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Il socialismo sammarinese delle origini. Gino Giacomini, Pietro Franciosi

e l’influenza del pensiero di Turati

 

Il primo socialismo sviluppatosi nel corso del XIX secolo, in particolare nelle sue ultime decadi, non ha certo potuto godere delle simpatie della società in cui è germogliato:  spesso e volentieri, infatti, era per mentalità, aspirazioni e cultura riformista agli antipodi rispetto alle logiche conservatrici imperanti nei tempi in cui ha iniziato a espandersi.

I padri del socialismo venivano considerati e presentati da chi stava ai vertici culturali e politici della società del periodo come temibili distruttori dei valori del passato, come senzadio destinati alla dannazione eterna, come feroci antitradizionalisti tesi a vandalizzare tutto ciò che di buono i secoli addietro avevano saputo produrre e tramandare.

La società sammarinese, arroccata da secoli in se stessa e sopra un burbero monte, con un tasso di analfabetismo elevatissimo, addirittura più di quello del suo circondario[1], figlia di una libertà sacra scaturita direttamente dalla costola di un sant’uomo come Marino, circondata da tempi immemorabili dallo Stato Pontificio,  non poteva essere più progressista di altre società, sebbene da centinaia di anni si sentisse e si definisse repubblica.

Anzi: l’oligarchia patriarcale che governava il paese, spalleggiata in questo dai suoi consulenti italiani, non meno oligarchici, era convinta che toccare la santa tradizione, modificare anche di una virgola la divisione in ceti (nobili, terrieri e villici) promossa dagli statuti secenteschi e consolidatasi nel corso del ‘700, fare discorsi di equità, di uguaglianza sociale, di ridimensionamento dei poteri forti, di fiscalità imparziale e distribuita in base alle capacità contributive, fosse del tutto illogico e «esotico», per usare un vocabolo che ogni tanto emerge dai documenti conservatori dell’epoca[2].

Il rischio, secondo i governanti al potere, era addirittura il crollo della repubblica e la sua scomparsa dalla storia, se si fosse modificato qualunque aspetto costituzionale ereditato dal passato: «O state come siete, o non sarete», pontificò un consulente italiano, il senatore Diego Tajani, nel 1902[3].

Questo slogan è la giusta sintesi del pensiero dominante tra coloro che governavano il paese, in genere rampolli di famiglie che da sempre detenevano il potere con logica paternalistica ultraconservatrice, quando il socialismo locale ha incominciato a muovere i suoi primi passi. 

Il momento in cui esso iniziò a manifestarsi a San Marino fu il 1892/1893, cioè subito dopo il Congresso di Genova in cui venne fondato il Partito dei lavoratori italiani, che un anno dopo si trasformerà in Partito socialista dei lavoratori italiani.

Non nacque dal nulla essendo erede di una cultura riformista locale che già si era manifestata con varie fisionomie a partire dall’epoca napoleonica, e soprattutto durante gli anni del Risorgimento, quando la stessa parola “comunismo” cominciò a venir timidamente pronunciata anche tra alcuni sammarinesi[4].

Dopo l’unificazione del Regno d’Italia, la società sammarinese uscì lentamente da quel volontario isolazionismo secolare che l’aveva contraddistinta praticamente da sempre, e cominciò a mutare pelle, aiutata in questo soprattutto da nuove ed impreviste entrate che dagli anni ’60 in avanti le fecero lievitare velocemente i bilanci, mettendo in circolazione molto più denaro di quel poco a cui era da sempre abituata, e favorendo un trentennio di lavoro e di maggiore prosperità dei suoi cittadini.

In realtà non occorrevano chissà quali entrate per migliorare una situazione stagnante e misera come quella esistente prima di questi anni, tuttavia il fresco denaro che giunse grazie al nuovo canone doganale pattuito con il Regno d’Italia il 22 marzo 1862, data della prima convenzione di buon vicinato tra i due Stati, permise di creare nuove strade, nuove infrastrutture e il nuovo Palazzo Pubblico inaugurato nel 1894, costato l’ingente somma di 350.000 lire, cifra che si dimostrò al di sopra delle possibilità sammarinesi e che creò un cospicuo deficit nel bilancio dello Stato, poi utilizzato dai riformisti come cavallo di battaglia contro i governanti definiti sommariamente incapaci nonché ladri.

La fine della sua edificazione, infatti, segnò anche la conclusione di un periodo di relativa tranquillità sociale ed economica, e l’inizio di anni di turbolenze politiche di cui il piccolo partito socialista locale fu importante protagonista e puntuale promotore di critiche e contestazioni verso il sistema politico del Titano con toni di vario tipo: più massimalisti e arrabbiati, da parte di chi seguiva le dialettiche maggiormente intransigenti e rivoluzionarie del socialismo italiano ed internazionale, più morbidi e parlamentaristi da parte di chi simpatizzava invece per le logiche del socialismo riformista e moderato.

Ma andiamo per ordine.

La matrice culturale del socialismo sammarinese è da ricercarsi senz’altro nel vasto dibattito ideologico nato e scaturito dalle dottrine risorgimentali, e nel confronto culturale sviluppatosi tra i vari gruppi politicizzati dell’Italia di fine Ottocento.

Per fare un esempio, tra i tanti possibili, del collegamento tra cultura risorgimentale e nuove ideologie di sinistra, si può citare la figura di Gino Giacomini, giovanissimo fondatore della locale Sezione socialista (era nato nel 1878), figlio di Remo, un ex garibaldino che aveva combattuto a Mentana e Monterotondo, per cui Gino nutriva una venerazione più che figliale.

Altro esempio di tale legame ideologico è senz’altro Pietro Franciosi, reputato insieme a Giacomini padre storico del socialismo sammarinese, anche se arrivò a tale ideologia qualche anno dopo Gino. Pur non avendo preso parte direttamente agli eventi risorgimentali, essendo nato nel 1864, s’interessò a fondo a tale periodo proprio ascoltando estasiato i racconti di chi vi aveva partecipato in prima persona, e raccogliendo inoltre molte informazioni di carattere storico che ha trasmesso ai posteri tramite vari scritti.[5]

Descrizione: Senza titolo 1.jpgGiacomini, rispetto a Franciosi,si dimostrò sempre un po’ più distaccato verso i fatti e le ideologie risorgimentali, e molto più interessato al pensiero di stampo marxista; tuttavia anch’egli appartenne a quella generazione di giovani cresciuti nei miti di Mazzini e Garibaldi e nella convinzione che, protestando e lottando, qualcosa si potesse ottenere per migliorare il mondo.

Oltre all’epopea risorgimentale, e ovviamente agli influssi ideologici provenienti dall’Italia e dal mondo, va evidenziato anche un altro fattore che ebbe una certa rilevanza nel formare la mentalità dei primi socialisti sammarinesi: l’appartenenza ad una realtà politica che da secoli si definiva repubblica, sebbene lo fosse più virtualmente che realmente perché la popolazione non partecipava alla vita politica del paese né eleggeva i consiglieri, cioè i membri del locale parlamento, che venivano cooptati da chi già sedeva in Consiglio, come sancito all’interno dei locali statuti secenteschi con cui venne ufficializzato un governo oligarchico ai vertici di San Marino[6].

Per venire ora agli anni di Turati, è documentato che le prime tracce di una cultura internazionalista/socialista manifestatasi anche in territorio sammarineserisalgono al 1880,  quando il console italiano Lossada scrisse alle locali autorità,in data 24 febbraio, per comunicare che si erano svolte a San Marino due riunioni clandestine da parte di alcuni italiani notoriamente ascritti al partito degli internazionalisti.

Il console avvertiva di stare vigili rispetto a simili iniziative, che potevano provocare disordini interni ed esterni, perché il partito che le organizzava aveva un programma «di così evidente pericolo per la pubblica tranquillità che non ha bisogno di molte parole per essere dimostrato».

Le autorità locali ammisero che vi erano anche a San Marino degli «internazionalisti», ma erano tenuti sotto stretto controllo. Aggiunsero inoltre: «Il nostro Governo non meno che tutti gli altri è personalmente convinto della necessità di opporsi con tutte le forze agli stolti e rei, conati di un partito, che ha per programma la distruzione degli attuali ordinamenti della società, e perciò noi useremo di tutta la vigilanza che la gravità del caso richiede, e adotteremo all’uopo quelle misure che valgano ad allontanare qualsiasi pericolo»[7].

Le nuove ideologie di sinistra avevano dunque già contagiato qualche sammarinese, fatto confermato nel 1882, anno in cui, grazie ad un accenno all’interno di un articolo di giornale[8], è documentato che all’inaugurazione del monumento a Garibaldi, ancora oggi visibile nell’omonima piazzetta e voluto da un gruppo di sammarinesi in occasione della sua morte, fosse presente anche il “Circolo Socialista anarchico rivoluzionario del Titano”.

Questo gruppo lasciò qualche altra essenziale traccia documentale di sé anche in seguito, ma della sua attività, che si può presumere assai scarsa, sappiamo pochissimo perché è giunto fino a noi solo qualche foglio di propaganda a favore degli operai o celebrativo della Comune di Parigi[9].

E’ quindi legittimo ipotizzare che non svolgesse azioni continuative in territorio, e che fosse più un fenomeno culturale emulativo sostenuto da pochi individui eredi delle culture più contestatarie e ribelli del Risorgimento.

Questo scarso attivismo è riscontrabile anche nel gruppo socialista delle origini, nato con molte probabilità nel 1893, e non nel 1892 come in tanti ancora sostengono. Infatti nel giornale socialista Il giornale del partito socialista “Il Nuovo Titano” della prima metà del Novecento, periodo in cui erano ancora vivi diversi dei fondatori del socialismo sammarinese, si hanno ripetute conferme del 1893 come anno di fondazione.

Sul numero 164 del giornale, uscito il 1° maggio 1954, è addirittura riprodotta la fotografia della mitica quercia di Cailungo alla cui ombra avrebbe avuto luogo la fondazione della sezione socialista locale, che si ribadisce ancora una volta avvenuta nel 1893, precisamente il 14 agosto, per opera di 13 giovani[10].

Non è nota alcuna attività da parte di questo gruppo fino al 1898, quando richiese alle autorità il permesso di tenere un comizio nel Teatro Concordia di Borgo in occasione del 1° maggio. Il fatto si può spiegare in varie maniere, ma sicuramente dipese dalla logica astensionista ed antiparlamentare che lo caratterizzò nella sua fase iniziale.

Simile ipotesi è avallata da un articolo pubblicato sul primo giornale dei socialisti sammarinesi, un numero unico uscito in occasione del 1° maggio 1898, in cui un anonimo articolista li riprendeva perché, a suo giudizio, dovevano cambiare tattica, se volevano ottenere migliorie per il paese, abbandonando l’astensionismo che li aveva fin lì contraddistinti, per agire dall’interno delle istituzioni, con l’intento di modificarle e di renderle più consone ai tempi[11].

Tramite questo giornale si capisce chiaramente che il locale gruppo socialista era ancora ai suoi primissimi passi, e che stava incominciando a discutere al suo interno per mettere a punto una qualche strategia d’intervento nel sociale adatta ai bisogni ed ai problemi locali.

Ovviamente chi suggeriva di abbandonare l’astensionismo era un sicuro sostenitore del pensiero di Turati, da sempre fautore di una politica partecipativa di stampo parlamentare, e disilluso verso improbabili rivoluzioni proletarie.

Tra i suggerimenti avanzati negli articoli del giornale ve n’erano alcuni destinati ad avere fortuna nel dibattito politico che da ora in avanti s’infuocherà sempre più, come quello di pretendere una ripartizione più equa dei tributi, di adottare logiche politiche più riformiste, di avviare una propaganda sistematica tra la gente, in particolare tra i contadini ed i proletari, per creare un partito forte e cosciente.

Descrizione: franciosiT.JPGSono questi gli anni in cui pure il professore Pietro Franciosi cominciò ad interessarsi di politica attiva. Egli già nel 1893 aveva pronunciato un importante discorso dove, da buon positivista non ancora schierato apertamente su posizioni politiche di sinistra, con pacatezza e senza livori, tendeva soprattutto a sottolineare l’importanza delle finanze pubbliche per la vita di uno Stato moderno, e l’esigenza che le spese venissero frenate con un’amministrazione più oculata di quella fin lì tenuta[12].

Il secondo discorso di Franciosi fu invece pronunciato il 1° ottobre 1898 con un timbro ben diverso rispetto al precedente[13]. Partendo questa volta da un’analisi di stampo marxista dei problemi dell’epoca, segno certo degli studi in materia da lui fatti negli anni precedenti, egli precisò che la società si era profondamente modificata e che quindi i sistemi politici un po’ dovunque si stavano adeguando alle nuove realtà che erano venute maturandosi.

Anche San Marino, che pur godeva di una situazione migliore di tanti altri Stati, aveva l’interesse a seguire queste nuove strade e a riformarsi in qualche cosa. Franciosi si dichiarava un riformatore che guardava con riguardo al passato della Repubblica, e che non voleva stravolgere più di tanto la tradizione democratica di cui si sentiva erede. Tuttavia doveva essere chiaro per tutti che ormai occorreva avere il coraggio di avviare precise innovazioni perché la logica politica oligarchica che reggeva San Marino era del tutto obsoleta e fuori luogo per i tempi che si stavano consolidando.

Quali le riforme prioritarie? Franciosi riprende, ampliandoli, gli argomenti già esposti nel ’93 e chiede:

 

  • il pareggio dei ceti e l’abolizione della nobiltà, perché non sussistevano più ragioni storiche o sociali idonee a giustificare simili arcaiche distinzioni tra i cittadini;
  • l’abolizione delle onorificenze e del  commercio che se ne faceva: «meglio il sudore e il sacrificio nostro che il ricevere danaro a scopo di beneficenza dai decorandi» dichiarò;
  • il rinnovo periodico ogni tre anni di un terzo dei consiglieri tramite elezioni, così da comporre un Consiglio misto formato sia dai conservatori che dai progressisti;
  • la rigorosa definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa;
  • il contenimento dei costi pubblici, l’eliminazione degli sprechi, una maggiore intelligenza negli stanziamenti;
  • l’istituzione di una tassa progressiva per pareggiare stabilmente il bilancio statale.

 

Le idee contenute all’interno di questo importante discorso rappresentano le prime linee programmatiche del nascente riformismo sammarinese. Sicuramente non dovevano essere condivise da tutti, visto che ancora non esisteva un gruppo progressista omogeneo con un piano politico preciso, né vi erano strategie tese a coinvolgere la cittadinanza nelle richieste che venivano avanzate.

Fino al 1902 - 1903 non riuscirà a coalizzarsi simile alleanza, per cui in questi anni si può registrare soltanto un pensiero riformista fatto di idee solitarie e spesso disparate, non propositi condivisi dalle varie fazioni progressiste esistenti.

Comunque il problema finanziario va considerato come il principale combustibile del nascente riformismo sammarinese, e l’arma più potente che i pochi innovatori locali poterono utilizzare per creare quel forte consenso, altrimenti abbastanza inspiegabile, visto il tessuto sociale sammarinese composto prevalentemente da contadini, che verrà alla luce con l’Arengo del 25 marzo 1906.

Nel 1898 il deficit di bilancio aveva ormai raggiunto le 120.000 lire, per cui le autorità sammarinesi, dopo aver tentennato negli anni precedenti, forse con la segreta speranza di rimediare i soldi mancanti tramite la vendita di qualche altro titolo onorifico, com’era stata prassi dagli anni ’60 in poi[14], erano giunte alla conclusione che l’unica strada percorribile per sistemare la situazione finanziaria fosse quella d’inasprire le tasse rustiche ed urbane, quelle indirette sul vino, fino a quel momento pressoché esente, e alcune altre sui beni di largo consumo[15]. Il discorso di Franciosi del 1° ottobre si sviluppò quindi su questo dibattito che stava coinvolgendo animatamente il paese.

Il gruppo socialista sammarinese uscì dall’anonimato che aveva caratterizzato i suoi primi anni di vita per lo stesso motivo: il 1° maggio del ’99 affisse in giro per il paese un manifesto in cui istigava gli operai a pretendere precise riforme sociali, tra cui il suffragio universale e un meticoloso controllo delle pubbliche amministrazioni.

Inoltre nell’arengo[16] dell’ottobre dello stesso anno presentò alla Reggenza due istanze: la prima invitava il governo a rinunciare ai suoi propositi fiscali, essendovi tra i socialisti la convinzione che con una adatta riforma del bilancio, soprattutto con tagli e risparmi, si potesse ugualmente far fronte almeno ad una parte del disavanzo.

Se però non fosse stato proprio possibile evitare la riforma fiscale, occorreva adottare un sistema d’imposta unica sul reddito, con esenzione dei redditi minori e progressività per i maggiori.

La seconda istanza chiedeva, invece, l’istituzione del suffragio universale per nominare il Consiglio Grande e Generale[17].

Il socialismo sammarinese, dunque, partendo dalle contingenze locali e allacciandosi ai grandi dibattiti di indole riformista che si stavano sviluppando nei paesi civilizzati, arroccandosi in particolare sul bisogno d’introdurre anche a San Marino il suffragio universale prima di varare qualunque altra innovazione, soprattutto di natura tributaria, era ormai sceso in campo deciso a non limitarsi più a fare politica passivamente attraverso l’astensionismo, com’era fin lì avvenuto.

Il Consiglio esaminò l’istanza senza darle alcun peso, ma evidenziando, con una certa dose di supponenza, che non riconosceva  l’esistenza di alcun partito all’interno di San Marino.

Negli anni seguenti i socialisti sammarinesi svolsero un’attività politica piuttosto ridotta. A parte qualche articolo di Gino Giacomini sul “Risveglio”, giornale socialista di Forlì, con cui continuava a chiedere prima di qualunque altra riforma l’istituzione del suffragio universale, e una serie di  istanze d’arengo sottoscritte in parte dai socialisti, in parte da vari democratici, sempre per chiedere il diritto di voto, non vi fu altro.

Verosimilmente questa scarsa agitazione sociale si spiega col fatto che Gino Giacomini, mente e fomentatore principale del piccolo gruppo durante i suoi primi anni di vita, era assente da San Marino in questo periodo in quanto stava svolgendo il suo mestiere d’insegnante elementare fuori territorio. Egli rientrò in patria solo nel novembre del 1902, data in cui fu nominato maestro presso la scuola elementare di Borgo, dopo che 124 cittadini avevano sottoscritto a suo vantaggio una petizione in cui lo si richiedeva come insegnante presso quella sede, essendo ritenuto giovane capacissimo e molto stimato dai residenti.

Giacomini, convinto che fin lì i conservatori lo avessero boicottato impedendogli d’insegnare in patria, scrisse a Pietro Franciosi per dirgli: «La ringrazio con affetto del compiacimento con cui ha accolto la mia nomina a maestro del Borgo. La volontà del popolo ha trionfato delle male arti della camorra nobile. Finalmente potrò rientrare in patria!»[18].

Questi erano i toni tipici di Giacomini, non a caso personaggio più temuto e odiato rispetto a Franciosi, come sarà chiaro durante l’ascesa e l’epoca del fascismo sammarinese. Egli era diventato maestro per caso in quanto la sua famiglia lo aveva inizialmente mandato a Rimini, in una barberia del porto, ad imparare tale mestiere. Una malattia ad una gamba, però, lo aveva reso leggermente claudicante ed impossibilitato a stare in piedi per troppe ore, per cui, con gravi sacrifici economici, egli aveva intrapreso ad Urbino lo studio per diventare insegnante elementare.

Furono questi gli anni in cui Giacomini si allontanò dal mazzinianesimo, tanto caro a suo padre, per avvicinarsi al socialismo. Già all’età di 10 anni aveva per caso incontrato a San Marino, dove era venuto per una gita di piacere, Andrea Costa, «apostolo invitto del socialismo italiano e ardente romagnolo», come scrisse nelle sue memorie[19], rimanendone affascinato.

Tuttavia chi lo aveva attratto al pensiero socialista era stato suo cugino Tullio Giacomini, allora studente universitario a Bologna da dove aveva portato a San Marino «una fresca e irruente vena di pensiero moderno». 

Gino decise quindi di aderire senza indugi al socialismo e «con l’impeto del neofita - ci racconta -lessi, studiai, assimilai i temi di propaganda che veniva scodellata negli opuscoli di Turati, Prampolini, Costa, Bissolati e di tutti i nostri maggiori. Dall’ABC tentai poi di salire a più alte sfere di acquisizione scientifica della dialettica marxista, alla quale sono rimasto sempre fedele attraverso gli scritti di Sorel, Labriola, e agli originali di Engels, Vassalle, e degli altri, e mi misi a fare propaganda spicciola da quel soldato volontario e volenteroso che sono sempre stato».

La permanenza per studio a Urbino gli permise poi di legarsi alla sezione socialista della città marchigiana, ricavandone anche problemi personali e liti con i locali conservatori, che vedevano il socialismo come una grossa minaccia per la pace sociale.

Nel 1898, anno dei gravi fatti di Milano e della feroce repressione promossa dal generale Bava Beccarsi, egli dovette sparire dalla circolazione per qualche tempo per evitare ripercussioni e l’arresto come sovversivo.

Quando tornò a San Marino nel 1902, dunque, era già ben navigato nell’agone politico e abbastanza arrabbiato da portare la veemenza dei suoi 24 anni di età a battagliare in nome dei suoi ideali socialisti anche all’interno del paese natio.

Non a caso è proprio il 1902 l’anno in cui lentamente prese avvio la campagna riformista che, in nome del suffragio universale, portò all’Arengo del 25 marzo 1906, evento che fu trainato verso la sua realizzazione proprio dalla piccola sezione socialista sammarinese.

E’ inoltre lo stesso anno in cui Giacomini presenziò, come rappresentante del socialismo sammarinese, al Congresso di Imola svoltosi nel mese di settembre, in seguito al quale Turati, Treves e la Kuliscioff il giorno 11 fecero visita a San Marino[20].

Nel 1902 anche Pietro Franciosi incominciò a combattere l’arcaicità delle istituzioni e delle consuetudini locali con un gesto concreto, ovvero il rifiuto della nomina a consigliere nobile pervenutagli dal Consiglio Principe e Sovrano.

La vicenda diede a Gino Giacomini l’opportunità di scrivergli una lettera nella quale sosteneva che l’abolizione della nobiltà e della divisione in ceti era una pretesa minima rispetto ai veri bisogni politici del paese. L’esigenza prioritaria doveva invece essere il voto: «La coscienza pubblica si orienti in senso veramente democratico e tenda esclusivamente alla conquista del diritto di voto prima che lo sfacelo sia completo - ebbe a dire Giacomini -. Questa è la prima logica ed utile riforma, le altre saranno una conseguenza inevitabile. Ecco la nostra pregiudiziale»[21].

Sempre in quel fatidico anno i socialisti diedero alle stampe in occasione del 1° maggio il loro secondo giornale[22], in cui si chiedeva nuovamente una riforma fiscale basata sull’equità contributiva, e, per la prima volta, il decentramento amministrativo, ovvero la creazione di tanti comuni autonomi, per eliminare «gli abusi ed i favoritismi criminosi che continuamente si commettono e nel Consiglio e in non poche amministrazioni, il progetto di nuove tasse che non si sa, se debbano ancora andare ad ingrassare le pancie di alcuni nostri maggiorenti, oppure a sollevare di qualche po’ il nostro esausto bilancio».

Il giornale contiene tanti altri articoli interessanti che in questa sede è impossibile sintetizzare, ma è pervaso soprattutto da una forte e nuova volontà di iniziare a cambiare davvero qualcosa a San Marino, partendo da poche, granitiche rivendicazioni, e da un’alleanza che si stava concretizzando con le altre scarne forze democratiche locali più moderate, logica tipicamente turatiana che in precedenza non era mai stata sostenuta apertamente né seguita. Forse proprio a questo cambio di rotta rispetto all’astensionismo precedente si deve il consolidarsi dell’alleanza fra Franciosi, che sempre si dimostrerà più disponibile al collaborazionismo che a velleità sovversive, e Giacomini.

Gli anni successivi videro perciò la nascita dell’Associazione Democratica Sammarinese, che si presentò alla popolazione il 15 marzo 1903 con la divulgazione di un programma di stampo riformista in cui si prevedeva la sovranità popolare con l’elezione periodica dei consiglieri, l’imposta progressiva sul reddito ed altro ancora[23].

Furono anche gli anni in cui si consolidò la logica, già ipotizzata da Franciosi quando era studente universitario a Bologna, di attuare innovazioni politiche e sociali partendo dalla riconvocazione dell’Arengo, l’antica assemblea dei capifamiglia non più riunita dal 1571, ma mai abrogata[24].

Per giungere all’Arengo occorsero però tre anni di polemiche e dissidi, perché i vecchi governanti e i conservatori non avrebbero assolutamente voluto cambiare nulla del sistema istituzionale in auge. Alla fine socialisti e moderati riuscirono a giungere al tanto agognato rinnovo periodico di una parte del Consiglio tramite regolari elezioni, ma le polemiche non si assopirono perché i socialisti avrebbero bramato riforme ben più incisive di quelle concesse dall’Arengo del 25 marzo 1906, per cui nel 1907 il sodalizio con i riformisti moderati si dissolse[25].

Comunque l’insegnamento di Turati di fare politica da dentro gli organismi istituzionali, di cercare collaborazioni con chi poteva convergere sulle riforme auspicate, di non agognare inverosimili rivoluzioni da parte del proletariato, rimase ben vivo nel piccolo gruppo socialista sammarinese, anche se al suo interno era pure presente una seconda anima, quella massimalista e rivoluzionaria, di indole prettamente marxista e assolutamente contraria a qualunque tipo di compromesso con le altre forze politiche, che avrebbe voluto andarsene dal Consiglio per battagliare dal suo esterno.

Il 22 marzo 1911, durante una riunione del gruppo socialista sammarinese, i due schieramenti si fronteggiarono. Franciosi, strenuo sostenitore della logica collaborazionista di Turati[26], disse: «Per dimettersi da consigliere occorrono forti ragioni perché le dimissioni si spiegano solo in segno di protesta contro qualche pessimo deliberato del Gran Consiglio, oppure quando per un’azione concorde coi consiglieri affini si è certi di portare una crisi nel Consiglio stesso, in modo d’avere il Paese con noi nelle susseguenti elezioni. Ma noi non ci troviamo né nell’uno né nell’altro caso e colle dimissioni corriamo il rischio di disgustarci il corpo elettorale e di perdere anche il collegio di Città». «(…) Noi dobbiamo pertanto rimanere in Consiglio e lavorare di più di dentro e di fuori in modo che con la nostra opera di penetrazione nello stato delle masse possiamo agire nelle riforme politiche e sugli avvenimenti economici a pro della Repubblica e delle classi operaie finché quella si trasformi e questa venga sempre più verso il socialismo, convinta dal risultato dei fatti»[27].

La calorosa filippica di Franciosi non bastò a mutare nei più l’idea di abbandonare i seggi consiliari: 22 dei presenti votarono a favore delle dimissioni, 7 contro. Per ragioni ignote, però, alla fine il piccolo gruppo consiliare socialista, che in quel momento era composto da soli quattro delegati, continuò a rimanere dentro il massimo consesso politico di San Marino.

Si sviluppò, tuttavia, sull’organo del partito e all’interno delle sue riunioni periodiche un’animata diatriba in proposito, con sostenitori dell’una e dell’altra strategia politica, controversia che lentamente creò tanto malumore da spaccare completamente il piccolo gruppo.

Franciosi tornò sulla questione con un articolo uscito il 10 marzo 1912: «Anche noi, è inutile dissimularcelo, siamo divisi in destra e sinistra, in riformisti e rivoluzionari, in positivi e negativi nella pratica dei principii. Anche noi sogniamo, alla guisa dei nostri compagni d’Italia, la ricostituzione rigorosamente unitaria del partito, con eliminazione degli estremi. Ma anche noi diciamo e non facciamo, e nulla concludiamo. Si capisce che, sentendosi fra noi la ripercussione di quanto si fa in Italia, l’unità assoluta sarà un pio desiderio. Del resto se la scissione si vuole, sarebbe bene una volta tanto intendersi, e ciascuno seguire la propria tendenza con carattere specifico e con la divisione della responsabilità nella azienda delle cose. E’ addirittura inutile che alcuni dei nostri si ritirino in disparte senza manifestare a che mirino e che cosa vogliano. E’ addirittura pericoloso che altri facciano gl’impermaliti e i dissenzienti e dicano male dei loro compagni che hanno fatto e fanno ogni giorno qualche cosa per la causa proletaria. Manifestiamoci pure in tendenze, ma cerchiamo nel decentramento quella possibilità d’intese transitorie da essere utili al partito e alle classi lavoratrici. Non disperdiamo le nostre energie; non perdiamoci in invidiucce personali e in lotte intestine. (…) Non perdiamoci in diatribe o in aperta inazione e apatia che inacidiscono o snervano. Fuori o dentro il partito, con l’una o con l’altra tendenza, occorre agire e continuare a fare del buon socialismo»[28].

Nel 1912 il desiderio di stringere un’alleanza con le forze politiche moderate riuscì a concretizzarsi con grande soddisfazione di Franciosi e di chi credeva più nella cooperazione politica che nella logica rivoluzionaria. Nacque infatti il “Blocco Democratico”, basato su un programma politico concordato tramite numerosi incontri tra socialisti e democratici moderati.

Il “blocchismo”, scrisse il “Titano” del 31 dicembre, pur essendo sempre stato respinto dai socialisti italiani perché toglieva forza e prestigio agli ideali per cui combattevano, a San Marino era invece una necessità impellente in quanto il paese si trovava ancora in uno stato «semifeudale e in mano di due caste: il prete e il signorotto».

Per farlo uscire lentamente dalla sua dimensione obsoleta, la maggioranza dei socialisti era giunta alla conclusione che l’alleanza con gli altri democratici era ormai ritenuta l’unica strada percorribile. Soltanto dopo un effettivo miglioramento della situazione sociale e politica della Repubblica, il gruppo socialista avrebbe sciolto l’alleanza per riprendere autonomamente la propria strada, che si considerava abbandonata solo per un tempo limitato[29].

Il Blocco in realtà ebbe vita breve arenandosi nel 1914 sull’impossibilità di innovare il sistema istituzionale, e soprattutto sull’ipotesi d’introdurre una nuova riforma tributaria, che i socialisti da tempo avrebbero voluto equa e progressiva in base al reddito prodotto, idea fortemente avversata da molti dei loro alleati, riformisti moderati di tendenza democratica, ma benestanti e possidenti, quindi assai restii ad aumentare la loro contribuzione fiscale.

Il fallimento del Blocco indusse i socialisti ad «accentuare il processo di differenziazione pur tendendo a propulsionare  le forze politiche affini», ovvero a prendere le distanze dai loro alleati precedenti, presunti democratici, e a porsi in netta contrapposizione «all’opera dei rappresentanti della classe abbiente e conservatrice che con la finzione nominale della repubblica, col pretesto della tradizione, con l’inganno sentimentale del patriottismo, consolida il proprio privilegio economico ed oppugna ogni atto di reale progresso»[30].

Da questo momento in poi il socialismo sammarinese abbandonò qualunque ipotesi di collaborazione con le altre forze all’interno del Consiglio, arrivando addirittura a non partecipare alle elezioni semestrali della Reggenza per il «preciso e meditato intendimento di negare qualsiasi consenso, tacito o palese, ad un ordine di cose che esso reputa cagione delle cattive sorti della Repubblica»[31].

La rivoluzione bolscevica del ’17 accentuò ulteriormente le aspirazioni massimaliste ed isolazioniste dei socialisti sammarinesi, pronti a seguire la stessa logica che stava trionfando presso il socialismo italiano, convinti ormai che anche in Occidente prima o poi potesse prevalere il modello rivoluzionario asceso al potere in Russia con Lenin.

Addirittura dopo le elezioni politiche svoltesi il 14 novembre 1920, in cui il Partito Socialista Sammarinese ebbe 18 rappresentanti eletti in Consiglio, fu clamorosamente deciso al suo interno di dimettersi in blocco perché il risultato elettorale, pur aumentando in modo sensibile il numero dei consiglieri socialisti, non era adeguato «né al meraviglioso risveglio del proletariato internazionale, né agli interessi e alle aspirazioni che qui il partito rappresenta e difende, né infine alla dolorosa situazione prodotta essenzialmente dalla crisi dell’assurdo regime che grava sulla Repubblica ad affrontare la quale era necessario al Partito Socialista la fiducia e la solidarietà dei lavoratori dei campi che il clericalismo, nelle sue speculazioni, istiga e mette in urto con la classe lavoratrice più matura e cosciente che si stringe attorno alla nostra bandiera. (…) Le urne di domenica 14 novembre non hanno modificato utilmente la situazione. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza effettiva di mandato, talché il governo della Repubblica tornerà ad essere la risultanza di accomodamenti, di combinazioni, giudicati assolutamente inadatti a risolvere i gravi problemi del paese e incapaci di colpire le classi abbienti per risanare le finanze. Per questo il Partito Socialista non voleva alcuna corresponsabilità nel governo, lasciando tutto l’onere della gestione agli altri gruppi politici».

Nel documento si specificava che il grave gesto non doveva essere considerato una fuga, ma nasceva dalla precisa volontà di organizzarsi meglio per combattere battaglie politiche più decise, e per non scendere a compromessi con nessuno: «Una Repubblica dei lavoratori non è più conciliabile né con la borghesia, né col clericalismo; né col privilegio, né con la superstizione», fu categoricamente proclamato[32].

L’uscita dal Consiglio, in cui i socialisti non riusciranno più a rientrare fin dopo la seconda guerra mondiale, insieme al rifiuto di continuare a seguire la tipica istigazione turatiana alla collaborazione politica, lasciarono nell’immediato San Marino nelle mani delle forze conservatrici e cattoliche, che a loro volta, da lì a pochi anni, furono costrette a cedere la gestione politica al regime fascista per il  ventennio in cui diventerà padrone assoluto della repubblica sammarinese.

 

 

[1] I primi dati sull’analfabetismo locale sono ricavabili dal censimento ufficiale svolto a San Marino nel 1865, che però considerava come alfabetizzati anche coloro che sapevano solo far la loro firma. Cfr. P. Malpeli, Rapporto sul censimento della popolazione fatto al general Consiglio Principe e Sovrano 14 marzo 1865, Rimini 1865. Nel periodico Il Titano del 12 settembre 1909 si evidenziò che il numero degli analfabeti locali corrispondeva ancora al 71% della popolazione, nonostante che da anni fossero state avviate scuole elementari in buona parte del territorio.

[2] Si veda su tale tema: V. Casali, Ferme restando tutte le altre norme statutarie ovvero Arengo del 1906 e congelamento istituzionale, in Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXXII, a. s. 2004 – 2005, San Marino 2005.

[3] Cfr. Per una proposta di referendum nella Repubblica di San Marino, Rimini 1903.

[4]Sul periodo si veda: V. Casali, Il delitto Bonelli storia di un omicidio politico, San Marino 1992.

[5]P. Franciosi, Alcuni medaglioni sammarinesi, S. Marino 1915. Garibaldi e la repubblica di San Marino, S. Marino 1891. La R.S.M. nel Risorgimento d’Italia  in Congresso fra i collaboratori della “Romagna”, Jesi 1905.

[6]Leges Statutae Reipublicae Sancti Marini, Libro I, Rub. III e IV, Firenze 1895 (ristampa).

[7]Archivio di Stato della RSM, Carteggio della Reggenza. V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, pp. 15-16, San Marino 2002.

[8]Il Giovane Titano, anno II, 5/9/1882.

[9]Presso la Biblioteca di Stato di San Marino esistono vari manifesti e documenti firmati dai socialisti anarchici del Titano diffusi tra il 1885 e il 1891. Cfr. il volume: Biblioteca e ricerca – Quaderni del Dicastero Pubblica Istruzione e Cultura, n° 2, p. 152, Aiep Editore, San Marino 1983.

[10] Ovvero: Alfredo Casali, Antonio De Biagi, Tullio Giacomini, Ettore Ghironzi, Giovanni Vincenti, Marco e Rufo Reffi, Giuseppe Giovannarini, Marino Ravezzi, Angelo Corsucci, Giuseppe Amati, Raffaele Montemaggi e Gino Giacomini.

[11]“1° maggio. Numero unico dei Socialisti Sammarinesi”, Urbino 1898.

[12]P. Franciosi, A. Reffi, Brevi notizie sul passato, sul presente e sul futuro delle finanze della R.S.M., Bologna 1894.

[13]P. Franciosi, Come si possa secondare nella R.S.M. l’odierno movimento sociale, Roma 1898. Una riedizione del discorso fu stampata a Morciano di Romagna nel 1902 con qualche integrazione.

[14] Sull’argomento cfr. V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, la Repubblica di San Marino nell’età della Destra Storica, San Marino 1994.

[15] Archivio di Stato della RSM, Atti del Congresso Economico, volumi F n° 6, G n° 7.

[16] Gli statuti secenteschi sammarinesi hanno istituito l’arengo semestrale, ovvero l’opportunità per i capifamiglia e i cittadini sammarinesi di inoltrare al Consiglio petizioni d’interesse pubblico.

[17] Entrambi i documenti sono reperibili in V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, cit., appendici 1 e 2.

[18]Biblioteca di Stato della RSM, “Fondo Franciosi”.

[19]Attualmente conservate presso l’archivio Giacomini in fase di catalogazione presso la sede della Fondazione CSDL. Con le informazioni ricavate dalle stesse ho curato qualche anno fa una breve biografia di Giacomini attualmente pubblicata sul mio sito internet (http://www.verter.altervista.org/giacomini.html).

[20] Grazie ad un fugace appunto a mano scritto dal figlio di Giacomini, Remy, e conservato sempre presso l’archivio di famiglia, pare che suo padre nel congresso avesse sostenuto e votato la mozione promossa proprio da Turati. Riguardo alla visita alla Repubblica, si può dire che la Kuliscioff inviò da Milano il 17 marzo dello stesso anno una lettera di ringraziamento a Franciosi per la gentilezza e l’ospitalità dimostrata, e ne inviò un’altra il 29 giugno, sempre del 1903, in cui si ricordavano con affetto «le cordiali accoglienze da noi avute in mezzo ai compagni San Marinesi. E’ difficile che ci capiti l’occasione di ritornare a S. Marino - prosegue la lettera - ma se fossimo dalle vostre parti ci accorderemmo di salire il Titano per stringerle la mano». L’originale di questa lettera, insieme ad altre di Turati scritte a Pietro Franciosi, di cui si parla nella nota n° 26, è conservata a Firenze presso l’archivio privato degli eredi Franciosi.

[21] Biblioteca di Stato della RSM, “Fondo Franciosi”.

[22] “1° maggio in Repubblica”, edito a cura della Sezione Socialista Sammarinese, numero unico, 1902.

[23]E’ contenuto in “Il Titano”, n° 1, 1° aprile 1903.

[24] Sull’Arengo del 25/3/1906 si veda G. Dordoni, L’Arringo conquistato, Edizioni del Titano, San Marino 1993, V. Casali (a cura di), Immagini dell’Arengo, catalogo della mostra organizzata dalla scuola media della RSM, Verucchio 1996, V. Casali, Ferme restando tutte le altre norme statutarie ovvero Arengo del 1906 e congelamento istituzionale, cit.

[25] V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, cit., pp. 63-87.

[26] Da alcune lettere conservate presso l’archivio privato degli eredi Franciosi a Firenze, emerge che vi furono sporadici contatti epistolari tra Franciosi e Turati già a partire dal 1900. In una lettera di quell’anno, datata 10 aprile, Turati comunica, su carta intestata della Critica Sociale, che erano stati inviati a Franciosi alcuni libri da lui richiesti per un costo complessivo di tre lire. Altre lettere Turati le scambia con Franciosi nel novembre del 1907, quando quest’ultimo avrebbe voluto far pubblicare sulla Critica Sociale un suo scritto (probabilmente il discorso da lui tenuto il 1° ottobre “Dei Poteri del Gran Consiglio e dell’introduzione del Referendum a mezzo dell’Arengo”), cosa che Turati non accetta perché vi era poco spazio sulla rivista e in Italia si sapeva troppo poco di storia sammarinese. Un’altra lettera siglata da Turati è datata 26 ottobre 1908 e riguarda alcuni opuscoli che Franciosi gli aveva richiesto. Un’altra ancora è del 29 settembre del 1912 in cui Turati afferma che non poteva aiutare Franciosi su quanto richiestogli (non è indicato il quesito sottoposto), perciò lo indirizza verso altri avvocati più esperti in materia. Interessante in questa lettera è la chiusura («Saluti cordiali anche agli amici») che fa intendere che egli avesse rapporti anche con altri sammarinesi. L’ultima lettera a Franciosi è datata 10 agosto 1913 e specifica che erano stati inviati al professore i libri richiesti riguardanti la legislazione sociale. Inoltre Turati forniva come consiglio personale altri titoli importanti per l’argomento.    

[27]Archivio Giacomini, “Verbali adunanze generali 1905/1916”.

[28]Il Titano, n° 10, 10/3/1912.

[29] “Il dovere del nostro partito”, in Il Titano, n° 52, 31/12/1912. V. Casali; Storia del socialismo sammarinese, cit, pp. 105 – 139.

[30] “Atto di ricostituzione della Federazione Socialista, 20 dicembre 1914”, in V. Casali; Storia del socialismo sammarinese, cit., pp. 214 – 216.

[31] “La riforma dei poteri pubblici”, 8 aprile 1917, in V. Casali; Storia del socialismo sammarinese, cit., pp. 217 – 226.

[32] Contenuto in Il Nuovo Titano, n° 63, 21/11/1920.

 

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