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Il Settecento 

Il secolo XVIII fu epoca di grande travaglio per la Repubblica di San Marino sia per i gravi problemi interni che dovette affrontare, sia per i rapporti movimentati con la Santa Sede, sia, nei suoi ultimi anni, per la nuova dimensione storica, culturale e sociale importata nella penisola italiana dall’Illuminismo e dalle truppe napoleoniche.
Economicamente il Settecento non vide alcun mutamento delle strutture produttive sammarinesi. Fonti principali di sostentamento rimasero l’agricoltura, l’allevamento del bestiame, la vendita di legname, l’emigrazione temporanea presso gli Stati del circondario nei mesi invernali o quando non vi era possibilità di procacciarsi sufficienti mezzi di sostentamento in territorio. L’opportunità di sopravvivere facendo il soldato, professione che in precedenza rappresentò per tanti sammarinesi un mestiere importante, venne via via calando. Nel 1768 il governo emanò addirittura un bando per limitare l’eventualità dei sammarinesi di arruolarsi sotto principi stranieri, con lo scopo di impedire che funzionari pontifici si recassero continuamente in territorio per cercare gente da reclutare a favore dell’esercito papalino.
Il paese ebbe difficoltà a riprendersi dalla grave crisi economica che caratterizzò l’Italia tutta nella seconda metà del Seicento, anche se rimase un importante punto d’incontro e di scambio tra le merci provenienti dalla Romagna (canapa, lini, tele, ecc.) e quelle del Montefeltro (formaggi, lana, ecc.). Solo verso la fine del Settecento vi fu un qualche miglioramento della situazione, così come stava avvenendo anche attorno a San Marino, con aumento delle fiere e della vendita del bestiame. Da registrare nel periodo, inoltre, una grave carestia che colpì la popolazione negli anni ’60 e che fece aumentare di parecchio i decessi, nonché i poveri che giornalmente si recavano presso le famiglie più abbienti, soprattutto i Belluzzi ed i Maggi, per chiedere un pezzo di pane in elemosina. Le altre famiglie sammarinesi benestanti distribuivano qualche beneficenza solo in giorni prestabiliti. In queste occasioni calamitose s’innescava sempre un processo di raccolta caritatevole di denaro e di altri beni di prima necessità con cui fornire qualche soccorso, ma i mezzi dello Stato, dei privati e delle congregazioni religiose o assistenziali presenti a San Marino erano scarsi, per cui gli aiuti che potevano fornire erano del tutto insufficienti.
La staticità è dunque una caratteristica dominante dell’economia sammarinese anche nel XVIII secolo. La stragrande maggioranza della popolazione poteva limitarsi a sopravvivere, quando ovviamente non subentravano imprevisti climatici o di altro genere, sfruttando per quanto possibile, con tecniche agricole ancora molto arcaiche e poco produttive, la poca terra coltivabile del territorio e nulla più. Tale staticità traspare sostanzialmente pure dal catasto Pelacchi redatto nel 1777, da cui si evince che le proprietà terriere continuavano ad essere molte, ma sempre microscopiche, e per lo più insufficienti a garantire livelli minimi di sussistenza alle tante famiglie proprietarie. A questo panorama di generica carenza sfuggivano solo poche famiglie proprietarie di zone territoriali più ampie. Diverse di queste, inoltre, aumentavano le loro entrate grazie a tenute che possedevano fuori territorio.
Naturalmente una situazione così miserevole si ripercuoteva in continuazione sull’apparato governativo, che aveva grosse difficoltà a reperire denaro per i bisogni dello Stato, anche quelli indispensabili. I suoi cespiti principali rimasero le tasse indirette sul sale, sulla polvere pirica e, proprio a partire da questo secolo, sul tabacco, che aveva iniziato a godere di un certo consumo nel corso del ‘600, divenendo merce ricercata e di grande uso nel secolo seguente. Prima la sua vendita veniva data in appalto a privati, ma dal 1742 fu il governo stesso della Repubblica a curarne lo smercio sempre più ingente e di conseguenza fiscalmente proficuo.
Demograficamente la popolazione ebbe alti e bassi in base alle traversie di cui si è detto, rimanendo comunque sempre tra le 3.000 e le 3.500 unità su tutto il territorio. Sarà l’Ottocento il periodo in cui arriverà a triplicarsi dopo secoli di sostanziale stasi. Verso la fine del Settecento incominciò un fenomeno che in seguito sarà destinato ad aumentare ulteriormente: l’incremento del numero dei cosiddetti “casanolanti”, ovvero individui privi di proprietà, locali o stranieri, che campavano come potevano e abitavano in dimore prese a nolo. Parecchi furono i bandi emessi dal governo per limitare l’ingresso in Repubblica o gli spostamenti al suo interno di questi disgraziati, che spesso per sopravvivere erano costretti al furto o ad altri espedienti nocivi per la comunità.
Vennero emessi bandi tesi ad impedire anche forme di inurbamento in Città, quasi che le autorità volessero congelare il paese nella sua fisionomia di sempre. Ovviamente non sarà possibile, perché l’evoluzione demografica esagerata dell’Ottocento provocherà progressivamente notevoli mutazioni a tutti i livelli sociali.
Se economicamente non si possono annoverare particolari novità per la società sammarinese nel secolo che stiamo esaminando, politicamente di novità ve ne furono diverse, in primis un fenomeno che non si può definire del tutto nuovo, ma che provocò notevoli ripercussioni, più che altro negative, all’interno della comunità: lo sviluppo della nobiltà. Sostanzialmente in Europa la nobiltà ebbe due origini: quella primigenia di natura militare, legata al periodo feudale, definita di spada, e quella definita di toga, ovvero la nobiltà acquisita da chi riusciva a raggiungere, grazie a competenze peculiari e cultura, alti ruoli nella burocrazia degli Stati. Vi era un terzo tipo di nobiltà conosciuta soprattutto in Inghilterra: la “gentry”, ovvero una nobiltà che derivava dall’alta considerazione sociale di cui godeva legata al possedimento di terra e beni immobili.
La nobiltà sammarinese fu simile a quest’ultima, e dipese prevalentemente dall’appartenenza a famiglie antiche e benestanti che, avendo la possibilità di far studiare i propri giovani, affiancavano all’influenza economica il prestigio della cultura. Tracce di nobiltà nella nostra storia sono riscontrabili dalla fine del XV secolo: in un testamento del 1497 Francesco Belluzzi, che non a caso apparteneva alla famiglia più ricca e potente dell’epoca, venne definito nobiluomo. Il fenomeno comunque crebbe nei secoli successivi seguendo le mode e gli esempi italiani ed europei, ma fino a tutto il XVII secolo non incise più di tanto sulla società sammarinese, poiché per entrare in Consiglio l’unica distinzione codificata dagli statuti secenteschi era quella tra uomini appartenenti alla Terra, ovvero a Città e Borgo (che dovevano essere 40), e quelli del contado (20), esclusi i residenti dei castelli annessi nel 1463 a cui verrà consentito di diventare consiglieri solo dalla fine dell’Ottocento.
Nella seconda metà del Seicento questa convivenza pacifica tra nobili e plebei iniziò a mutarsi, perché nel 1652 il Consiglio venne a ridurre il suo numero da 60 a 45 (30 terrieri, 15 villici), in quanto si disse che non vi erano abbastanza individui culturalmente idonei a rivestire la carica di consigliere. Restringendosi in modo sostanziale, il Consiglio divenne sempre più oligarchico e gestito da una schiera circoscritta di suoi membri. Inoltre dal 1728 la locale nobiltà cominciò a pretendere di avere sempre diritto ad essere nominata alla prima Reggenza, mentre la seconda era appannaggio dei non nobili, ovvero indistintamente dei terrieri o dei villici. Di fatto con questa decisione i consiglieri divennero di primo (nobili), secondo (terrieri) e terzo (villici) ceto, e la nobiltà ufficializzò la sua preminenza sul governo sammarinese, perché il primo Reggente era alla fine colui che aveva massimi poteri sulla piccola comunità, anche se solo per sei mesi, mentre il secondo, non di rado analfabeta o comunque alla buona, era per forza di cose figura subalterna.
Non solo con la carica di primo Reggente, tuttavia, venne affermata questa preminenza. Infatti dal 1743 fu stabilito che la “Congregazione Generale”, una sorta di governo dell’epoca, che decideva le convocazioni del Consiglio, stabiliva le questioni da sottoporgli, controllava gli uffici principali del paese e si arrogava ampie libertà deliberative un po’ in tutti i settori della politica, fosse composta solo dai 20 nobili.
Nel 1760, poi, la nobiltà indusse il Consiglio a deliberare che un consigliere nobile potesse essere sostituito solo con altra figura di origini nobili, sancendo in maniera tacita l’ereditarietà della carica consigliare, la cui trasmissione  veniva così favorita tra padre e figlio, o comunque all’interno delle poche famiglie nobili del paese.
Il Settecento, in definitiva, fu il secolo in cui l’oligarchia permessa dal sistema elettivo per cooptazione introdotto con gli statuti del Seicento, dalla riduzione del numero dei consiglieri, dalle nuove velleità della locale nobiltà, si accentuò notevolmente. E’ facile comprendere, poi, che alcuni membri di questa casta privilegiata, sempre e comunque ai vertici dello Stato e mai soggetti ad essere posti in discussione o accantonati, potessero abusare del loro ruolo per conseguire vantaggi personali, determinando malumori e polemiche in chi nobile non era, e magari aveva la consapevolezza che la nobiltà poteva ritenersi assurda e paradossale in una repubblica. Come si vedrà, negli eventi di cui parleremo nelle prossime puntate la polemica contro la nobiltà e l’oligarchia sarà piuttosto ricorrente e avrà un importante ruolo in diversi scontri sociali che accadranno nel corso del secolo.

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