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La Satira dei 5 B

 

Gli anni intorno alla metà del 1800 furono turbolenti per l’Europa e anche per San Marino. La cultura risorgimentale, radicale o moderata che fosse, stava divampando libera e ribelle un po’ dappertutto, con i suoi sogni di maggiore democraticità e di rottura definitiva con l’ancien régime, dopo il colpo letale che già gli aveva inferto il periodo napoleonico.

Le resistenze erano però tante: il desiderio reale di voltare pagina rimaneva limitato a uno sparuto gruppo di giovani imbevuti della mentalità più innovatrice ed eversiva del romanticismo. La prima guerra d’indipendenza italiana era stata un fallimento, le speranze in Carlo Alberto e Pio IX come guide del movimento di liberazione dal dominio austriaco erano tramontate, la Repubblica romana era stata soffocata proprio da Napoleone III, colui che i riformisti inizialmente avevano guardato con grande favore e aspettativa: la delusione e la rabbia di chi agognava l’unità italiana e una vita migliore per tutti avevano raggiunto l’apice.  

Sentimenti simili caratterizzarono anche i pochi giovani sammarinesi legati ai sogni promossi da Mazzini, Garibaldi e dagli altri eroi del periodo. “La gioventù è stanca di vedersi accasciata sotto il peso di questo tiranno giogo. Conosce cosa in sé racchiude il nome di Repubblica. Ha separato (almeno in astratto) i lupi e le volpi dagli agnelli e dalle colombe. E guai, guai a voi se non ponete riparo! Non manchi all’artista il lavoro, allo studioso un impiego, allo Stato una risorsa”, scrisse con foga nel 1850 lo studente Giacomo Martelli, uno dei ragazzi più arrabbiati e battaglieri del periodo. 

La piccola repubblica, tuttavia, doveva fare i conti con l’ultra conservatore Stato pontificio, di cui era enclave, e con le truppe austriache che lo tutelavano. Dopo lo scampo garibaldino del 1849, la sua attenzione nei confronti del Titano si era fatta più pressante ancora, sussistendo il timore, nei papalini così come nei granducali, che il territorio sammarinese fosse un rifugio fin troppo facile per chi bramava il sovvertimento dell’ordine costituito.

Nel 1851 i suoi confini vennero circondati da austriaci e truppe pontificie che volevano la consegna immediata di 400 rifugiati che presumevano nascosti sul suolo repubblicano. I governanti sammarinesi rimasero spiazzati perché erano certi che tale numero fosse del tutto inverosimile: non ostacolarono, quindi, l’ingresso in territorio dei soldati. Questi effettuarono perquisizioni meticolose nei luoghi e nelle case che ritenevano possibili nascondigli, comportandosi in più occasioni arrogantemente e senza tener conto che la terra straniera in cui si trovavano aveva loro aperto le porte pacificamente. Alla fine vennero rintracciati e arrestati solo una trentina di rifugiati, a dimostrazione che i timori di Roma erano spropositati, ma il fatto lasciò molta rabbia addosso ai giovani locali che simpatizzavano per i ribelli e per la loro causa.

Negli anni successivi il clima sociale e politico a San Marino divenne rovente, con i risorgimentali da una parte che accusavano i politici di essere troppo succubi e accondiscendenti verso le autorità pontificie, e i governanti dall’altra che cercavano di barcamenarsi tra le crescenti, astiose polemiche interne, e le contestazioni sempre più minacciose provenienti dal Papato e dalla Toscana.  

Il paese si riempì di ‘libelli’ polemici verso i governanti, cioè documenti che anonimamente sparavano a zero sui membri della locale oligarchia, o che, come le pasquinate romane, li deridevano e li minacciavano. Uno di questi fu appunto la Satira dei 5 B di cui si sta per parlare.

La situazione precipitò nel 1853 quando fu ucciso il personaggio politico più importante del periodo: Giambattista Bonelli, da anni segretario generale di San Marino, l’unico che beneficiava di un incarico pubblico a vita. Gli fu teso un agguato verso le 20,30 in pieno centro storico, a pochi metri dalla sua abitazione in contrada Borgoloto. A sparargli alla schiena fu un giovane di Borgo, Luigi Pasqui, aiutato nell’azione criminosa da un suo amico, Marino Giovannarini: entrambi avevano partecipato alla breve esperienza della Repubblica romana come militi al servizio di Garibaldi. Bonelli morì due ore dopo gettando nella paura e nel sospetto il paese e la repubblica tutta. L’assassinio fu senza dubbio politico, perpetrato in un giorno simbolico, il 14 luglio, data della presa della Bastiglia e dello scoppio della Rivoluzione francese. Rappresentò l’apice dello scontro tra la gioventù progressista, fin troppo esaltata, e l’oligarchia circospetta e conservatrice che governava da secoli il paese.

Il fatto fu del tutto imprevedibile, anche se il tenore minaccioso di vari libelli divulgati in precedenza e la rabbia verso i governanti, già manifestatasi in alcuni episodi meno drammatici, avevano fatto presumere che l’usuale tranquillità sociale di San Marino potesse essere compromessa in qualsiasi momento.

“Conoscendo la cattiveria del Paese, la prendeva un tristo presentimento che, sulla sera, qualche sinistro potesse in suo alcuno tramarsi”, dichiarò in seguito la vedova di Bonelli a chi svolse le indagini sull’omicidio.

Certamente uno dei segni del malanimo presente nel paese fu proprio la Satira dei 5 B in cui, senza tanti giri di parole, si augurava la morte a Bonelli e ad altri membri dell’oligarchia sammarinese. Leggiamola:

 

Io parlo per ver dire

non per odio d’altrui, né per disprezzo

                                                                                                Petrarca Canz. 

Questa è la terra libera

Ara d’un popolo Santo?

Questa, che l’amor tenero

Di Cittadin pur vanta?

 

No: di locuste, e puzzole

Di volpi, e di faine

Brigante è una combriccola

D’inganni, e di rapine.

 

Il Capitano Principe

Belzoppi, il Carbonaro

Delle cosette ascetiche

Si è fatto un gran libraro.

 

Così sa di levitico

E insiem sà di mondano

Fà coppia col Pontefice

Che impera in Vaticano.

 

Con portamento impavido

Per soprafino acume,

Del prisco il mento adornasi

Italico costume.

 

Ma s’egli più bastevole

Questa lena, a merto

Già del 21 immemore

Sarebbe un Carlo Alberto.

 

Chi sà, che un Ente vindice

Non ti raggiunga a lato,

Per riscattare il credito

Spergiuro, rinnegato.

 

Inoltre un’altro nobile

Fuor viene assai triviale,

Lui della squadra civicha

Belluzzi, il Generale.

 

È brigador fierissimo;

Sta sull’altar giurato

D’esser nemico acerrimo

Al liberal, spietato.

 

Quando sua man sacrilega

Furò denari tanti

Di ladro allor la maschera

Fù agli occhi suoi davanti;

 

E cento, e più bazzecole

Pretesti da insensato

Inventa per non essere

A guardia quel soldato.

 

Vien poi quel leggiadrissimo

Drappel dei cinque B

Per cui della Repubblica

Gli affari van così.

 

Parlossi del gran Principe

Belzoppi il rinegato;

Che dall’orrevol carica

Doman fosse cessato.

 

Belluzzi l’energumeno

Si è nominato ancora;

Del dì ch’à presso a nascere

Vedesse non l’aurora.

 

Borghesi l’antichissimo

Presiede alla congrega,

Perchè come più assiduo

Si stà sempre in bottega.

 

Avvi speranza tenera

Da far lieta la mente

Che presto come un fulmine

Gli pigli un’accidente.

Nè arrossa, ma festevola

Per opra del bottino

Gavezza, e in un tripudio

Col sangue Cittadino.

 

Ma tutti ti conoscono

Appieno e san chi sei,

O animal selvatico

In odio anche agli dei

 

Deponi pel tuo meglio

Il Breve, e gli spallini

Rinuncia ad una carica

Ch’è fuor dè tuoi confini.

 

Nessun di tanti militi

Rispetta i tuoi comandi

Anzi gli sprezza, e tienili

Ben tristi, ed esecrandi.

 

V’è della Guardia nobile

Enorme altro brigante

Il capitano Angeli

Marino l’ajutante.

 

È fiero, anzi fierissimo;

Vorria colla pupilla

Di libertà con gaudio

Succhiar l’ultima stilla.

 

Forse una mano provida

Gl’intesserà corona,

Poichè giammai dimentica

Il ciel l’anima buona.

 

Allor che fù la nomina

Dè civici ufficiali

Alcuni si credevano

D’esser creati tali.

 

Ma la giustizia, e il merito

Che il ver da lunga veda

Per il fatal suffragio

Tardè si pur la scheda.

 

Perciò tanto vitupera

In modi soprafini

L’istituzione civica

Il gran Marco Tasini.

 

Gonfio di scempio orgoglio

Già noto fabbro Conte,

viene sicuro, impavido

Il Braschi Rodomonte.

 

Di sua spaccata immemore

Marino innamorato,

La figlia ha tratto al talamo,

E in cul gliel’ha piantato.

 

Bonelli il diplomatico

Che il volto ha come pietra

Briga, ribriga, amalgama

Rapina, e non s’arretra.

 

I Segretarj rubbano

Tutti con man giojale,

Egli rubba per sedici

Essendo generale.

 

Onde nella Republica

Gli affari van così

Motivo il leggiadrissimo

Drappel dei cinque B.

 

Un bel pensier giustissimo

Darebbe ora il poeta

Cioè, quei B. convertere

In altrettanti Zeta.

 

 

I 5 B elencati dall’anonimo autore (che presumo fosse Giacomo Martelli) degni di morte e di essere trasformati in Z erano, oltre a Bonelli, Domenico Maria Belzoppi, Filippo Belluzzi, Bartolomeo Borghesi e Giambattista Braschi.

Malevolenza viene espressa anche nei confronti di Marino Angeli, degno pure lui di finire sotto terra. Tutti questi signori avevano in comune l’appartenenza all’élite oligarchica/nobiliare del paese disprezzata dai democratici, smaniosi di un ritorno integrale all’antica logica repubblicana ed egualitaria presente negli statuti precedenti a quelli del 1600, che avevano invece legittimato il sistema elitario in auge. Alcuni avevano ruoli importanti nei corpi militari cittadini che vigilavano sul paese, svolgendo costanti funzioni e operazioni di carattere poliziesco molto denigrate dai democratici che erano in genere le prede a cui si dava la caccia.

Le accuse che vengono rivolte ad Angeli, giovane nato nel 1829 dal nobile Vincenzo e da Margarita Ceccoli, sono dovute proprio al suo ruolo di aiutante maggiore del comandante della Guardia nobile Luigi Giannini, carica che gli era stata assegnata nell’aprile del 1850 dopo la morte del suo predecessore, conte Lodovico Belluzzi. Doveva avere un carattere inviso a chi ha scritto la satira, visto che lo si accusa di essere “fierissimo”, che penso si possa leggere come sinonimo di arrogante, e dispotico. D’altronde un carattere piuttosto aggressivo lo manifesta chiaramente dopo la morte di Gaetano Angeli, suo fratello, rimasto accoltellato il 14 marzo 1854 in uno scontro con alcuni giovani che si erano burlati di lui. Marino, insieme ad altri conservatori che erano del suo stesso pensiero, aveva attuato una sorta di spedizione punitiva contro i democratici da lui ritenuti gli artefici dell’omicidio prima di Bonelli, poi del fratello, arrestandone alcuni e malmenandone altri. L’episodio aveva in seguito causato la morte del dottor Annibale Lazzarini, uno dei complici di Marino, che rimase ucciso il 26 agosto 1854 durante uno scontro in Borgo con alcuni di quei giovani bistrattati durante la spedizione punitiva.

Le poche parole riservate a Marco Tassini dal documento in esame possono invece essere interpretate sia in chiave elogiativa che critica, come d’altronde si addice all’ambiguità del personaggio recentemente messa in luce da studi che lo riguardano e che lo definiscono “ondivago sempre tra ribellismo e autoritarismo”. La satira lo etichetta sia con un “gran”, sia con un “insensato”: il “gran”, sempre che l’anonimo autore non lo intendesse in maniera sarcastica, può riferirsi al suo passato di aderente alle ideologie e alle insurrezioni risorgimentali, perché il suo nome è presente nell’elenco di coloro che avevano preso parte ai moti del ’48. Le simpatie dei democratici nei suoi confronti possono essere anche documentate dal fatto che i libelli dell’epoca non lo criticano, anzi lo elogiano come moderato e buono.

L’altro vocabolo può essergli stato affibbiato perché tra la fine del 1852 e gl’inizi del ’53 si era rifiutato di svolgere il regolare servizio militare che avrebbe dovuto fare, pur essendo ‘capitano aiutante’ delle locali milizie. Aveva inoltre fatto pervenire “scritti ingiuriosi” a chi gli aveva più volte intimato di sottostare al suo dovere di soldato. Comunque la satira, che con quanto detto può essere collocata come stesura nel primo semestre del ’53, non lo vuole morto, ed anche questo fatto testimonia una qualche simpatia dei ribelli nei suoi confronti, o almeno non la feroce intolleranza che avevano soprattutto verso Belzoppi e Borghesi. Costoro sono senza dubbio i politici più odiati del momento, molto più dello stesso Bonelli che sarà invece l’unico dei 5 B a perire. “Chi pose la prima scintilla alla discordia cittadina? chi trasse in non cale i vostri sacrosanti diritti? chi vi ha resi servi allo straniero? un Borghesi ed un Belzoppi”, recita il libello intitolato Al popolo sammarinese divulgato anonimamente dopo i fatti del 1851. Borghesi era un “infame” che aveva saputo circuire Belzoppi:

 Analizzate il contegno tenuto dal Belzoppi dal momento che fu annoverato infra la nobile stirpe (onore le spesse volte funesto e dannevole alla società) e vi scorgerete in questo poco di tempo il cambiamento avvenuto alle pubbliche cose: le discussioni fomentate tra Borgo e Città: l’odio ravvivato fra cittadini primari: in fine il malcontento nella gioventù nascente, e da lui pel passato guidata, in oggi oppressa da una infinità di persecuzioni in punizione di alcuni trascorsi dal Belzoppi primamente suggeriti, voluti. [...] Il Borghesi vi tende alla rovina; imperocché inique sono le sue relazioni con Roma, siccome nefande quelle del Belzoppi col colonello Freddi, le quali non mirano che a togliervi quel retaggio lasciatovi dai vostri padri e da loro tanto bene sostenuto, che a rendervi schiavi ed a macchiarvi in faccia a Dio, al mondo intero, delle più bruttali colpe. E voi a tanto iniquo operato, o popolo sovrano, ve la dormite? [...] Non tremate adunque' sterminate, uccidete.

Si accusava Belzoppi di aver rinnegato i suoi ideali carbonari giovanili, che nel 1834 lo avevano fatto anche incarcerare nelle prigioni pontificie, per fare comunella con i papalini contro i rifugiati politici. L’astio nei suoi confronti scaturiva da vari motivi: nel ’40 era stato elevato alla nobiltà, nel ’49 era stato lui come primo reggente a dover fronteggiare l’emergenza causata dall’arrivo inaspettato di Garibaldi e della sua truppa in pieno sfacelo, e in seguito le problematiche trattative con le autorità pontificie e austriache per risolvere il problema del ritorno alle loro case dei garibaldini rimasti in territorio. Era ritenuto dai democratici, insieme a Borghesi, il principale interlocutore del Vaticano nel ‘51, ovvero il responsabile dell’ingresso non contrastato, anzi permesso senza particolari proteste, dei soldati austriaci dentro i confini sammarinesi.

Una diffamazione nata tra le tenebre della calunnia mi vuole partecipe e complice d’intrighi di una pretesa comunella che avrebbe procurato l’invasione della repubblica per parte della forza straniera austro-pontificia per compiere il sacrificio della sua indipendenza, e quello ad un tempo di pochi individui che costituivano l’emigrazione politica dello Stato pontificio nello Stato nostro - scrisse Belzoppi al Consiglio principe nel luglio del ‘51 -. Sotto il peso di questa accusa, quantunque ritenga che non mi sia mestieri di alcuna discolpa presso di voi, cui non sono ignoti né il mio patriottismo né il mio costante amore per la libertà vera né i sentimenti del mio onore e del mio dovere, pur tuttavia sento che m’è d’uopo procedere alla purezza della mia fama anche al di là delle mura di questa radunanza: cioè in faccia all’opinione generale.

In realtà questo documento, stilato per difendersi dalle accuse e malignità che nelle “tenebre” già circolavano abbondanti sul suo conto, non riuscirà a risolvere il problema, e Belzoppi negli anni seguenti sempre più si sentirà a disagio nel proprio paese fino a decidere di abbandonarlo per sempre.  

Bartolomeo Borghesi di Savignano di Romagna, famoso numismatico e studioso di storia antica, di idee liberali e probabile membro anche lui nei suoi anni giovanili della carboneria, giunse come profugo a San Marino nel 1821, dove era già stato elevato al patriziato tre anni prima come “soggetto molto cognito per la sua erudizione nella republica letteraria”. Nel 1825 comprò dalla famiglia Clini una dimora signorile in cima al monte Titano, davanti alla pieve, nel ‘27 divenne cittadino sammarinese, nel ’29 fu cooptato all’interno del Consiglio principe e sovrano e assunse poi il ruolo di Segretario degli Affari esteri.

Fu soprattutto lui a tenere i contatti con Roma in questi anni burrascosi, così come fu sempre lui a trattare con gli austriaci per cercar di risolvere nella maniera meno dolorosa per tutti il problema creato dall’arrivo di Garibaldi e della sua milizia nel ’49. Addirittura ospitò in casa sua l’arciduca Ernesto e il suo seguito la notte del 1° agosto per poter trattare con la dovuta calma la delicata questione, e sicuramente per poter carpire un po’ di benevolenza da parte dei militi austriaci che in quel momento avevano circondato e chiuso la Repubblica nei suoi confini.

Il fatto non sfuggì ai giovani democratici, sprezzanti verso le attività diplomatiche di chi stava cercando in ogni modo di preservare lo Stato sammarinese, e rabbiosissimi contro chi, a loro giudizio, stava mortificando gli eroi che volevano fare l’Italia e svendendo il piccolo Stato a tedeschi e preti.

“All’arringo dovete tradurre gli iniqui che hanno in questi ultimi tempi sfacciatamente compromessa la vostra Repubblica - recita un altro libello anonimo del periodo - a farvi rendere conto degli infami carteggi di Belzoppi con Freddi, di Belluzzi Filippo con Forlì, di Borghesi con Roma”.

Filippo Belluzzi era un altro membro nobile dell’oligarchia al potere. Nato nel 1806 da Francesco Maria e dalla contessa Antonia Albicini di Forlì, si laureò avvocato ed entrò in Consiglio alla morte del padre nel 1835. Nel ’37 ottenne la sua prima investitura da reggente. Da consigliere di primo ceto ricevette parecchi incarichi sia come appartenente al numero ristretto dai patrizi sammarinesi, che riservavano a sé l’amministrazione del sistema burocratico e dei pochi uffici di cui all’epoca la repubblica disponeva, sia come avvocato. Entrò nella milizia sammarinese da giovane facendovi una rapida carriera fino a diventarne supremo comandante il 7 ottobre 1849, dopo che il cugino Giovanni Benedetto Belluzzi si era dimesso per motivi di età, stando a quanto dichiarò al Consiglio. In effetti aveva 71 anni, ma è da credere che il vero motivo delle sue dimissioni fosse la situazione terribilmente precaria in cui si trovava San Marino in quel momento, visto che Garibaldi vi era giunto e se n’era partito con un manipolo ristretto dei suoi fedelissimi appena due mesi prima, lasciando alle autorità e alla milizia di San Marino l’oneroso compito di risolvere la grana legata ai più di mille uomini della sua truppa inaspettatamente abbandonati in territorio con la sbrigativa logica del ‘si salvi chi può’. L’odio dei democratici nei confronti del Belluzzi indubbiamente scaturì dal ruolo che assunse, e dal fatto che toccò a lui predisporre l’arresto, e in qualche occasione la consegna ai papalini, dei membri della “banda garibaldiana”, come fu spregiativamente definita all’epoca tale truppa, che non riuscirono a starsene nascosti in attesa che finisse il blocco dei confini del paese o a scappare impunemente da soli.

Belluzzi verrà esautorato dalla sua funzione di comandante, rimanendoci assai male, durante la reggenza di Giambattista Braschi (ott. ‘53-mar. ‘54), che per accettare tale incarico aveva preteso categoricamente di essere solo lui a capo della locale milizia per i sei mesi del suo mandato. Proprio Braschi è l’ultimo dei 5 B della satira in esame. Nato il 3 marzo 1805 da Vincenzo e Maria Giangi, apparteneva a una famiglia artigiana benestante di Borgo Maggiore che qui si era stabilita nel corso della prima metà del XVIII secolo con mastro Giovanni, di professione fabbro, provenendo da Urbino. Vincenzo svolse il ruolo di amministratore del patrimonio terriero sammarinese dei conti Maggio-Staccoli: l’epiteto offensivo di “fabbro conte” che la satira affibbia al figlio, definendolo in pratica un parvenu, si comprende quindi grazie al mestiere degli antenati e del padre. Costui fu cooptato consigliere il 13 gennaio del 1818, e divenne secondo reggente nell’aprile del ’24 insieme al nobile Lodovico Belluzzi.

Il figlio Giambattista già nel ’31 era un graduato della locale milizia, e nell’aprile del ’49 sostituì in Consiglio il genitore defunto. Fece una carriera velocissima e assolutamente inusuale tanto da venire subito nominato all’interno del Congresso economico, che all’epoca svolgeva importanti funzioni amministrative e politiche, composto da dieci consiglieri ritenuti particolarmente capaci. Un mese dopo divenne membro del Consiglio dei XII, altro rilevante organo politico sammarinese riservato ai consiglieri più importanti. Il 21 luglio fu innalzato addirittura alla nobiltà, e il 1° ottobre, sempre del ’49, diventò primo reggente con Marino Lonfernini come secondo.

Non sappiamo a cosa si deve tanto singolare successo in appena sei mesi. Gli atti del Consiglio principe e sovrano, da cui si è ricavata buona parte delle informazioni fornite, fanno intuire che in quel momento il paese era carente di uomini ritenuti idonei a farlo uscire dalla burrasca in cui si era venuto a trovare, per cui è lecito supporre che Braschi fosse considerato particolarmente valente, e godesse della massima stima da parte dei governanti che già sedevano ai vertici della repubblica. D’altronde era stato inviato lui a trattare con l’arciduca Ernesto lo stesso giorno in cui la truppa di Garibaldi era entrata in territorio. L’appellativo di “Rodomonte” che la Satira dei 5 B gli affibbia fa inoltre intendere che fosse un tipo fin troppo deciso, come d’altra parte la sua reggenza dopo l’omicidio Bonelli dimostrerà ampiamente. Negli anni successivi continuò a fare carriera politica entrando in vari altri organi finanziari e amministrativi di San Marino. Probabilmente proprio perché era tra i politici più influenti del paese, e sicuramente perché come primo reggente aveva avuto un ruolo decisivo nella risoluzione della terribile situazione sociale creatasi dopo la fuga di Garibaldi, diventò un bersaglio dei democratici.

Come già si è anticipato, Braschi fu nominato reggente anche nel semestre dopo l’omicidio Bonelli, ma fuggì immediatamente dalla Repubblica il giorno prima che scadesse il suo mandato, senz’altro per le minacce ricevute, ma anche per le azioni compiute o tollerate durante questa sua reggenza molto turbolenta e contestata che gli avrebbero potuto determinare brutte conseguenze personali. Dopo il suo allontanamento dal paese non presenziò più a nessun Consiglio rinunciando a tutti gli incarichi che aveva e che gli furono proposti per ricoinvolgerlo nella vita pubblica sammarinese.

Ugualmente nel marzo del ’54 scappò dalla repubblica anche Belzoppi, stanco “della vita pubblica che fin da’ suoi primordi non gli fruttò che agitazioni, calunnie, e pericoli”, come scrisse alla Reggenza, ma senza dubbio preoccupato che le minacce verbali nei suoi confronti potessero trasformarsi in qualcosa di più concreto e tragico, visto ciò che era accaduto all’amico Bonelli, e considerato che lui, più dello stesso Bonelli, era il bersaglio ricorrente e vituperato dei libelli in circolazione. Anche Belzoppi si rifiutò di tornare a fare politica, disdegnando gli incarichi e le nuove funzioni all’interno del Consiglio che gli vennero in seguito proposte.

Più che una “satira” pungente e solo irrisoria, dunque, il documento che si è esaminato si dimostrò un messaggio terribile e minaccioso che scosse a fondo i nervi di chi ne fu bersaglio. Oggi invece rappresenta un’importante testimonianza di un periodo tanto inquieto e pieno di imprevedibili colpi di scena da essere unico nella lunga storia sammarinese. 

 

Copyright© 2004 Verter Casali