquedotto di Fiorentino, che verrà però inaugurato solo nel 1915. Si lavorò per installare la luce elettrica nei principali Castelli stipulando un contratto con la ditta fornitrice agli inizi del ’14. Si riuscì ad aumentare di circa 250.000 lire annue il canone che si percepiva dall’Italia, colmando così per qualche tempo il deficit di bilancio, che comunque stava fortemente dilatandosi per le nuove spese legate agli edifici scolastici, alle strade, al potenziamento degli uffici pubblici. Si varò una legge per regolamentare i diritti pensionistici degli impiegati e salariati.[127]

Tante novità, senz’altro, ma praticamente non si pose mano a problemi che i socialisti ritenevano fondamentali per far progredire la Repubblica, ovvero i mutamenti di carattere istituzionale, la riforma tributaria, una decisa laicizzazione dello stato. Probabilmente è qui il nocciolo del fallimento del Blocco Democratico, insieme naturalmente a ciò che stava accadendo all’interno del socialismo italiano.

Agli inizi del 1914 nulla dava a presagire una fine così repentina dell’alleanza fra le forze riformiste. Nel mese di gennaio, grazie ad una cinquantina di soci, aveva potuto finalmente costituirsi, dopo tanti progetti in merito, l’"Associazione del Libero Pensiero", un raggruppamento anticlericale che si richiamava ad un analogo gruppo italiano, tramite cui si sperava di dare ulteriore compattezza all’alleanza democratica. [128]

Nel mese di febbraio, grazie soprattutto all’attivismo e alle conoscenze di Amati, ben inserito in molti ambienti importanti italiani, si era sottoscritto un contratto con la Società Adriatica che s’impegnava a fornire a San Marino corrente elettrica con cui dotare di luce i Castelli di Città, Borgo e Serravalle, ed alimentare il costruendo acquedotto di Fiorentino, che avrebbe permesso di risolvere l'annoso problema dell’acqua potabile in buona parte del territorio.[129]

Le cose, insomma, sembrava che stessero andando bene, tant’è vero che il Titano del diciassette maggio evidenziò con enfasi che il Blocco stava tenendo, e che stava rigenerando piano piano la Repubblica. Ma in aprile non passò in Consiglio un’istanza di Protogene Belloni, che comunque non apparteneva al raggruppamento socialista, teso a chiedere il mutamento del Congresso di stato più o meno con le stesse modalità che da anni stavano propugnando i socialisti. Da costoro la proposta venne appoggiata, ma alla fine venne bocciata per 17 voti contro 35.[130]

In maggio vi fu un’altra bocciatura mal digerita dai socialisti: per un solo voto non passò in Consiglio la sovvenzione al Consorzio delle Case Popolari. E’ il solito sistema della borghesia rurale che paventa tutto ciò che sa di moderno, che disconosce tutto che si presenta come nuovo bisogno sociale. (…) Se i signori Consiglieri del Gruppo democratico fossero più puntuali alle sedute, non vedrebbero paralizzata l’opera dei loro colleghi attivi e laboriosi da pochi voti di gente senza coscienza e senza cuore. Ciò serva d’esempio per l’avvenire se non si vuole mandare a picco nell’applicazione, buona parte del programma democratico, ammonì Franciosi in un articolo del 17 maggio.[131]

Sempre nello stesso mese il Consiglio si trovò di fronte ad una grana di natura costituzionale. Onofrio Fattori aveva presentato un’istanza in cui richiedeva che potessero divenire Reggenti anche i cittadini naturalizzati. Il Consiglio si trovò spiazzato davanti a simile richiesta, perché non sapeva se possedeva l’autorità per esaminare e risolvere problemi di natura costituzionale. Praticamente nella discussione sorsero tre ipotesi: la prima diceva che l’arengo del 1906 non aveva concesso facoltà al Consiglio di modificare nulla al di là del sistema di nomina dei consiglieri, quindi competente era solo l’assemblea dei capifamiglia in materia costituzionale; la seconda  sosteneva che il Consiglio potesse porre mano anche alle questioni istituzionali; la terza, quella socialista, avrebbe voluto utilizzare l’arengo come referendum a cui sottoporre i problemi costituzionali, ma anche di altro genere. Alla fine si giunse ad una votazione che, per 21 voti contro 10, stabilì che solo l’arengo poteva modificare le norme costituzionali, per cui il Consiglio si dichiarava incompetente in materia.[132]

Questa deliberazione permise poi di respingere un’istanza dei Repubblicani, capeggiati sempre da Manlio Gozi, che chiedeva l’autorizzazione per la Reggenza a non presenziare a funzioni religiose, se non lo avesse desiderato. Poiché anche questo venne considerato problema di natura costituzionale, il Consiglio decise di non deliberare in merito.[133]  

Invece il  nove giugno venne bocciata l’istanza di rimettere allo studio l’ipotesi di riforma tributaria già elaborata da Lorenzo Gostoli sette anni prima, proposta ripresa da Franciosi tramite un suo discorso pubblico del 1° ottobre 1913,[134] e avanzata al Consiglio con la speranza che venisse istituita una commissione per la sua analisi. Due consiglieri (Balducci Nullo e Ceccoli Marino) si opposero dicendo che, prima di creare nuove tasse, occorreva diminuire le spese di bilancio.[135]

D’altra parte questa era la teoria anche del contabile governativo che un paio di mesi prima, nella seduta consigliare del 18 aprile, aveva esposto il bilancio preventivo, che programmava entrate per 968.000 lire e uscite per 616.000, accompagnandolo con una sua relazione in cui diceva che l’utile registrato era dovuto soprattutto a entrate straordinarie, per cui occorreva usare molta cautela in futuro in quanto le tante spese che lo Stato aveva a causa dei suoi nuovi bisogni, e delle nuove infrastrutture cui stava lavorando, necessitavano di entrate più stabili, ma anche che venisse abbandonata quella spensierata ed allegra amministrazione che ancora caratterizzava le pubbliche finanze, esigendo che ciascun cittadino, di qualsiasi rango sociale, quando attinga dalle casse che custodisce il danaro di tutti, vi attinga con la coscienza sicura che quanto gli vien pagato è meritato, conforme a giustizia e adeguato compenso all’opera e al servizio reso alla Patria. Quest’ultima frase ci fa naturalmente intendere con chiarezza quanto fosse allegra e spensierata ancora la gestione del denaro pubblico.[136]

Franciosi e i socialisti erano però di altro avviso, considerando, come si è già detto, la riforma tributaria fondamentale da un punto di vista morale e sociale. Nonostante la grande pubblicità datavi e il lungo periodo di tempo concesso ai signori Consiglieri per studiare verificare pesare il progetto Gostoli – Franciosi sulla riforma tributaria in Repubblica – venne detto sul Titano del 14 giugno - questo non ha avuto neppure l’onore di un’approvazione in massima e di essere affidato allo studio di una Commissione consigliare. Nessuno, all’infuori della Reggenza e del relatore, ha preso la parola in proposito per darne le opportune spiegazioni e i dovuti schiarimenti. (…) Doveva pur sorgere a parlare in favore del progetto ogni buon Consigliere democratico, fu detto sul Titano del 14 giugno. Invece nulla era stato fatto: Alcuni consiglieri democratici han fatto dell’assenteismo pernicioso(…); altri Consiglieri han fatto dell’opportunismo di classe, perciò alla fine la proposta era naufragata per 23 voti contro 18. Dato il peso che i socialisti davano alla riforma fiscale, è chiaro che tale bocciatura dovette lasciare tanto amaro in bocca a parecchi, in primis a Franciosi, che era sempre stato il massimo sostenitore del bisogno di un nuovo sistema tributario più equo, ma pure dell’alleanza tra democratici. D’altronde, dopo la decisione subita, egli protestò animatamente in Consiglio, meravigliandosi che, mentre negli altri paesi si dà l’onore di rimettere allo studio qualsiasi progetto da qualunque parte politica promani, nella Repubblica si è dato con la superiore votazione un esempio che non si riscontra neppure tra uomini primordiali.

Comunque non vi furono proclami contro il Blocco, o accuse velenose verso nessuno: il Titano n° 26 del 28 giugno si limitò a dire in un articolo intitolato Congedo che, dopo 15 mesi a servizio dell’alleanza democratica, cessava le sue pubblicazioni e che sarebbe tornato ad essere da lì a poco il periodico dei Socialisti, cosa che avvenne invece solo quattro anni dopo, quando s’iniziò a ristamparlo in occasione del 1° maggio 1918. La redazione dichiarava di ritirarsi soddisfatta per ciò che era riuscita a fare in quel breve lasso di tempo.

Anche esaminando il San Marino del periodo non emergono per nulla i motivi che hanno determinato la scissione, ma soltanto i conflitti che c’erano in territorio tra Stato e Chiesa per colpa della legge sui benefici vacanti, le solite polemiche contro i democratici che volevano l’abolizione del costume della Reggenza e perciò stavano portando un attentato alla costituzione, rischiando di minare le basi costituzionali della Repubblica. Per conservare la Repubblica - venne scritto nel n° 11 del 7 giugno 1914 - è necessario conservare e rispettare le antiche leggi e le lodevoli consuetudini del suo popolo. Se la Repubblica conta ben 17 secoli di storia lo deve alla sublimità delle sue leggi. In definitiva il San Marino continuava nella sua logica ultraconservatrice, sostenendo che solo l’arengo poteva rinnovare la locale costituzione, non certo il Consiglio. L’annuncio della fine del Blocco il San Marino lo diede nel suo numero 6 del 5 luglio, limitandosi a dire che finalmente era giunto il momento dei cattolici e degli uomini dell’ordine, visto che considerava i suoi avversari politici solo fautori di disordine e di confusione.

Negli stessi giorni della fine del Blocco, e della chiusura del Titano, prese vita un altro giornale stampato dal locale gruppo repubblicano, La Repubblica nuova, diretto da Manlio Gozi. Probabilmente la sua nascita era legata ai fatti di questo periodo ed alla fine del Blocco. Infatti i repubblicani, che comunque non avevano mai assunto una vera fisionomia partitica, si ripromettevano di stare all’opposizione contro l’ostinato misoneismo dei conservatori e l’ira bieca dei clericali, non volendo appartenere ad una larva di democrazia. Inoltre proclamavano di voler laicizzare lo stato e di voler attuare tutte le riforme necessarie per migliorarlo.

Vi erano critiche anche per i socialisti i quali, per far parte di un gruppo informe, avevano rinunciato a battagliare, ma niente più e soprattutto niente sulla fine del blocco.[137] Comunque quanto promosso durante il periodo del Blocco Democratico si evolse anche dopo il suo scioglimento, tant’è che il 18 luglio vi fu  la promulgazione di una legge per gli infortuni degli operai sul lavoro, legge dal chiaro sapore socialista.[138]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII. 1914 – 1918: Il periodo bellico

 

 

Durante l’estate si cominciarono a far sentire gli effetti nefasti della prima guerra mondiale col rientro repentino in patria di numerosi emigrati per carenza di lavoro, o per paura di essere arruolati forzosamente. Anche qui il gruppetto socialista, con Franciosi in testa, si diede da fare nel mese di settembre per costituire un’associazione capace di fornire assistenza ai cittadini rientrati, che il più delle volte avevano bisogno di tutto.

Nei mesi successivi non accadde tant’altro degno di menzione, a parte che cominciò a crescere il timore che il paese potesse rimanere senza grano sufficiente a soddisfare i suoi fabbisogni. Nel Consiglio del 5 dicembre, quindi, venne stanziata una cifra per elevare ulteriormente le scorte che c’erano in quel momento, ammontanti a 1.700 quintali.[139] Vedremo che proprio intorno al problema del grano i socialisti dovranno combattere aspre battaglie negli anni seguenti.

Alle fine del 1914, precisamente il 20 dicembre, il gruppo socialista pensò di riunirsi  nuovamente per rifondare la Federazione.[140] In tale occasione, presenti 18 aderenti, fu deciso anche di contattare le leghe operaie per spiegare i propositi del gruppo. Nei mesi precedenti era entrata in crisi la sezione di Città, che aveva fatto la sua ultima riunione il 12 luglio solo per constatare che vi erano debiti e bisogno di fare cambiali, se si voleva andare avanti. Era però stata ricostituita la sezione del Borgo, che comunque soffriva di problemi analoghi, ovvero di scarsa partecipazione alle attività e di mancanza di fondi, quindi di identica precarietà. 

Dal programma varato il 20 dicembre e approvato all’unanimità dalla Federazione (appendice n° 5) appare evidente che i socialisti erano usciti dall’alleanza democratica perché insoddisfatti di come erano andate le cose nei quindici mesi di cogestione dello stato. E’ pure presumibile che l’anima rivoluzionaria, che spingeva per riforme forti e immediate, avesse determinato la rottura constatando che in campo istituzionale e in quello tributario non c’era nulla da fare per ottenere le innovazioni desiderate, perché i loro alleati, spesso appartenenti al ceto benestante e legati alla stessa mentalità conservatrice dei più, non erano disposti in questi ambiti a scendere a compromessi, così come rallentavano molto sul bisogno di laicizzare lo stato.

Dopo questa riunione, la Federazione socialista riprese la sua attività, anche se a rilento ed in maniera molto episodica. Il suo secondo incontro lo organizzò per il 23 aprile del 1915. In tale occasione Franciosi disse che l’assemblea delle leghe operaie aveva preso visione del programma proposto, approvando in linea di massima l’idea d’istituire la camera del lavoro. Fu poi discusso dell’opera dei socialisti negli ultimi anni, e venne evidenziato che quelle poche cose che erano state fatte si dovevano prevalentemente all’opera dei consiglieri socialisti, che comunque erano stati combattuti in tutti i modi, anche da parte dei democratici. Si decise poi di rompere ogni legame coi democratici i quali non avendo alcuna idealità non hanno alcuna base politica. Alla fine si constatò che, pur rinascendo, il gruppo socialista stava dando chiari segni di scarso entusiasmo e di disinteresse per  le gravi questioni che dovevano essere affrontate.

Un altro incontro venne fatto il 21 maggio per dire che non tutti i lavoratori si erano dimostrati d’accordo sull’esigenza di creare una camera del lavoro, e che occorreva andare presso le singole leghe per fare opera di sensibilizzazione. Fu anche stabilito di cercare alleanze con gli operai per affrontare le imminenti elezioni politiche, e di riavviare il Titano, che verrà da ora in poi denominato Nuovo Titano probabilmente per distinguerlo dal giornale moderato e “blocchista” dell’ante guerra..

Dopo tale riunione, tuttavia, la Federazione non riuscì a radunarsi più fino al 17 gennaio 1917, a dimostrazione che in questo periodo stava attraversando momenti veramente difficili. In effetti nei primi mesi del 1915 non è riscontrabile nessuna attività particolare da parte dei socialisti, al di là di un po’ di propaganda elettorale per le votazioni che si dovevano svolgere il 13 giugno per il rinnovo di un terzo del Consiglio. Iniziarono però una polemica in Consiglio sull’atteggiamento che San Marino doveva tenere nei confronti della guerra in cui stava per gettarsi anche l’Italia. Nella seduta del 22 maggio Ferruccio Martelli sostenne che si sarebbe dovuto inviare un messaggio di plauso e di solidarietà alle autorità italiane per il passo che stavano per compiere (le ostilità contro l’Austria scoppieranno solo due giorni dopo), ma Alfredo Casali, seguendo le orme dei socialisti italiani, in genere schierati per la neutralità, aveva dichiarato che la Repubblica doveva rimanere estranea al conflitto e augurarsi che terminasse in fretta.

La Reggenza decise comunque di spedire un telegramma.[141] In effetti molti sammarinesi si lasceranno coinvolgere nella retorica a favore della guerra, ed i socialisti verranno spesso accusati di disfattismo e di anti-italianità per il loro continuo atteggiamento di avversione ideologica al conflitto in atto. Queste accuse porteranno negli anni successivi ad aumentare quel solco che già li divideva dagli altri gruppuscoli politici, e a farli odiare ancor più da chi vedeva nella guerra un toccasana per l’Italia, come Manlio e Giuliano Gozi, interventisti convinti e futuri gerarchi del locale fascismo. In un suo discorso del 4 giugno 1915 a favore della guerra, Giuliano disse molto esplicitamente: Mentre piccoli uomini si dibattono in vane questioni dirette a far proclamare la neutralità dello Stato, affermiamo vigorosamente che sedici secoli di storia, se sono bastati a conoscere la nostra libertà, non valgono però a dividerci dal resto del mondo e a farci dimenticare di essere soprattutto italiani![142] Vedremo che vi saranno altre occasioni in cui Gozi manifesterà il suo malanimo verso i socialisti.

Nel Consiglio del 3 luglio Franciosi, Casali ed il neo eletto Gino Giacomini provocarono altre polemiche in Consiglio rivolgendo accuse ai Reggenti di aver dimostrato un atteggiamento troppo indeciso e mancante di fierezza nei confronti delle autorità italiane.[143] Era successo che l’Italia, diffidente più che mai in questo periodo verso San Marino, che veniva accusato di dar rifugio ai disertori, di nascondere i richiamati e di altro ancora, aveva inviato, di sua iniziativa e senza accordo preventivo, alcuni carabinieri per installare una caserma dentro i confini sammarinesi, così da avere un controllo diretto sull’operato della Repubblica. Inoltre aveva applicato la censura per la posta e chiuso le comunicazioni telefoniche, assumendo atteggiamenti molto intransigenti e coercitivi verso San Marino. Le autorità sammarinesi alla fine erano riuscite ad intavolare una trattativa ed a stemperare le tensioni, ma naturalmente erano dovute scendere a compromessi e andare incontro il più possibile alle richieste italiane, istituendo sistemi di controllo ai confini e fornendo periodicamente quelle informazioni che il governo italiano voleva ricevere. Da qui le accuse da parte dei socialisti, che torneranno sulla stessa polemica anche nel Consiglio del 10 agosto.

In quell’occasione poi ne scatenarono anche un’altra destinata a crescere nel tempo: quella relativa alla requisizione del grano. Fu Franciosi ad iniziarla col dire che i proprietari sammarinesi non dovevano approfittarsi della situazione bellica in cui si era per elevare ingiustificatamente il prezzo del grano, visto che loro, al contrario di quelli del regno italiano, non dovevano contribuire in nessuna maniera al finanziamento delle spese di guerra. Gli diede poi corda Giacomini che, parlando a nome del gruppo consigliare socialista, presentò una proposta in cui si ribadiva che i proprietari sammarinesi erano favoriti nella determinazione del prezzo della loro merce dalle particolari condizioni in cui versava l’Italia, ma non dovevano approfittarsene. Anzi, dovevano compiere un atto di utile patriottismo a compenso del privilegio singolare di cui godevano come cittadini di una Repubblica autonoma. Proponeva quindi l’istituzione di un ufficio annonario temporaneo per controllare la produzione ed esportazione del grano, la requisizione di 5.000 quintali di grano al prezzo di 35 lire al quintale, ovvero 10 lire in meno del suo costo in Italia, l’istituzione di tre spacci di granaglie e farina in Città, Borgo e Serravalle sotto il diretto controllo dell’annona, dove vendere tali prodotti a prezzi minimi. Chiudeva il suo intervento sostenendo che anche le altre derrate di prima necessità dovessero essere soggette a controllo per evitare che raggiungessero prezzi eccessivi.

La proposta naturalmente suscitò polemiche e proteste, ed un violento diverbio tra Franciosi e Domenico Fattori, ma alla fine il progetto di requisizione passò per 35 voti contro 5, mentre il discorso degli spacci, che comunque porterà gradualmente all’istituzione dell’Ente Autonomo dei Consumi nel 1918, non ebbe per il momento seguito.[144]

Nel Consiglio del 27 novembre Franciosi, membro dell’annona, ovvero l’ufficio preposto al controllo della requisizione, tornò a suggerire l’istituzione di una cooperativa per vendere i prodotti a prezzi bassi. Disse inoltre che la requisizione era proceduta bene  con i grossi proprietari, ma non con i piccoli che l’avevano osteggiata.[145] In realtà questa fu l’unica volta in cui la requisizione del grano non suscitò contestazioni troppo velenose e permise d’immagazzinare la quantità di grano prevista dal Consiglio. Nelle requisizioni successive, che comunque susciteranno sempre discussioni a non finire tra i consiglieri, e violente polemiche da parte dei socialisti, che accusavano il ceto padronale di pensare solo ai propri interessi anche in un momento tragico come quello, spesso non si riuscì a rimediare il grano per soddisfare il fabbisogno interno, determinando la necessità d’importarlo da oltre confine. Già nel Consiglio del 4 maggio 1916 si annunciò infatti che la requisizione non aveva dato la quantità desiderata e si era stati costretti a comperarne svariati quintali in Italia al prezzo di 41 lire.[146]

Il 26 giugno l’Annona, di cui faceva parte anche Giacomini, espose in Consiglio una lunga relazione in cui dichiarava che occorrevano precisi controlli sulla produzione del grano locale, ed un prezzo di requisizione non superiore alle 30 lire, o comunque inferiore di 4 lire del prezzo italiano, che era di 36 lire, sempre per i motivi che i produttori locali non pagavano tasse di guerra. Ovviamente scoppiarono nuovi livori tra i socialisti, in particolare Giacomini, e altri (Moro Morri e Ferruccio Martelli), perché il primo chiedeva pane a basso prezzo, mentre gli altri dicevano che i padroni, per colpa della guerra, adesso guadagnavano meno degli impiegati. Alla fine la proposta dell’Annona venne respinta per 29 voti contro 15, e si stabilì di requisire il grano al prezzo di 35 lire al quintale, cioè una sola lira in meno del prezzo italiano.[147]

Pure negli anni successivi ogni volta che in Consiglio si parlava di requisizione scoppiavano tumulti, sempre per motivi analoghi, e sempre tra socialisti da una parte e rappresentanti dei proprietari dall’altra. In pratica si può dire che se già prima degli anni in esame esistevano rancori tra queste due categorie, la guerra li accentuò infinitamente. Inoltre la posizione non interventista dei socialisti, che sempre si premurarono di criticare la guerra come mezzo per risolvere i problemi, non contribuì certo a procurargli simpatie, perché in paese aumentarono gli atteggiamenti interventisti e patriottici man mano che le ostilità si accrescevano e il suolo italiano veniva minacciato.

Quando perì il primo Sammarinese nel conflitto, ovvero Carlo Simoncini morto schiacciato da un masso il 6 luglio 1916 mentre stava scavando una trincea sull’Isonzo, vi fu una lunga e retorica commemorazione in Consiglio. Franciosi a nome del suo gruppo disse: Anche noi Socialisti, irriducibilmente avversi alla guerra che dissangua e distrugge e non sana e non placa, c’inchiniamo riverenti e commossi dinnanzi alla bella figura del carissimo concittadino Carlo Simoncini morto oltre l’Isonzo per una fede e per un’idea; in pari tempo sentiamo il bisogno di inviare un saluto alla memoria di tutti quelli che sono caduti sui fronti in questa tregenda sanguigna. Si porta da questa millenaria e pacifica Repubblica un augurio fervido per l’avvento prossimo d’una pace duratura e per un superiore vivere civile a base di giustizia e di fratellanza umana e universale.[148]

Quando poco dopo cadde un altro soldato di origini sammarinesi, Sady Serafini, morto combattendo sul Carso il 12 ottobre, vi fu un’analoga commemorazione consigliare,  e ancora una volta i socialisti ribadirono le loro posizioni pacifiste, pur associandosi alla commemorazione in atto.[149]

Questi comportamenti in un momento pieno di timori, di retorica e di esaltazione eroica ovviamente erano facili bersaglio di critiche e sfottò, per cui contribuirono senza dubbio ad aumentare l’avversione nei confronti del piccolo gruppo socialista che, come si è detto, in questa fase della sua storia era parecchio disorganizzato, privo di un giornale con cui far conoscere dettagliatamente alla popolazione il suo punto di vista e le vere posizioni assunte, incapace di riorganizzarsi in gruppo costituito, carente nelle strategie da portare avanti.

Continuando inoltre a mantenere una posizione di strenua difesa dell’indipendenza assoluta della Repubblica da ingerenze esterne, proseguirono nei suoi confronti frequenti accuse di anti-italianità. Abbiamo già visto le polemiche suscitate dai socialisti in occasione dell’invio dei carabinieri da parte del regno italiano. Una bagarre simile scoppiò di nuovo anche nel dicembre del 1916, quando Franciosi, Giacomini e Casali, nel Consiglio del 5, inoltrarono un’interrogazione scritta per conoscere dalla Reggenza se era vero che il console italiano, di sua iniziativa, aveva fatto scarcerare un presunto disertore arrestato in territorio sammarinese. Venne loro risposto che era vero, ma era stato tutto un malinteso, tanto che il disertore era stato imprigionato di nuovo.

Vorremmo pertanto che altri i quali vanno dietro a certi miraggi più o meno veri di patriottismo italiano sentissero al pari di noi, sebbene internazionalisti, il patriottismo di questa Repubblica, che vogliamo mantenere intatta, libera e sovrana, dichiarò Franciosi a nome del gruppo socialista.[150]

Una polemica analoga era avvenuta anche in marzo nei confronti dell’Austria, che accusava San Marino di aver rinunciato alla sua neutralità permettendo la partecipazione alla guerra, nelle armate italiane, dei suoi cittadini.[151] Quella volta era stato Giacomini a dire che occorreva risponderle ufficialmente che la piccola Repubblica ha la sua indipendenza da tutelare e deve in ogni occasione esercitare la sua azione di personalità politica e storica.[152]

Negli anni del primo conflitto mondiale, in effetti, al di là delle battaglie per la requisizione del grano, e delle polemiche a vantaggio dell’autonomia sammarinese, non vi è tant’altro da segnalare nelle rivendicazioni del gruppo consigliare socialista. Le idee portate avanti furono sempre più o meno le stesse del periodo precedente, frenate nell’impeto dal grave momento che l’Italia stava vivendo. Continuarono così ad attaccare il bilancio dello stato, sempre in bilico perché non si riusciva mai a rispettare le spese preventivate per colpa dei Reggenti o di altre autorità che frequentemente permettevano in maniera estemporanea spese non preventivate. Nel gennaio del 1916 Giacomini fece una lunga disquisizione in Consiglio contro il sistema di votare fondi straordinari per lavori pubblici, dati agli operai più per motivi di pubblica carità in momenti di scarso lavoro che per altro, senza alcun progetto o pianificazione a monte.[153]

Vi erano nel periodo serie preoccupazioni per la solidità del bilancio, perché la guerra, insieme ai lavori per i nuovi edifici scolastici, alle spese in genere che aumentavano sempre più, all’impossibilità di attuare un sistema fiscale in grado di far fronte ai nuovi bisogni, facevano presagire anni economicamente poco rosei, come in concreto lasciava supporre pure il bilancio preventivo per il 1917, che annunciava entrate per 882.162,07 lire e uscite per 1.037.998.82.[154] 

Nell’arengo di aprile fu il segretario Giuseppe Forcellini che presentò un’istanza, accompagnata da una proposta di legge, per trasformare il bilancio da flessibile a rigido. Questa richiesta scatenò viva discussione, perché Giacomini evidenziò che l’iniziativa era lodevole, ma non bastante: infatti occorreva mettersi nell’ordine di idee che era tutta la pubblica amministrazione da regolamentare nuovamente col definire i singoli ruoli, i poteri del Consiglio, del Congresso, ecc. Alla fine si decise di creare due commissioni per analizzare le questioni emerse e per proporre qualche innovazione.[155]

Probabilmente a causa di questa reviviscenza d’interesse verso le riforme costituzionali, i socialisti si dedicarono nuovamente alle loro rivendicazioni istituzionali, già in parte ideate negli anni precedenti, mettendo a punto un progetto dato alle stampe nel 1917[156] e portato in Consiglio il 30/4/1918,[157] di cui parleremo fra breve.

Questi furono anche gli anni della triste vicenda legata ad Olinto Amati, da sempre personaggio simpatico ai socialisti, e da questi più volte lodato come eminenza grigia della locale finanza, capace di portare alla Repubblica, come in effetti fece in varie occasioni, vantaggi economici anche di notevole entità. La grana nei suoi confronti scoppiò col Consiglio del 19 dicembre 1916, quando venne deciso di apporre i sigilli alla cassa del prestito a premi. Era successo, infatti, che ci si era accorti di notevoli ammanchi di cassa imputabili ad Amati, che da tempo imprecisato attingeva fondi per i suoi bisogni personali. In un incontro avuto con un paio di funzionari del Consiglio, Amati ebbe a dichiarare che aveva agito truffaldinamente perché travolto da disastrose operazioni finanziarie, dalla guerra e dalla infame accusa di spionaggio che mi ha privato dal credito e sconvolto. Fatto sta che egli venne arrestato con l’imputazione di appropriazione indebita, poi si tolse la vita nel giugno del 1917 per la vergogna.[158]

Il colpo fu grosso anche per il mondo riformista, perché da sempre i conservatori ed i cattolici accusavano gli uomini nuovi del Consiglio di essere affaristi immorali e privi di scrupoli. E’ chiaro che la vicenda Amati, che dei riformisti era un capo carismatico, ampliò il baratro che già esisteva tra i due schieramenti politici del paese. Lo stesso Giacomini si sentì in dovere di dichiarare in Consiglio che la vicenda lo addolorava moltissimo per la fiducia che era sempre stata accordata all’Amati, ma che gli uomini di fronte all’interesse pubblico non contano, ma solo conta la repubblica che deve rimanere sempre in alto.[159] Egli comunque imputava la vicenda più al casalingo sistema amministrativo sammarinese che ad altro. Quando nel 1919 la commissione d’inchiesta presenterà le sue risultanze sulla faccenda,[160] egli ne approfitterà per ribadire le sue posizioni sulla necessità della riforma tributaria dichiarando a nome dei socialisti: Come ora e come sempre la classe dirigente non ha voluto compiere il suo dovere di fronte allo Stato, preferendo ricorrere agli espedienti e di qui le fatali conseguenze e le sventure che oggi dobbiamo lamentare.[161]

Agli inizi del 1917 una quindicina di socialisti decisero di riunirsi nuovamente per uno scambio di idee sulla situazione locale, ma anche per ridare al partito Socialista una vita e una organizzazione propria distinta e integra, così da rendersi interprete della classe operaia, e rendersi assertore e propugnatore di una Repubblica Socialisticamente libera, e civile.[162] Come si è detto, la Federazione non si riuniva più dal 21 maggio 1915, ma alla fine la riunione si sciolse con la decisione di ricostituirla nelle sue piene funzioni.

Essa tornò a riunirsi il 18 maggio per parlare della requisizione del grano, che i socialisti volevano effettuata a prezzi molto inferiori a quelli italiani perché il locale mondo padronale era favorito da una bassa fiscalità e anche da una manovalanza a prezzi inferiori del circondario. Inoltre si parlò della scuola professionale che si voleva finalmente avviare.[163]

Una terza adunanza fu fatta il 4 novembre, presenti questa volta anche i giovani socialisti del nuovo circolo Jean Juarez.[164] Tutta la serata fu dedicata al problema di ricreare un organo di stampa e al metodo per rimediare i soldi necessari.

Nei mesi successivi si svolsero altre sei riunioni[165], poi la Federazione subì una trasformazione, causata dalla nuova alleanza consolidatasi con le Leghe operaie, divenendo Gruppo Consigliare Socialista Operaio. In tali incontri fu promossa una sottoscrizione a favore dei profughi di guerra, che procurò 1.600 lire, si ridiede vita al Titano, che riuscì già nel mese di maggio del 1918 ad avere 224 abbonati, vennero messe a punto alcune istanze d’arengo, si elaborò un programma da sottoporre alle leghe operaie per verificare se era possibile presentarsi insieme alle elezioni previste per il 9 giugno.

Dello stesso periodo ci sono giunti anche i verbali della sezione di Città, che il 24 maggio del ’18 tornò a riunirsi dopo quattro anni.[166] Fu proprio in questa riunione che si decise di trovare un accordo politico con le leghe operaie in funzione delle imminenti elezioni. Anche di questa tornata elettorale parleremo dettagliatamente fra breve.

Del 1917 non c’è molto altro da riferire. Nel mesi di marzo Franciosi a nome dei socialisti invitò il Consiglio ad inviare un fervido saluto ed un augurio di completa vittoria al popolo russo che si stava lentamente liberando dal potere assoluto dello czarismo, colpevole di grande sangue da ogni parte, di tante vittime e tanti martiri, desiderio che poi fu esaudito.[167]

Sempre in marzo la Società Unione e Mutuo Soccorso, ovviamente appoggiata dai consiglieri socialisti, il 18 presentò un ordine del giorno in cui domandava che di fronte all’incessante ed arbitrario aumento di tutti i generi di prima necessità ed alle minaccie di nuovi rialzi; di fronte alla speculazione delle classi detentrici che nella speranza di maggiori guadagni tolgono anche dal commercio generi necessari alla vita si procedesse ad una requisizione seria, sistematica e a prezzi equi dei generi di prima necessità e all’istituzione di un Ente Autonomo dei Consumi.[168]

In giugno Giacomini, da sempre contrario alle onorificenze, attaccò di nuovo il Consiglio per l’abitudine di darle con troppa facilità e frequenza, fatto che ne sviliva del tutto il valore e il senso.[169]

In agosto riemersero i soliti problemi intorno alla requisizione del grano. Praticamente in ogni Consiglio in cui si parlava di requisizioni scoppiavano tafferugli. Spesso la Reggenza era costretta a sospendere la seduta perché molti consiglieri, arrabbiati, si ritiravano facendo venire a meno il numero legale. Si era appurato che il fabbisogno dei Sammarinesi era di 23.622 quintali di grano annui, ma si perpetuavano le difficoltà a rimediarli a prezzi bassi e nelle quantità necessarie.[170]

Nel 1918, con l’avvicinarsi della fine della Grande Guerra, i problemi per San Marino aumentarono notevolmente, soprattutto quelli legati alla fragile e deficitaria situazione economica, al caroviveri, per l’inflazione galoppante, alla disoccupazione, dovuta alla carenza di lavoro e al rientro di centinaia di emigrati. Questi saranno i principali problemi a cui il partito socialista cercherà di fornire risposte, insieme alla riforma istituzionale che propugnerà in continuazione sia per rendere la Repubblica meno medievale, come spesso la etichettava, sia per cercare di creare strumenti politici nuovi capaci di aumentare la democrazia e lenire l’oligarchia che ancora, a suo giudizio, caratterizzava il paese.

L’anno si aprì con la morte, in data 22 gennaio, del vecchio segretario degli esteri Menetto Bonelli, uomo stimato anche dai socialisti. Sussisteva ora il problema di sostituirlo o di abolire tale carica, ipotesi già ventilata da un vecchio progetto di Gostoli di una decina di anni prima, che il gruppo socialista condivideva, perché in questo periodo tale carica era preposta a mansioni piuttosto modeste che potevano essere comodamente inglobate da altri uffici. I socialisti, inoltre, pretendevano che, se fosse stato mantenuta, venissero definiti bene i suoi compiti e funzioni, sempre per quel bisogno che avvertivano di creare una pubblica amministrazione meno caotica e più regolamentata. Vi era invece chi voleva mantenere la Segreteria così, chi voleva nominare il Segretario per chiamata, chi per concorso, e tante altre ipotesi ancora. Per tutta la prima metà dell’anno si discusse sul da farsi, finché, dopo ripetute votazioni, si decise di lasciare tutto com’era e di nominare per chiamata il giovane Giuliano Gozi. Costui, pur non venendo criticato come persona, non risultava gradito ai socialisti perché considerato uomo della borghesia: Gli agrari ed i loro accoliti perseguono l’intento di fortificarsi al governo, circondandosi di sentinelle vigili che paghino colla devozione il debito della gratitudine, dissero sul loro periodico, che nel frattempo era stato rigenerato col nome di Nuovo Titano. Inoltre l’elezione di Gozi, sempre secondo loro, era stata fatta calpestando leggi, diritti e convenienze.[171]

Nel Consiglio del 14 marzo si tornò a discutere animatamente dei problemi economici della Repubblica, perché Protogene Belloni presentò un suo lungo e articolato progetto finanziario che prevedeva un colossale prestito di otto milioni di dollari da parte dell’America con cui rifare praticamente il paese da cima a fondo. I socialisti naturalmente andarono su tutte le furie perché si continuava a pensare di  sistemare le finanze attraverso espedienti e stratagemmi, ma non tramite l’unica strada che per loro era da percorrere: la riforma tributaria. Non si stende la mano ad un altro popolo quando ci sono delle classi qui che non hanno cominciato a fare il loro dovere, dissero nell’aula consigliare. Noi non dobbiamo più vivere una vita parassitaria. Chi vuole godere la libertà in qualche modo bisogna che la paghi. Ovviamente del progetto Belloni alla fine non si fece nulla.[172]

Franciosi tornò alla carica con l’idea della riforma tributaria nel Consiglio del 30 aprile. Di nuovo grandi discussioni, ma ancora una volta tutto rimandato a tempi indefiniti.[173]

Un progetto socialista che riuscì invece a concretizzarsi in questo periodo fu l’Ente Autonomo dei Consumi, uno spaccio di generi di prima necessità la cui politica era quella di vendere a prezzi molto bassi, dietro tesseramento, per favorire i ceti più disagiati. L’iniziativa, che come si è visto era già rincorsa da tempo, prese vita da un’altra istanza presentata al Consiglio, questa volta dall’Associazione operaia, spalleggiata naturalmente dalla Società Unione Mutuo Soccorso e dai socialisti, il 1° dicembre 1917 e messa a punto all’interno di una riunione del 30 novembre. In questa occasione s’inoltrò al Consiglio anche un progetto di statuto/regolamento dell’Ente. La petizione venne sottoscritta da nove leghe, ovvero da quasi tutto il mondo operaio sammarinese. Il Consiglio si dimostrò favorevole alla proposta e l’approvò in data 20 aprile stanziando a suo vantaggio 50.000 lire.[174]

Nel giro di un mese l’Ente poteva contare già su 816 soci, tuttavia iniziò la sua attività il 1° settembre, dapprima con una sede in Città, seguita in breve tempo da una in Borgo ed un’altra a Serravalle. L’iniziativa riscontrò grande successo: già nei suoi primi quattro mesi di vita registrò un utile netto di 4.000 lire.[175] Negli anni successivi i suoi affari aumentarono ulteriormente, tanto che in una sua riunione tenuta il 2 febbraio 1921 si registrò che nell’anno appena trascorso aveva avuto un incasso complessivo di lire 1.067.787, con un utile di 47.015 lire. Di questo guadagno 1.500 £. vennero date alla nuova Camera del lavoro, a cui accenneremo fra breve, altre 1.500 all’erigenda casa del popolo di Serravalle, 700 per un asilo “laico” che si voleva costruire in contrapposizione agli altri asili del paese gestiti dai clericali, 1.000 per mandare fanciulli bisognosi al mare per curarsi.[176] Anche negli anni precedenti l’Ente investì parte dei suoi utili in opere umanitarie o a vantaggio delle iniziative di stampo socialista. Insieme all’Ente nacque l’Associazione dei consumatori, sempre con lo scopo di vigilare sui prezzi e la qualità delle mercanzie.

Di sicuro l’Ente dei Consumi non s’inserì nella società sammarinese senza creare qualche problema. In effetti la sua concorrenza diede non poco fastidio ai commercianti locali, che protestarono a lungo con le autorità, trovando naturalmente  appoggi e alleanze nei tanti nemici dei socialisti; tuttavia tali lagnanze non ebbero esiti immediati. E’ chiaro che la logica su cui era sorto l’Ente era antiborghese e filoproletaria, come la politica di requisizione del grano e di altri prodotti su cui c’erano già stati aspri scontri in precedenza, come abbiamo già detto, e su cui ce ne saranno ancora. Questo modo di fare fu parecchio inviso quindi al mondo possidente e padronale della Repubblica che, appena potrà, annullerà o affievolirà tali iniziative.

Nel 1918 vi furono le elezioni per rinnovare un terzo del Consiglio. Per la verità non passava anno in cui non ci fossero elezioni in qualche Castello, per il ricorrente problema di dover reintegrare il numero di sessanta consiglieri che non era mai completo. Tuttavia, per effetto della legge elettorale dell’epoca, le elezioni più importanti avvenivano ogni tre anni. Per affrontarle come meritavano, i socialisti pensarono di trovare un’alleanza con gli operai così da creare un forte gruppo capace di ottenere un buon successo.

Nella riunione del 14 maggio della loro Federazione misero a punto un programma da presentare alle leghe operaie, in cui ribadirono ancora una volta le loro proposte, più o meno sempre le stesse degli anni precedenti, ovvero: democratizzazione della repubblica in prosecuzione dell’opera iniziata con l’arengo, riforma della pubblica amministrazione sulla base del controllo dei pubblici amministratori, penalmente e civilmente perseguibili, elezione dei Reggenti per voto diretto, laicizzazione dello stato e introduzione del matrimonio civile, rigida autonomia e pari e dignitosa reciprocanza con l’Italia, valorizzazione delle capacità lavorative locali, utilizzazione delle forze idriche e delle ricchezze del sottosuolo,  impulso all’industria per risolvere il problema della disoccupazione, e per limitare l’emigrazione, sviluppo dell’assistenza e della previdenza sociale, assicurazione contro l’infortunio, la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia, legislazione protettiva dell’infanzia e del lavoro, incremento del turismo e sviluppo dei trasporti pubblici, avviamento alla socializzazione della terra con la formazione di un demanio pubblico costituito dalle proprietà governative e degli enti locali ampliato da graduali espropriazioni di interesse collettivo, regolamentazione tecnica della cultura e della produzione agricola, cattedra ambulante di agricoltura, riforma tributaria progressiva, imposta sui beni ereditari, estensione dei monopoli e servizi di stato, difesa dei consumi popolari disciplinando maggiormente gl’interventi di requisizione annonaria, sviluppo dell’ente autonomo dei consumi, incremento dell’istruzione popolare e dell’assistenza scolastica, istituzione di giardini d’infanzia e di biblioteche popolari, sviluppo della scuola professionale di arti e mestieri e d’istruzione agraria, cura dell’igiene pubblica, incremento del consorzio delle case popolari, legge sul risanamento igienico delle abitazioni coloniche.[177] Queste richieste caratterizzeranno il socialismo nostrano per gli anni a seguire fino all’ascesa del fascismo, e verranno quasi tutte puntualmente riprese e perseguite dopo il crollo del regime.

Alla fine di maggio vi furono incontri tra socialisti ed operai per definire la collaborazione politica ed i candidati da presentare. La linea politica si dimostrò azzeccata perché nelle elezioni del 9 giugno il Gruppo Socialista – Operaio, come si definì, entrò in Consiglio con ben 14 rappresentanti.[178]

Nel Consiglio del 20 giugno Franciosi volle fare una dichiarazione a nome del gruppo:

Egregi Colleghi, Le elezioni del 9 corrente hanno sensibilmente aumentato di numero il Gruppo, pel quale ho l’onore di parlare e che dalla volontà del popolo ha veduto approvare in modo così esplicito e caldo la sua opera e il suo programma.

Ho l’incarico di dire che incoraggiato in tale maniera dal consenso della maggioranza degli elettori nelle due principali circoscrizioni della Repubblica, il nostro Gruppo ha ragione di perseverare nell’indirizzo fin qui seguito e che voi tutti conoscete se anche non apprezzate il suo giusto valore.

Noi che siamo investiti dal mandato di rappresentanza del popolo lavoratore, interpretiamo i bisogni e le aspirazioni della Repubblica proletaria e siamo qui a difenderla, a garantirla nel suo divenire, a prepararle l’avvento futuro, qui dove voi – che siete maggioranza – esercitate la legge e il potere che sono strumenti di governo di un assetto sociale antico che deve modificarsi progressivamente a vantaggio della collettività.

Noi e Voi adunque abbiamo una funzione sociale diversa che esprime un contrasto d’interessi e di opinioni che ci auguriamo sia esercitata in modo fecondo e civile.

Cerchiamo scambievolmente d’intendere la legittimità delle nostre opposte posizioni, dei nostri opposti interessi.

Come noi comprendiamo che voi difendete un ordine di cose, un patrimonio d’idee che ha le sue ragioni storiche e morali di resistenza alle nuove correnti, così Voi dovete comprendere a vostra volta che l’opera di noi lavoratori del pensiero e del braccio non è determinata da interessi di categoria, ma sebbene di una forza nuova che matura nella società e che tende, nell’interesse morale ed economico più grande e generale, farsi largo nella vita sociale per modificarla e rendere la Repubblica corrispondente alle imperiose necessità dei tempi.

Se ogni parte intenderà la ragione legittima e logica di questo compito e ciascuna vorrà assolverla in modo civile, la Repubblica – che tutti amiamo – ne avrà vantaggio perché il bene non può scaturire che dal cozzo delle idee.

E’ certa in noi che la fiducia delle idee, che gl’interessi, che l’ansito di vita che noi interpretiamo, avrà col tempo la prevalenza. Frattanto sappiamo di essere una minoranza e come tale, senza ricusare quelle responsabilità che conseguono dall’esercizio del mandato che ci è stato conferito, noi restiamo nel nostro ufficio di opposizione, di controllo, di critica che è in ogni paese civile necessaria.

Lasciamo a Voi piena ed intera l’azione del Governo esecutivo, a Voi che siete maggioranza, a Voi che agite in una sfera di cose e di sistemi che non sono quelli che Noi auguriamo.

Per questo noi siamo decisi a non partecipare né alla suprema magistratura, né al Congresso di Stato; ciò è imposto a Noi e a Voi dalla nostra rispettiva funzione.

In altro terreno la nostra azione può coincidere con la vostra vantaggiosamente, e cioè nelle riforme del funzionamento amministrativo e della riorganizzazione dello Stato che ha d’uopo di effettuarsi con sollecitudine per il migliore e più felice andamento della Repubblica.[179]

I socialisti dunque si collocavano all’opposizione deliberatamente, dichiarando in pratica di non volersi confondere con il resto del Consiglio, salvo casi eccezionali. Il fallimento del Blocco Democratico aveva senza dubbio lasciato segni profondi, e l’atteggiamento isolazionista del gruppo socialista – operaio ne era la principale conseguenza. E’ chiaro, comunque, che con tale posizione, destinata ad inasprirsi ancor più, diveniva praticamente utopistico por mano alle grandi riforme cui miravano, in primis quelle istituzionali, su cui si discuterà a lungo nel ’18.

Come si è visto, nel 1917 i socialisti avevano presentato in Consiglio, tramite istanza d’arengo, un progetto per la riforma dei poteri pubblici che, pur essendo in parte anche temperato rispetto a quelle che potevano essere rivendicazioni tipiche della loro mentalità, ambiva comunque a mutare alcuni istituti secolari della Repubblica, come la Reggenza, ed altri più recenti, come il Congresso, ovvero, come lo chiamavano loro, il Consiglio di Stato.[180]

Lo stesso progetto, non essendo stato discusso in Consiglio perché la Reggenza non lo aveva mai portato, venne ripresentato nell’arengo del 7 aprile 1918. Esso mirava a rendere più moderna la locale costituzione distinguendo nettamente il potere legislativo da quello esecutivo e a creare finalmente anche a San Marino una maggioranza organica di governo. I socialisti, in prosecuzione alle riforme costituzionali iniziate nell’Arengo del 1906, volevano trasformazioni sostanziali. L’arengo infatti si era fermato al diritto di voto, ma riforme politiche ben più profonde ne dovevano essere il seguito. In realtà non vi si era mai giunti perché erano state bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati.

Secondo i socialisti, il sistema sammarinese nello spirito morale e politico che lo informa e nel criterio amministrativo che lo guida, era la negazione di una bene ordinata democrazia. A San Marino mancava infatti un governo vero e proprio e la Reggenza durava troppo poco per assumersi l’onere di fare riforme di un certo peso

Essi avrebbero voluto, come aspirazione massima, creare un presidente della repubblica con durata maggiore, eletto per consapevole e precisa indicazione della maggioranza, che avesse una fede, una volontà, un programma garantiti dal gruppo consigliare che si assumeva la responsabilità di pilotare la cosa pubblica. Questa soluzione era considerata quella ideale, però si sarebbero accontentati, come soluzione meno drammatica, anche di una Reggenza elettiva che avesse un mandato più lungo e che non dovesse seguire tutti i lavori politici, ma solo quelli più rappresentativi.

Il discorso sulla Reggenza era assai importante per i socialisti, perché in questi anni, in cui non c’era una vera e propria maggioranza di governo, ma maggioranze che si assemblavano all’occorrenza sui singoli problemi, e non c’era nemmeno un sistema burocratico ed amministrativo ben organizzato ed autonomo, i Reggenti, come nei secoli precedenti, avevano poteri molto più ampi di quelli che hanno oggi. Inoltre tutto ciò che si faceva o non faceva era legato al loro attivismo e alle loro capacità.  Da qui il bisogno di una Reggenza efficiente che fosse espressione di un gruppo di potere con intendimenti e progetti chiari e precisi.

Il Congresso inoltre doveva essere investito di funzioni di governo e diviso in dicasteri o deputazioni, cioè:

1)     affari politici e diplomatici, giustizia, sicurezza pubblica, milizia;

2)     finanze ed economato

3)     lavori pubblici

4)     istruzione

5)     annona, agricoltura, industria e commercio

6)     sanità e igiene

7)     stato civile

8)     poste, telegrafi, telefoni e comunicazioni

9)     beneficenza e assistenza

Esso doveva preparare le materie da esaminare in Consiglio e con cui fare le leggi. La Commissione di Bilancio infine doveva avere funzioni finanziarie fondamentali.[181] (appendice n° 6)

Il progetto venne discusso finalmente nel Consiglio del 30 aprile, dopo che i Capitani Reggenti vollero fare un invito alla cooperazione: La questione ponderosa che oggi viene agitata, non è né deve essere monopolio di alcuno, ma deve essere guidata dal consentimento di tutti compresi di un alto interesse pubblico che alle loro ragioni sovrasta, estraneo e superiore a qualunque competizione di classe e spirito di parte. La coscienza dei bisogni, la visione dei mali non può sfuggire ad alcuno, quale che sia la sua tendenza; e non può essere che unanime il desiderio di cooperare a quei provvedimenti che rispondono alle mutate condizioni politiche e trasformazioni sociali.

Giacomini sottolineò che concordava pienamente con la Reggenza  e che occorreva trovare l’accordo di tutte le parti del Consiglio, se si voleva arrivare ad una radicale riforma degli istituti locali di cui vi era impellente necessità. Siamo  di fronte alla mancanza di coordinazione. C’è la Reggenza la quale ha una vita troppo breve e non può dare espletamento al suo programma, costretta anzi a lasciare sospesi i migliori commi da essa progettati. C’è il Congresso di Stato che in embrione rappresenta l’unico organo amministrativo della Repubblica; ma non ha forza né autorità nelle forme in cui è eletto e nel modo in cui funziona. Tutti dicono che non si va e non si cammina, ma nessuno persiste nell’idea di fronteggiare la situazione e risolverla nel modo migliore. Si formi innanzi tutto l’amministrazione senza creare novità, ma rifacendosi ai principi che sono già in uso.

Intervennero in seguito alcuni degli uomini più carismatici del Consiglio, Babboni, Moro Morri, Protogene Belloni ed altri per sostenere che erano d’accordo sul bisogno di cambiare il sistema amministrativo, senza toccare però l’istituto della Reggenza. Alla fine fu accettato per 34 voti contro 4 di mettere mano alla riforma degli istituti amministrativi dello stato, evitando però di modificare quello della Reggenza. Fu deciso che nella seduta consigliare successiva sarebbe stata ricomposta una commissione per porre mano alla riforma.[182]

Come sempre succedeva a San Marino quando era ora di mettere mano a riforme piuttosto consistenti ed estremamente impegnative, si tergiversò a lungo e non fu nell’immediato nominata nessuna commissione per approfondire il problema. Nel frattempo i socialisti continuarono ad uscire dall’aula consigliare per ogni elezione semestrale  della Reggenza in segno di totale disaccordo sul metodo di nomina utilizzato.

L’8 novembre 1919 in Consiglio venne ridiscusso il problema giungendo finalmente all’istituzione della commissione suddetta. Vi fu prima ampia discussione, in particolare tra i socialisti e Giuliano Gozi, sempre più agli antipodi tra loro. Gozi, sorretto nel suo pensiero anche dal fratello Manlio, asserì che nelle riforme istituzionali si dovesse procedere con saggezza ed estrema cautela, perché sebbene vi fossero realmente istituti e uffici da riformare, nei Sammarinesi mancava totalmente  lo spirito di sacrificio, l’amore per la pubblica cosa, la forza di carattere. La popolazione tutto voleva e tutto si aspettava dal governo, ma non contribuiva a far funzionare quegl’istituti che potevano farlo con un minimo di buona volontà da parte di tutti. Tra l’altro molti tra i cittadini migliori non volevano avere nulla a che fare con la politica ed il Consiglio, mentre chi vi era coinvolto per non farsi odiare o crearsi nemici era costretto a dire sì a tutti. Per questo ai vertici del paese era giunta anche gente dalla moralità dubbia. L’egoismo, l’opportunismo, l’ambizione costituiscono una piaga che non può essere curata da nessuna riforma legislativa, ma soltanto dal riflesso salutare di nuove e ben educate generazioni. Da qualche tempo si era iniziato ad attuare riforme radicali, che d’un tratto hanno demolito nella Repubblica secolare il sistema patriarcale di famiglia di governo; inoltre per l’avvento al potere di uomini nuovi, il filo della consuetudine è andato sempre più smarrendosi sì che oggi la confusione trionfa.

Ovviamente l’attacco era contro i socialisti. Il discorso comunque è assai interessante se si mette in relazione al fatto che i Gozi saranno a capo del fascismo sammarinese, e cercheranno soprattutto di ripristinare proprio quel sistema di governo patriarcale di famiglia qui apologizzato.

Gozi proseguiva il suo discorso dicendo che ormai non erano chiare le funzioni di nessun istituto sammarinese e che tutti giocavano allo scaricabarile dichiarandosi incompetenti a prendere le decisioni più importanti e paralizzando così la vita dello stato. Concludeva suggerendo qualche riforma e ammonendo di far attenzione all’instaurazione di nuove oligarchie, sempre possibili quando si andava a toccare un sistema istituzionale che aveva dato buona prova di sé per tanti secoli. Si badi che la riforma certamente arrecherà dei vantaggi, ma ci esporrà anche a dei pericoli che sinora abbiamo evitati. Cito ad esempio alcuni casi augurando che siano sventati. Oggi chi decide per lo più è un organo collegiale, nel quale la responsabilità dei singoli componenti non è sentita, ed è un male; però in ogni singolo componente c’è maggiore possibilità di non soggiacere a minacce e corruzioni e quindi di ostacolare ogni ingiusta pretesa; e questo è un bene. Domani avverrà l’opposto: i termini saranno invertiti, ma il bene e il male si equilibreranno ugualmente. Ancora nei secoli passati l’Arengo si sentì numeroso e delegò i poteri ad un Consiglio dei LX; oggi il Consiglio dei LX si sente pur esso numeroso e delega i suoi poteri ad un Congresso dei X più ristretto, non avverrà che in un giorno più o meno lontano anche questo Congresso si senta numeroso e deleghi i suoi poteri a pochissimi se non ad un solo individuo? Nei tempi passati in seno al Consiglio si formarono delle oligarchie che ebbero il predominio nella cosa pubblica e che sono state abbattute; ma non vi pare in sostanza che si sia in procinto di costituirne una nuova? C’è una differenza però: la vecchia oligarchia si costituì, per forza di cose, di ottimati, di migliori uomini del Consiglio ed esercitò il suo predominio in seno al Consiglio; questa nuova invece verrà costituita per volontà di uomini sarà appartata dal Consiglio e forse non risulterà formata dei migliori uomini di esso. Infatti si osserva una spiccata tendenza nei Consiglieri di divedersi in gruppi, in sotto gruppi a seconda dei diversi principi e delle diverse influenze personali, ciascuno dei quali vorrà acquistare il Governo e coprire tutti i seggi del Congresso. Oggi un gruppo può farlo anche con persone mediocri, ma domani quando per ciascun seggio occorrerà una persona di speciale competenza lo potrà senza danno della Repubblica? Se non lo potrà, richiederà con fortuna le persone competenti ai gruppi avversi? E allora? Attenti alla dittatura! Sia dunque la riforma diretta a rinsaldare il buon sistema di Governo, ma sin dall’inizio sventi ogni e qualsiasi speculazione politica.[183]   

Gino Giacomini anche in questa occasione ribatté immediatamente con foga le tesi di Gozi, rispolverando per l’ennesima volta i soliti concetti propugnati dal suo partito. Tuttavia nei mesi successivi non si giunse a nulla in ambito istituzionale. Infatti i socialisti, esaltati da quanto stava accadendo in Russia, arrivarono ad assumere posizioni diverse rispetto agli anni precedenti. Adesso infatti si convinsero che non era più sufficiente attuare piccole riforme, ma occorreva abbattere del tutto il sistema borghese. La crisi della società borghese e di questa repubblica medievale per noi è definitiva. Non v’è riforma costituzionale che possa risolverla.[184] L’unica soluzione possibile era l’ascesa al potere del proletariato. Saltò quindi qualunque opportunità di fare riforme istituzionali, anche quelle su cui stava lavorando la commissione preposta. Solo dopo la seconda guerra mondiale, quando al governo della Repubblica andranno le sinistre, alcune delle riforme istituzionali auspicate dai socialisti potranno avere finalmente vita.

La novità del 1918 e soprattutto degli anni successivi fu indubbiamente il tono più radicale e massimalista, come si diceva all’epoca, assunto dal partito. D’altronde anche in Italia, nel congresso socialista svoltosi a  Roma proprio in quell’anno, aveva preso il sopravvento l’ala intransigente del partito, che subito aveva fatto un manifesto per istigare gli operai alla rivolta contro la borghesia e il regime che si era instaurato durante la guerra. L’ala riformista, più temperata, si trovava ormai in posizioni di assoluto subordine, ma aveva preso ugualmente la distanza dall’altra sconfessando le sue linee più estremiste. Comunque ora aveva innegabilmente meno peso nelle deliberazioni del partito.

Anche a San Marino il socialismo era sempre più caratterizzato da più anime e adesso quella che prevaleva e che prevarrà fino all’epoca fascista era proprio quella massimalista, ben personificata da Gino Giacomini, ma anche dalla maggior parte degli aderenti al partito. Pietro Franciosi, da sempre meno focoso di Giacomini e più legato ad un socialismo poco rivoluzionario e più parlamentare, disposto a cercare collaborazioni trasversali con gli altri gruppi politici, anche borghesi, per ottenere qualcuna delle riforme da lui tanto auspicate, accetterà per forza di cose e per evoluzione d’eventi in silenzio il massimalismo, anche se all’interno delle sporadiche riunioni socialiste di questi anni si discuterà varie volte della tendenza da assumere, ma prevarrà sempre ad ampia maggioranza quella massimalista, relegando i pochi “concentrazionisti”, come si chiameranno i socialisti moderati in questo periodo, in posizioni di netta minoranza.

Il desiderio quindi sempre più espresso sarà quello di favorire e proteggere gli sforzi che i lavoratori sammarinesi sentiranno il bisogno di compiere attraverso le varie forme dell’organizzazione di classe per assurgere da gregge brucante e belante alla dignità di popolo civile, così da creare una repubblica proletaria con la classe operaia al governo. Tuttavia si aveva piena consapevolezza che la classe operaia ancora non era pronta per assumersi un ruolo così impegnativo. Infatti la si reputava poco organizzata e troppo frammentata da divisioni interne per poter aspirare di andare al governo e sostituirsi alla borghesia, perché a San Marino non aveva potuto godere di alcun tipo d’industrializzazione, e questo ne aveva impedito un’adeguata preparazione e strutturazione. Per risolvere questo problema, e per poter coagulare tutti i lavoratori sammarinesi, compresi i contadini, che erano ancora in gran parte ostili al socialismo e fedeli alle classi conservatrici e clericali, si pensava che fosse indispensabile mettersi a contatto con le organizzazioni operaie dell’Italia e del mondo, e seguirne con fedeltà e coscienza le orme e le direttive, ed osservare i postulati proclamati nei Congressi nazionali e internazionali dalle rappresentanze del proletariato, insieme alla creazione di una Camera del Lavoro, antico pallino di Franciosi, in cui la massa operaia, attraverso alle singole organizzazioni di categoria, trovi l’organo capace di disciplinare le sue forze economiche e politiche liberate dagli egoismi particolaristici, dalle rivalità personali e dagli insani appetiti che costituiscono gli elementi disgregatori per eccellenza, per diffondere e infondere lo spirito fecondo ed epuratore della solidarietà di classe, destinato a confondersi ed integrarsi con l’altro più comprensivo della solidarietà sociale.[185]

Questo istituto, che doveva servire anche per inviare nel Consiglio i primi rappresentanti del proletariato organizzato sammarinese per difendere i diritti del lavoro contro ogni forma di sfruttamento, prese vita proprio negli anni in questione. Su tale argomento venne svolto il comizio del 1° maggio del 1918 e tanti altri comizi in giro per la Repubblica, così come tutta l’organizzazione della Camera fu ampiamente discussa e curata dentro diverse riunioni della sezione socialista di Città, che in questi anni continuava ad operare saltuariamente. Proprio nella sua adunanza del 14 dicembre 1918 si diede l’input definitivo alla costituzione della Camera, dapprima riunendosi varie volte con tutte le categorie operaie, che in data 16 aprile 1919 delegarono alla sua costituzione Giacomini, Franciosi e Alfredo Casali, poi cercando con meticolosità un segretario idoneo a tale compito gravoso e innovativo per San Marino.[186] Non ci sarà occasione, insomma, in cui verrà trascurato il desiderio di giungere alla creazione della Camera. Questo istituto ebbe qualche difficoltà a partire perché non fu semplice trovare un segretario stimato e reputato capace di rendere le categorie operaie sammarinesi, da sempre soggette al sottile veleno del corporativismo, unite e soprattutto più disciplinate e corrette.

D’altra parte la mira ora era quella di sostituirsi prima o poi alla borghesia che governava, accusata di essere parassitaria ed incapace di gestire la cosa pubblica se non mirando solo ai propri interessi. La maggioranza che siede in Consiglio si esime da ogni obbligo di organizzazione. In questo modo la classe borghese compie il sabotaggio della Repubblica, detiene il potere e si rende assente da esso, regna ma non governa; gode ma non paga, comanda ma non lavora. (…) Quel che chiediamo, quel che cerchiamo, nell’ordine stesso di una società che conserva i suoi più originali e antichi caratteri borghesi, è un governo, governo di classe, di fazione, di feudalità, sia pure armato di qualunque difesa contro il proletariato che sorge e si prepara, ma che abbia un sistema, una costruzione, un funzionamento e infine una responsabilità.[187]

Tali polemiche erano scaturite dalle gravi difficoltà che vi furono nei mesi estivi per radunare il Consiglio. In pratica dal 13 luglio esso era andato continuamente deserto per mancanza del numero legale fino alla fine di novembre. La causa di ciò era stata la seduta consigliare del 27 giugno, e l’ennesima discussione sulla requisizione del grano, che aveva determinato la sospensione della seduta stessa per le turbolenze scoppiate. In Italia infatti il grano veniva requisito a 120/150 lire al quintale, cioè ad un prezzo alto perché se ne voleva mantenere elevata la produzione. A San Marino si discuteva di requisirlo invece a 50/60 lire in quantità sufficiente a coprire il fabbisogno interno. Ovviamente i proprietari terrieri erano tutt’altro che d’accordo di svendere il loro prodotto a prezzi così bassi e si accapigliarono fortemente coi socialisti, con Giacomini in particolare che continuò ad accusarli di voler fare solo speculazioni e togliere il pane alla povera gente.[188]

Gli agrari, ormai in aperto dissidio, si riunirono alla Fiorina per conto loro. Nella seduta consigliare del 13 luglio si riuscì tuttavia a deliberare: per 25 voti contro 24 passò la requisizione a 50 lire al quintale. Da qui il boicottaggio dei Consigli fino al 26 novembre. Gli agrari parlarono di sopraffazione e tirannia degli uomini nuovi, mentre i socialisti sostenevano che c’era una classe borghese tardiva che stava impazzendo sempre più. Tra l’altro, pur riconoscendo che il prezzo di requisizione era basso, continuavano a sostenere che a San Marino le classi abbienti non pagavano praticamente tasse, contrariamente a quelle italiane, per cui potevano anche tacere se i loro prodotti venivano requisiti a prezzi inferiori.

Le requisizioni negli anni seguenti andarono quasi sempre maluccio, perché buona parte dei prodotti da incamerare prendevano di nascosto la strada per il mercato italiano, dov’erano meglio pagati. Non era facile per San Marino, con le scarse forze dell’ordine di cui disponeva (3 carabinieri), e un ufficio annonario composto da impiegati non professionisti a tempo pieno, controllare la produzione e lo stoccaggio dei prodotti agricoli. Le requisizioni verranno estese anche al vino, alle olive, all’olio e ad altri prodotti, così come verranno emessi tanti decreti per consentire ai Sammarinesi di avere prodotti a prezzi esigui,[189] ma esse forniranno sempre risultati inferiori alle aspettative e alle necessità del paese, tanto che nel 1919 la Repubblica sarà costretta ancora una volta a comperare derrate dall’Italia, nonostante che la produzione locale fosse ampiamente sufficiente per garantire il fabbisogno interno. Il 19 agosto di quell’anno vi furono anche tumulti provocati dalla requisizione del vino, poiché parecchi operai, arrabbiati dal fatto che i cantinieri continuassero ad esportare vino o a venderlo a prezzi superiori di quelli previsti per legge, si erano recati nella cantina del Borgo, insieme ai gendarmi e ad un’apposita commissione, per verificarne la quantità. Per evitare ulteriori pericolose polemiche, venne stabilito che il 40% delle giacenze fosse riservato alla cittadinanza col prezzo previsto dal calmiere.[190]

La scarsa collaborazione della classe padronale, accusata senza mezzi termini di voler affamare la gente e di pensare solo al proprio tornaconto anche in un momento grave per la Repubblica, farà montare su tutte le furie i socialisti, che accentueranno via via i loro toni antiborghesi esasperando al massimo le tensioni con i ceti che consideravano nemici loro e del popolo.

Un’altra battaglia che combatteranno, legata sempre al loro odio contro i borghesi, sarà quella fiscale, su cui premevano fin dal 1898, ovvero fin dai loro primi vagiti. In questi anni i socialisti batterono in continuazione sull’esigenza di istituire una riforma tributaria in grado di colpire soprattutto i più benestanti. Abbiamo già visto come questa richiesta sia stata alla base della spaccatura del Blocco Democratico nel 1915. I socialisti tuttavia presentarono l’ennesima istanza per istituire la riforma tributaria progressiva nella seduta consigliare del 30 aprile 1918, e Giacomini affermò che occorreva moralizzare il paese con un sistema moderno e più giusto d’imposizione, perché le tasse erano prevalentemente indirette e gravavano soprattutto sulle masse.[191] La riforma fiscale era considerata uno strumento di moralizzazione e di equità sociale, perché tutti avrebbero dovuto pagare in base al loro censo, e chi meno aveva meno avrebbe dovuto pagare, fino all’esenzione completa per i più poveri. La riforma, tra l’altro, era già pronta perché ai socialisti andava bene quella preparata da Lorenzo Gostoli fin dal 1905, mai entrata in vigore grazie agli espedienti economici in seguito trovati, in primis il prestito a premi.

E’ chiaro che, essendo tale lotteria ormai sospesa per il suicidio di Olinto Amati e per le mancanze di denaro imputabili proprio alla condotta dello stesso, ora si dovevano trovare nuovi introiti capaci di supplire al buco che si era venuto a formare nel bilancio pubblico e che aumentava di anno in anno. Come si è già ripetutamente detto, comunque, la riforma tributaria per i socialisti non era solo questo, ma lo strumento principale con cui si potevano ridurre, se non togliere del tutto col tempo, le differenze sociali legate alla ricchezza individuale, così da creare quella società comunista di uguali cui aspiravano in particolare in questi anni, quando l’esempio russo aveva creato grandi aspettative in tutti i socialisti d’Europa e del mondo intero.

Franciosi nel 1918 scrisse vari articoli sul Titano per esaltare il progetto Gostoli e per denunciare l’esiguità delle tasse dirette che si pagavano, appena 11.000 lire su 652.492 di entrate, ovvero una percentuale irrisoria rispetto a quella costituita dalle tasse indirette. Questa mortificante differenza si vorrebbe giustificata in Repubblica con un vieto pregiudizio, che con interessato artificio si tien vivo; che a Sammarino cioè non si debba applicare verun sistema tributario; altrimenti questo nostro Comune non si distinguerebbe a tutto rigore da quelli d’Italia. Di qui l’avversione generale alle tasse che è stata ingenerata con arte subdola nell’animo di molti per nascondere e conservare il più odioso dei privilegi – l’esonero della ricchezza da ogni peso – dando ad intendere alle classi povere e meno agiate che dalle tasse verrebbe colpito il loro lavoro e non la ricchezza…Menzogna ed audacia ad un tempo! Che contribuiscono a far sì che le tasse le continuino a pagare i poveri e i semipoveri su tutto quanto sono costretti a comprare per i bisogni della vita; mentre la ricchezza oziosa ed assorbente ne è esonerata. Quest’ultima affermazione si doveva al fatto che nelle campagne si stavano aizzando i contadini contro le tasse ed i socialisti che ne erano i principali sostenitori.[192]

Nel Consiglio del 28 dicembre 1918 se ne parlò a lungo, con pareri assai discordi. Moro Morri, dietro incarico dell’Associazione degli Indipendenti, un nuovo gruppo costituitosi alla fine di aprile di cui faceva parte, che rappresentava la maggioranza consigliare e che era avverso alla politica partitica, disse che era necessario fare sacrifici da parte di tutti, però per la scarsa ricchezza dei Sammarinesi non pensava che la riforma tributaria progressiva potesse sanare i problemi economici che vi erano. Invitò dunque il Consiglio ad evitare i grandi sperperi che lo caratterizzavano da sempre.

Giacomini gli rispose però che la Repubblica doveva evolversi come faceva il mondo intero e che la tassa progressiva era necessaria per colpire i più ricchi ed esentare i poveri, e ciò indipendentemente dalle condizioni del bilancio. Disse inoltre che la maggioranza rappresentava una squallida borghesia che non doveva continuare ad accanirsi contro i socialisti che combattevano le grandi ricchezze, i tesori accumulati dalla guerra, gl’indebiti lucri. Se non si voleva naufragare, si dovevano compiere simili sacrifici.

Alla fine venne votato un ordine del giorno che prevedeva forti economie, limitazione degli sperperi, riforma del sistema tributario in modo giusto ed equo perché i cittadini contribuiscano alla vita economica del paese. La Reggenza fu incaricata di trovare persona competente per elaborare un progetto perché quello di Gostoli era considerato non più confacente ai tempi.[193] Nel giugno dell’anno successivo si affiancò ai consulenti economici italiani reperiti una commissione di cui faceva parte Franciosi e, per suggerimento dello stesso, anche Gostoli.

Nel frattempo i socialisti continuavano a martellare in tutte le sedi possibili urlando che la Repubblica doveva finalmente uscire da una politica economica da sempre basata su espedienti, tombole, abilità da pitocchi, che erano solo mezzucci  da sostituirsi in fretta con mezzi onesti, dignitosi, proprii.

Per contrastare la riforma fiscale, ad un certo punto rispuntò di nuovo l’idea di riconvocare un arengo, idea ancora una volta non scaturita dagli ambiti progressisti del Paese, ma da quelli conservatori riuniti in assemblea a Serravalle agli inizi del 1919, che pensavano tra l’altro di verificare se il nuovo sistema politico instaurato nel 1906 andasse bene, o se meritasse rivederlo tornando magari all’antico. Ovviamente i socialisti in questa occasione lo osteggiarono dicendo che prima occorrevano serie riforme, poi lo si sarebbe potuto anche convocare come assemblea costituente. Alla fine però l’ipotesi venne lasciata cadere e di arengo non si parlò più fino alle elezioni del 1920.

Nei mesi successivi la commissione studiò il problema accettando in linea di massima il progetto Gostoli, con la riserva però di sottoporlo a Concino Concini, che aveva già prodotto per la Repubblica un progetto di organico degli impiegati nel 1910. Questo fatto, insieme alla scarsa volontà da parte di molti di renderla davvero esecutiva, allungò il suo iter. Solo agli inizi del 1920, infatti, risulta che Concini l’avesse studiato e stesse per riunire la commissione per sottoporle i suoi giudizi. Nel mese di giugno il Titano fece sentire le sue critiche perché si stava andando troppo a rilento nell’elaborazione del progetto fiscale; tuttavia nello stesso mese venne fatto un decreto reggenziale con cui veniva stabilito che i periti addetti alla catastazione avevano libero accesso alle proprietà private pena una multa a chi lo avesse impedito, segno certo che si stavano inventariando i beni che dovevano costituire la base imponibile del nuovo sistema fiscale. Il 18 settembre del 1920 il Consiglio venne sciolto e si fecero elezioni anticipate, per cui la riforma tributaria venne rimandata ancora. Nel Consiglio nuovo scaturito dalle elezioni del 14 novembre, i 18 socialisti non entrarono per motivi che si spiegheranno più avanti, per cui ci si limitò, nel 1921, ad aumentare alcune tasse indirette, suscitando le ire come sempre dei socialisti, e a bandire un prestito forzoso che diede comunque risultati modesti ed insufficienti ai fabbisogni del periodo. La nuova riforma fiscale venne promulgata solo il 16 marzo del 1922 dopo che era stata riveduta ancora, questa volta dal ragioniere Alessandro Rizzoli.[194]

Questa legge comunque non era proprio quella auspicata dai socialisti: Il progetto non corrisponde ai criteri che noi abbiamo in materia fiscale, da applicarsi in un paese piccolo e nuovo per le tasse come il nostro, dichiarò Franciosi in un articolo del 19 marzo del ‘22. Il Consiglio veniva accusato di aver voluto salvaguardare gl’interessi di alcune categorie, di non aver voluto adottare il sistema semplice di Gostoli, ma di aver prediletto un progetto misto, un po’ complicato per non dire faragginoso, parte a imposta normale a base proporzionale e parte a imposta complementare a base progressiva. Inoltre era stata radiata completamente la tassa che riguardava i patrimoni; e ciò per sinistra influenza di quei signori democratici che hanno fatto ancora una volta i loro interessi, sostenendo il sacro diritto della proprietà inviolabile ed intangibile. Invece era questa la parte migliore del progetto, perché l’imposta patrimoniale è di facile applicazione e di sicuro rendimento. Seguivano anche altre critiche, ma in sostanza si può sintetizzare che la riforma varata non dava vita ad un sistema tributario in grado di colpire i grandi capitali e di creare quell’equità sociale cui i socialisti miravano come esigenza prioritaria.[195]

Altra iniziativa promossa dai socialisti in collaborazione con la Società Mutuo Soccorso, che comunque era costantemente sotto la loro influenza in questi anni, fu la scuola di arti e mestieri che prese vita tramite un’articolata relazione letta nella seduta consigliare del 16 marzo 1916. Questa iniziativa, oltre a qualificare mano d’opera specializzata ritenuta indispensabile per le future industrie che si volevano impiantare a San Marino, soprattutto per dar lavoro alla troppa manovalanza disoccupata di questi anni, serviva sempre per quel progetto complessivo dei socialisti che voleva innalzare in genere il livello culturale della classe operaia in attesa dell’imminente suo ingresso ai vertici della società, ascesa che era considerata entusiasticamente, ma anche con una buona dose d’ingenuità, imminente. La scuola comunque iniziò le sue lezioni il 23 gennaio 1919 con tredici iscritti, di cui saranno promossi in sette. Negli anni successivi il numero degli iscritti scemò sempre più, perché le famiglie degli studenti spesso non sostenevano i loro figli per tutti gli anni di scuola (3 + 2) necessari per diventare abili e qualificati artigiani, mandandoli a lavorare prima e facendo loro dunque disertare le lezioni. La scarsa affluenza alla scuola, insieme indubbiamente al nuovo clima politico che caratterizzò San Marino nei primi anni ’20, fecero sì che essa venisse ufficialmente soppressa alla fine del 1922.[196]

Nel 1918 si accentuarono ulteriormente le polemiche tra socialisti e nazionalisti per colpa della guerra in atto. Negli anni precedenti, come si è già evidenziato, anche in Repubblica si erano formati schieramenti d’interventisti che inneggiavano alla partecipazione bellica dell’Italia, beandosi dei fiumi di retorica che sull’argomento stavano scorrendo. Senza dubbio i più accesi interventisti erano Giuliano e Manlio Gozi, due personaggi che poi diventeranno figure chiave del fascismo sammarinese. Durante il periodo bellico non pochi saranno gli scontri tra socialisti, il cui atteggiamento era quello del non aderire né sabotare, ovvero erano schierati sulle stesse posizioni dei socialisti italiani, e i Gozi. Sul Titano frequentemente ci saranno sfottò e attacchi nei loro confronti, in particolare di Manlio, che dai socialisti era considerato una sorta di traditore perché da posizioni repubblicane ed anticlericali, si era schierato con i preti contro di loro, disertando e passando armi e bagagli sotto le ali candide e protettrici di Don Mularoni, perché nel giugno del ’18 era stato eletto in Consiglio presso la circoscrizione elettorale, controllata dai cattolici, di Faetano. Questi scontri da ideologici diverranno personali, come spesso accadeva e accade in un paese piccolo e provinciale come San Marino, ed ebbero non poco peso nell’odio che poi caratterizzerà il fascismo nei confronti di chi gli era avversario.

Un episodio caratteristico di questo scontro ce lo racconta il Titano del 21 luglio,[197] che scatenò polemiche contro due  monopolizzatori di patriottismo, ovvero i Gozi,  che durante un concerto in Città erano stati fischiati e mandati via, almeno stando a quello che dice l’articolista. Essi erano andati dal console italiano per dipingere la Repubblica come un pericolosissimo covo di traditori, di disfattisti e di bolscevichi, rinforzando l’immagine che della stessa stavano dando alcuni giornali italiani. Il Popolo d’Italia, infatti, nello stesso mese aveva sparato su Giacomini e i socialisti accusandoli di disfattismo, ma Giacomini aveva risposto tramite lettera dicendo che, pur avverso alla guerra, non aveva mai pronunciato frasi irriverenti per rispetto al grande sforzo bellico che stava facendo l’Italia. Lo si accusava di aver detto Non un soldo, non un indumento per i combattenti. Secondo lui invece erano alcuni Sammarinesi che spargevano veleno nei suoi confronti e nei confronti dei suoi compagni. Comunque gli attacchi dei giornali italiani continuarono, tanto che il 29 luglio il console italiano Gori si sentì in obbligo di far affiggere un pubblico manifesto per comunicare che non aveva mai ispirato accuse o attacchi a San Marino o ai suoi partiti politici sui giornali italiani, così come si andava dicendo.[198]

Simili polemiche continuarono anche in seguito, alimentando quell’antisocialismo, e soprattutto quell’odio e quel desiderio di vendetta verso i suoi uomini più rappresentativi, Giacomini e Franciosi in testa, che esploderà pienamente nel ’22 con la presa del potere da parte dei fascisti.

Un altro episodio degno di attenzione, se non altro perché mai evidenziato da nessuno, avvenne nel Consiglio del 16 settembre 1919.[199] In tale occasione il neo eletto Giuliano Gozi, mentre si stava discutendo di lavori pubblici, disse che la classe operaia era aumentata a dismisura, passando da 150 a 500 unità, e questo aveva ampliato il bisogno di fornirle lavoro, facendo dilatare i costi legati proprio ai lavori pubblici che in cinque anni erano passati da 200.000 a più di 1.000.000 di lire. La colpa era senza dubbio da attribuirsi all’aumento dei prezzi della mano d’opera, ma soprattutto all’ingrossamento del ceto operaio. Per scopi elettorali e politici si sono tolti i contadini dalle campagne per iscriverli nelle leghe operaie, si sono eccessivamente protetti tanti cittadini dubbi e che non ricordavano nemmeno più di essere tali e di poterlo divenire, per iscriverli ugualmente nelle leghe operaie.

Ovviamente la critica era diretta ai socialisti (accuso voi, socialisti, che li avete guidati e li guidate e che mostrando di fare il loro bene avete loro procurato niente altro che male ed insieme male alla Repubblica) che, anche grazie alla politica annonaria che stavano perseguendo, continuavano a favorire la fuga dalle campagne: Il contadino, lavoratore per eccellenza, che è danneggiato dalla politica annonaria come il grasso borghese e forse più, diserta e diserterà la campagna, attratto dai più lauti guadagni del bracciantato. Gozi era convinto comunque che vi fosse un sistema per porre rimedio: Occorre riparare subito con savi provvedimenti, se vogliamo salvare la Repubblica dal precipizio, e soprattutto con la retta scuola di educazione morale politica e civile.

La filippica di Gozi scatenò all’istante la reazione veemente di Giacomini, che naturalmente si sentiva attaccato in prima persona, e che perorò la causa della classe operaia, fortemente disoccupata in quel frangente storico e con gravi difficoltà anche di semplice sopravvivenza. Il governo aveva gravi colpe in questo, disse, perché non si era mai pensato di utilizzare la classe operaia a lavori produttivi e maggiormente remunerativi con sgravio del Bilancio dello Stato. Era assurdo poi anche l’altro teorema di Gozi sui contadini, perché erano stati i padroni a costringerli a fuggire dalle campagne col non concedere nulla, col non incrementare l’agricoltura le quali deficienze hanno spinto i giovani contadini ad uscire dalle famiglie per emigrare in Paesi stranieri in cerca di lavoro più remunerativo. (…) Bisogna guardare bene il problema, studiarlo e risolverlo. Noi abbiamo qui una densità di popolazione che non trova posto. C’è l’economia agraria arretrata e bisogna sollevarla, ma siccome la classe agraria non vuole e non può così soltanto quando la proprietà sarà collettiva si avranno i dovuti miglioramenti e si avrà lo sviluppo dell’agricoltura connesso all’industria.

Poiché Gozi aveva accusato i socialisti di non voler collaborare in alcuna maniera al governo sammarinese e quindi al miglioramento del paese, Giacomini gli rispose che il gruppo socialista aveva un programma sociale che tende di modificare le basi della Società. Come può oggi entrare al potere non avendo la maggioranza? Oggi dovrebbe fare il giuoco degli avversari senza dignità per nessuna delle parti. I socialisti dunque rinunciavano a qualunque collaborazione e stavano alla finestra per vedere, ovviamente senza crederci, se i loro avversari erano in grado di fare le riforme istituzionali e di altro genere di cui la Repubblica necessitava.

Gozi rimbeccò ancora dicendo che il sistema istituzionale sammarinese era ottimo, visto che il paese era arrivato libero e sovrano fin lì, e che le riforme promosse con l’arengo del 1906 stavano rischiando invece di farlo precipitare in un baratro. Il Sig. Giacomini è sicuro che dopo le riforme si camminerà meglio di prima? Io ne dubito perché ritengo che una sola riforma possa essere utile e veramente efficace; ma una riforma che non si può attuare, qual’ è quella di trapanare tutti i crani dei sammarinesi per insinuarvi un nuovo cervello con una nuova coscienza. Perché a S. Marino, coscienza, amor patrio, buon senso, sono spariti per la erronea educazione che da 20 anni a questa parte si impartisce. Riformiamo pure, ma troveremo gli uomini idonei a reggere gli istituti? Educhiamo, perché educare soprattutto bisogna, politicamente e civilmente.

Alla fine la discussione si placò, ma è ben evidente che i socialisti stavano combattendo una battaglia molto delicata, contro uomini e mentalità legatissimi al passato, alla tradizione, alla dimensione politica patriarcale che esisteva prima dell’arengo del 1906, personaggi che imputavano a loro e solo a loro tutti i mali del paese, e che erano pronti a fargliela pagare alla prima occasione. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII. 1919 – 1922: Gli anni massimalisti

 

 

Negli anni in esame i socialisti continuarono a darsi molto da fare per divulgare il loro verbo in tutto il territorio. Essi godevano di molti simpatizzanti nei Castelli di Città e Borgo, ma nelle campagne il ceto rurale era ancora pressoché interamente sotto il controllo del clero e del padronato. Queste furono le zone puntualmente battute per svolgere la loro propaganda. Sicuramente gli oratori più infaticabili furono Franciosi e Giacomini, che non perdevano occasione per urlare il loro credo ai quattro venti.

Essendo entrambi insegnanti, la cultura era per loro una priorità assoluta per le masse. Infatti erano del tutto convinti che senza una educazione alle idee del socialismo e senza un’elevazione culturale degli operai e del popolo in genere, tra cui le donne, considerate del tutto asservite alla cultura cattolica, non vi sarebbe mai stato il tramonto del vecchio sistema politico e della classe borghese che deteneva le redini del potere.

Furono decine, centinaia i comizi svolti da loro nei primi vent’anni del socialismo sammarinese lungo tutto il territorio, ma anche all’esterno dei suoi confini. Spesso vennero anche minacciati per questo loro attivismo, rischiando a volte di essere malmenati. Ma continuarono imperterriti, convinti di essere nel giusto, certi di essere gli epigoni di un futuro più equo e roseo. A volte questi comizi erano rivolti ai pochi contadini di qualche modesto borgo di campagna, a volte invece, come spesso succedeva per il 1° maggio, festa dei lavoratori, venivano ascoltati da centinaia di persone. Un grosso comizio fu quello del  23 febbraio 1919, per esempio, a cui presenziarono più di 400 operai. Parlò Franciosi, per dire che la locale classe padronale era arretrata e non aveva ancora saputo progredire passando dallo stato agricolo alla fase industriale. Inoltre non aveva neppure saputo migliorare il patto colonico costringendo così molti contadini a fare altri lavori e ad emigrare. Ora però in tanti erano rientrati trovandosi disoccupati. La valvola dell’emigrazione non era più sufficiente, così come i lavori pubblici. La soluzione quindi era la riforma tributaria e l’impianto di qualche fabbrica, ma i vari progetti elaborati negli anni in merito per un motivo o per un altro erano tutti tramontati.

Giacomini, altro oratore, sostenne che il governo era in mano agli agrari e che senza organizzazione da parte degli operai le cose non sarebbero cambiate. Occorreva una camera del lavoro per rendere consapevole e forte dei suoi diritti e doveri la nostra classe operaia, che fin qui visse come un gregge. Era l’unico sistema per farla emancipare. Alla fine, come spesso succedeva, venne emanato un ordine del giorno da presentare alle autorità con le tipiche richieste socialiste di questo periodo: dare un assetto veramente democratico al governo a mezzo della riforma istituzionale, difendere, tramite adeguata legislazione, i consumi, produrre una riforma tributaria progressiva reclamata da ragioni morali, giuridiche, economiche, finanziarie e ad inizio di un’era di giustizia, lenire la disoccupazione con l’avvio di lavori che non rappresentino una carità mal fatta e sprecata, favorire al più presto l’impianto di qualche industria locale, visto che ancora non ce n’era praticamente nessuna e se ne sentiva un gran bisogno soprattutto per creare posti di lavoro.[200]

Un’altra iniziativa messa in opera dai socialisti, sempre per divulgare con tutti gli strumenti possibili il loro verbo, fu la cosiddetta Fanfara Rossa, erede della Fanfara del Libero Pensiero degli anni precedenti, con cui si andava nei Castelli rurali a portare musica, allegria e politica. Essa debuttò l’11 maggio del 1919 promovendo una passeggiata a Ca’ Berlone, dove parlò Franciosi. Qualche settimana dopo la troviamo a Chiesanuova, dov’era stata trasportata in camion; qui  tennero comizi sempre Franciosi in compagnia di Giacomini e di Giuseppe Forcellini, segretario di Stato, ormai apertamente schierato su posizioni socialiste.

Anche diversi giovani continuavano ad impegnarsi per il partito dall’interno del loro circolo J. Juarez, capeggiato da Valdes De Carli e Alvaro Casali. A parte i comizi, le iniziative culturali promosse dal circolo, e l’aiuto che cominciarono a dare ai capi storici affiancandoli nella loro opera di divulgazione del credo socialista, una loro prerogativa era quella di organizzare i veglioni rossi, che servivano anche per racimolare soldi per la causa socialista.

Tanta operosità e tanto zelo, insieme alla naturale evoluzione dei tempi, portarono indubbiamente a conseguire risultati importanti, come la cultura dello sciopero che iniziò a manifestarsi a San Marino proprio in questi anni. La storia ci ha lasciato parecchie tracce di manifestazioni dei sammarinesi contro iniziative del governo, come quella avvenuta contro la legge organica per gl’impiegati del 1910, o di protesta in genere, come il corteo di un centinaio di persone che il 9 novembre 1918 aveva rumoreggiato davanti al Palazzo Pubblico contro il caroviveri e l’inflazione galoppante. Tuttavia il primo sciopero ufficiale in Repubblica venne fatto dall’Associazione Impiegati per 24 ore il 26 novembre del 1918 per chiedere aumenti di stipendio, visto che le paghe degli impiegati erano in loco particolarmente basse, anche se i socialisti sostenevano che molti di loro erano stati assunti in maniera clientelare, cioè senza una vera necessità da parte dello stato, e che occorresse calarne il numero perché erano troppi. Questa polemica era senz’altro legata anche all’annosa diatriba che esisteva tra operai ed impiegati, perché i primi reputavano gli altri dei pseudolavoratori che gravavano già troppo sul bilancio statale.

Un altro sciopero venne organizzato dai socialisti per il pomeriggio del 5 luglio 1919 contro il caroviveri: un gruppo di operai si recò a protestare sul Pianello, dopo che Franciosi aveva svolto sullo stesso argomento un comizio al mattino.

La manifestazione più imponente dell’epoca fu comunque organizzata per il 20 e 21 luglio 1919, quando il gruppo socialista aderì allo sciopero generale internazionale per chiedere il ritiro delle truppe alleate da Russia e Ungheria, sciopero indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro e dal partito socialista italiano, in accordo con le organizzazioni politiche ed economiche inglesi, francesi e belghe. La partecipazione alla manifestazione risultò superiore alle aspettative degli stessi organizzatori. Infatti, ad eccezione di alcuni impiegati, si astennero dal lavoro tutti gli operai, i braccianti, gli artigiani e i negozianti a dimostrazione che ormai la cultura dello sciopero era ben diffusa.[201]

Ancora uno sciopero fu proclamato nel marzo del 1920 dagli operai delle vigne Manzoni-Borghesi. Questo fu il primo sciopero gestito dalla Camera del Lavoro, il cui battesimo ufficiale era avvenuto il 7 febbraio precedente. Inizialmente i padroni non avrebbero voluto trattare con la Camera non riconoscendole nessuna valenza, poi però decisero di scendere a patti e di venire incontro ad alcune rivendicazioni dei loro operai, visto soprattutto che l’astensione dal lavoro durava ormai da molto tempo. Ovviamente il Titano ed i socialisti urlarono subito alla vittoria, sbandierando ai quattro venti come l’unione facesse la forza e come fosse indispensabile per il mondo operaio abbandonare le divisioni e le invidie interne per aderire compatto alla Camera del Lavoro e per prepararsi a salire ai vertici del Paese.

Un altro sciopero, sempre appoggiato dalla Camera, avvenne un mese dopo tra le addette alla mondatura delle erbacce tra il grano; fu il primo sciopero femminile della Repubblica. Un altro ancora, sempre deciso all’interno della nuova Camera del Lavoro, venne proclamato per il 15 febbraio 1921 contro la forte disoccupazione e per altri motivi ancora. [202]

Nel 1919, a parte ciò di cui si è parlato, non avvenne tant’altro degno di essere registrato in questa sede. I socialisti rimasero sulle posizioni e sulle rivendicazioni già messe a punto negli anni precedenti, senza aggiungere toni o concetti troppo diversi o particolarmente innovativi. Nel paese aumentarono un po’ le polemiche sui rifugiati politici cui San Marino stava dando sempre maggiore ospitalità, polemiche che comunque erano già apparse sporadicamente su alcuni giornali italiani anche l’anno precedente. Tra il 7 e il 13 giugno 1914 era avvenuta l’insurrezione romagnola-marchigiana nota col nome di “Settimana rossa”, una rivolta politica e sociale a carattere antimilitarista che aveva provocato non pochi tumulti e pure qualche morto. L’evento favorì il riparo a San Marino di molti insorgenti, che comunque sfollarono dopo breve, quando seppero di non essere ricercati dalla polizia. In territorio sammarinese rimasero solo coloro che erano stati incriminati per qualche motivo. Probabilmente il più famoso di tutti era Giuseppe Massarenti, sindaco socialista di Molinella che dovette fuggire precipitosamente dal suo paese perché accusato di essere complice di alcuni tumulti qui accaduti nell’ottobre del 1914 che avevano determinato la morte di cinque persone. Si rifugiò a San Marino divenendo molto amico dei socialisti locali e di Giacomini in particolare; qui rimase per quasi cinque anni, fino al 19 maggio del ’19 appunto. Nello stesso anno, essendosi ormai calmate per loro le acque in Italia, anche altri rifugiati se ne partirono da San Marino.[203]

Un altro fatto di un qualche rilievo legato a quest’anno fu la cittadinanza onoraria al presidente americano Wilson, personaggio inizialmente apprezzato anche dai socialisti per la pacificazione che aveva portato in Europa, ma in seguito criticato per il suo utopismo filosofico, letto in contrapposizione al realismo russo, che veniva invece esaltato.[204] Franciosi, buon profeta, nel comizio da lui svolto in quell’anno per il 1° maggio criticò aspramente le trattative che stavano portando alla pace di Versailles, prevedendo che questa avrebbe prodotto altre guerre.[205] Il governo sammarinese, venendo a conoscenza che Wilson avrebbe gradito fare una visita alla più antica repubblica del mondo, tramite Onofrio Fattori, inviato a Roma per ossequiarlo, lo aveva invitato anche in visita ufficiale, invito però declinato per i suoi eccessivi impegni.

Nel 1919 si sciolse anche l’Associazione Sammarinese Indipendente, un’alleanza politica tra uomini di varie provenienze nata appena l’anno prima, sostenitrice che la politica di partito per il nostro paese è mortalmente dannosa, composta da repubblicani, borghesi, anticlericali e preti ovvero da un amalgama di persone clerico-repubblicane, come la definì al suo apparire il Titano del 2 giugno 1918.[206]

L’Associazione fu un tentativo di creare un gruppo antisocialista e soprattutto antipartito, perché a San Marino erano ancora in tanti a rimpiangere il periodo precedente all’arengo del 1906, in particolare il sistema molto familiare e casereccio di gestire il Consiglio Grande e Generale bonariamente, senza richiamarsi a particolari linee ideologiche o a chissà quale disciplina partitica. Il tentativo fallì probabilmente perché comunque le tendenze politiche ormai c’erano, e non si potevano cancellare con un colpo di spugna, così come sussistevano i personalismi che, senza una qualche disciplina,  non potevano starsene a lungo inoffensivi.

I socialisti invece sostenevano a spada tratta l’esigenza di fondare nuovi partiti dalla fisionomia ben marcata: solo dalla lotta dei partiti possono trarsi la salvezza e il miglioramento della Repubblica, sostenne Franciosi in un suo articolo del 1° ottobre 1919, in cui commentava criticamente l’ennesimo tentativo di creare un amalgama politico di stampo liberal-conservatore, ovvero qualcosa che reputava obsoleto ed inutile a risolvere i tanti mali della Repubblica.[207] 

Questa convinzione la ribadiranno anche alla fine del ’19, quando fu proposto loro di collaborare alla gestione del governo: Lo comprenda la classe borghese che noi socialisti non assumeremo mai il potere finché perdurerà questo sistema antiquato e dannoso agli interessi della Repubblica, dichiararono decisi sul Titano del 9 novembre. Non può esservi a tutto rigore nessuna utile conciliazione per la Repubblica. L’onore del Paese (…) e la salvezza del Paese, sono intimamente legati alla sorte e all’avvenire della classe lavoratrice quando questa si sarà fatta nella repubblica il suo governo, sottolinearono ancora sul Titano  del 25 dicembre.[208]

L’aspirazione socialista di avere avversari politici raggruppati in formazioni partitiche non tardò tuttavia a concretizzarsi. Infatti nel mese di giugno veniva svolto a Bologna il primo congresso del Partito Popolare Italiano, fondato da don Luigi Sturzo, e prendeva vita una formazione politica che avrebbe avuto un grande futuro nella storia italiana. A San Marino non si tardò ad emulare quanto facevano i cattolici in Italia. Egisto Morri e Carlo Balsimelli, con l’aiuto di due preti, ovvero don Bucci e don Barducci, tra la fine del 1919 e l’inizio dell’anno successivo fondarono il Partito Popolare Sammarinese, organizzazione partitica che mirò fin da subito a coinvolgere tra le sue fila il vasto mondo contadino locale, organizzandolo anche sindacalmente in leghe operaie o “bianche”, come verranno definite per distinguerle da quelle “rosse” gestite dai socialisti.

Queste leghe miravano a raggruppare i lavoratori della terra sia per ottenere a loro vantaggio dei miglioramenti economici e sociali in genere, in primis un nuovo patto colonico per cui subito si daranno da fare, sia per toglierli dal pericolo di finire fagocitati dai socialisti, che già da tempo sbandieravano nei loro comizi l’esigenza di un nuovo patto colonico, nonché dalla loro Camera del Lavoro. Nel giugno del 1920 ci saranno elezioni suppletive per eleggere cinque consiglieri: ben quattro eletti saranno del Partito Popolare. L’anno dopo, per le elezioni generali, addirittura 29 saranno i loro consiglieri eletti, lasciando i socialisti, che pur arriveranno a 18 consiglieri, a masticare molto amaro. Infatti la convinzione di questi ultimi, nel ’19 più che in seguito, era che il partito socialista fosse destinato ad assumersi in toto il governo della Repubblica, e che prima o poi avrebbero portato dalla loro parte il vasto mondo contadino locale. In realtà non fu così, per cui l’arrivo del Partito Popolare fece loro gradualmente capire che a San Marino non sarebbe stato proprio possibile creare uno stato sul modello russo. Infatti i Popolari nei primi mesi del ’20, tramite battaglie portate avanti dalle leghe bianche, riuscirono a gettare le basi per il nuovo patto colonico, immediatamente ribattezzato per spregio dai socialisti in “patto coglionico”, e a ottenere dai padroni fin da subito delle migliorie alle condizioni dei contadini.

Un altro fatto importante per la storia del socialismo sammarinese fu la nomina di Gino Giacomini nella direzione del Partito Socialista Italiano, ovvero nel suo massimo organo, nomina avvenuta durante il congresso socialista svoltosi a Bologna tra il 5 e l’8 ottobre a cui Giacomini presenziò. In questo congresso prevalse completamente la linea massimalista con un ordine del giorno che affermava il superamento del programma riformista e la necessità di agire in vista della presa del potere da parte del proletariato. Egli, pur restio nell’accettare l’incarico, lo tenne per un anno abbondante, fino al congresso di Livorno, poi vi rinunciò perché troppo impegnativo.

L’anno si chiuse con due fatti. Il primo fu un’aspra polemica contro l’apertura di un asilo in Città, finanziato in parte dal Vaticano ed in parte da un fondo che il governo sammarinese aveva accumulato per creare un’opera simile. In territorio sammarinese funzionavano altri due asili, sempre gestiti da suore o comunque sotto il controllo dei cattolici, e questo ai socialisti non poteva di certo andare a genio. In effetti un’altra battaglia degli anni successivi, con la promozione di iniziative per racimolare denaro, verrà proprio svolta per fondare finalmente un asilo laico.

Il secondo fu un manifesto del partito, datato 31 dicembre, in cui si dichiarava che il paese si era ridotto ormai in condizioni assai critiche per la disoccupazione e per il caroviveri, che non c’era più nessuna disciplina amministrativa  e tutto era lasciato a se stesso, che la maggioranza borghese non era all’altezza di mantenerne la guida, né di attuare alcun tipo di riforma. Si stava andando insomma incontro alla rovina. La Repubblica poteva essere salva solo che un ordine nuovo sostituisca radicalmente il vecchio sistema, con un governo esercitato dai Lavoratori, politicamente democratico e moderno, amministrativamente ben costrutto e organizzato in base a rigorose norme di disciplina e di responsabilità, socialmente indirizzato a dare allo stato più ampie funzioni di economia sociale. S’intimava al governo l’adempimento dei compiti immediati politici finanziari ripetutamente assunti. Non volendo essere complice della stasi che paralizzava il Consiglio, i socialisti si dichiaravano pronti ad uscirne in segno di finale protesta contro l’attuale regime governativo e la classe dirigente, e istigavano il proletariato sammarinese a tenersi pronto a sostituire le istituzioni della borghesia e a gestire la cosa pubblica.[209]

Nel 1920 il conflitto tra socialisti e cattolici divenne molto più aspro, soprattutto perché finalmente riuscì a partire la Camera del Lavoro, che secondo le mire socialiste doveva assumere funzioni politiche molto marcate, oltre a quelle sindacali. Il 17 gennaio Franciosi annunciò in Consiglio la sua costituzione.

Il 5 febbraio il Titano se ne uscì con un articolo in cui ribadiva ancora una volta che era fondamentale organizzare la classe operaia e proletaria tramite la Camera del lavoro, in seguito sarebbe avvenuta la presa del potere da parte del proletariato per fare parecchie innovazioni: una riforma tributaria capace di colpire i grossi capitali e togliere le troppe disparità economiche esistenti, una riforma dell’agricoltura adatta a dare la terra ai contadini, un sistema annonario in grado di distribuire i prodotti a prezzi onesti e popolari, un progetto per dare abitazioni a tutti requisendo le case superflue ad uso privato e calmierando gli affitti, l’assicurazione contro malattie e invalidità, la pensione per la vecchiaia, inoltre costituzione del governo diretto a mezzo dell’arengo, trasformazione degli organi politici, assetto amministrativo con uno stabile congegno a funzioni responsabili, distinte e coordinate, economie e discipline degli uffici pubblici e degli impieghi. (…) Chi lavora, chi produce, chi soffre, chi ha nozione del silenzioso sfacelo che devasta irrevocabilmente questo nido sacrificato alla sordidezza buia del più tipico e ripugnante egoismo di classe, si armi di volontà e di forza, e si muova verso la meta che noi veniamo additando.[210]

L’8 febbraio, tramite pubblico manifesto, venne proclamata la sua costituzione. Il 7 marzo vi fu la distribuzione delle sue cariche sociali presso il teatro Titano: presidente venne eletto Gino Giacomini.  Nel mese di gennaio la Confederazione Italiana del Lavoro inviò a San Marino Francesco Nicola, persona esperta ed adatta a far decollare la nuova Camera, che rimarrà suo segretario fino al mese di giugno, quando verrà sostituito da Domenico Viotto della Camera del Lavoro di Brescia.[211]

Nicola si mise subito alacremente all’opera per sensibilizzare la classe operaia sammarinese alla nuova e per i socialisti basilare iniziativa. Con un suo aiutante, Ermes Moretti, iniziò a battere il territorio in lungo e in largo per fare comizi: il 25 e 28 gennaio parlò in Borgo, il 26 a Faetano, il 30 a Serravalle dove vi fu un’animata discussione con don Bucci, il 1° febbraio a Chiesanuova, il 5 a Dogana per organizzare gli operai dell’azienda Manzoni e di quella di Franchini, l’8 a Serravalle per i braccianti, poi a Montegiardino per un comizio ai contadini (qui il parroco aveva organizzato un gruppo di fedeli per fischiarlo), il 14 nuovamente a Faetano, in seguito in altri Castelli ancora. Questo attivismo doveva servire per il raggruppamento dei nuovi nuclei, e il disciplinamento delle vecchie leghe, come ebbe a dire il Titano  del 5 febbraio.

All’inizio vi furono remore ad associarsi alla Camera tra diverse categorie di lavoratori, ma in seguito l’adesione fu massiccia, ad eccezione del mondo contadino che ormai stava confluendo tutto nelle leghe bianche gestite dai cattolici. Pure i braccianti vennero organizzati in Lega dalla Camera, che spesso svolgeva la mansione di ufficio di collocamento, in particolare per i lavori periodici.

Il 1° maggio, dopo un primo comizio svoltosi in Città, i socialisti ne organizzarono un altro a Domagnano, praticamente nella bocca del leone, visto che questo Castello da sempre era in mano ai loro avversari. In effetti il giorno dopo i cattolici vollero fare un controcomizio dove parlarono don Bucci ed Egisto Morri.

Il 13 dello stesso mese la Camera organizzò una grande adunanza di tutte le categorie dei lavoratori per costituire una Cooperativa fra gli operai del paese con lo scopo principale di assumere in comune l’insieme delle opere edilizie governative. Subito dopo una rappresentanza formata da un membro di ogni lega si recò dalla Reggenza per chiedere l’assegnazione del lavoro della scuola elementare del Borgo, che già da tempo doveva essere edificata. In effetti l’accordo per la sua ultimazione venne stipulato immediatamente. L’unione fa la forza, fu l’entusiastico commento del Titano, ormai convinto di essere sulla strada maestra per portare il proletariato al potere. Noi non crediamo necessaria la sommossa di piazza, annunciò sempre il Titano, però era ritenuto basilare che la Camera organizzasse il proletariato in un corpo ordinato e disciplinato per prendere finalmente il potere.

In un articolo sulla rivoluzione russa venne detto che il comunismo e l’equa spartizione dei beni era nella naturale evoluzione delle cose e che la società senza padroni e sottomessi era quella a cui bisognava aspirare. Gli uomini avrebbero avuto dalla comunità tutto ciò che sarebbe loro servito per vivere bene.[212] In un altro articolo ancora, incentrato sul grave problema del caroviveri, fu affermato: Non c’è che un mezzo per risolvere radicalmente il problema: l’abbattimento della società capitalistica e il trionfo della rivoluzione comunista.[213] Su questa ideologia d’ispirazione russa ormai si muovevano i socialisti senza troppe discrepanze interne.

Nel paese esistevano così due blocchi di lavoratori contrapposti ed in forte attrito ideologico tra loro. Era inevitabile che le tensioni crescessero sempre più. In maggio, in effetti, si giunse quasi ad uno scontro perché moltissimi contadini, anche armati, furono raccolti da don Bucci a Domagnano per tutelare i campi dei padroni contro poveri braccianti che avevano ottenuto di prestare qualche giornata lavorativa, come ci narra il Titano del 16 maggio. Praticamente l’articolista accusa i preti e i dirigenti del partito popolare d’aver aizzato i contadini contro i braccianti perché entrambi volevano svolgere dei lavori in un fondo agricolo: i contadini erano mezzadri chiamati dal padrone del podere, i braccianti erano disoccupati di Serravalle fatti assumere dalla Camera del Lavoro. Questa aveva però evitato di sobillare i suoi facendo sì che non avvenisse alcuno scontro perché, a suo parere, i contadini erano ingenuamente cascati nella provocazione ordita dai preti e dai padroni. Comunque per placare gli animi e per svolgere opera di mediazione tra le parti, alla fine dovette intervenire addirittura la Reggenza.[214]

Il 6 giugno, durante una sua riunione, la Camera del Lavoro votò un ordine del giorno in cui rifiutava qualunque carità di lavoro da parte governativa, auspicandosi invece una pianificazione seria dei lavori che annualmente venivano assegnati agli operai, pretendeva che i padroni fossero obbligati ad assumere braccianti in proporzione alla terra posseduta, chiedeva la gestione diretta delle macchine da grano.[215]

Viotto dimostrava di avere anche maggiore attivismo del suo predecessore, facendo frequenti comizi un po’ per tutto il territorio. Grazie a quest’opera di proselitismo e propaganda riuscì a far rinascere in Città la defunta sezione socialista e a crearne una del tutto nuova a Serravalle, Castello considerato asservito ai preti e ai padroni. Così la Repubblica, con tre sezioni socialiste nei primi suoi tre centri e con varie conferenze che terranno i migliori elementi, potrà più facilmente preparare le coscienze e accelerare il suo radicale mutamento. Occorreva però anche una biblioteca circolante  per diffondere la coltura fra le classi lavoratrici e per propagandare la dottrina socialista.[216]

Nel mese di luglio i problemi si aggravarono. Le autorità sammarinesi si erano attivate fin dal 26 giugno per riuscire ad avere un prestito di 1.000.000 di lire dal Credito Romagnolo con cui fronteggiare le impellenti necessità e pagare gli stipendi. Pur ottenendo tale cifra, vi furono ritardi nella sua consegna, per cui al 24 luglio il governo aveva potuto ricevere solo 100.000 lire, mentre il rimanente doveva ancora arrivare. Ovviamente questo fatto fu benzina sul fuoco e fece aggravare i conflitti e le polemiche tra le fazioni, tanto che da più parti iniziarono ad essere rivolti ai vari gruppi politici esortazioni alla concordia e alla collaborazione per far uscire la Repubblica dal pantano in cui si era cacciata. In più si creò una delegazione che si recò a Roma per chiedere denaro e l’innalzamento del canone doganale. Doveva farvi parte anche Franciosi, che però rifiutò in nome dei suoi principi.

In pratica i socialisti non accettarono alcun compromesso, né si dimostrarono disposti ad alcuna forma di collaborazione con i borghesi, come chiamavano i loro avversari. Le ore gravi chiedono sincerità non indulgenza. La crisi attuale è il prodotto del disordine della società, proclamarono decisi sul Titano dell’8 agosto. Cominciarono a sostenere che di fronte allo sfascio generale in cui si trovava il paese l’unica soluzione logica e contingente sarebbe stato lo scioglimento del Consiglio e le elezioni generali. Però con una nuova legge elettorale nella quale sia stabilito il collegio unico e la rappresentanza proporzionale insieme a metodi di votazione più pratici e sicuri, fra i quali l’uso della scheda stampata. La Reggenza doveva poi essere elettiva biennale e il Congresso o Consiglio di Stato diviso in dicasteri. Il momento esige che sia investito del governo della cosa pubblica chi può e deve anzi rispondere di una forza nel paese. Chiedevano inoltre la creazione di un comitato provvisorio di reggenza per governare temporaneamente lo stato, e la nomina di una giunta a rappresentanza proporzionale per organizzare le elezioni.[217]

Durante un’assemblea della Camera del Lavoro, svoltasi il 22 agosto, anche Viotto invitò gli operai ad abbandonare i particolarismi per mostrarsi forti e compatti di fronte agli eventi che stanno maturando. Nella stessa occasione gli operai appoggiarono la decisione di far sciogliere il Consiglio, inoltre venne deciso di convocare separatamente le singole categorie di operai per richiamarle all’osservanza delle norme disciplinari e dei principi di solidarietà che regolano l’Associazione, con l’auspicio che tutti i lavoratori e impiegati si unissero tra loro  in patto fraterno, a fine di rendere possibile, dalla fusione di tutte le forze vive del lavoro, la rigenerazione morale ed economica della Repubblica pel bene della Collettività.[218]

Nel frattempo i cattolici non se ne stavano certo inermi a guardare cosa facevano i socialisti. Il 3 settembre del 1920 diedero alle stampe il primo numero del periodico La Libertà, che uscì con regolarità fino all’agosto del 1923 controbattendo punto per punto le tesi socialiste, e polemizzando violentemente contro i principali esponenti del socialismo sammarinese, in particolare Franciosi e Giacomini. Libertà è il retaggio del nostro Santo, Libertà è la sintesi di tutto il nostro programma, sentenziarono sul loro primo numero facendo capire chiaramente che il socialismo, sostenitore dello statalismo, era naturalmente avverso a qualunque forma di libertà. Nel loro programma spiccava come primo punto l’integrità della famiglia e la tutela della moralità pubblica. Volevano comunque anche l’abbattimento dell’analfabetismo, quindi una incidente riforma scolastica, la tutela dei lavoratori, l’indipendenza della Chiesa, la riforma tributaria, la riforma della legge elettorale secondo il sistema del collegio unico, il voto per le donne. Alcuni punti programmatici, come la riforma fiscale e quella elettorale, erano comuni alle aspirazioni socialiste. I punti di maggiore divergenza erano invece legati alla proprietà privata, che i cattolici difendevano, purché non fosse lesiva per i lavoratori, all’accettazione delle classi sociali e della loro gerarchia, che però dovevano essere accessibili a tutti e tendere al bene comune, alla condanna categorica di qualunque forma di statalismo e di illiberalità. 

Sino a ieri noi cattolici, lottammo per la difesa dei sentimenti cristiani, oggi un altro compito ci attende: il rinnovamento morale del popolo sulla base della giustizia e del diritto cristiano, il riordinamento amministrativo della Repubblica, il miglioramento economico delle classi sociali, venne detto per mettere in luce la nuova verve che animava il mondo cattolico sammarinese.[219] Bisogna difendersi dalla disastrosa propaganda bolscevica e guidare il proletariato nella via dell’indirizzo cristiano. I cattolici infatti miravano ad un nuovo ordine sociale basato sull’armonia e sulla collaborazione di classe, sullo spirito di equità e di giustizia cristiana, sul congiungimento della proprietà col lavoro, mentre i socialisti volevano  la distruzione, il comunismo, la fine dell’individualità, la morte delle soddisfazioni personali, l’eliminazione della famiglia, l’abolizione di ogni leva di progresso.[220]

In un altro articolo dal titolo molto eloquente venne detto che i popolari erano d’accordo coi loro avversari per la difesa dei lavoratori, per le forme cooperativistiche, per l’organizzazione operaia, ma erano in netta antitesi con loro perché questi combattevano la religione e insultavano chi andava in chiesa, perché volevano tutti salariati, tutti servi, mentre è assai più umano, più soddisfacente avere il proprio campicello, i propri strumenti di lavoro, perché favorivano solo i loro aderenti, perché volevano la lotta di classe, per i tristi esempi di assenza di libertà in Ungheria e in Russia, perché erano persuasi che la felicità dell’uomo fosse tutta in un pranzo, in un bicchiere di vino, in una donna, in un teatro, perché non avevano vincoli e combinavano le famiglie a mesi e a giorni come fanno i cani e i gatti. Inoltre erano provocatori e seminatori di zizzania, mentre i popolari volevano rappresentare e promuovere l’ordine, l’amore e l’armonia sociale, altri concetti chiave della loro propaganda, che saranno puntualmente i cardini del loro pensiero politico in questi anni. [221]

Nei numeri successivi de La Libertà, che copiava quasi in toto la logica e la stessa impostazione grafica del Nuovo Titano, i cattolici non abbandonarono mai tali cardini, così come non lesinarono veleni e frecciate ai socialisti, che d’altra parte provvidero a ripagarli della stessa moneta sul loro giornale, facendo spesso decadere il dibattito in acidi e beceri personalismi strapaesani.

I popolari comunque ottennero un grande successo nel mondo rurale, soprattutto perché seppero organizzare diligentemente una decina di Leghe Bianche, anche queste sul modello socialista a cui s’ispiravano sempre, tanto che la stessa canzone Bandiera Rossa venne da loro trasformata in Bandiera Bianca.[222] Grazie a questa organizzazione, in aprile i contadini presentarono un’istanza d’arengo richiedente il restauro delle case coloniche, con particolare attenzione per le loro condizioni igieniche, una cattedra ambulante di agricoltura, il varo di una migliore legislazione sociale e l’istituzione di una cassa per gl’infortuni e le malattie, un collegio arbitrale per dirimere le questioni coi padroni, un’adeguata viabilità rurale, l’esenzione dalle tasse.

In estate iniziò una forte agitazione agraria, promossa e sostenuta in particolare da don Bucci, con l’aiuto di un certo ragionier Giannitelli della Confederazione dei Lavoratori. Il 23 agosto c’era stata un’imponente manifestazione a Domagnano dove si proclamò lo sciopero generale grazie a cui fu impedita la fiera di San Bartolomeo in Borgo il giorno dopo. Poi altre manifestazioni seguirono, sempre piene di scioperanti finché la Reggenza, nella figura di Marino Rossi, iniziò una trattativa che portò in fretta ad un accordo coi contadini e alla fine dello sciopero.

L’altra battaglia combattuta dai popolari in questi mesi fu quella elettorale: le loro posizioni erano quasi identiche a quelle socialiste perché volevano una nuova legge elettorale basata sul collegio unico, ovvero in grado di valorizzare e portare al potere le formazioni partitiche dotate di una struttura logistica efficiente e non più solo i singoli eletti, disgiunti da qualunque organizzazione politica, com’era stato fin lì. D’altronde anche in Italia era stata varata nell’agosto del ’19 una legge elettorale basata sulla stessa logica. Si diversificavano dai socialisti nella richiesta di voto alle donne, da questi ultimi rimandata a tempi futuri perché consideravano il mondo femminile interamente soggiogato alla cultura cattolica.

L’idea di sciogliere il Consiglio, quindi, per indire elezioni generali fu sostenuta dalla maggioranza dei Consiglieri. Il 18 settembre la Reggenza si vide perciò costretta a convocare nuove elezioni per il 14 novembre. Inoltre fu nominata una commissione di dieci consiglieri per coadiuvarla in un momento tanto delicato, e venne deciso di modificare la legge elettorale in base ai suggerimenti socialisti e ad una proposta di legge da loro avanzata, che diventerà effettivamente la nuova legge elettorale, anche se subirà qualche modifica da parte della commissione preposta al suo studio.[223] Eccezionalmente fu prorogato il mandato semestrale della Reggenza tra le proteste dei conservatori che volevano osservato lo statuto. Il 1° ottobre, per rispettare in qualche modo la tradizione, si fece comunque una finta cerimonia d’insediamento.

Il Titano ovviamente plaudì alle deliberazioni del 18 settembre, che accoglievano in toto le pretese socialiste, ma si premurò di dire che non voleva solo un nuovo Consiglio con gente motivata al suo interno, ma un nuovo ordine politico, istituzionale ed economico. Dare d’accetta a tutte le mostruose vegetazioni che l’individualismo ha fatto germogliare. (…) Espropriazioni, requisizioni, imposte fin dove il supremo interesse della collettività lo esige. (…) Abolizione del superfluo senza indulgenza. Chi avrebbe vinto le elezioni avrebbe dovuto assumersi la responsabilità totale del governo.[224]

I socialisti pensavano che le elezioni sarebbero state una faccenda tra loro e i popolari, invece inaspettatamente si consolidò un altro gruppo, l’Unione Democratica, contenente al suo interno diversi personaggi da anni in Consiglio, passatisti ed eredi della tradizione oligarchica sammarinese, gruppo che avrà un grosso peso negli anni successivi perché sarà l’humus su cui germoglierà il locale fascismo.

Costoro verranno sottovalutati dai socialisti, che li definiranno ironicamente un misto politico composto da il demosociale latte e miele e l’irsuto agrario, il sovversivo ed il reazionario, l’inquisito e l’inquisitore, chi tradì e chi fu tradito, e considerandolo una via di mezzo tra i socialisti ed i clericali, insomma un fenomeno di aperta inversione, di leggerezza politica che non guarda per il sottile a precedenti personali, a idee e a programmi.[225] Ma le elezioni, e soprattutto il periodo successivo, dimostreranno che proprio gli uomini dell’Unione saranno destinati a gestire la Repubblica a lungo, mentre i socialisti saranno costretti a scappare.

Tramite due riunioni, la Federazione Socialista, ora comprendente anche la neonata sezione di Serravalle, elaborò un ordine del giorno in cui dimostrava di considerare una sua vittoria lo scioglimento del Consiglio, e un’autoaccusa d’incapacità a gestire la cosa pubblica da parte della borghesia. Dichiarava altresì di entrare nella lotta elettorale con rigida condotta intransigente e con programma di carattere decisamente massimale, nel quale i problemi della terra, della disoccupazione operaia, della finanza, dell’industria, dell’abitazione, dell’annona, dell’istruzione proletaria, dell’igiene, dei servizi e delle aziende pubbliche e governative, del riordinamento e della rigorosa disciplina degli uffici, del rinnovamento delle istituzioni della Repubblica, siano propugnati con preciso indirizzo e con radicale intento comunista.[226]

Le elezioni del 14 novembre si svolsero regolarmente portando in Consiglio ben 29 Popolari, 18 socialisti e 13 aderenti all’Unione.[227] I cattolici, ovviamente euforici per la schiacciante vittoria, si dichiararono subito pronti a collaborare con chiunque sui punti programmatici.[228] I socialisti invece, assai delusi nonostante il successo personale riportato, due giorni dopo decisero di rinunciare al mandato conferito loro dal corpo elettorale e divulgarono due manifesti per spiegare la grave decisione. Nel primo dissero che il risultato elettorale, pur aumentando sensibilmente il numero dei consiglieri socialisti, non era adeguato né al meraviglioso risveglio del proletariato internazionale, né agli interessi e alle aspirazioni che qui il partito rappresenta e difende, né infine alla dolorosa situazione prodotta essenzialmente dalla crisi dell’assurdo regime che grava sulla Repubblica ad affrontare la quale era necessario al Partito Socialista la fiducia e la solidarietà dei lavoratori dei campi che il clericalismo, nelle sue speculazioni, istiga e mette in urto con la classe lavoratrice più matura e cosciente che si stringe attorno alla nostra bandiera. (…) Le urne di domenica 14 novembre non hanno modificato utilmente la situazione. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza effettiva di mandato, talché il governo della Repubblica tornerà ad essere la risultanza di accomodamenti, di combinazioni, giudicati assolutamente inadatti a risolvere i gravi problemi del paese e incapaci di colpire le classi abbienti per risanare le finanze. Per questo il Partito Socialista non voleva alcuna corresponsabilità nel governo, lasciando tutto l’onere della gestione agli altri gruppi politici. Nel manifesto si specificava che il grave gesto non voleva essere una fuga, ma la precisa volontà di organizzarsi ancora meglio per dar battaglia in maniera sempre più capillare e pugnace affilando le armi per le lotte successive. Una Repubblica dei lavoratori non è più conciliabile né con la borghesia, né col clericalismo; né col privilegio, né con la superstizione.[229]

Il secondo manifesto era invece rivolto ai contadini che, essendo ingenui, davano ascolto ai preti e alle fandonie che venivano loro raccontate. Perciò i socialisti avevano sentito l’esigenza di divulgare uno scritto a loro rivolto in cui si dichiarava che il ritiro dal Consiglio serviva anche per dimostrare la falsità della leggenda messa in giro ad arte dai loro avversari secondo cui essi erano i padroni del governo, dell’annona e degli altri istituti dipendenti dallo Stato, e i responsabili di tutte le malefatte che essi, invece, combattevano senza tregua. Il partito clericale, responsabile di tutta l’arcaicità del paese, si era messo a scimmiottare il partito socialista. Il giuoco d’incolpare i socialisti di tutte le magagne, le colpe, gli errori di un governo in mano a una stragrande maggioranza dei nostri nemici, è finito. Le responsabilità erano ora tutte dei popolari, complici degli agrari e della borghesia. Essi sicuramente non avrebbero molestato né i ricchi, né gli speculatori, avrebbero continuato a favorire l’emigrazione forzata, avrebbero lasciato i poveri nei loro stracci e continuato a rovinare la Repubblica fino al giorno in cui voi aprirete gli occhi. Allora i contadini si sarebbero messi, come tutti i lavoratori, sotto la bandiera socialista.

Ovviamente gli avversari dei socialisti diffusero tutt’altre informazioni tra la gente, fomentando il grande odio nei loro confronti che già serpeggiava nei Castelli rurali, e sostenendo soprattutto che i socialisti non erano entrati in Consiglio perché erano solo interessati alla presa del potere ed alla rovina della Repubblica. Venivano etichettati come eunuchi politici da parte de La Libertà, che dedicherà ripetuti articoli con tale titolo per accusarli di voler il disfacimento del paese e di essere dei traditori: Come il medico si allontana dall’ammalato nel periodo più critico; come il genitore abbandona il figlio nel periodo in cui maggiore dev’essere la sua assistenza e la cura per esso; così i socialisti lasciano che la Repubblica vada giù per la china, lieti anzi della sua rovina che darà modo ad essi di speculare e farsi poi seguire dalla grande massa dei lavoratori. Questo è il primo tradimento del genere che la nostra storia registra.[230]

L’anno successivo, precisamente il 10 aprile, avverranno le elezioni suppletive per sostituire i socialisti: 10 seggi consiliari andranno ai popolari, 8 ai membri dell’Unione. Il partito popolare raggiunse così i 39 consiglieri, tuttavia costoro erano per lo più inesperti e privi di qualunque pratica di gestione politica, per cui venne deciso di stringere alleanza con l’Unione, che poteva contare invece sui Gozi (Manlio e Giuliano), Onofrio Fattori, Moro Morri ed altra gente ben navigata nel governo del Paese, e piano piano affidarvisi completamente. Nel giro di un paio di anni, le redini dello stato sammarinese saranno prese totalmente dagli uomini dell’Unione, che poi diventeranno i capi del fascismo locale, ed il programma dei Popolari verrà in larga parte inficiato.

Il 1920 si chiuse con qualche polemica stimolata dal Resto del Carlino contro una cinquantina di  profughi rifugiati in territorio dopo i tragici fatti di palazzo Accursio a Bologna del 21 novembre, e con la certezza da parte socialista che il nuovo governo sarebbe stato fallimentare e destinato a crollare in breve tempo. Il Partito Socialista attende, lavorando assiduamente, il suo irrevocabile domani, annunciò con enfasi il Titano del 21 novembre.[231] In realtà il gruppo socialista si era messo da solo fuori gioco. In seguito si renderà conto di aver fatto un grosso errore a rifiutarsi di entrare in Consiglio, ma ormai sarà tardi e non ci sarà più nulla da fare per evitare i tristi fatti che seguiranno con l’avvento del fascismo anche in loco.

Il problema dei rifugiati diventerà più pesante l’anno successivo, tanto che i socialisti nel 1920 dapprima penseranno a costruire una Casa degli esuli per ospitarli, e nel 1921 inizieranno effettivamente a fabbricarla a Serravalle raccogliendo soldi tramite collette, ma chiamandola Casa del Popolo. Tra il 1920 e il ’22  circa 200 profughi trovarono ospitalità in terra sammarinese, il più delle volte aiutati proprio dai socialisti perché venivano indirizzati a San Marino dalle camere del lavoro o dalle sezioni socialiste italiane. Questo fatto farà diventare la repubblica sammarinese sempre più il bersaglio di alcuni giornali italiani e di qualche parlamentare, nonché dei fascisti del circondario che cominceranno a minacciare spedizioni punitive per catturare gli esuli. In verità non sappiamo qual nemico ci sia peggiore e quale sia il flagello più temibile tra la reazione fascista e il massimalismo bolscevico, diranno i cattolici sammarinesi dal loro giornale, dimostrando di sottovalutare non poco il pericolo fascista.[232]

I fatti precipiteranno dopo l’11 maggio, quando a Serravalle verrà ucciso da ignoti, dopo un alterco, il dottor Carlo Bosi di Rimini. Il Titano del 22 maggio raccontò il fatto nella seguente maniera: la comitiva in cui si trovava Bosi era arrivata in Repubblica semplicemente per turismo. Per alcune sue grida di evviva e abbasso si era rivelata fascista. Questo aveva toccato la suscettibilità di alcuni non fascisti che si erano sentiti derisi e sfidati. Nel pomeriggio l’auto aveva riportato le donne della comitiva a Rimini, mentre gli uomini erano rimasti a passeggiare a Serravalle in attesa che tornasse a prenderli. Tale fatto aveva provocato contatto con gli avversari e subito erano volate offese e ingiurie. Arrivò l’auto, la comitiva vi salì e prese la strada per Rimini; fu a questo punto che da entrambi i gruppi partirono colpi di pistola. Sul momento parve che tali colpi non avessero provocato danni ad alcuno, ma a tarda sera giunse invece notizia che Bosi era stato centrato mortalmente al capo. Rimase nell’ospedale di Rimini per due giorni, poi morì.

Siccome del fatto vennero accusati alcuni profughi, essi si riunirono per deplorare l’accaduto e per confermare alla Repubblica i loro doveri di ospiti. Anche i socialisti, protettori dei rifugiati, rigettarono le accuse che venivano loro rivolte per il delitto, definendolo del tutto casuale ed individuale. Infatti in questi mesi forte era l’odio contro i rossi e le loro azioni, per cui ogni pretesto era buono per attaccarli. Pare che la stessa Reggenza sostenesse che l’uccisione di Bosi era da collegarsi alla violenza che serpeggiava per il paese fin da un comizio operaio avvenuto nel mese di febbraio. In quell’occasione i manifestanti erano andati a rumoreggiare intorno alla casa di un Reggente e questo fatto era stato interpretato come un atto di violenza, mentre i socialisti, che erano stati gli animatori della protesta, sostenevano che la manifestazione era stata tranquilla e civile. Secondo il loro punto di vista, il governo aveva la volontà di gonfiare elefantescamente gli avvenimenti generalizzando le responsabilità. Simile atteggiamento avrebbe potuto però far molto male alla serenità del paese, visti gli attacchi cui era sottoposto dall’esterno.[233]

In effetti non avevano torto, perché questo periodo fu senz’altro uno dei più critici per il gruppo socialista, fuori dal Consiglio ed in balia di gruppi politici che lo accusavano di tutte le nefandezze possibili, e che boicottavano sistematicamente le sue iniziative, come l’Ente autonomo, a cui verrà tolto il sostegno ed il contributo governativo,[234] o il patronato scolastico, anch’esso decurtato negli stanziamenti, o le tariffe orarie degli operai, che subirono in questo periodo un generale ribasso. La Camera del Lavoro tentò anche di riorganizzarli in federazioni (dei coloni, dei braccianti, degli edili –ovvero scalpellini, muratori, falegnami, ecc.-, dell’industria e abbigliamento –ovvero calzolai, sarti, ecc.-, degli impiegati e salariati) per dar loro maggior forza, ma in realtà il momento non era certo propizio a migliorare le condizioni generali dei lavoratori.

Il 14 febbraio la Camera del Lavoro si riunì proprio per parlare dei problemi del paese, soprattutto della disoccupazione e degli atteggiamenti ostili verso le iniziative socialiste. Venne deciso all’istante uno sciopero per il giorno dopo. Vi fu quindi un grande comizio nell’atrio del Palazzo con l’intervento di 800 operai. Parlarono Giacomini, Viotto e De Carli. Giacomini invitò a stringersi attorno alla Camera del Lavoro e a continuare la buona battaglia per la conquista della Repubblica proletaria. Venne infine presentato un ordine del giorno alla Reggenza.

Nei giorni successivi dai conservatori venne però organizzata una contromanifestazione, e Manlio Gozi ebbe parole violente contro i socialisti definendoli sabotatori dello stato, ormai l’etichetta abituale con cui venivano definiti dai loro avversari per gli atteggiamenti anticollaborazionisti assunti fin dall’anno precedente.[235]

Nonostante il clima avverso, i socialisti continuavano comunque ad essere certi di dover entro breve assumersi da soli l’onere del governo del paese. Sul Titano del 27 febbraio si ribadì ancora che il governo era destinato a rapida e sicura morte e che il partito socialista non avrebbe più potuto sottrarsi al sacrificio di una eredità gravosa e ad un dovere storico, e dovrà accettare il potere nelle condizioni le più disastrose, in un ambiente ancora refrattario e mal disposto ad un ordine nuovo, quando ancora gli avvenimenti di fuori non avranno creato una condizione d’aiuto allo sviluppo sociale della Repubblica. Purtroppo il socialismo sarebbe arrivato al potere, sempre stando all’opinione dell’articolista, solo perché i suoi avversari avrebbero disgustato tutti, non per un’effettiva maturità politica dell’elettorato. Gli operai dovevano dunque prepararsi e migliorarsi in vista dell’imminente avvenimento.[236]

Intanto il governo cercava di darsi da fare, invece, per risolvere i guai del paese e la sua situazione economica precaria. Il primo passo che fece fu l’emissione di un prestito forzoso con titoli obbligatori per i cittadini che avevano redditi mobiliari e immobiliari, e titoli facoltativi per chi voleva contribuire spontaneamente. Si contava sulla collaborazione della popolazione in attesa della riforma tributaria cui si stava ancora lavorando. La scadenza del prestito era fissata per il 15 febbraio, poi prorogata al 31 marzo per gli scarsi introiti registrati. Alla fine furono raccolte solo 259.350 lire, una miseria se si calcola che il bilancio dello stato aveva raggiunto un passivo di circa 3.000.000.

Invece si ottenne un grosso vantaggio col nuovo canone doganale dall’Italia, arrivando ad ottenere un forte innalzamento a lire 1.250.000 subito e a 1.500.000 in seguito. Questo fu possibile perché lo stesso don Sturzo, per aiutare i popolari, appoggiò la richiesta sammarinese. Inoltre fu conseguito per lo stato un prestito di 2.000.000 di lire da una banca con un interesse agevolato del 4%, poi si aumentarono le tasse sulla carne, sul pane e sulla polvere da sparo.

Un altro successo fu la trasformazione in legge del patto colonico voluto e sostenuto dai cattolici e la promulgazione di leggi e iniziative, come la Cooperativa Popolare Agricola e di Consumo, che fu un altro tentativo di togliere ai socialisti il monopolio nel campo cooperativistico.

In definitiva il governo era tutt’altro che inetto e moribondo, e stava ottenendo invece sensibili migliorie. Il clima rimaneva comunque molto incandescente tra gli schieramenti, tanto che a volte volavano cazzotti, o partivano colpi intimidatori di revolver, come successe durante un comizio a Serravalle dove Viotto, don Barducci e un missionario ebbero un feroce scontro, o quando, il 6 maggio, rientrò da Roma l’auto che riportava gli ambasciatori sammarinesi che erano andati a chiedere l’innalzamento del canone. Alcuni giornali italiani crearono un caso parlando di attentato alle autorità locali risultante da tutta una propaganda di odio, e che è la continuazione di altri atti di violenza attribuiti per lo più ai socialisti. Costoro invece sostennero che era stata solo una bravata compiuta da ignoti.[237]

I fasci di Bologna e Ferrara avevano inoltre minacciato un intervento per insediarsi nello Stato e sostituire l’imbelle governo per dare un nuovo assetto e far tabula rasa dei profughi. Di queste minacce vennero informate le autorità italiane che provvidero a sorvegliare alcuni accessi alla Repubblica, tuttavia il 23 maggio due camion di fascisti, guidati da Italo Balbo, che a San Marino aveva studiato, arrivarono in Città, poi si fermarono in Borgo e a Serravalle. Alle 7 del mattino erano però già fuori territorio. Vi furono comunque altre minacce di un intervento più massiccio.[238]

Tra l’altro proprio in questi mesi un rifugiato politico, l’avvocato ed ex capitano degli Arditi Vittorio Ambrosini, si diede da fare per costituire una sezione sammarinese del partito comunista italiano, rimediando anche qualche adepto, soprattutto tra le file socialiste. Tra la fine del ’20 e gl’inizi dell’anno successivo all’interno della Federazione Socialista si discusse a lungo della tendenza da assumere, finché non si giunse ad una votazione, svolta proprio nei primissimi giorni del 1921, che assegnò 50 voti ai socialisti unitari, e 30 ai comunisti puri. Per un mese i due gruppi rimasero uniti sotto la bandiera della Federazione Socialista, poi i comunisti puri, come si chiamavano, presentarono un ordine del giorno che proponeva la costituzione di una sezione unica, autonoma sia dal PSI che dal PCI, e aderente alla Terza Internazionale. La richiesta venne però respinta dal direttivo socialista: ciò fu l’inizio della spaccatura tra socialisti e comunisti, che da questo momento si diedero un proprio comitato esecutivo, e iniziarono a promuovere autonomamente alcune attività politiche.[239]

Tutti questi fatti e la paura d’interventi fascisti indussero il governo ad adottare misure eccezionali, tra cui la censura dei giornali, attuata con decreto del 13 maggio 1921, la proibizione di riunirsi in assemblea pubblica e l’arruolamento di un contingente di carabinieri italiani per tenere sotto stretto controllo l’eccessivo dinamismo della società sammarinese, anche se la scusa ufficiale fu quella d’impedire un attacco fascista alla Repubblica, arruolamento ufficializzato con decreto del 1° giugno.[240]

Ovviamente i socialisti montarono su tutte le furie, visto che erano reputati i principali responsabili della confusione che regnava a San Marino. Siamo in regime di dittatura poliziesca, siamo in piena reazione urlarono dal Titano. Questa è la repubblica governata dal partito clericale, che sotto il pretesto di difenderla, come la popolazione energicamente reclamava, dalle minaccie delle irruzioni fasciste e dall’insidia reazionaria che mira alla soppressione del diritto d’asilo ai profughi politici, la cinge di catene.

Ma in Italia San Marino era ormai additato come un covo di vipere  e una taverna di briganti, per cui si continuò sulla strada della repressione e della repentina espulsione dei rifugiati, che nel giro di poco tempo dovettero quasi tutti andarsene dal territorio, riducendosi da 189 ad una ventina appena. I carabinieri fecero comunque anche parecchie perquisizioni nelle case dei socialisti, segno sicuro che erano loro il principale bersaglio di certi atti intimidatori. Non a caso negli stessi giorni venne divulgata tra la gente una lettera aperta scritta da alcuni liceali contro quelle quattro o cinque sinistre figure del socialismo sammarinese che hanno fatto del partito una speculazione ed un mezzo di sfruttamento, cioè Franciosi, Giacomini, Forcellini, longanimi protettori dei profughi, che avevano saputo disseminare solo odio e discordia. Franciosi, ipocrita e tergiversante, aveva fatto della scuola un’assemblea politica, Giacomini era un pescecane insaziabile ed inesausto sanguisuga del popolo, Forcellini era un aizzatore ed istigatore instancabile. Forti attacchi vennero riservati anche a Valdes Franciosi, figlio di Pietro.[241]

I carabinieri presero a fare irruzione pure nelle feste private, soprattutto quelle promosse dai rossi, arrestando chi cantava Bandiera Rossa. Per i socialisti tuttavia tali azioni non erano da attribuirsi ai pochi fascisti locali (consideravano il fascismo ancora solo una ipotesi per San Marino) perché il gruppo socialista non era al governo, né aveva istigato alla violenza. Quanto stava succedendo era invece solo colpa dei governanti locali, facili ad allearsi con i reazionari ed i fascisti italiani, perché tutti provenienti dal ceto conservatore e oligarchico ostile al socialismo. I democratici furono e sono tutt’ora i propugnatori i più animosi di questo non ancora esaurito periodo di reazione liberticida. Essi rappresentavano la borghesia agraria e le correnti politiche più retrive che facevano dei socialisti i responsabili di tutti i mali.[242]

L’anno si chiuse con la raccolta di firme da parte socialista per mandare via i carabinieri, sottoscrizione cui aderirono ben 1.300 firmatari.[243] In realtà non servirà a nulla perché i carabinieri stazioneranno ancora a lungo sul suolo sammarinese, precisamente fino al 1936. La sottoscrizione rappresentò comunque l’ultima importante iniziativa socialista prima dello scioglimento del partito, che avverrà forzosamente l’anno successivo.

Il 1922 iniziò con forti polemiche tra La Libertà, il giornale dei popolari, e Gino Giacomini, definito senza mezzi termini uomo che da oltre un ventennio fa pubblica propaganda di odio e che semina discordie insanabili, [244] polemiche politiche ma anche di natura personale che dureranno per vari mesi a testimonianza dell’odio personale che ormai caratterizzava i rapporti politici.

Un importante fatto di quest’anno fu finalmente il varo della riforma tributaria in data 16 marzo. Vi furono tentativi fino alla fine per bloccarla, con  contadini rumoreggianti in agitazione all’esterno del Palazzo Pubblico, e richieste di rinvio, soprattutto da parte dell’Unione Democratica che, in segno di protesta, uscì dall’aula consiliare; comunque fu tutto inutile perché la legge passò.

La riforma era sostanzialmente quella elaborata da Gostoli all’inizio del secolo con revisioni di altri consulenti, l’ultimo dei quali era stato il ragionier Rizzoli, funzionario delle imposte italiane. I socialisti, in questo periodo ipercritici su tutto, ovviamente la contestarono dicendo che era monca, perché non si era attuata l’imposta sul patrimonio, limitazione voluta dagli uomini della democrazia agraria, ed anche perché la popolazione non era stata preparata adeguatamente e ciò aveva creato forti malumori verso la nuova legge tributaria. Inoltre non era equa, ed era più complessa di quella ideata da Gostoli.[245]

Il 1° maggio il Partito Socialista organizzò la sua ultima grande manifestazione in Città, dove parlarono Franciosi e Giacomini, mentre nel pomeriggio ne fu predisposta un’altra presso la nuova Casa del Popolo a Serravalle, ormai pienamente funzionante.

Il clima rimaneva comunque tesissimo ed i fascisti italiani di tanto in tanto facevano le loro apparizioni in territorio. In questi mesi nacque anche un nuovo gruppo politico, il Partito Nazionale Sammarinese, composto prevalentemente da fuoriusciti del partito popolare e simpatizzanti per il fascismo.

Poiché i pericoli di un’involuzione della situazione politica cominciavano ad essere ben reali, un gruppo di cittadini, per preservare la Repubblica dai contraccolpi di ciò che stava accadendo in Italia e per riportare alla serenità del loro normale svolgimento i contrasti civili acuitisi in seguito agli avvenimenti che si sono succeduti in questo periodo, stava cercando di armonizzare tra loro i vari partiti per concludere un patto di pacificazione.

I socialisti, consapevoli che il momento politico era cambiato e che nel paese esisteva troppa acrimonia, abbandonarono le posizioni isolazioniste su cui si erano barricati, dicendosi disposti alla collaborazione e sostenendo che nel Consiglio dovessero ritrovare posto tutte le componenti politiche del paese, se si voleva davvero tornare ad un periodo di pace. Alla fine il patto di pacificazione fallì perché i partiti dovevano impegnarsi a non divulgare materiale a stampa per fomentare i dibattiti politici, a propugnare il rispetto delle leggi, delle istituzioni e dell’autorità costituita, ad adoperarsi per calmare gli animi, per tollerare e rispettare ogni ideologia, per mantenere la libertà e l’indipendenza della Repubblica, a cessare le discussioni legate alle precedenti divergenze politiche.[246] Tutti i raggruppamenti politici sottoscrissero tali clausole, ma i popolari e i democratici pretesero che i socialisti riconoscessero pubblicamente l’utilità delle azioni compiute dal governo, cosa ritenuta da questi inaccettabile. Essi quindi presentarono un loro patto in cui chiedevano il rispetto e la tolleranza per ogni ideologia politica e per ogni tipo di propaganda, la possibilità di divulgare stampe senza problemi, la sconfessione di ogni atto di violenza e dei personalismi che inducevano a scontri più per motivi individuali che per motivi politici, il riconoscimento della tradizionale ospitalità per i delitti politici. Alla fine le posizioni si dimostrarono troppo distanti tra loro ed ogni possibilità di pacificazione saltò.

Il fascismo ormai dilagava senza freni in Italia e cominciò a dare chiari segni della sua metodologia violenta anche a San Marino, dove ufficialmente si costituì in partito il 26 agosto. Nel mese di settembre una squadra fascista proveniente dall’Italia, aiutata anche da locali, entrò a San Marino per catturare l’onorevole Giuseppe Giulietti, qui rifugiato, operazione che non ebbe buon esito perché egli riuscì a non farsi trovare; tuttavia la sua casa venne devastata. Nello stesso mese fu assalita e messa a soqquadro la Casa del Popolo a Serravalle.

Il 1° ottobre venne insediata una Reggenza filofascista, e nel pomeriggio iniziarono subito violenze contro i socialisti. Giacomini riuscì ad evitare una bastonatura barricandosi nella sua casa, ma il Titano dovette sospendere all’istante le pubblicazioni.

Nella notte del 14 ottobre Giacomini fuggì da San Marino in compagnia di Alvaro Casali e Secondo Forcellini per recarsi a Roma, perché circolava voce che i fascisti lo volessero morto. Dovette quindi rimanere in esilio fino alla caduta del regime.

Il 26 ottobre avvenne un’irruzione dei fascisti nella sede della Camera del Lavoro, dove bruciarono mobili e minacciarono il suo segretario.

Nel mese di novembre furono bastonati sia Valdes che Pietro Franciosi, a cui poi venne tolto il posto d’insegnante nel liceo. Inoltre fu costretto ad espatriare per un certo periodo.

Alla fine del 1922 del Partito Socialista a San Marino non esisteva praticamente più traccia. Lo si potrà rivedere  vivo e attivo sulla scena politica solo dopo il crollo del fascismo, ovvero più di vent’anni dopo. Nel frattempo Franciosi morirà di vecchiaia, ma anche di delusione, molti socialisti saranno costretti ad espatriare per salvarsi dal fascismo e dalla miseria, altri cambieranno casacca per continuare a sopravvivere, Giacomini insieme alla sua famiglia farà a lungo la fame a Roma e Genova, dove sarà anche malmenato e incarcerato, ma si dimostrerà pronto a tornare in battaglia appena spirerà un vento più benigno per il suo incrollabile credo e per il suo inesauribile attivismo politico.

 

                                                                                                                 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE

DOCUMENTARIA

 

 

 

Appendice n° 1

 

 

Manifesto redatto per il 1° maggio 1899

 

 

LAVORATORI!

 

 

Sia lecito ai socialisti di questo paese, in un giorno consacrato alla festa del lavoro che preconizza e propizia la risurrezione del proletariato, di porgere agli operai sammarinesi una parola di ammonimento e di speranza.

Oggi in quasi tutti i paesi, ove è sorta la coscienza dei tempi nuovi e la fede nell’emancipazione del proletariato, si festeggia con adunanze e passeggiate campestri la nuova e grandiosa concezione della fratellanza umana.

Per noi, su questo monte arido,ove si è spenta e resa arida ogni energia di uomini liberi, ogni pensiero attivo e fecondo di progresso civile, ove inerti ed accidiosi assistiamo al lento ma fatale dissolversi del nostro vecchio stato, che si consuma nei tortuosi intrighi e nei brogli vergognosi di una classe privilegiata usurpatrice dei diritti altrui e dilapidatrice delle sostanze pubbliche,il primo Maggio non segna né dimostrazione né festa.

 

Lavoratori! Non disperate…..I socialisti sammarinesi facendosi interpreti dei voti e dei propositi che si rinnovano in questo giorno memorabile in ogni parte del mondo, vi fanno conscii che da voi soli, che siete la forza e la potenza e che formate ogni ricchezza, dipende il vostro benessere e che è il benessere del paese; che condizione prima di vita civile è la partecipazione politica ed amministrativa del popolo al governo dello stato; che anche nei limiti dei nostri ordinamenti possono attuarsi riforme necessarie ed opportune pel benessere economico e politico che invano sperereste dalla classe dirigente. Non vani lamenti adunque, non esecrazioni inutili e dannose, ma ferma volontà di gente che ha coscienza dei proprii doveri e dei proprii diritti.

Chiedete il diritto di voto, ed un sollecito controllo alle pubbliche amministrazioni.

Ecco il più forte ed utile proposito che possa rendere bella e santa la manifestazione del primo Maggio.

                                              

I SOCIALISTI SAMMARINESI

 

Rep. S. Marino 1 Maggio 1899

 

 

 

 

Appendice n° 2

 

 

Istanze dei socialisti presentate nell’arengo dell’8/10/1899

 

 

IL PARTITO SOCIALISTA DI S. MARINO

 

porta a cognizione di tutti i cittadini della repubblica le 2 ISTANZE presentate a suo nome nell’Arringo dell’8 Ottobre 1899, dirette a difendere gli interessi del popolo ed il bene del paese.

 

*****************

 

1° - Il Partito Socialista di S. Marino essendo venuto a conoscenza del proposito già stabilito dal Governo di applicare delle imposte che verrebbero a gravare principalmente sulla parte povera della popolazione, invita il Consiglio a soprassedere ad ogni deliberazione d’ordine finanziario, avendo motivo di credere che con una adatta riforma del bilancio sia possibile far fronte almeno ad una parte del disavanzo, per cagion del quale si vogliono applicare le imposte.

        In ordine a ciò il Partito Socialista di S. Marino, riserbandosi di sviluppare con studi che si renderanno pubblici le economie e gli aumenti d’introito possibili in base all’attuale bilancio, nota in massimo le grandi spese nel “MINISTERO DELLA REGGENZA”, (Uscita – Capitolo 1°) e quelle segnate sotto il titolo “FORZA PUBBLICA” (Uscita -  Capitolo 4° ) in cui fra l’altro si vede come        8 CARABINIERI CONSUMINO ANNUALMENTE PER £. 540 DI SCARPE; e per quel che è dell’attivo nota altresì il poco profitto nella “AMMINISTRAZIONE DEI TABACCHI”, ed il provento irrisorio di £. 6.500 dei “BENI DI PUBBLICA BENEFICENZA” che costituiscono all’incirca un capitale di £. 200.000.

Qualora coi mezzi di cui sopra non si riuscisse a cancellare il disavanzo esistente, il Partito Socialista di S. Marino propone un sistema D’IMPOSTA UNICA SUL REDDITO, CON ESENZIONE DEI REDDITI MINORI E PROGRESSIVITA’ PEI MAGGIORI.

 

******************

 

2° - Il Partito Socialista di S. Marino riconoscendo che gli inconvenienti di bilancio già citati e l’irregolare funzionamento delle amministrazioni sono determinate principalmente dalla mancanza di controllo pubblico;

che coll’attuale forma di governo gli interessi ed i bisogni popolari non sono direttamente rappresentati e soddisfatti;

che condizione prima di vita civile è la partecipazione politica ed amministrativa del popolo al governo della cosa pubblica;

che in quanto a forma, il nostro governo è in contraddizione col suo nome di repubblica, rimanendo inferiore in ordine politico al vicino regno d’Italia, dove funziona il diritto di voto;

PROPONE CHE SI ATTUI UNA RIFORMA PER CUI SIA ISTITUITO IL SUFFRAGIO UNIVERSALE CON LE ELEZIONI DEL CONSIGLIO IN BASE DI ESSO.

 

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        S. Marino Tip. P. Angeli 1899

 

 

 

 

Appendice n° 3

 

 

Statuto della Federazione Socialista Sammarinese

11 novembre 1906

 

 

1. Tutte le sezioni socialiste della Repubblica di San Marino iscritte al Partito Socialista Italiano costituiscono la Federazione Socialista Sammarinese.

2.  La Federazione ha per iscopo:

a - di armonizzare e regolare l’azione delle sezioni locali;

b - di provvedere al consolidamento delle sezioni locali esistenti, alla creazione di nuove sezioni, allo sviluppo della potenza del proletariato mediante un’assidua propaganda ed un insistente lavoro d’organizzazione;

      c - d’intervenire a regolare tutti i rapporti fra sezioni e Partito nazionale.

3. Nessuna quota è dovuta alla Federazione e le eventuali spese verranno sostenute o in comune o conforme il bisogno da chi di ragione.

4. Organo di propaganda politica della Federazione è il giornale Il Titano.

5. Organi di Federazione sono:

            a - l’Assemblea Generale delle sezioni riunite;

            b - la Commissione esecutiva.

6. L’Assemblea Generale è costituita dai soci delle sezioni riunite; è convocata ordinariamente una volta ogni due mesi dalla Commissione Esecutiva, e in via straordinaria quando ne sia fatta richiesta per iscritto alla Commissione stessa da non meno di sette soci delle sezioni federate.

7. L’Assemblea Generale delle sezioni riunite è chiamata ordinariamente

         1° - a discutere e stabilire l’indirizzo generale del Titano, ad assumere la responsabilità amministrativa e politica, curandone la diffusione e la sua progressiva vitalità.

         2°  -  a discutere e deliberare sulla tattica elettorale.

         3°  -  a discutere preventivamente le questioni poste all’ordine del giorno dal Congresso Nazionale interessanti la vitalità del Partito.

8. L’Assemblea Generale delle sezioni riunite è valida con la metà più uno degli iscritti presenti e residenti in Repubblica.

9. La Commissione Esecutiva sarà composta di cinque membri e dovrà scegliersi nel suo seno un Segretario.

10. E’ compito della Commissione Esecutiva di dare esecuzione ai deliberati delle Assemblee Generali. Essa ha inoltre una funzione direttiva per le iniziative che possa ritenere necessarie di prendere senza ritardo e funziona pure come Giudice d’appello nelle questioni che non si siano potute effettivamente risolvere dalle sezioni. Convoca l’Assemblea Generale di sua iniziativa o quando ne è richiesta ai sensi dell’articolo sei, dirige il lavoro elettorale curando che sia distribuita utilmente la propaganda secondo i bisogni.

11. Le Assemblee Generali mensili o straordinarie saranno tenute alternativamente in Borgo e in Città.

12. I membri della Commissione Federale Esecutiva sono scelti al di fuori di quelli delle Commissioni esecutive sezionali.

 

 

 

 

 

 

 

Appendice n° 4

 

Elenco degli iscritti alla Federazione Socialista nel 1907

 

1.      Albini Giuseppe

2.      Angeli Gino

3.      Balsimelli Alessandro

4.      Belloni Nullo

5.      Belloni Scipione

6.      Belluzzi Giuliano

7.      Bombini Augusto

8.      Bonelli Ario

9.      Bruschi Luigi

10. Beccari Gaetano

11. Beccari Giuseppe

12. Belleffi Benedetto

13. Calisesi Paolo

14. Calisesi Pompeo

15. Capicchioni Girolamo

16. Capicchioni Settimio

17. Casadei Achille

18. Casali Alfredo

19. Casali Sanzio

20. Ceresa Attilio

21. Cesarini Antonio

22. Corsucci Angelo

23. De Biagi Sante

24. Della Balda Francesco

25. Foschi Augusto

26. Franciosi Antonio

27. Franciosi Pietro

28. Francisci Annibale

29. Forcellini Domenico

30. Forcellini Secondo

31. Gardenghi Federico

32. Giacomini Angelo

33. Giacomini Gianetto

34. Volpini Giuseppe

35. Zani Angelo

36. Giacomini Gino

 

37. Giacomini Pio

38. Giancecchi Doro

39. Giovannarini Giuseppe

40. Giovannarini Sanzio

41. Ghiotti Luigi

42. Graziosi Enrico

43. Lividini Curzio

44. Lombardi Luigi

45. Lombardi Raffaele

46. Macina Alessandro

47. Macina Pietro

48. Macina Reginaldo

49. Macina Marino

50. Marchi Giovanni

51. Marchi Giuseppe

52. Mariani Giuseppe

53. Mariotti Marino

54. Molinari Cafiero

55. Montemaggi Raffaele

56. Muratori Innocenzo

57. Palmucci Lazzaro

58. Ravezzi Arturo

59. Reffi Alberto

60. Reffi Marcello

61. Reffi Rufo

62. Salicioni Colombo

63. Sapori Luigi

64. Scorrano Amedeo

65. Simoncini Lorenzo

66. Simoncini Marino

67. Simoncini Sivio

68. Stacchini Angelo

69. Tamagnini Giovanni

70. Ugolini Francesco

71. Ugolini Vito

72. Vincenti Giovanni

73. Volpini Angelo

 

 

 

Appendice n° 5

 

 

Atto di ricostituzione della Federazione Socialista

20 dicembre 1914

 

 

La Federazione Socialista nell’atto della propria ricostituzione prende impegni d’intendere i propri sforzi alla ripresa di un movimento di preciso carattere politico ed economico consono alle finalità e alla pratica del Partito Socialista Internazionale, riafferma i principii fondamentali della dottrina per cui il Partito è spinto ad agevolare la naturale evoluzione che porta la società a sostituire alla gestione privata la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, riconosce conforme alla concezione del determinismo economico che la progressiva espropriazione e socializzazione si attua con lo strumento della lotte di classe, conferma che la realizzazione di questo obiettivo presuppone così nel vasto campo dell’aggregato sociale come nella piccola convivenza della Repubblica che in quello si identifica e vive la sua vita di relazione tutta una lenta e graduale trasformazione di sistemi e un progressivo elevamento della classe proletaria che non può avvenire se non per virtù di esercizio che crea le forze e per conseguenza di riforme che sono la sintesi di laboriose maturazioni. Riconosce che nel campo dell’azione quotidiana per il raggiungimento degli scopi sopra esposti due capisaldi sono da ritenersi indispensabili: l’organizzazione operaia e l’azione politica. Conseguentemente riconosce l’urgenza di organizzare la classe operaia per il compimento della propria educazione di classe in una schietta forma sindacale di categoria e a tale uopo si propone di promuovere l’istituzione di una Camera del Lavoro che risponda al carattere, alle forme, alla funzione degli organismi proletari di tutti i paesi, che valorizzi ai fini sociali gli aggregati operai attuali, che regoli e armonizzi l’azione delle varie categorie, che organizzi i contadini e le altre classi operaie disperse, e diriga il proletariato sammarinese ad un’azione consapevole di resistenza, di pressione, di conquista verso la classe borghese, azione che sarà tanto più fruttuosa e rispondente al fine dell’emancipazione quanto più sarà animata dalla fede di cui si rende assertore il Partito Socialista. Riconferma il fine della conquista dei poteri pubblici in virtù di proselitismo e di espansione politica e l’obiettivo di una repubblica a forma sociale intesa ad agevolare le aspirazioni e i bisogni della classe lavoratrice e rendersi strumento di un progressivo ordine di eguaglianza economica e a maturare un superiore assetto democratico e civile, capisaldi di questa attuazioni sono: nell’ordine finanziario, un sistema tributario globale e progressivo che abbia derivazione dalla capacità della classe abbiente a corrispondenza di un indeclinabile dovere civico, a rettifica dello squilibrio economico fra le varie classi, a stimolo delle operosità industriale e commerciale. Nell’ordine sociale, le pensioni agli invalidi e ai vecchi, attuate possibilmente con l’utilizzazione dei beni di mano morta, assistenza dell’infanzia e della maternità, incremento della coltura popolare e professionale, tutela della disoccupazione, difesa dei consumi, esercizio diretto dei servizi di prima necessità,. Nell’ordine politico: democratizzazione del governo sulla base delle forme costituzionali della Repubblica, separazione della Chiesa dallo Stato sulla base del più largo spirito di libertà, eleggibilità diretta della Reggenza, definizione e riorganamento dei poteri pubblici in genere del Consiglio di Stato in particolare, in ordine a una razionale divisione di funzioni, di competenze e di responsabilità, disciplina degli uffici. Ritiene che, ad asperire e a raggiungere l’aspetto di una Repubblica che corrisponda agli intenti e alle forme della civiltà sociale in pieno divenire, il Partito Socialista Sammarinese deve esercitare un’azione distinta, chiara, disciplinata che sia consona alla sua specifica funzione, che lo differenzi da ogni altra tendenza, che lo preservi dalla partecipazione attiva o passiva al sistema vigente di governo, e dalle conseguenti responsabilità, e infine da compromessi politici che lo destituirebbero della sua forza rinnovativa, onde, pur rendendosi conto del carattere della vita locale e dell’inevitabilità di contatti e di collaborazioni spontanee e contingenti nell’ambito della vita cittadina, e pur riconoscendo che le realizzazioni economiche e politiche cui mira il Partito Socialista Sammarinese saranno conseguibili a prezzo di un’opera paziente e equilibrata, che abbia piena sensibilità delle condizioni storiche, politiche, ma che sia decisamente orientata al proprio fine, determina che essendo inconciliabile con la concettualità e la pratica socialista e democratica l’indirizzo governativo e le forme statali attualmente in vigore, è da escludere ogni partecipazione e ogni consenso agli ordini del potere esecutivo. Ritiene che dopo il fallace tentativo di concentramento democratico sia necessario accentuare il processo di differenziazione pur tendendo a propulsionare  le forze politiche affini; dà mandato al gruppo consiliare di costituirsi organo di controllo, di avvaloramento e difesa del programma socialista in contrapposizione all’opera dei rappresentanti della classe abbiente e conservatrice che con la finzione nominale della repubblica, col,pretesto della tradizione, con l’inganno sentimentale del patriottismo, consolida il proprio privilegio economico ed oppugna ogni atto di reale progresso. Stima inderogabile necessità recare in tutte le varie funzioni, opere, istituzioni della vita pubblica ov’è concesso di rendersi utile a scopo sociale, l’orientazione, il metodo, la consuetudine che son propri alla dottrina e all’azione socialista per operare con diritta consapevolezza quella trasformazione della vita civica nelle sue varie manifestazioni, che è reclamata dal presente rilassamento e disagio morale e politico; s’impegna a svolgere un’opera di educazione, di propaganda, di organizzazione e di vigilare che tutti i propri aderenti, specie coloro che hanno attributo di rappresentanza, si uniformino al programma socialista e alle deliberazioni del Partito, e non contravvengano a quei principi di rettitudine politica che sono la bellezza e la forza della fede socialista, e delibera infine, a presidio di questa varia opera, la pubblicazione di un proprio periodico.

 

 

 

 

 

 

Appendice n° 6

 

 

La riforma dei poteri pubblici

Proposta del Gruppo Consiliare Socialista

presentata all’Arengo dell’8 Aprile 1917

 

 

Da che il Gruppo Socialista ha assunto nel Consiglio Grande della Repubblica una linea di condotta autonoma e un atteggiamento e una disciplina conforme alle idealità e al programma che lo indirizzano nella vita pubblica, si è imposto l'obbligo di negare la propria partecipazione alle elezioni della Reggenza.

A tale rifiuto è stato indotto non dal futile desiderio di compiere un gesto o una formalità o, peggio, una finzione di parte, quant' altre mai condannabile nell'attuale momento, ma dal preciso e meditato intendimento di. negare qualsiasi consenso, tacito o palese, ad un ordine di cose che esso reputa cagione delle cattive sorti della Repubblica.

Nel dar atto in Consiglio della,deliberata astensione, il Gruppo espresse le ragioni di principio e.di fatto che giustificavano il proprio atteggiamento, e successivamente prospettò per accenni la riforma che stimava idonea e atta a rimuovere le cause immediate che ostacolano il regolare svolgimento della pubblica amministrazione e ad assicurare, sull’esempio di ogni civile costituzione, un più saldo ordinamento funzionale. Ma fosse o l'argomento immaturo, o invisa la parte che lo presentava, o negativa la volontà consiliare, sta di fatto che la proposta fu affidata negligentemente ad una Commissione matrigna la quale fu tratti a dimenticare il suo compito.

Ora, poiché il Gruppo Cons. Socialista non vuol rendersi trascurato di uno dei suoi più imperiosi doveri, precisa la sua critica, chiarisce i suoi intenti e sottopone alla discussione del Consiglio il suo schema di riordinamento, avvalendosi dell’Arengo non tanto per assicurare alla proposta il diritto della precedenza, quanto perché essa consegua quel requisito di pubblica importanza che a giusto titolo le risulterà dal fatto di essere stata affermata in pieno consesso popolare.

Non occorre sottile discernimento critico per avere chiara percezione di quel fenomeno di dissolvimento che travaglia e insidia tutta la nostra vita pubblica. Distinti sono i segni di un temibile rilassamento nei legami, nei rapporti, nei costumi nostri, e ciascuno si rende consapevole di un ordine di cose profondamente disarmonico e di uno stato d' animo perturbato, fatto di sfiducia e di sospetti, di egoismi e di trascuranze che investe tutti i nostri istituti politici e civili e invanisce ogni sforzo e ogni iniziativa volti al bene comune. E’ specifico e palese l’accentuarsi di quella piega e tendenza antisociale per cui classi, gruppi e singoli, senza remora, senza temperanza e

senza misura gareggiano in esorbitanze e mirano ad accaparrarsi o a consolidare o ad estendere esenzioni, benefici, privilegi e tornaconti in perfetto contrasto col bene pubblico; e tutto uno spirito e una pratica consacrata di accattonaggio, di cui fan primo esercizio le classi abbienti che per esimersi dai carichi fiscali si studiano di trarre profitti da estranee derivazioni con evidente sacrificio della dignità e autonomia dello stato, umilia e deprime la nostra vita pubblica.

Dal fondamento anormale di questa prassi finanziaria trae origine quella caratteristica forma di attività. governativa, che si esercita in un continuo consumo senza compensi e senza reintegrazioni, quella politica di immediato, vario, dissennato accontentamento che. logora e sperpera beni, cose e uomini, senza meditati intenti e senza utilizzazioni durevoli, precludendo il conseguimento di un migliore e perfettibile ordine amministrativo e politico e la formazione progressiva di quegli istituti e presidi sociali capaci di valorizzare ed elevare le forze economiche, morali e civili della collettività.

Profonde e remote, cause che è fuor d' opera investigare, hanno prodotto, questa alterazione dei nostri costumi, essenziale tra tutte l'insufficienza e primordialità dell'economia locale, che se assicurò alla Repubblica tanta longevità oggi ne minaccia, la esistenza libera e feconda. Vero è però che una causa contingente di.questo fenomeno si deve ricercare nel fatto che la nostra vita dapprima raccolta e spinta poi, sotto l'influenza e la pressione di eventi universali, in una fase improvvisa di espansioni, di bisogni, di esigenze economiche e sociali nuove, non che trovare nelle sua crisi di crescenza ordini e poteri adeguati alle ulteriori necessità, ha dovuto subire la costrizione di un vieto sistema di governo condannato a insanabili incapacità.

L' Arengo del 1906, che pareva felicemente destinato a rendersi stromento di tutto un nuovo ordine di cose, si è fermato alla scheda, e colla scheda la democrazia ha coperto una piaga profonda e ha ingannato momentaneamente il male stesso che travagliava tutto il paese.

Le riforme politiche amministrative e tecniche, che si presentavano come conseguente corollario di quel primo atto di rinnovamento civile, furono bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati; e rimase intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e coi suoi vizi organici, coi, suoi costumi e con tutto il suo armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano in un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità.

E tale ancora rimane.

0gni manifestazione e ogni atto della nostra vita pubblica offre motivo di malcontento a chi consideri i fatti in sé e per sé come il prodotto di determinazioni personali e immediate, e materia di critica a chi si rende consapevole delle cause mediate e immanenti da cui rampollano.

Tutto ciò che ha attinenza e relazione colla nostra vita pubblica: da una pratica di servizio a una delibera consiliare, da una misura a una legge; da un atto amministrativo ad un ordine di funzioni permanenti; da un caso comune a un fenomeno complesso; dal fatterello di cronaca allo scandalo irreparabile, tutto offre una categorica prova alla tesi da noi pertinacemente sostenuta: che il sistema che ci regge, nella sua struttura organica non meno che nello spirito morale e politico che lo informa e nel criterio amministrativo che lo guida, è la negazione di una bene ordinata democrazia.

Quei nostri avversari politici che lamentano tutto il cattivo andazzo delle cose pubbliche, pur rimanendo i più gelosi custodi e le volontà predominanti dell’ordine costituito; che si trovano nell’imbarazzante caso di dirigere le pubbliche faccende e di doverle ripudiare per la piega che esse prendono inevitabilmente, non si fermino alle constatazioni, ma ci seguano senza preconcetto sul campo d’esame dove noi cerchiamo di individuare le cause e le origini prossime del male e di trovare i rimedi risanatori che fanno all’uopo. Noi ci asterremo di proposito dal trattare e proporre quelle riforme e quelle soluzioni che costituiscono il substrato fondamentale e dottrinario del nostro programma socialista, desiderosi come siamo, di evitare tutti quegli argomenti di carattere spiccatamente politico sui quali si accenderebbero irriducibili contrasti.

L’ora che volge e gli avvenimenti che maturano, reclamano un’opera di più facile intesa, un’opera preliminare, che è il presupposto comune ad ogni ordine di idee e di propositi sul funzionamento dello stato: l’assetto dei poteri pubblici.

 

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       E’ ovvio trarre dai fatti constatati e constatabili questa deduzione: che la Repubblica non ha un governo, nel rigoroso senso con cui deve essere intesa e concepita la funzione preminente, direttiva, coordinatrice e responsabile dello stato.

       E’ un’affermazione cotesta che sembra a tutta prima paradossale a chi fermi il pensiero su quella congerie di istituzioni che dal Consiglio Generale ai Congressi, alle Commissioni, affaccenda un numero così rilevante di uomini pubblici.

       Ma dall’esito di un qualsiasi esame è facile rendersi convinti che nel nostro ordinamento organico manca la vera e propria funzione dell’amministratore, manca il corpo costituente il potere esecutivo, depositario della volontà del Consiglio, delegato a preparare, a elaborare e ad attuare tutto ciò che è materia di pubblico governo, mentre tutti gli altri organi, che risentono della mancanza di questo centro coordinatore, sono destinati a sconfinare dall’orbita loro propria, legislativa, ordinativa o consultiva.

       A tutt’oggi si continua ad equivocare ancora grossolanamente fra Governo e Consiglio che alcuni confondono in una stessa immedesimazione.

       Il Consiglio legifera, determina, orienta ma non opera; chi opera, chi prepara, chi si rende responsabile della esecuzione della volontà consiliare è il governo, cioè il potere esecutivo. Noi non abbiamo bisogno di ricorrere alla dottrina e al giure costituzionale per avvalorare questo principio che ovunque è in atto.

        Ora, questo potere esecutivo, permanente, responsabile non c’è, e il Governo della repubblica è la risultante, e potremmo dire lo squilibrio, fra due forze politiche, il Consiglio Generale, troppo esteso, vario ed estemporaneo per assumersi funzioni che esigono una cura diuturna minuta e vigile, e la Reggenza troppo casuale e effimera, per sostenere da sola il fondo amministrativo di uno Stato ancorché piccolo.

Invero, chi oggi impersona il Governo, benché per un processo di discriminazione, varie funzioni sì giudiziarie che amministrative, originariamente assommate nella suprema magistratura, siano venute trasferendosi in organi e offici distinti; chi dirige nel suo complesso movimento, e nel suo corso, la vita pubblica, è la Reggenza, la quale, per l’inesorabile vicenda della sua caducità, non meno che per la casualità della sua designazione, che è sempre un giuoco cieco quando non è uno scherzo di cattivo genere, dà luogo ad un governo provvisorio e alternativo, un governo travagliato da una permanente crisi di gabinetto, in periodica soluzione di continuità.

Data la breve fazione e finzione della Reggenza seviziata, oltre che dall’impaccio di una etichetta di stile alquanto pretenzioso e arcaico, dal carico e dalla preoccupazione delle più opposte faccende, per cui è posta essa sola allo sbaraglio delle più impensate circostanze, il potere esecutivo si esaurisce, impotente alla attuazione di meditati programmi amministrativi nel disbrigo minuto dei provvedimenti giornalieri a cui ogni Reggenza attende in diverso modo,          

secondo le sue attitudini, i suoi umori e le sue abilità.

Tendenza incoercibile e fatale di questo potere aleatorio è quella di sbarcare il lunario, evitando gli scogli, e di dar soddisfazione al pubblico che reclama o postula.

Gli affari grossi e piccoli che involgono responsabilità, vengono scaricati, così come si presentano, ex novo, senza studi o riferimenti, al Consiglio Grande, il quale, abbordato di sorpresa, pronuncia le sue decisioni in materia di leggi o di finanze, di bilanci e.di lavori, in un continuo sforzo d'improvvisazione, facendo e disfacendo dall' oggi al domini come in un tela di Penelope.

L' assenza-di un potere investito di facoltà preordinatrici ed esecutorie, espressione dello volontà e dell' indirizzo della maggioranza, fa sì che ogni pubblico officio perda di vista il limite delle proprie attribuzioni e dei propri obblighi, talché mentre alla Reggenza spetta di inoltrare ogni sorta di pratiche, al Consiglio è demandato il compito sproporzionato di risolvere e di dar fondo a tutta la materia amministrativa nei suoi particolari e dettagli attuabili e di risolvere finanche casi di stretto carattere esecutorio, tecnico e funzionale, mentre poi né l'una né l' altro sono in grado, per la loro stessa natura, di dominare e di convogliare, nell' alveo di ordinate branche, le varie funzioni e i vari servizi pubblici.

A destituire poi la Reggenza di ogni efficacia rappresentativa nel suo affrettato transito di            Perseide al potere, che dà alla Repubblica un po' di barbaglio decorativo e lascia il cielo che trova, contribuisce l'elezione fatta per sorteggio, con che al Consiglio si inibisce la scelta diretta e consapevole dei propri mandatari.  Ne consegue che ogni elemento di responsabilità, nell' esercizio del potere, viene senz'altro di fatto annullato e la Reggenza diventa un pesce d' Aprile a tutto scapito della autorità dello Stato e della dignità di un libero paese.

Il potere fittizio e labile che ci regge tuttora e l' assenza di un corpo consapevolmente delegato a dirigere i pubblici negozi e a rispondere di fronte al Consiglio, dei proprii atti amministrativi e politici, ha cagionato infinite iatture al paese, estrema fra tutte quella di dover affidare compiti e operazioni di grande importanza politica morale e finanziaria alla discrezione di qualche cittadino posto così al di fuori e al disopra del Governo, e sul quale il Governo stesso, sprovveduto di sicuri presidi, non ha potuto esercitare un'oculata opera di controllo.

Orbene, di fronte all'interesse supremo della Repubblica, chi vorrà ancora farsi schermo di formalismi e di tradizioni superate, chi vorrà aduggiarsi in vieti pregiudizi e misoneismi, per negare alle progressive sorti e fortune della nostra terra, quegli ordinamenti che siano in corrispondenza colle nuove esigenze civili e diano affidamento di un costume pubblico migliore?

L' irriducibile ossequenza a forme, ad usi, a spoglie morte, che costituiscono un elemento di disagio alla vita moderna, è atto di spiriti angusti e di menti sviate che sentono il prestigio delle istituzioni solo nelle loro caricature, e parodie deformi.

 

 

*****

 

Se il Gruppo Consiliare Socialista, il quale al postutto non può essere indiziato e sospetto d'alcuna aspirazione al potere, dovesse manifestare intero il proprio pensiero in tema di riforme costituzionali, avrebbe facili argomenti atti a dimostrare che per restituire la Reggenza ad una autorità efficiente, occorrerebbe assegnarle anzitutto un periodo di vita maggiore dell' attuale e corrisponderle una indennità che le permettesse di attendere ai pubblici negozi senza personale discapito.  Mi poiché, conseguente alle proprie premesse, il Gruppo vuol limitarsi alla presentazione delle riforme di più immediata attuazione e che non toccano il fondamento delle disposizioni statutarie più antiche, propone sul momento la nomina della Reggenza per votazione diretta come conseguenza del suffragio statuito per la scelta dei Consiglieri, dall' Arengo 1906.

Convenuto che alla Reggenza debba conservarsi il breve transito semestrale che non può consentirle se non un'investitura formalmente rappresentativa, si consolidi il Congresso di Stato che fino ad oggi ha avuto funzioni pressoché consultive, esercitate non oltre la breve seduta in cui è chiamato a parere sulle quistioni cui piaccia alla Reggenza di aver lume e chiarimento, e che rimane esautorato a segno di confondersi in Consiglio nell' aggregato generale.

La Reggenza, suprema magistratura della Repubblica, abbia mansioni di presidenza più dignitose e meno defatiganti, non sia la carica d'utilità, buona a tutti i servigi, ma diriga lo Stato, il Governo, il Consiglio, i Congressi, e si riserbi di attendere in modo particolare agli alti e delicati affari politici e diplomatici, alla giustizia, alla sicurezza pubblica, alle milizie.

Il Consiglio di Stato venga investito di vere e proprie attribuzioni di governo, quali sono implicite a un ministero, a una giunta, a una deputazione, a quegli organi, insomma, che ricorrono negli ordinamenti statali e municipali di tutti i paesi. Sia diviso in Dicasterii o deputazioni, per modo che ciascun membro venga posto a capo di una speciale branca pubblica.

Senza intento né intenzione di sconfinare dai limiti imposti, all' economia e al carattere di questa nostra sintesi, stimiamo opportuno fin d'ora di tracciare sommariamente la delineazione del Consiglio di Stato nel modo che segue:

 

1.      Dicastero - Affari politici e diplomatici – Giustizia – Sicurezza pubblica – Milizie;

2.            =        - Finanze ed Economato;

3.            =        - Lavori pubblici;

4.            =        - Istruzione;

5.            =        - Annona, Agricoltura, Industria e Commercio;

6.            =        - Sanità e Igiene;

7.            =        - Stato civile;

8.            =        - Poste, Telegrafi, Telefoni e Comunicazioni;

9.            =        - Beneficenza e Assistenza.

 

Ogni deputato abbia in ordine di subordinazione amministrativa gli uffici e i servizi propri; curi le funzioni che si collegano al ramo cui è assunto; assista o presieda il corpo consultivo annesso; vigili e controlli gli uffici che gli sono soggetti.

Collegialmente e sempre sotto la presidenza della Reggenza da cui riceve le funzioni, il Consiglio di Stato prepari la materia che deve essere posta discussione: le          leggi, i regolamenti, i progetti, i bilanci ecc. muniti regolarmente dei riferimenti dei corpi consultivi; delle relazioni di segreteria e dei singoli uffici; dia esecuzione alle deliberazioni del Consiglio generale; prenda sotto la sua responsabilità le deliberazioni che altrimenti spetterebbero all'assemblea, quando l’urgenza sia tale da non permetterne la convocazione; dia atto ai lavori approvati dal Consiglio; regoli i contratti e i capitolati; autorizzi le spese richieste preventivamente dai singoli uffici, e di conseguenza esamini e controlli le fatture e le note di lavoro, di fornitura e simili, prima che queste siano sottoposte al visto della Commissione del Bilancio; infine sieda a lato della Reggenza nelle convocazioni del Consiglio Generale e risponda della propria opera.

Il Consiglio Generale disciplini convenientemente, i proprii lavori adottando nuove misure regolamentari intese: a fissare le sessioni ordinarie specie per la discussione del Preventivo e del Consuntivo, il quale ultimo è conosciuto, senza alcun atto ufficiale, solo dopo la sua pubblicazione; a stabilire i casi d' incompatibilità nella elezione del Consiglio di Stato e simili; a riconoscere il diritto dell'astensione; ad adottare il sistema di votazioni per scheda nelle nomine plurime, come mezzo più dignitoso, più logico e più spedito; ad abolire ogni e qualunque specie di sorteggio anche nella scelta dell'Avvocato dei poveri, del Procuratore fiscale e simili; a enumerare i casi nei quali si rende obbligatorio il raggiungimento dei due terzi nelle votazioni sull'oggetto di spese, confermando esplicitamente l'applicazione di questo criterio nei casi in cui 1a votazione si riferisca ad oggetti che abbiano uno stanziamento generico nel pubblico bilancio; a vietare la ripetizione delle votazioni su oggetti respinti, anche quando si ricorre all'espediente artificioso di decurtare la somma richiesta; a determinare perentoriamente che in materia di lavori pubblici due fasi occorrono per rendere perfette le deliberazioni e cioè una votazione di massima sull' oggetto proposto e una votazione di spesa previa presentazione del progetto tecnico e finanziario; e che in sede di bilancio le votazioni in blocco non debbano essere ammesse se non nel caso di lavori già in esecuzione pei quali occorrano ordinari stanziamenti annuali; a vietare la trattazione di argomenti non iscritti all' ordine del giorno e a riconoscere l'urgenza solo nei casi aventi peculiari caratteri d'interesse pubblico.

Con queste e altre norme di procedura parlamentare il Consiglio assumerà una regola, una disciplina, una condotta normale e uniforme, quale si addicono al prestigio delle sue alte funzioni, oggi sminuite dalla casuale e spesso contraddittoria pratica della quale è in balia.

La Commissione del Bilancio, importantissimo organo di tutela e di controllo delle pubbliche finanze, non sia immiserito al solo compito quindicinale di visitare le note contabili, né abbia posizione subordinata al Consiglio di Stato, cosi come prescrive il regolamento che lo istituì, ma venga investito di ampi poteri di verifica e revisione degli uffici contabili, di cassa, di posta dei magazzini; sia chiamato a compilare col Consiglio di Stato il Bilancio pubblico del quale è depositario; sia considerato come corpo giuridico indipendente, e formato di persone estranee al potere esecutivo e agli uffici.

A compiere il riordinamento proposto, opiniamo convenga disciplinare i Corpi consultivi e le  Commissioni speciali che vorrebbero essere ridotte nel numero dei loro componenti, per maggior utilizzazione del personale e più agilità e prontezza di funzionamento; dare assetto agli uffici amministrativi e tecnici per le necessarie coordinazioni colle branche del potere esecutivo; infine eliminare le cariche di ripiego e le istituzioni minori cadute già in disuetudine o resesi inattive, e tutti gli organi, le cui attribuzioni verrebbero riassunte dal Consiglio di Stato e che risultano, col nuovo assetto proposto, anacronistiche o pleonastiche.

 

 

*****

 

Con la presentazione di questo schema di riordinamento dei poteri pubblici tracciato in linee sintetiche, il Gruppo Socialista ha compiuto il dovere che più gli premeva nell’attuale momento.

Non vana smania di nuovo; non orgogliosa ostentazione di parte; non meschina speculazione politica lo muovono; ma la fede nei proprii ideali e l’amore ineguagliabile per la Repubblica; la coscienza di aver piena visione della realtà presente, di saper interpretare i bisogni sociali più sensibili e di rendersi conto come lo strumento civile più valido a risanare la vita pubblica sia la riforma del sistema, senza di che non si rimuove la causa prima di questo profondo stato di alterazione e ogni sforzo pur stimabile è destinato a naufragare, ogni opera pur buona è condannata a deperire non trovando collocazione in ordine saldo che garantisca ampiamente di sé, ogni uomo pur ben intenzionato alla pubblica salute è tratto a guastarsi.

Vi sono ore nella storia d' ogni paese in cui gli avvenimenti, lungamente forzati in mal costrutte forme sociali, si presentano in rivincita, armati del terribile dilemma: o rinnovarsi o perire, di fronte ai quali mal si risponde coi meschini latinetti e colle giaculatorie della tradizione.

Questa ora è la nostra!

                                                            San Marino, 8 Aprile 1917.

 

                                                              Il Gruppo Consiliare Socialista

 

Belloni Scipione - Casali Alfredo - Cesarini Antonio - Franciosi Pietro – Giacomini Gino – Giacomini Pio – Giovannarini Giuseppe – Reffi Marcello

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. sul periodo V. Casali, Il delitto Bonelli, San Marino 1992.

[2] P. Franciosi, Alcuni medaglioni sammarinesi, S. Marino 1915. Garibaldi e la repubblica di San Marino, S. Marino 1891. La R.S.M. nel Risorgimento d’Italia  in Congresso fra i collaboratori della “Romagna”, Jesi 1905.

[3] Cfr. Legge per i sussidi agli studenti del 28/3/1887, in T. Giannini, M. Bonelli, Raccolta delle leggi e decreti della R.S.M., Città di Castello 1900.

[4] Senza risalire troppo nei secoli, dall’episodio legato all’invasione del cardinale Alberoni, passando per i fatti del 1797, del 1848 – 1854, e attraverso il pensiero di personaggi come Giacomo e Valerio Martelli, della seconda metà dell’Ottocento, o i Casali del Borgo, o altri ancora, si può affermare senza tema di smentita che una mentalità assolutamente consapevole di cosa dovesse realmente significare res publica era ben viva,  in particolare presso membri del ceto medio commerciale o artigiano di San Marino.

[5]Leges Statutae Reipublicae Sancti Marini, Firenze 1895 (ristampa).   

[6] Ibid. , libro I, rub. III e IV.

[7] Sull’ episodio cfr. V. Casali, Pane, vino e ribellione, in Annuario della Scuola secondaria Superiore, n° XXIV e n° XXV, a.s. 1996/1997, 1997/1998.

[8] N. Matteini, Il giornalismo nella R.S.M., San Marino 1967.

[9] Archivio di Stato della RSM (ASRSM),  Carteggio della Reggenza.

[10] ASRSM, Carteggio della Reggenza.

[11] Sul periodo si veda: V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, ed. Cosmo, Verucchio 1994.

[12] Ibid.

[13] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. TT, n° 43.

[14] ASRSM, Atti del Congresso economico, vol. E, n° 5.

[15] ASRSM, Atti del Consiglio, cit., seduta del 22/8/1882.

[16] ASRSM, Atti del Consiglio, cit.

[17] Il Giovane Titano, anno II, 5/9/1882.

[18] V. Casali, Il delitto Bonelli, cit.

[19] ASRSM, Circolo del Titano, b. 28.

[20] ASRSM, Società dei Reduci, b. 24.

[21] Presso la Biblioteca di Stato esistono vari manifesti e documenti firmati dai socialisti anarchici del Titano diffusi tra il 1885 e il 1891. Cfr. il volume: Biblioteca e ricerca – Quaderni del Dicastero Pubblica Istruzione e Cultura n° 2, p. 152, Aiep Editore, San Marino 1983.

[22] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. XX, n° 46.

[23] 1° maggio. Numero unico dei Socialisti Sammarinesi. Urbino 1898. La ristampa anastatica è stata diffusa con Il Nuovo Titano n° 18 dell’aprile 1998.

[24] P. Franciosi, A. Reffi, Brevi notizie sul passato, sul presente e sul futuro delle finanze della R.S.M., Bologna 1894.

[25] Si veda in proposito il mio intervento sulla rivista Labirinti, anno 1, n° 2, ottobre 1997.

[26] P. Franciosi, Come si possa secondare nella R.S.M. l’odierno movimento sociale, Roma 1898. Ne esiste anche una seconda edizione stampata a Morciano di Romagna nel 1902 con qualche integrazione.

[27] Si veda in proposito V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli – La RSM nell’età della Destra Storica, San Marino 1994. V. Casali, San Marino e il suo nuovo Palazzo Pubblico: storia di un’esigenza secolare, in AAVV., La RSM e i segni carducciani, San Marino 1993.

[28] ASRSM, Atti del Congresso Economico, volumi F n° 6, e G n° 7.

[29] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. XX, n° 46.  

[30] ASRSM, Atti del Congresso Economico, vol. G, n° 7.

[31] Biblioteca di Stato, Fondo Franciosi.

[32] Venne fatta una lunga relazione reperibile in ASRSM, Atti del Consiglio, seduta del 24/9/01, vol. YY, n° 47.

[33] Ibid.

[34] Tutte queste informazioni sono desunte dagli Atti del Consiglio e dagli Atti del Congresso Economico del periodo.

[35] Ai nostri concittadini, nella serie Stampe della Biblioteca di Stato della RSM.

[36] Agli onesti d’ogni classe e partito, Biblioteca di Stato, Stampe.

[37] Biblioteca di Stato, Stampe.

[38] Biblioteca di Stato, Fondo Franciosi.

[39] 1° maggio in Repubblica, edito a cura della Sezione Socialista Sammarinese, numero unico, 1902.

[40] Per una proposta di Referendum nella R.S.M., San Marino 1903. Sul periodo si veda: G. Dordoni, L’Arringo conquistato, Edizioni del Titano, San Marino 1993, e anche V. Casali (a cura di), Immagini dell’Arengo, catalogo della mostra organizzata dalla scuola media della RSM, Verucchio 1996.

[41] Tutte queste notizie sono desunte dai Titano dell’epoca, pieni d’informazioni anche spicciole sulla vita del paese.

[42] Ritorniamo all’Arringo, in cui si auspicava il ripristino dell’arengo come forma di regime a democrazia diretta. L’articolo era firmato Rerum Scriptor.

[43] P. Franciosi, La Restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino. Saggio di Regime e democrazia diretta a base di Costituzione Comunale, Jesi 1905.

[44] Sono conservate presso l’archivio di famiglia, e mi sono state messe gentilmente a disposizione dal figlio di Gino, il compianto ingegnere Remy Giacomini. Ho curato una breve biografia di Giacomini che attualmente è reperibile sul sito internet: http://www.geocities.com/ginogiacomini/

[45] Camerani Giulio, Casali Alfredo, Cesarini Antonio, Giacomini Angelo, Giacomini Giannetto, Giacomini Gino, Giacomini Pio, Calisesi Giovanni, Giovannarini Giuseppe, Graziosi Enrico, Molinari Cafiero, Montemaggi Raffaele, Ugolini Francesco, Ugolini Vito, Zani Giuseppe, Francisci Annibale, Girardenghi Federico.

[46] Rufo Reffi, Zani Lorenzo, Reffi Alberto, Lombardi Luigi, Balsimelli Giovanni, Tamagnini Giovanni vennero accettati il 14 settembre. Balsimelli Alessandro, Foschi Augusto, Ravezzi Arturo, Reffi Marco, Bombini Augusto, Bellagamba Luigi, Volpini Giuseppe, Simoncini Lorenzo, Della Balda Luigi, Bruschi Luigi nei mesi successivi.

[47] Archivio Privato Giacomini (APGIAC), Verbali adunanze generali 1905/1916.

[48] Su questi particolari oltre ai Titano del periodo cfr. G. Dordoni, op. cit., e anche ASRSM, Atti del Comitato pro – Arringo, Libro dei verbali del Comitato pro – arringo, serie Documenti privati dell’Archivio, busta 26.

[49] APGIAC, Verbali adunanze generali, cit.

[50] APGIAC, Verbali adunanze generali, cit.

[51] Si veda: G. Ramoino – M. Bonelli, Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, Città di Castello 1915, pp. 18 – 21.

[52] G. Ramoino – M. Bonelli, Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, Città di Castello 1915, pp 6 – 8.

[53] Gli articoli di Franciosi sono anche reperibili in Pietro Franciosi Opere – Scritti giornalistici, tomo 1 (1904 – 1911), tomo 2 (1912 – 1922), Aiep editore, San Marino 1986 e 1988.

[54] Cfr. V. Casali, Le prime elezioni politiche della RSM giugno – agosto 1906, tesi di perfezionamento in storia, Università di Urbino, a.a. 1985 – 1986.

[55] L’originale è reperibile nella serie Stampe della Biblioteca di Stato della RSM.

[56] Giuliano Belluzzi, Antonio Cesarini, Pietro Franciosi, Domenico Forcellini, Giovanni Vincenti.

[57] APGIAC, Atti della Federazione Socialista Sammarinese.

[58] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, riunione del 25/11/06.

[59] Ibid., riunione del 12/1/07.

[60] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, riunione del 17/1/07.

[61] Il discorso integrale, insieme ad altri documenti del periodo, è pubblicato a p.  86 del volume Immagini dell’arengo, op. cit.

[62] Il testo è il seguente: Il XXV Marzo MCMVI – Dopo un letargo di IV secoli – Sorgeva la forza del popolo novo – A rivendicare – Con l’Arengo dei Padri – Il diritto sovrano – Indarno ripugnante la vecchia oligarchia – Che oggi – Auspice il Governo – Benedice nel rito della chiesa – Alla conquista non sua.

[63] V. Casali, Propaganda dialettale, religiosa, maccheronica del primo socialismo sammarinese, in Annuario della Scuola secondaria Superiore, n° XXVI, a.s. 1998/1999.

[64] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, riunione del 3/2/07.

[65] Si veda Il Titano del 1/1/1907, anno V, n°1. La lettera è datata 10/12/06.

[66] Cfr. ASRSM, Carteggio della Reggenza.

[67] Tutte queste notizie sono desunte dai vari numeri del Titano  del periodo.

[68] La cronaca della festa è nel Titano  del 23/2/08.

[69] G. Ramoino – M. Bonelli. Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, Città di Castello 1915.

[70] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, cit.

[71] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, cit.

[72] Cfr. Il Titano n° 4 e n° 5 del 15 e 25/3/1908, e n° 6/7 del 12/4/08.

[73] Il Titano, n° 8 del 1/5/08.

[74] G.Ramoino, M.Bonelli, Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, Città di Castello 1915.

[75] Il Titano, n° 11 del 21/6/08.

[76] Pro Patria, anno 1, n° 1, 5/7/08.

[77] Sorgiamo! L’unione Popolare Cattolica Sammarinese nel giorno della sua inaugurazione, Numero Unico, R.S.M., 16/5/09.

[78] Cfr V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, cit., doc. n° 5.

[79] V. Casali, Il casus belli – L’abolizione del catechismo a San Marino nel 1909, in Annuario della Scuola secondaria superiore, n° XXVII, San Marino 2001.

[80] Il manifesto è reperibile presso la Biblioteca di Stato.

[81] San Marino Organo dell’Unione Cattolica Sammarinese, anno 1, n° 1, 3/9/1909. Il periodico, dapprima mensile poi quindicinale, uscirà con continuità fino alla fine del 1915.

[82] Ibid.

[83] San Marino, anno 1, n° 5, 8/12/09.

[84] Democrazia Rossa in San Marino, anno II, n°3, 16/1/10.

[85] Il Titano, n° 7, 13/2/1910.

[86] Il Titano, n° 13, 27/3/1910.

[87] San Marino, n° 7, 1/4/1910.

[88] Il Titano, n° 15, 10/4/1910.

[89] San Marino, n° 7, 1/4/1910.

[90] Il Titano, n° 23, 5/6/1910; San Marino, n° 11, 5/6/1910.

[91] Cfr. Il Titano, n° 31, 31/7/1910 e successivi.

[92] Il Titano, n° 32, 7/8/1910.

[93] Il Titano, n° 43, 23/10/1910.

[94] APGIAC, Atti della federazione socialista, cit.

[95] Il Titano, n° 4, 22/1/1911.

[96] Il Titano, n° 5, 29/1/1911.

[97] Il Titano, n° 6, 5/2/1911.

[98] Il Titano, n° 10, 5/3/1911.

[99] APGIAC, Atti della Federazione socialista, cit.

[100] Governismo e antigovernismo, in Il Titano, n° 41, 8/10/1911.

[101] Gino Giacomini in questo periodo risiedeva fuori territorio e si manteneva piuttosto distaccato dai problemi politici locali, e freddo nei confronti dei suoi compagni socialisti, che accusava di scarso sostegno nei suoi confronti nella polemica relativa alla direzione didattica che il Consiglio non gli aveva voluto affidare.

[102] Il Titano, n° 39, 24/9/1911.

[103] APGIAC, Libro verbali Federazione Socialista, cit.

[104] APGIAC, Libro verbali Sezione di Città 1912 – 1922.

[105] Il Titano, n° 10, 10/3/1912.

[106] Il Titano, n° 14, 2/4/1911.

[107] San Marino, n° 11, 4/6/1911.

[108] Contro certi confusionismi, in Il Titano, n° 2, 14/1/1912. L’articolo è di Alfredo Casali.

[109] Il Titano, n° 3, 21/1/1912.

[110] Il Titano, n° 4, 28/1/1912.

[111] G.Ramoino, M.Bonelli, Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, Città di Castello 1915, pp. 76 – 82.

[112] Bisogna Continuare, in Il Titano, n° 15, 14/4/1912.

[113] Tutte le notizie riportate sono desunte dal Titano e dal San Marino  del periodo.

[114] San Marino, n° 13, 1/7/1912.

[115] Il Titano, n° 38, 22/9/1912.

[116] Il Titano, n° 47, 24/11/1912.

[117] Il Titano, n° 48, 1/12/1912; e n° 49, 8/12/1912.

[118] composto da: Amadori Giovanni, Amati Giuseppe, Amati Olinto, Angeli Giuseppe, Belluzzi Ciro, Belluzzi Giuliano, Borbiconi Marino, Casali Alfredo, Ceccoli Tullio Cesarini Antonio, Crinelli Giuseppe, Della Balda Antonio, Fattori Domenico, Franciosi Pietro, Giacomini Gino, Giacomini Pio, Giovannarini Giuseppe, Grazia Ignazio, Martelli Telemaco, Michetti Raffaele, Pasquali Francesco, Reffi Luigi, Stacchini Antonio, Stacchini Cesare, Tonnini Luigi, Venturini Pio, Vicini Domenico, Vincenti Giovanni.

[119] Il dovere del nostro partito, in Il Titano, n° 52, 31/12/1912. L’articolo è di Alfredo Casali.

[120] Il manifesto è riprodotto nel Titano n° 48 del 1/12/1912.

[121] San Marino, n° 10, 18/5/1913.

[122] Il Titano, n° 51, 25/12/1912.

[123] Il Titano, n° 10, 10/3/1912, n° 11, 17/3/1912, n°13, 31/3/1912.

[124] APGIAC, Libro verbali sezione di Città, cit.

[125] Socialismo e Democrazia, in Il Titano, n° 14, 6/4/1913.

[126] Cfr. V. Casali, Ama lo studio che è pane della mente, in Annuario della Scuola Secondaria Superiore della RSM, n° XXVIII, San Marino 2001.

[127] Cfr. i giornali dell’epoca e anche G. Ramoino, M. Bonelli, Supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, cit.

[128] Il Titano, n° 1, 4/1/1914.

[129] Il Titano, n° 5, 1/2/1914.

[130] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. G, n°55, seduta del 18/4/1914.

[131] Il Titano, n° 20, 17/5/1914.

[132] ASRSM, vol. G, n° 55, seduta del 16/5/1914.

[133] Ibid.

[134] P. Franciosi, L’imposta unica sul reddito nella R.S.M. in un progetto di legge di Lorenzo Gostoli, Forlì 1914.

[135] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. G, n° 55, seduta del 9/6/1914.

[136] Ibid., seduta del 18/4/1914.

[137] La Repubblica nuova, Periodico del Partito Repubblicano Sammarinese, anno 1, n° 1, 2 giugno 1914. Uscì con qualche altro numero nel corso dell’anno, poi smise le sue pubblicazioni.

[138] G. Ramoino, G. Gozi, Secondo supplemento alla raccolta delle leggi e decreti della RSM, San Marino 1926, pp. 79 – 85.

[139] ASRSM, Atti del Consiglio, cit.

[140] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, cit.

[141] cfr. ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. H, sedute del 22/5  e 22/6/1915. Questo ne è il testo: Il Governo e il Popolo Sammarinese non degeneri dai proprii maggiori che raccolsero l’Eroe e gli diedero pane e riposo, nell’ora solenne in cui la comune Patria si prepara al compimento dei proprii destini, augurano che le armi dei fratelli italiani siano sempre e dovunque vittoriose per l’onore e la grandezza d’Italia e per il trionfo della civiltà.

[142] E’ riportato in: Giuliano Gozi 1894 – 1955, San Marino 1965.

[143] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. H, n° 56.

[144] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. H, n° 56, seduta del 10/8/1915.

[145] Ibid.

[146] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. H, n° 56.

[147] Ibid., vol. I, n° 57.

[148] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta dell’8/8/1916.

[149] Ibid. seduta del 19/10/1916.

[150] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57.

[151] Furono dieci i sammarinesi che presero parte come soldati alla guerra: Giuliano Gozi, Marino Fattori, Amedeo Comanducci, Pietro Tonnini, Menenio Stacchini, Nullo Casali, Pier Paolo Micheloni, Serafini Sanzio più i due caduti. Altri otto vi parteciparono prestando servizio nell’ospedale da campo. Cfr. ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, seduta del 28/12/1918.

[152] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57., seduta del 4/3/1916.

[153] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. H, n° 56.

[154] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta del 28/9/1916.

[155] Ibid., seduta del 15/4/1916.

[156] La riforma dei pubblici poteri, San Marino 1917. La si veda in appendice n° 6.

[157] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58.

[158] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta del 19/12/1916 e seguenti. Sulla vicenda si veda anche F. SEMPRINI, Il prestito a premi in Storia illustrata della R.S.M., vol. 4°, Aiep editore, San Marino 1995.

[159] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta del 26/12/1916.

[160] Relazione della Commissione d’inchiesta sulla gestione del prestito a premi, Pesaro 1919.

[161] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. M, n° 59, seduta del 27/5/1919.

[162] APGIAC, Atti della Federazione Socialista, cit., verbale del 7/1/1917. In questa occasione s’incontrarono: Belloni Gaetano, Bombini Augusto, Casali Alfredo, De Biagi Sante, Casadei Achille, Forcellini Secondo, Foschi Augusto, Franciosi Pietro, Gardenghi Federico, Giacomini Gino, Giacomini Pio, Giacomini Angelo, Giovannarini Giuseppe, Molinari Cafiero, Reffi Marcello.

[163] Ibid.

[164] Ibid. I giovani erano: Berti Luigi, Casali Alvaro, Ceccoli Mariano, Cesaretti Marino, De Biagi Elio, De Carli Valdes.

[165] Ibid. Il 15 e 25 novembre 1917, il 9 marzo, 6 e 22 aprile, 14 maggio del 1918.

[166] APGIAC, Libro verbali sezione di Città, cit. L’ultima sua riunione era stata il 12/7/1914.

[167] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta del 27/3/1917.

[168] Ibid.

[169] Ibid., seduta del 16/6/1917.

[170] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. I, n° 57, seduta del 4/8/1917.

 

[171] Il Nuovo Titano, n° 2, 12/5/1918. Sulla questione si veda anche: ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, sedute del 23/3, 20 e 30/4/1918.

[172] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, seduta del 14/3/1918.

[173] Ibid.

[174] Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, sedute del  20/4/1918.

[175] Il Nuovo Titano, n° 22, 9/3/1919. Anche le notizie date in precedenza sono state desunte dai Nuovo Titano del periodo.

[176] Il Nuovo Titano, n° 68, 12/2/1921.

[177] E’ riprodotto in Il Nuovo Titano, n° 3, 26/5/1918.

[178] I socialisti erano: Belloni Scipione (anche rappresentate degli operai), Casali Alfredo, Cesarini Antonio, Franciosi Pietro, Giacomini Gino, Giacomini Pio, Giovannarini Giuseppe, Reffi Marcello, Reffi Marco, Simoncini Silvio. I rappresentanti degli operai erano: Belluzzi Giuliano, Bruschi Domenico, Della Balda Giulio, Reffi Adriano. Cfr. APGIAC, Libro Gruppo Consigliare Socialista 1918.

[179] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, seduta del 20/6/1918.

[180] La riforma dei pubblici poteri, cit. Appendice n° 6.

[181] Insieme al citato progetto si veda Il Nuovo Titano, n° 10, 1/9/1918. Anche sui numeri precedenti del giornale vi sono vari articoli sull’argomento.

[182] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, seduta del 30/4/1918.

[183] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. M, n° 59, seduta dell’8/11/1919 .

[184] Il Nuovo Titano, n° 47, 20/3/1920.

[185] P. Franciosi, Socialismo ed organizzazione operaia, in Il Nuovo Titano, n° 1, 1/5/1918.

[186] APGIAC, Libro verbali Sezione di Città 1912/1922.

[187] Il Nuovo Titano, n°, 10, 1/9/1918.

[188] Cfr. Il Nuovo Titano, n° 6, 7/7/1918 e successivi, e anche ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58, seduta del 27/6 e 13/7. Fu convocato un Consiglio anche in data 6 settembre, ma non avendo il numero legale, poté solo nominare i nuovi Reggenti come gli era consentito per statuto.

[189] Cfr. G. Ramoino, G. Gozi, op. cit.

[190] Il Nuovo Titano, n° 34, 31/8/1919.

[191] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58.

[192] Cfr. Il Nuovo Titano, n° 11, 12, 13 del 15/9, 1/10, 20/10/1918.

[193] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. L, n° 58 e anche Il Nuovo Titano, n° 18, 1/1/1919.

[194] G. Ramoino, G. Gozi, op. cit.

[195] Il Nuovo Titano, n° 91, 19/3/1922.

[196] C. Buscarini, La scuola di arti e mestieri a San Marino, in Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n° XXV, a.s. 1997/98, San Marino 1998.

[197] Il Nuovo Titano, n° 7, 21/7/1918.

[198] Il Nuovo Titano, n° 8, 4/8/1918.

[199] ASRSM, Atti del Consiglio, vol. M, n° 59.

[200] Il Nuovo Titano, n° 22, 9/3/1919.

[201] Lo sciopero in Repubblica, in Il Nuovo Titano, n° 32, 3/8/1919. Si veda sulle origini del sindacalismo sammarinese: L. Rossi, Fra primo e secondo dopoguerra: attività politica e sindacale, in AAVV, Sindacato politica economia a San Marino in età contemporanea, Quaderni del Centro di Studi Storici Sammarinesi, vol. n° 12, 1995.

[202] Una grande manifestazione proletaria…e il suo rovescio, in Il Nuovo Titano, n°69, 27/2/1921.

[203] C. Franciosi, San Marino ospite suolo, San Marino 1968.

[204] Il Nuovo Titano, n° 25, 20/4/1919.

[205] Il Nuovo Titano, n° 27, 16/5/1919.

[206] Supplemento al n° 3 del Nuovo Titano del 26/5/1918.

[207] Un nuovo gruppo? in Il Nuovo Titano, n°36, 1/10/1919.

[208] Il Nuovo Titano, n° 38 e n° 41.

[209] E’ riprodotto in Il Nuovo Titano, n° 42, 6/1/1920.

[210] Il Nuovo Titano, n° 44, 5/2/1920.

[211] Tutte queste informazioni sono riportate sui diversi numeri del Nuovo Titano  del periodo.

[212] Il Nuovo Titano, n° 44, 5/2/1920.

[213] Il Nuovo Titano, n° 54, 4/7/1920.

[214] Il Nuovo Titano, n° 51, 16/5/1920.

[215] Il Nuovo Titano, n° 53, 13/6/1920.

[216] Il Nuovo Titano, n° 55, 18/7/1920.

[217] Il Nuovo Titano, n° 56, 8/8/1920, e n° 57, 22/8/1920.

[218] Il Nuovo Titano, n° 58, 12/9/1920.

[219] La Libertà, a. 1, n° 1, 3/9/1920.

[220] Ibid.

[221] Perché siamo contro i socialisti, Ibid.

[222] Per il suo testo si veda La Libertà,  a.1, n°2, 19/9/1920

[223] G. Ramoino, G. Gozi, Secondo supplemento alla raccolta delle leggi e dei decreti della R.S.M., San Marino 1926.

[224] Il Nuovo Titano, n° 59, 26/9/1920.

[225] Il Nuovo Titano, n° 61, 31/10/1920.

[226] Ibid.

[227] I socialisti eletti furono: Pietro Franciosi, Gino Giacomini, Marcello Reffi, Alberto Reffi, Giuseppe Mariani, Girolamo Capicchioni, Scipione Belloni, Secondo Forcellini, Alfredo Casali, Sanzio Casali, Giuseppe Maiani, Attilio Montanari, Italo Ricci, Antonio Cesarini, Secondo Palmucci, Augusto Foschi, Pio Giacomini, Luigi Regini.  Le roccheforti del voto socialista erano state Città, con 183 voti, Borgo con 165, Serravalle con 152, mentre pochi voti erano stati ricevuti dai Castelli rurali (55 a Chiesanuova, 50 ad Acquaviva, 36 a Fiorentino, solo 4 a Domagnano). I popolari avevano invece dominato a Serravalle, con 244 voti, in Borgo ne avevano presi 163 e in Città 159. Molti voti li avevano avuti dai Castelli rurali (139 a Domagnano, 101 a Chiesanuova e a Fiorentino). La roccaforte dei democratici era stata invece Serravalle, con 163 voti, poi ne avevano presi 94 a Faetano e meno negli altri Castelli. Complessivamente i socialisti avevano avuto 697 voti, 1122 i popolari, 533 i democratici. Cfr. La Libertà, a. 1, n° 6. 

[228] La Libertà, a. 1, n° 6.

[229] Entrambi i manifesti sono riprodotti in Il Nuovo Titano, n° 63, 21/11/1920.

[230] La Libertà, a.1, n° 8, 25/12/1920.

[231] Il Nuovo Titano, n° 63.

[232] Fascismo e Socialismo in La Libertà, a. 2, n° 1, 16/1/1921.

[233] Il Nuovo Titano, n° 74, 22/5/1921.

[234] I popolari sostenevano che solo al governo dovesse spettare la distribuzione di generi di prima necessità a prezzi politici, per cui fu ripristinata l’annona e si pretese, inutilmente, la maggioranza nel consiglio d’amministrazione dell’Ente Autonomo. Cfr. La Libertà, a. 2, n°1, 16/1/1921.

[235] Una grande manifestazione proletaria…e il suo rovescio, in Il Nuovo Titano, n°69, 27/2/1921.

[236] Il Nuovo Titano, n° 69.

[237] Il Nuovo Titano, n° 74, 22/5/1921.

[238] Il Nuovo Titano, n° 75, 5/6/1921.

[239] Il Nuovo Titano, n° 66, 9/1/1921 e n° 68, 13/2/1921.

[240] Cfr. G. Ramoino, G. Gozi, op. cit.

[241] Il Nuovo Titano, n° 77, 10/7/1921.

[242] Il Nuovo Titano, n° 81, 11/9/1921.

[243] Il Nuovo Titano, n° 89, 5/2/1922.

[244] La Libertà, a. 3, n° 3, 5/2/1922.

[245] Il Nuovo Titano, n° 91, 19/3/1922.

[246] Il Nuovo Titano, n° 99, 3/9/22, n° 100, 1/10/22. Questo fu l’ultimo numero del periodico, che riprenderà le sue pubblicazioni solo il 1° gennaio 1945.

 
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