Il socialismo sammarinese delle origini. Gino
Giacomini, Pietro Franciosi
e l’influenza del pensiero di Turati
Il
primo socialismo sviluppatosi nel corso del XIX secolo, in
particolare nelle sue ultime decadi, non ha certo potuto godere
delle simpatie della società in cui è germogliato: spesso e
volentieri, infatti, era per mentalità, aspirazioni e cultura
riformista agli antipodi rispetto alle logiche conservatrici
imperanti nei tempi in cui ha iniziato a espandersi.
I
padri del socialismo venivano considerati e presentati da chi stava
ai vertici culturali e politici della società del periodo come
temibili distruttori dei valori del passato, come senzadio destinati
alla dannazione eterna, come feroci antitradizionalisti tesi a
vandalizzare tutto ciò che di buono i secoli addietro avevano saputo
produrre e tramandare.
La
società sammarinese, arroccata da secoli in se stessa e sopra un
burbero monte, con un tasso di analfabetismo elevatissimo,
addirittura più di quello del suo circondario,
figlia di una libertà sacra scaturita direttamente dalla costola di
un sant’uomo come Marino, circondata da tempi immemorabili dallo
Stato Pontificio, non poteva essere più progressista di altre
società, sebbene da centinaia di anni si sentisse e si definisse
repubblica.
Anzi: l’oligarchia patriarcale che governava il paese, spalleggiata
in questo dai suoi consulenti italiani, non meno oligarchici, era
convinta che toccare la santa tradizione, modificare anche di una
virgola la divisione in ceti (nobili, terrieri e villici) promossa
dagli statuti secenteschi e consolidatasi nel corso del ‘700, fare
discorsi di equità, di uguaglianza sociale, di ridimensionamento dei
poteri forti, di fiscalità imparziale e distribuita in base alle
capacità contributive, fosse del tutto illogico e «esotico», per
usare un vocabolo che ogni tanto emerge dai documenti conservatori
dell’epoca.
Il
rischio, secondo i governanti al potere, era addirittura il crollo
della repubblica e la sua scomparsa dalla storia, se si fosse
modificato qualunque aspetto costituzionale ereditato dal passato:
«O state come siete, o non sarete», pontificò un consulente
italiano, il senatore Diego Tajani, nel 1902.
Questo slogan è la giusta sintesi del pensiero dominante tra coloro
che governavano il paese, in genere rampolli di famiglie che da
sempre detenevano il potere con logica paternalistica
ultraconservatrice, quando il socialismo locale ha incominciato a
muovere i suoi primi passi.
Il
momento in cui esso iniziò a manifestarsi a San Marino fu il
1892/1893, cioè subito dopo il Congresso di Genova in cui venne
fondato il Partito dei lavoratori italiani, che un anno dopo si
trasformerà in Partito socialista dei lavoratori italiani.
Non
nacque dal nulla essendo erede di una cultura riformista locale che
già si era manifestata con varie fisionomie a partire dall’epoca
napoleonica, e soprattutto durante gli anni del Risorgimento, quando
la stessa parola “comunismo” cominciò a venir timidamente
pronunciata anche tra alcuni sammarinesi.
Dopo
l’unificazione del Regno d’Italia, la società sammarinese uscì
lentamente da quel volontario isolazionismo secolare che l’aveva
contraddistinta praticamente da sempre, e cominciò a mutare pelle,
aiutata in questo soprattutto da nuove ed impreviste entrate che
dagli anni ’60 in avanti le fecero lievitare velocemente i bilanci,
mettendo in circolazione molto più denaro di quel poco a cui era da
sempre abituata, e favorendo un trentennio di lavoro e di maggiore
prosperità dei suoi cittadini.
In
realtà non occorrevano chissà quali entrate per migliorare una
situazione stagnante e misera come quella esistente prima di questi
anni, tuttavia il fresco denaro che giunse grazie al nuovo canone
doganale pattuito con il Regno d’Italia il 22 marzo 1862, data della
prima convenzione di buon vicinato tra i due Stati, permise di
creare nuove strade, nuove infrastrutture e il nuovo Palazzo
Pubblico inaugurato nel 1894, costato l’ingente somma di 350.000
lire, cifra che si dimostrò al di sopra delle possibilità
sammarinesi e che creò un cospicuo deficit nel bilancio dello Stato,
poi utilizzato dai riformisti come cavallo di battaglia contro i
governanti definiti sommariamente incapaci nonché ladri.
La
fine della sua edificazione, infatti, segnò anche la conclusione di
un periodo di relativa tranquillità sociale ed economica, e l’inizio
di anni di turbolenze politiche di cui il piccolo partito socialista
locale fu importante protagonista e puntuale promotore di critiche e
contestazioni verso il sistema politico del Titano con toni di vario
tipo: più massimalisti e arrabbiati, da parte di chi seguiva le
dialettiche maggiormente intransigenti e rivoluzionarie del
socialismo italiano ed internazionale, più morbidi e parlamentaristi
da parte di chi simpatizzava invece per le logiche del socialismo
riformista e moderato.
Ma
andiamo per ordine.
La
matrice culturale del socialismo sammarinese è da ricercarsi
senz’altro nel vasto dibattito ideologico nato e scaturito dalle
dottrine risorgimentali, e nel confronto culturale sviluppatosi tra
i vari gruppi politicizzati dell’Italia di fine Ottocento.
Per
fare un esempio, tra i tanti possibili, del collegamento tra cultura
risorgimentale e nuove ideologie di sinistra, si può citare la
figura di Gino Giacomini, giovanissimo fondatore della locale
Sezione socialista (era nato nel 1878), figlio di Remo, un ex
garibaldino che aveva combattuto a Mentana e Monterotondo, per cui
Gino nutriva una venerazione più che figliale.
Altro esempio di tale legame ideologico è senz’altro Pietro
Franciosi, reputato insieme a Giacomini padre storico del socialismo
sammarinese, anche se arrivò a tale ideologia qualche anno dopo
Gino. Pur non avendo preso parte direttamente agli eventi
risorgimentali, essendo nato nel 1864, s’interessò a fondo a tale
periodo proprio ascoltando estasiato i racconti di chi vi aveva
partecipato in prima persona, e raccogliendo inoltre molte
informazioni di carattere storico che ha trasmesso ai posteri
tramite vari scritti.
Giacomini,
rispetto a Franciosi,si dimostrò sempre un po’ più distaccato verso
i fatti e le ideologie risorgimentali, e molto più interessato al
pensiero di stampo marxista; tuttavia anch’egli appartenne a quella
generazione di giovani cresciuti nei miti di Mazzini e Garibaldi e
nella convinzione che, protestando e lottando, qualcosa si potesse
ottenere per migliorare il mondo.
Oltre all’epopea risorgimentale, e ovviamente agli influssi
ideologici provenienti dall’Italia e dal mondo, va evidenziato anche
un altro fattore che ebbe una certa rilevanza nel formare la
mentalità dei primi socialisti sammarinesi: l’appartenenza ad una
realtà politica che da secoli si definiva repubblica, sebbene lo
fosse più virtualmente che realmente perché la popolazione non
partecipava alla vita politica del paese né eleggeva i consiglieri,
cioè i membri del locale parlamento, che venivano cooptati da chi
già sedeva in Consiglio, come sancito all’interno dei locali statuti
secenteschi con cui venne ufficializzato un governo oligarchico ai
vertici di San Marino.
Per
venire ora agli anni di Turati, è documentato che le prime tracce di
una cultura internazionalista/socialista manifestatasi anche in
territorio sammarineserisalgono al 1880, quando il console italiano
Lossada scrisse alle locali autorità,in data 24 febbraio, per
comunicare che si erano svolte a San Marino due riunioni clandestine
da parte di alcuni italiani notoriamente ascritti al partito degli
internazionalisti.
Il
console avvertiva di stare vigili rispetto a simili iniziative, che
potevano provocare disordini interni ed esterni, perché il partito
che le organizzava aveva un programma «di così evidente pericolo per
la pubblica tranquillità che non ha bisogno di molte parole per
essere dimostrato».
Le
autorità locali ammisero che vi erano anche a San Marino degli
«internazionalisti», ma erano tenuti sotto stretto controllo.
Aggiunsero inoltre: «Il nostro Governo non meno che tutti gli altri
è personalmente convinto della necessità di opporsi con tutte le
forze agli stolti e rei, conati di un partito, che ha per programma
la distruzione degli attuali ordinamenti della società, e perciò noi
useremo di tutta la vigilanza che la gravità del caso richiede, e
adotteremo all’uopo quelle misure che valgano ad allontanare
qualsiasi pericolo».
Le
nuove ideologie di sinistra avevano dunque già contagiato qualche
sammarinese, fatto confermato nel 1882, anno in cui, grazie ad un
accenno all’interno di un articolo di giornale,
è documentato che all’inaugurazione del monumento a Garibaldi,
ancora oggi visibile nell’omonima piazzetta e voluto da un gruppo di
sammarinesi in occasione della sua morte, fosse presente anche il
“Circolo Socialista anarchico rivoluzionario del Titano”.
Questo gruppo lasciò qualche altra essenziale traccia documentale di
sé anche in seguito, ma della sua attività, che si può presumere
assai scarsa, sappiamo pochissimo perché è giunto fino a noi solo
qualche foglio di propaganda a favore degli operai o celebrativo
della Comune di Parigi.
E’
quindi legittimo ipotizzare che non svolgesse azioni continuative in
territorio, e che fosse più un fenomeno culturale emulativo
sostenuto da pochi individui eredi delle culture più contestatarie e
ribelli del Risorgimento.
Questo scarso attivismo è riscontrabile anche nel gruppo socialista
delle origini, nato con molte probabilità nel 1893, e non nel 1892
come in tanti ancora sostengono. Infatti nel giornale socialista Il
giornale del partito socialista “Il Nuovo Titano” della prima metà
del Novecento, periodo in cui erano ancora vivi diversi dei
fondatori del socialismo sammarinese, si hanno ripetute conferme del
1893 come anno di fondazione.
Sul
numero 164 del giornale, uscito il 1° maggio 1954, è addirittura
riprodotta la fotografia della mitica quercia di Cailungo alla cui
ombra avrebbe avuto luogo la fondazione della sezione socialista
locale, che si ribadisce ancora una volta avvenuta nel 1893,
precisamente il 14 agosto, per opera di 13 giovani.
Non
è nota alcuna attività da parte di questo gruppo fino al 1898,
quando richiese alle autorità il permesso di tenere un comizio nel
Teatro Concordia di Borgo in occasione del 1° maggio. Il fatto si
può spiegare in varie maniere, ma sicuramente dipese dalla logica
astensionista ed antiparlamentare che lo caratterizzò nella sua fase
iniziale.
Simile ipotesi è avallata da un articolo pubblicato sul primo
giornale dei socialisti sammarinesi, un numero unico uscito in
occasione del 1° maggio 1898, in cui un anonimo articolista li
riprendeva perché, a suo giudizio, dovevano cambiare tattica, se
volevano ottenere migliorie per il paese, abbandonando
l’astensionismo che li aveva fin lì contraddistinti, per agire
dall’interno delle istituzioni, con l’intento di modificarle e di
renderle più consone ai tempi.
Tramite questo giornale si capisce chiaramente che il locale gruppo
socialista era ancora ai suoi primissimi passi, e che stava
incominciando a discutere al suo interno per mettere a punto una
qualche strategia d’intervento nel sociale adatta ai bisogni ed ai
problemi locali.
Ovviamente chi suggeriva di abbandonare l’astensionismo era un
sicuro sostenitore del pensiero di Turati, da sempre fautore di una
politica partecipativa di stampo parlamentare, e disilluso verso
improbabili rivoluzioni proletarie.
Tra
i suggerimenti avanzati negli articoli del giornale ve n’erano
alcuni destinati ad avere fortuna nel dibattito politico che da ora
in avanti s’infuocherà sempre più, come quello di pretendere una
ripartizione più equa dei tributi, di adottare logiche politiche più
riformiste, di avviare una propaganda sistematica tra la gente, in
particolare tra i contadini ed i proletari, per creare un partito
forte e cosciente.
Sono
questi gli anni in cui pure il professore Pietro Franciosi cominciò
ad interessarsi di politica attiva. Egli già nel 1893 aveva
pronunciato un importante discorso dove, da buon positivista non
ancora schierato apertamente su posizioni politiche di sinistra, con
pacatezza e senza livori, tendeva soprattutto a sottolineare
l’importanza delle finanze pubbliche per la vita di uno Stato
moderno, e l’esigenza che le spese venissero frenate con
un’amministrazione più oculata di quella fin lì tenuta.
Il
secondo discorso di Franciosi fu invece pronunciato il 1° ottobre
1898 con un timbro ben diverso rispetto al precedente.
Partendo questa volta da un’analisi di stampo marxista dei problemi
dell’epoca, segno certo degli studi in materia da lui fatti negli
anni precedenti, egli precisò che la società si era profondamente
modificata e che quindi i sistemi politici un po’ dovunque si
stavano adeguando alle nuove realtà che erano venute maturandosi.
Anche San Marino, che pur godeva di una situazione migliore di tanti
altri Stati, aveva l’interesse a seguire queste nuove strade e a
riformarsi in qualche cosa. Franciosi si dichiarava un riformatore
che guardava con riguardo al passato della Repubblica, e che non
voleva stravolgere più di tanto la tradizione democratica di cui si
sentiva erede. Tuttavia doveva essere chiaro per tutti che ormai
occorreva avere il coraggio di avviare precise innovazioni perché la
logica politica oligarchica che reggeva San Marino era del tutto
obsoleta e fuori luogo per i tempi che si stavano consolidando.
Quali le riforme prioritarie? Franciosi riprende, ampliandoli, gli
argomenti già esposti nel ’93 e chiede:
-
il pareggio dei ceti e l’abolizione della
nobiltà, perché non sussistevano più ragioni storiche o sociali
idonee a giustificare simili arcaiche distinzioni tra i
cittadini;
-
l’abolizione delle onorificenze e del commercio
che se ne faceva: «meglio
il sudore e il sacrificio nostro che il ricevere danaro a scopo
di beneficenza dai decorandi»
dichiarò;
-
il rinnovo periodico ogni tre anni di un terzo
dei consiglieri tramite elezioni, così da comporre un Consiglio
misto formato sia dai conservatori che dai progressisti;
-
la rigorosa definizione dei rapporti tra Stato e
Chiesa;
-
il contenimento dei costi pubblici,
l’eliminazione degli sprechi, una maggiore intelligenza negli
stanziamenti;
-
l’istituzione di una tassa progressiva per
pareggiare stabilmente il bilancio statale.
Le
idee contenute all’interno di questo importante discorso
rappresentano le prime linee programmatiche del nascente riformismo
sammarinese. Sicuramente non dovevano essere condivise da tutti,
visto che ancora non esisteva un gruppo progressista omogeneo con un
piano politico preciso, né vi erano strategie tese a coinvolgere la
cittadinanza nelle richieste che venivano avanzate.
Fino
al 1902 - 1903 non riuscirà a coalizzarsi simile alleanza, per cui
in questi anni si può registrare soltanto un pensiero riformista
fatto di idee solitarie e spesso disparate, non propositi condivisi
dalle varie fazioni progressiste esistenti.
Comunque il problema finanziario va considerato come il principale
combustibile del nascente riformismo sammarinese, e l’arma più
potente che i pochi innovatori locali poterono utilizzare per creare
quel forte consenso, altrimenti abbastanza inspiegabile, visto il
tessuto sociale sammarinese composto prevalentemente da contadini,
che verrà alla luce con l’Arengo del 25 marzo 1906.
Nel
1898 il deficit di bilancio aveva ormai raggiunto le 120.000 lire,
per cui le autorità sammarinesi, dopo aver tentennato negli anni
precedenti, forse con la segreta speranza di rimediare i soldi
mancanti tramite la vendita di qualche altro titolo onorifico,
com’era stata prassi dagli anni ’60 in poi,
erano giunte alla conclusione che l’unica strada percorribile per
sistemare la situazione finanziaria fosse quella d’inasprire le
tasse rustiche ed urbane, quelle indirette sul vino, fino a quel
momento pressoché esente, e alcune altre sui beni di largo consumo.
Il discorso di Franciosi del 1° ottobre si sviluppò quindi su questo
dibattito che stava coinvolgendo animatamente il paese.
Il
gruppo socialista sammarinese uscì dall’anonimato che aveva
caratterizzato i suoi primi anni di vita per lo stesso motivo: il 1°
maggio del ’99 affisse in giro per il paese un manifesto in cui
istigava gli operai a pretendere precise riforme sociali, tra cui il
suffragio universale e un meticoloso controllo delle pubbliche
amministrazioni.
Inoltre nell’arengo
dell’ottobre dello stesso anno presentò alla Reggenza due istanze:
la prima invitava il governo a rinunciare ai suoi propositi fiscali,
essendovi tra i socialisti la convinzione che con una adatta riforma
del bilancio, soprattutto con tagli e risparmi, si potesse
ugualmente far fronte almeno ad una parte del disavanzo.
Se
però non fosse stato proprio possibile evitare la riforma fiscale,
occorreva adottare un sistema d’imposta unica sul reddito, con
esenzione dei redditi minori e progressività per i maggiori.
La
seconda istanza chiedeva, invece, l’istituzione del suffragio
universale per nominare il Consiglio Grande e Generale.
Il
socialismo sammarinese, dunque, partendo dalle contingenze locali e
allacciandosi ai grandi dibattiti di indole riformista che si
stavano sviluppando nei paesi civilizzati, arroccandosi in
particolare sul bisogno d’introdurre anche a San Marino il suffragio
universale prima di varare qualunque altra innovazione, soprattutto
di natura tributaria, era ormai sceso in campo deciso a non
limitarsi più a fare politica passivamente attraverso
l’astensionismo, com’era fin lì avvenuto.
Il
Consiglio esaminò l’istanza senza darle alcun peso, ma evidenziando,
con una certa dose di supponenza, che non riconosceva l’esistenza
di alcun partito all’interno di San Marino.
Negli anni seguenti i socialisti sammarinesi svolsero un’attività
politica piuttosto ridotta. A parte qualche articolo di Gino
Giacomini sul “Risveglio”, giornale socialista di Forlì, con cui
continuava a chiedere prima di qualunque altra riforma l’istituzione
del suffragio universale, e una serie di istanze d’arengo
sottoscritte in parte dai socialisti, in parte da vari democratici,
sempre per chiedere il diritto di voto, non vi fu altro.
Verosimilmente questa scarsa agitazione sociale si spiega col fatto
che Gino Giacomini, mente e fomentatore principale del piccolo
gruppo durante i suoi primi anni di vita, era assente da San Marino
in questo periodo in quanto stava svolgendo il suo mestiere
d’insegnante elementare fuori territorio. Egli rientrò in patria
solo nel novembre del 1902, data in cui fu nominato maestro presso
la scuola elementare di Borgo, dopo che 124 cittadini avevano
sottoscritto a suo vantaggio una petizione in cui lo si richiedeva
come insegnante presso quella sede, essendo ritenuto giovane
capacissimo e molto stimato dai residenti.
Giacomini, convinto che fin lì i conservatori lo avessero boicottato
impedendogli d’insegnare in patria, scrisse a Pietro Franciosi per
dirgli: «La ringrazio con affetto del compiacimento con cui ha
accolto la mia nomina a maestro del Borgo. La volontà del popolo ha
trionfato delle male arti della camorra nobile. Finalmente potrò
rientrare in patria!».
Questi erano i toni tipici di Giacomini, non a caso personaggio più
temuto e odiato rispetto a Franciosi, come sarà chiaro durante
l’ascesa e l’epoca del fascismo sammarinese. Egli era diventato
maestro per caso in quanto la sua famiglia lo aveva inizialmente
mandato a Rimini, in una barberia del porto, ad imparare tale
mestiere. Una malattia ad una gamba, però, lo aveva reso leggermente
claudicante ed impossibilitato a stare in piedi per troppe ore, per
cui, con gravi sacrifici economici, egli aveva intrapreso ad Urbino
lo studio per diventare insegnante elementare.
Furono questi gli anni in cui Giacomini si allontanò dal
mazzinianesimo, tanto caro a suo padre, per avvicinarsi al
socialismo. Già all’età di 10 anni aveva per caso incontrato a San
Marino, dove era venuto per una gita di piacere, Andrea Costa,
«apostolo invitto
del socialismo italiano e ardente romagnolo»,
come scrisse nelle sue memorie,
rimanendone affascinato.
Tuttavia chi lo aveva attratto al pensiero socialista era stato suo
cugino Tullio Giacomini, allora studente universitario a Bologna da
dove aveva portato a San Marino «una fresca e irruente vena di
pensiero moderno».
Gino
decise quindi di aderire senza indugi al socialismo e
«con l’impeto del
neofita - ci racconta -lessi, studiai, assimilai i temi di
propaganda che veniva scodellata negli opuscoli di Turati,
Prampolini, Costa, Bissolati e di tutti i nostri maggiori. Dall’ABC
tentai poi di salire a più alte sfere di acquisizione scientifica
della dialettica marxista, alla quale sono rimasto sempre fedele
attraverso gli scritti di Sorel, Labriola, e agli originali di
Engels, Vassalle, e degli altri, e mi misi a fare propaganda
spicciola da quel soldato volontario e volenteroso che sono sempre
stato».
La
permanenza per studio a Urbino gli permise poi di legarsi alla
sezione socialista della città marchigiana, ricavandone anche
problemi personali e liti con i locali conservatori, che vedevano il
socialismo come una grossa minaccia per la pace sociale.
Nel
1898, anno dei gravi fatti di Milano e della feroce repressione
promossa dal generale Bava Beccarsi, egli dovette sparire dalla
circolazione per qualche tempo per evitare ripercussioni e l’arresto
come sovversivo.
Quando tornò a San Marino nel 1902, dunque, era già ben navigato
nell’agone politico e abbastanza arrabbiato da portare la veemenza
dei suoi 24 anni di età a battagliare in nome dei suoi ideali
socialisti anche all’interno del paese natio.
Non
a caso è proprio il 1902 l’anno in cui lentamente prese avvio la
campagna riformista che, in nome del suffragio universale, portò
all’Arengo del 25 marzo 1906, evento che fu trainato verso la sua
realizzazione proprio dalla piccola sezione socialista sammarinese.
E’
inoltre lo stesso anno in cui Giacomini presenziò, come
rappresentante del socialismo sammarinese, al Congresso di Imola
svoltosi nel mese di settembre, in seguito al quale Turati, Treves e
la Kuliscioff il giorno 11 fecero visita a San Marino.
Nel
1902 anche Pietro Franciosi incominciò a combattere l’arcaicità
delle istituzioni e delle consuetudini locali con un gesto concreto,
ovvero il rifiuto della nomina a consigliere nobile pervenutagli dal
Consiglio Principe e Sovrano.
La
vicenda diede a Gino Giacomini l’opportunità di scrivergli una
lettera nella quale sosteneva che l’abolizione della nobiltà e della
divisione in ceti era una pretesa minima rispetto ai veri bisogni
politici del paese. L’esigenza prioritaria doveva invece essere il
voto: «La coscienza pubblica si orienti in senso veramente
democratico e tenda esclusivamente alla conquista del diritto di
voto prima che lo sfacelo sia completo - ebbe a dire Giacomini -.
Questa è la prima logica ed utile riforma, le altre saranno una
conseguenza inevitabile. Ecco la nostra pregiudiziale».
Sempre in quel fatidico anno i socialisti diedero alle stampe in
occasione del 1° maggio il loro secondo giornale,
in cui si chiedeva nuovamente una riforma fiscale basata sull’equità
contributiva, e, per la prima volta, il decentramento
amministrativo, ovvero la creazione di tanti comuni autonomi, per
eliminare «gli abusi ed i favoritismi criminosi che continuamente si
commettono e nel Consiglio e in non poche amministrazioni, il
progetto di nuove tasse che non si sa, se debbano ancora andare ad
ingrassare le pancie di alcuni nostri maggiorenti, oppure a
sollevare di qualche po’ il nostro esausto bilancio».
Il
giornale contiene tanti altri articoli interessanti che in questa
sede è impossibile sintetizzare, ma è pervaso soprattutto da una
forte e nuova volontà di iniziare a cambiare davvero qualcosa a San
Marino, partendo da poche, granitiche rivendicazioni, e da
un’alleanza che si stava concretizzando con le altre scarne forze
democratiche locali più moderate, logica tipicamente turatiana che
in precedenza non era mai stata sostenuta apertamente né seguita.
Forse proprio a questo cambio di rotta rispetto all’astensionismo
precedente si deve il consolidarsi dell’alleanza fra Franciosi, che
sempre si dimostrerà più disponibile al collaborazionismo che a
velleità sovversive, e Giacomini.
Gli
anni successivi videro perciò la nascita dell’Associazione
Democratica Sammarinese, che si presentò alla popolazione il 15
marzo 1903 con la divulgazione di un programma di stampo riformista
in cui si prevedeva la sovranità popolare con l’elezione periodica
dei consiglieri, l’imposta progressiva sul reddito ed altro ancora.
Furono anche gli anni in cui si consolidò la logica, già ipotizzata
da Franciosi quando era studente universitario a Bologna, di attuare
innovazioni politiche e sociali partendo dalla riconvocazione
dell’Arengo, l’antica assemblea dei capifamiglia non più riunita dal
1571, ma mai abrogata.
Per
giungere all’Arengo occorsero però tre anni di polemiche e dissidi,
perché i vecchi governanti e i conservatori non avrebbero
assolutamente voluto cambiare nulla del sistema istituzionale in
auge. Alla fine socialisti e moderati riuscirono a giungere al tanto
agognato rinnovo periodico di una parte del Consiglio tramite
regolari elezioni, ma le polemiche non si assopirono perché i
socialisti avrebbero bramato riforme ben più incisive di quelle
concesse dall’Arengo del 25 marzo 1906, per cui nel 1907 il
sodalizio con i riformisti moderati si dissolse.
Comunque l’insegnamento di Turati di fare politica da dentro gli
organismi istituzionali, di cercare collaborazioni con chi poteva
convergere sulle riforme auspicate, di non agognare inverosimili
rivoluzioni da parte del proletariato, rimase ben vivo nel piccolo
gruppo socialista sammarinese, anche se al suo interno era pure
presente una seconda anima, quella massimalista e rivoluzionaria, di
indole prettamente marxista e assolutamente contraria a qualunque
tipo di compromesso con le altre forze politiche, che avrebbe voluto
andarsene dal Consiglio per battagliare dal suo esterno.
Il
22 marzo 1911, durante una riunione del gruppo socialista
sammarinese, i due schieramenti si fronteggiarono. Franciosi,
strenuo sostenitore della logica collaborazionista di Turati,
disse: «Per dimettersi da consigliere occorrono forti ragioni perché
le dimissioni si spiegano solo in segno di protesta contro qualche
pessimo deliberato del Gran Consiglio, oppure quando per un’azione
concorde coi consiglieri affini si è certi di portare una crisi nel
Consiglio stesso, in modo d’avere il Paese con noi nelle susseguenti
elezioni. Ma noi non ci troviamo né nell’uno né nell’altro caso e
colle dimissioni corriamo il rischio di disgustarci il corpo
elettorale e di perdere anche il collegio di Città». «(…) Noi
dobbiamo pertanto rimanere in Consiglio e lavorare di più di dentro
e di fuori in modo che con la nostra opera di penetrazione nello
stato delle masse possiamo agire nelle riforme politiche e sugli
avvenimenti economici a pro della Repubblica e delle classi operaie
finché quella si trasformi e questa venga sempre più verso il
socialismo, convinta dal risultato dei fatti».
La
calorosa filippica di Franciosi non bastò a mutare nei più l’idea di
abbandonare i seggi consiliari: 22 dei presenti votarono a favore
delle dimissioni, 7 contro. Per ragioni ignote, però, alla fine il
piccolo gruppo consiliare socialista, che in quel momento era
composto da soli quattro delegati, continuò a rimanere dentro il
massimo consesso politico di San Marino.
Si
sviluppò, tuttavia, sull’organo del partito e all’interno delle sue
riunioni periodiche un’animata diatriba in proposito, con
sostenitori dell’una e dell’altra strategia politica, controversia
che lentamente creò tanto malumore da spaccare completamente il
piccolo gruppo.
Franciosi tornò sulla questione con un articolo uscito il 10 marzo
1912: «Anche noi, è inutile dissimularcelo, siamo divisi in destra e
sinistra, in riformisti e rivoluzionari, in positivi e negativi
nella pratica dei principii. Anche noi sogniamo, alla guisa dei
nostri compagni d’Italia, la ricostituzione rigorosamente unitaria
del partito, con eliminazione degli estremi. Ma anche noi diciamo e
non facciamo, e nulla concludiamo. Si capisce che, sentendosi fra
noi la ripercussione di quanto si fa in Italia, l’unità assoluta
sarà un pio desiderio. Del resto se la scissione si vuole, sarebbe
bene una volta tanto intendersi, e ciascuno seguire la propria
tendenza con carattere specifico e con la divisione della
responsabilità nella azienda delle cose. E’ addirittura inutile che
alcuni dei nostri si ritirino in disparte senza manifestare a che
mirino e che cosa vogliano. E’ addirittura pericoloso che altri
facciano gl’impermaliti e i dissenzienti e dicano male dei loro
compagni che hanno fatto e fanno ogni giorno qualche cosa per la
causa proletaria. Manifestiamoci pure in tendenze, ma cerchiamo nel
decentramento quella possibilità d’intese transitorie da essere
utili al partito e alle classi lavoratrici. Non disperdiamo le
nostre energie; non perdiamoci in invidiucce personali e in lotte
intestine. (…) Non perdiamoci in diatribe o in aperta inazione e
apatia che inacidiscono o snervano. Fuori o dentro il partito, con
l’una o con l’altra tendenza, occorre agire e continuare a fare del
buon socialismo».
Nel
1912 il desiderio di stringere un’alleanza con le forze politiche
moderate riuscì a concretizzarsi con grande soddisfazione di
Franciosi e di chi credeva più nella cooperazione politica che nella
logica rivoluzionaria. Nacque infatti il “Blocco Democratico”,
basato su un programma politico concordato tramite numerosi incontri
tra socialisti e democratici moderati.
Il “blocchismo”,
scrisse il “Titano” del 31 dicembre, pur essendo sempre stato
respinto dai socialisti italiani perché toglieva forza e prestigio
agli ideali per cui combattevano, a San Marino era invece una
necessità impellente in quanto il paese si trovava ancora in uno
stato «semifeudale e in mano di due caste: il prete e il
signorotto».
Per
farlo uscire lentamente dalla sua dimensione obsoleta, la
maggioranza dei socialisti era giunta alla conclusione che
l’alleanza con gli altri democratici era ormai ritenuta l’unica
strada percorribile. Soltanto dopo un effettivo miglioramento della
situazione sociale e politica della Repubblica, il gruppo socialista
avrebbe sciolto l’alleanza per riprendere autonomamente la propria
strada, che si considerava abbandonata solo per un tempo limitato.
Il
Blocco in realtà ebbe vita breve arenandosi nel 1914
sull’impossibilità di innovare il sistema istituzionale, e
soprattutto sull’ipotesi d’introdurre una nuova riforma tributaria,
che i socialisti da tempo avrebbero voluto equa e progressiva in
base al reddito prodotto, idea fortemente avversata da molti dei
loro alleati, riformisti moderati di tendenza democratica, ma
benestanti e possidenti, quindi assai restii ad aumentare la loro
contribuzione fiscale.
Il
fallimento del Blocco indusse i socialisti ad «accentuare il
processo di differenziazione pur tendendo a propulsionare le forze
politiche affini», ovvero a prendere le distanze dai loro alleati
precedenti, presunti democratici, e a porsi in netta
contrapposizione «all’opera dei rappresentanti della classe abbiente
e conservatrice che con la finzione nominale della repubblica, col
pretesto della tradizione, con l’inganno sentimentale del
patriottismo, consolida il proprio privilegio economico ed oppugna
ogni atto di reale progresso».
Da
questo momento in poi il socialismo sammarinese abbandonò qualunque
ipotesi di collaborazione con le altre forze all’interno del
Consiglio, arrivando addirittura a non partecipare alle elezioni
semestrali della Reggenza per il «preciso e meditato intendimento di
negare qualsiasi consenso, tacito o palese, ad un ordine di cose che
esso reputa cagione delle cattive sorti della Repubblica».
La
rivoluzione bolscevica del ’17 accentuò ulteriormente le aspirazioni
massimaliste ed isolazioniste dei socialisti sammarinesi, pronti a
seguire la stessa logica che stava trionfando presso il socialismo
italiano, convinti ormai che anche in Occidente prima o poi potesse
prevalere il modello rivoluzionario asceso al potere in Russia con
Lenin.
Addirittura dopo le elezioni politiche svoltesi il 14 novembre 1920,
in cui il Partito Socialista Sammarinese ebbe 18 rappresentanti
eletti in Consiglio, fu clamorosamente deciso al suo interno di
dimettersi in blocco perché il risultato elettorale, pur aumentando
in modo sensibile il numero dei consiglieri socialisti, non era
adeguato «né al
meraviglioso risveglio del proletariato internazionale, né agli
interessi e alle aspirazioni che qui il partito rappresenta e
difende, né infine alla dolorosa situazione prodotta essenzialmente
dalla crisi dell’assurdo regime che grava sulla Repubblica ad
affrontare la quale era necessario al Partito Socialista la fiducia
e la solidarietà dei lavoratori dei campi che il clericalismo, nelle
sue speculazioni, istiga e mette in urto con la classe lavoratrice
più matura e cosciente che si stringe attorno alla nostra bandiera.
(…) Le urne di domenica 14 novembre non hanno modificato utilmente
la situazione. Nessun partito ha ottenuto la maggioranza effettiva
di mandato, talché il governo della Repubblica tornerà ad essere la
risultanza di accomodamenti, di combinazioni, giudicati
assolutamente inadatti a risolvere i gravi problemi del paese e
incapaci di colpire le classi abbienti per risanare le finanze. Per
questo il Partito Socialista non voleva alcuna corresponsabilità nel
governo, lasciando tutto l’onere della gestione agli altri gruppi
politici».
Nel
documento si specificava che il grave gesto non doveva essere
considerato una fuga, ma nasceva dalla precisa volontà di
organizzarsi meglio per combattere battaglie politiche più decise, e
per non scendere a compromessi con nessuno: «Una Repubblica dei
lavoratori non è più conciliabile né con la borghesia, né col
clericalismo; né col privilegio, né con la superstizione», fu
categoricamente proclamato.
L’uscita dal Consiglio, in cui i socialisti non riusciranno più a
rientrare fin dopo la seconda guerra mondiale, insieme al rifiuto di
continuare a seguire la tipica istigazione turatiana alla
collaborazione politica, lasciarono nell’immediato San Marino nelle
mani delle forze conservatrici e cattoliche, che a loro volta, da lì
a pochi anni, furono costrette a cedere la gestione politica al
regime fascista per il ventennio in cui diventerà padrone assoluto
della repubblica sammarinese.
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