La Satira dei 5 B
Gli anni intorno alla metà del 1800 furono turbolenti per l’Europa e
anche per San Marino. La cultura risorgimentale, radicale o moderata
che fosse, stava divampando libera e ribelle un po’ dappertutto, con
i suoi sogni di maggiore democraticità e di rottura definitiva con
l’ancien régime, dopo il colpo letale che già gli aveva
inferto il periodo napoleonico.
Le resistenze erano però tante: il desiderio reale di voltare pagina
rimaneva limitato a uno sparuto gruppo di giovani imbevuti della
mentalità più innovatrice ed eversiva del romanticismo. La prima
guerra d’indipendenza italiana era stata un fallimento, le speranze
in Carlo Alberto e Pio IX come guide del movimento di liberazione
dal dominio austriaco erano tramontate, la Repubblica romana era
stata soffocata proprio da Napoleone III, colui che i riformisti
inizialmente avevano guardato con grande favore e aspettativa: la
delusione e la rabbia di chi agognava l’unità italiana e una vita
migliore per tutti avevano raggiunto l’apice.
Sentimenti simili caratterizzarono anche i pochi giovani sammarinesi
legati ai sogni promossi da Mazzini, Garibaldi e dagli altri eroi
del periodo. “La gioventù è stanca di vedersi accasciata sotto il
peso di questo tiranno giogo. Conosce cosa in sé racchiude il nome
di Repubblica. Ha separato (almeno in astratto) i lupi e le volpi
dagli agnelli e dalle colombe. E guai, guai a voi se non ponete
riparo! Non manchi all’artista il lavoro, allo studioso un impiego,
allo Stato una risorsa”, scrisse con foga nel 1850 lo studente
Giacomo Martelli, uno dei ragazzi più arrabbiati e battaglieri del
periodo.
La piccola repubblica, tuttavia, doveva fare i conti con l’ultra
conservatore Stato pontificio, di cui era enclave, e con le truppe
austriache che lo tutelavano. Dopo lo scampo garibaldino del 1849,
la sua attenzione nei confronti del Titano si era fatta più
pressante ancora, sussistendo il timore, nei papalini così come nei
granducali, che il territorio sammarinese fosse un rifugio fin
troppo facile per chi bramava il sovvertimento dell’ordine
costituito.
Nel 1851 i suoi confini vennero circondati da austriaci e truppe
pontificie che volevano la consegna immediata di 400 rifugiati che
presumevano nascosti sul suolo repubblicano. I governanti
sammarinesi rimasero spiazzati perché erano certi che tale numero
fosse del tutto inverosimile: non ostacolarono, quindi, l’ingresso
in territorio dei soldati. Questi effettuarono perquisizioni
meticolose nei luoghi e nelle case che ritenevano possibili
nascondigli, comportandosi in più occasioni arrogantemente e senza
tener conto che la terra straniera in cui si trovavano aveva loro
aperto le porte pacificamente. Alla fine vennero rintracciati e
arrestati solo una trentina di rifugiati, a dimostrazione che i
timori di Roma erano spropositati, ma il fatto lasciò molta rabbia
addosso ai giovani locali che simpatizzavano per i ribelli e per la
loro causa.
Negli anni successivi il clima sociale e politico a San Marino
divenne rovente, con i risorgimentali da una parte che accusavano i
politici di essere troppo succubi e accondiscendenti verso le
autorità pontificie, e i governanti dall’altra che cercavano di
barcamenarsi tra le crescenti, astiose polemiche interne, e le
contestazioni sempre più minacciose provenienti dal Papato e dalla
Toscana.
Il paese si riempì di ‘libelli’ polemici verso i governanti, cioè
documenti che anonimamente sparavano a zero sui membri della locale
oligarchia, o che, come le pasquinate romane, li deridevano e li
minacciavano. Uno di questi fu appunto la Satira dei 5 B di
cui si sta per parlare.
La situazione precipitò nel 1853 quando fu ucciso il personaggio
politico più importante del periodo: Giambattista Bonelli, da anni
segretario generale di San Marino, l’unico che beneficiava di un
incarico pubblico a vita. Gli fu teso un agguato verso le 20,30 in
pieno centro storico, a pochi metri dalla sua abitazione in contrada
Borgoloto. A sparargli alla schiena fu un giovane di Borgo, Luigi
Pasqui, aiutato nell’azione criminosa da un suo amico, Marino
Giovannarini: entrambi avevano partecipato alla breve esperienza
della Repubblica romana come militi al servizio di Garibaldi.
Bonelli morì due ore dopo gettando nella paura e nel sospetto il
paese e la repubblica tutta. L’assassinio fu senza dubbio politico,
perpetrato in un giorno simbolico, il 14 luglio, data della presa
della Bastiglia e dello scoppio della Rivoluzione francese.
Rappresentò l’apice dello scontro tra la gioventù progressista, fin
troppo esaltata, e l’oligarchia circospetta e conservatrice che
governava da secoli il paese.
Il fatto fu del tutto imprevedibile, anche se il tenore minaccioso
di vari libelli divulgati in precedenza e la rabbia verso i
governanti, già manifestatasi in alcuni episodi meno drammatici,
avevano fatto presumere che l’usuale tranquillità sociale di San
Marino potesse essere compromessa in qualsiasi momento.
“Conoscendo la cattiveria del Paese, la prendeva un tristo
presentimento che, sulla sera, qualche sinistro potesse in suo
alcuno tramarsi”, dichiarò in seguito la vedova di Bonelli a chi
svolse le indagini sull’omicidio.
Certamente uno dei segni del malanimo presente nel paese fu proprio
la Satira dei 5 B in cui, senza tanti giri di parole, si
augurava la morte a Bonelli e ad altri membri dell’oligarchia
sammarinese. Leggiamola:
Io parlo per ver dire
non per odio d’altrui, né per disprezzo
Petrarca Canz.
Questa è la terra libera
Ara d’un popolo Santo?
Questa, che l’amor tenero
Di Cittadin pur vanta?
No: di locuste, e puzzole
Di volpi, e di faine
Brigante è una combriccola
D’inganni, e di rapine.
Il Capitano Principe
Belzoppi, il Carbonaro
Delle cosette ascetiche
Si è fatto un gran libraro.
Così sa di levitico
E insiem sà di mondano
Fà coppia col Pontefice
Che impera in Vaticano.
Con portamento impavido
Per soprafino acume,
Del prisco il mento adornasi
Italico costume.
Ma s’egli più bastevole
Questa lena, a merto
Già del 21 immemore
Sarebbe un Carlo Alberto.
Chi sà, che un Ente vindice
Non ti raggiunga a lato,
Per riscattare il credito
Spergiuro, rinnegato.
Inoltre un’altro nobile
Fuor viene assai triviale,
Lui della squadra civicha
Belluzzi,
il Generale.
È brigador fierissimo;
Sta sull’altar giurato
D’esser nemico acerrimo
Al liberal, spietato.
Quando sua man sacrilega
Furò denari tanti
Di ladro allor la maschera
Fù agli occhi suoi davanti;
E cento, e più bazzecole
Pretesti da insensato
Inventa per non essere
A guardia quel soldato.
Vien poi quel leggiadrissimo
Drappel dei cinque B
Per cui della Repubblica
Gli affari van così.
Parlossi del gran Principe
Belzoppi
il rinegato;
Che dall’orrevol carica
Doman fosse cessato.
Belluzzi
l’energumeno
Si è nominato ancora;
Del dì ch’à presso a nascere
Vedesse non l’aurora.
Borghesi l’antichissimo
Presiede alla congrega,
Perchè come più assiduo
Si stà sempre in bottega.
Avvi speranza tenera
Da far lieta la mente
Che presto come un fulmine
Gli pigli un’accidente. |
Nè arrossa, ma festevola
Per opra del bottino
Gavezza, e in un tripudio
Col sangue Cittadino.
Ma tutti ti conoscono
Appieno e san chi sei,
O animal selvatico
In odio anche agli dei
Deponi pel tuo meglio
Il Breve, e gli spallini
Rinuncia ad una carica
Ch’è fuor dè tuoi confini.
Nessun di tanti militi
Rispetta i tuoi comandi
Anzi gli sprezza, e tienili
Ben tristi, ed esecrandi.
V’è della Guardia nobile
Enorme altro brigante
Il capitano Angeli
Marino l’ajutante.
È fiero, anzi fierissimo;
Vorria colla pupilla
Di libertà con gaudio
Succhiar l’ultima stilla.
Forse una mano provida
Gl’intesserà corona,
Poichè giammai dimentica
Il ciel l’anima buona.
Allor che fù la nomina
Dè civici ufficiali
Alcuni si credevano
D’esser creati tali.
Ma la giustizia, e il merito
Che il ver da lunga veda
Per il fatal suffragio
Tardè si pur la scheda.
Perciò tanto vitupera
In modi soprafini
L’istituzione civica
Il gran Marco Tasini.
Gonfio di scempio orgoglio
Già noto fabbro Conte,
viene sicuro, impavido
Il Braschi Rodomonte.
Di sua spaccata immemore
Marino innamorato,
La figlia ha tratto al talamo,
E in cul gliel’ha piantato.
Bonelli il diplomatico
Che il volto ha come pietra
Briga, ribriga, amalgama
Rapina, e non s’arretra.
I Segretarj rubbano
Tutti con man giojale,
Egli rubba per sedici
Essendo generale.
Onde nella Republica
Gli affari van così
Motivo il leggiadrissimo
Drappel dei cinque B.
Un bel pensier giustissimo
Darebbe ora il poeta
Cioè, quei B. convertere
In altrettanti Zeta.
|
I 5 B elencati dall’anonimo autore (che presumo fosse Giacomo
Martelli) degni di morte e di essere trasformati in Z erano, oltre a
Bonelli, Domenico Maria Belzoppi, Filippo Belluzzi, Bartolomeo
Borghesi e Giambattista Braschi.
Malevolenza viene espressa anche nei confronti di Marino Angeli,
degno pure lui di finire sotto terra. Tutti questi signori avevano
in comune l’appartenenza all’élite oligarchica/nobiliare del paese
disprezzata dai democratici, smaniosi di un ritorno integrale
all’antica logica repubblicana ed egualitaria presente negli statuti
precedenti a quelli del 1600, che avevano invece legittimato il
sistema elitario in auge. Alcuni avevano ruoli importanti nei corpi
militari cittadini che vigilavano sul paese, svolgendo costanti
funzioni e operazioni di carattere poliziesco molto denigrate dai
democratici che erano in genere le prede a cui si dava la caccia.
Le accuse che vengono rivolte ad Angeli, giovane nato nel 1829 dal
nobile Vincenzo e da Margarita Ceccoli, sono dovute proprio al suo
ruolo di aiutante maggiore del comandante della Guardia nobile Luigi
Giannini, carica che gli era stata assegnata nell’aprile del 1850
dopo la morte del suo predecessore, conte Lodovico Belluzzi. Doveva
avere un carattere inviso a chi ha scritto la satira, visto che lo
si accusa di essere “fierissimo”, che penso si possa leggere come
sinonimo di arrogante, e dispotico. D’altronde un carattere
piuttosto aggressivo lo manifesta chiaramente dopo la morte di
Gaetano Angeli, suo fratello, rimasto accoltellato il 14 marzo 1854
in uno scontro con alcuni giovani che si erano burlati di lui.
Marino, insieme ad altri conservatori che erano del suo stesso
pensiero, aveva attuato una sorta di spedizione punitiva contro i
democratici da lui ritenuti gli artefici dell’omicidio prima di
Bonelli, poi del fratello, arrestandone alcuni e malmenandone altri.
L’episodio aveva in seguito causato la morte del dottor Annibale
Lazzarini, uno dei complici di Marino, che rimase ucciso il 26
agosto 1854 durante uno scontro in Borgo con alcuni di quei giovani
bistrattati durante la spedizione punitiva.
Le poche parole riservate a Marco Tassini dal documento in esame
possono invece essere interpretate sia in chiave elogiativa che
critica, come d’altronde si addice all’ambiguità del personaggio
recentemente messa in luce da studi che lo riguardano e che lo
definiscono “ondivago
sempre tra ribellismo e autoritarismo”. La satira lo etichetta sia
con un “gran”, sia con un “insensato”: il “gran”, sempre che
l’anonimo autore non lo intendesse in maniera sarcastica, può
riferirsi al suo passato di aderente alle ideologie e alle
insurrezioni risorgimentali, perché il suo nome è presente
nell’elenco di coloro che avevano preso parte ai moti del ’48. Le
simpatie dei democratici nei suoi confronti possono essere anche
documentate dal fatto che i libelli dell’epoca non lo criticano,
anzi lo elogiano come moderato e buono.
L’altro vocabolo può essergli stato affibbiato perché tra la fine
del 1852 e gl’inizi del ’53 si era rifiutato di svolgere il regolare
servizio militare che avrebbe dovuto fare, pur essendo ‘capitano
aiutante’ delle locali milizie. Aveva inoltre fatto pervenire
“scritti ingiuriosi” a chi gli aveva più volte intimato di
sottostare al suo dovere di soldato. Comunque la satira, che con
quanto detto può essere collocata come stesura nel primo semestre
del ’53, non lo vuole morto, ed anche questo fatto testimonia una
qualche simpatia dei ribelli nei suoi confronti, o almeno non la
feroce intolleranza che avevano soprattutto verso Belzoppi e
Borghesi. Costoro sono senza dubbio i politici più odiati del
momento, molto più dello stesso Bonelli che sarà invece l’unico dei
5 B a perire. “Chi pose la prima scintilla alla discordia cittadina?
chi trasse in non cale i vostri sacrosanti diritti? chi vi ha resi
servi allo straniero? un Borghesi ed un Belzoppi”, recita il libello
intitolato Al popolo sammarinese divulgato anonimamente dopo
i fatti del 1851. Borghesi era un “infame” che aveva saputo circuire
Belzoppi:
Analizzate il contegno tenuto dal Belzoppi dal momento che fu
annoverato infra la nobile stirpe (onore le spesse volte funesto e
dannevole alla società) e vi scorgerete in questo poco di tempo il
cambiamento avvenuto alle pubbliche cose: le discussioni fomentate
tra Borgo e Città: l’odio ravvivato fra cittadini primari: in fine
il malcontento nella gioventù nascente, e da lui pel passato
guidata, in oggi oppressa da una infinità di persecuzioni in
punizione di alcuni trascorsi dal Belzoppi primamente suggeriti,
voluti. [...] Il Borghesi vi tende alla rovina; imperocché inique
sono le sue relazioni con Roma, siccome nefande quelle del Belzoppi
col colonello Freddi, le quali non mirano che a togliervi quel
retaggio lasciatovi dai vostri padri e da loro tanto bene sostenuto,
che a rendervi schiavi ed a macchiarvi in faccia a Dio, al mondo
intero, delle più bruttali colpe. E voi a tanto iniquo operato, o
popolo sovrano, ve la dormite? [...] Non tremate adunque'
sterminate, uccidete.
Si accusava Belzoppi di aver rinnegato i suoi ideali carbonari
giovanili, che nel 1834 lo avevano fatto anche incarcerare nelle
prigioni pontificie, per fare comunella con i papalini contro i
rifugiati politici. L’astio nei suoi confronti scaturiva da vari
motivi: nel ’40 era stato elevato alla nobiltà, nel ’49 era stato
lui come primo reggente a dover fronteggiare l’emergenza causata
dall’arrivo inaspettato di Garibaldi e della sua truppa in pieno
sfacelo, e in seguito le problematiche trattative con le autorità
pontificie e austriache per risolvere il problema del ritorno alle
loro case dei garibaldini rimasti in territorio. Era ritenuto dai
democratici, insieme a Borghesi, il principale interlocutore del
Vaticano nel ‘51, ovvero il responsabile dell’ingresso non
contrastato, anzi permesso senza particolari proteste, dei soldati
austriaci dentro i confini sammarinesi.
Una diffamazione nata tra le tenebre della calunnia mi vuole
partecipe e complice d’intrighi di una pretesa comunella che avrebbe
procurato l’invasione della repubblica per parte della forza
straniera austro-pontificia per compiere il sacrificio della sua
indipendenza, e quello ad un tempo di pochi individui che
costituivano l’emigrazione politica dello Stato pontificio nello
Stato nostro - scrisse Belzoppi al Consiglio principe nel luglio del
‘51 -. Sotto il peso di questa accusa, quantunque ritenga che non mi
sia mestieri di alcuna discolpa presso di voi, cui non sono ignoti
né il mio patriottismo né il mio costante amore per la libertà vera
né i sentimenti del mio onore e del mio dovere, pur tuttavia
sento che m’è d’uopo procedere alla purezza della mia fama anche
al di là delle mura di questa radunanza: cioè in faccia all’opinione
generale.
In realtà questo documento, stilato per difendersi dalle accuse e
malignità che nelle “tenebre” già circolavano abbondanti sul suo
conto, non riuscirà a risolvere il problema, e Belzoppi negli anni
seguenti sempre più si sentirà a disagio nel proprio paese fino a
decidere di abbandonarlo per sempre.
Bartolomeo Borghesi di Savignano di Romagna, famoso numismatico e
studioso di storia antica, di idee liberali e probabile membro anche
lui nei suoi anni giovanili della carboneria, giunse come profugo a
San Marino nel 1821, dove era già stato elevato al patriziato tre
anni prima come “soggetto molto cognito per la sua erudizione nella
republica letteraria”. Nel 1825 comprò dalla famiglia Clini una
dimora signorile in cima al monte Titano, davanti alla pieve, nel
‘27 divenne cittadino sammarinese, nel ’29 fu cooptato all’interno
del Consiglio principe e sovrano e assunse poi il ruolo di
Segretario degli Affari esteri.
Fu soprattutto lui a tenere i contatti con Roma in questi anni
burrascosi, così come fu sempre lui a trattare con gli austriaci per
cercar di risolvere nella maniera meno dolorosa per tutti il
problema creato dall’arrivo di Garibaldi e della sua milizia nel
’49. Addirittura ospitò in casa sua l’arciduca Ernesto e il suo
seguito la notte del 1° agosto per poter trattare con la dovuta
calma la delicata questione, e sicuramente per poter carpire un po’
di benevolenza da parte dei militi austriaci che
in quel momento avevano circondato e chiuso la Repubblica nei suoi
confini.
Il fatto non sfuggì ai giovani democratici, sprezzanti verso le
attività diplomatiche di chi stava cercando in ogni modo di
preservare lo Stato sammarinese, e rabbiosissimi contro chi, a loro
giudizio, stava mortificando gli eroi che volevano fare l’Italia e
svendendo il piccolo Stato a tedeschi e preti.
“All’arringo dovete tradurre gli iniqui che hanno in questi ultimi
tempi sfacciatamente compromessa la vostra Repubblica - recita un
altro libello anonimo del periodo - a farvi rendere conto degli
infami carteggi di Belzoppi con Freddi, di Belluzzi Filippo con
Forlì, di Borghesi con Roma”.
Filippo Belluzzi era un altro membro nobile dell’oligarchia al
potere. Nato nel 1806 da Francesco Maria e dalla contessa Antonia
Albicini di Forlì, si laureò avvocato ed entrò in Consiglio alla
morte del padre nel 1835. Nel ’37 ottenne la sua prima investitura
da reggente. Da consigliere di primo ceto ricevette parecchi
incarichi sia come appartenente al numero ristretto dai patrizi
sammarinesi, che riservavano a sé l’amministrazione del sistema
burocratico e dei pochi uffici di cui all’epoca la repubblica
disponeva, sia come avvocato. Entrò nella milizia sammarinese da
giovane facendovi una rapida carriera fino a diventarne supremo
comandante il 7 ottobre 1849, dopo che il cugino Giovanni Benedetto
Belluzzi si era dimesso per motivi di età, stando a quanto dichiarò
al Consiglio. In effetti aveva 71 anni, ma è da credere che il vero
motivo delle sue dimissioni fosse la situazione terribilmente
precaria in cui si trovava San Marino in quel momento, visto che
Garibaldi vi era giunto e se n’era partito con un manipolo ristretto
dei suoi fedelissimi appena due mesi prima, lasciando alle autorità
e alla milizia di San Marino l’oneroso compito di risolvere la grana
legata ai più di mille uomini della sua truppa inaspettatamente
abbandonati in territorio con la sbrigativa logica del ‘si salvi chi
può’. L’odio dei democratici nei confronti del Belluzzi
indubbiamente scaturì dal ruolo che assunse, e dal fatto che toccò a
lui predisporre l’arresto, e in qualche occasione la consegna ai
papalini, dei membri della “banda garibaldiana”, come fu
spregiativamente definita all’epoca tale truppa, che non riuscirono
a starsene nascosti in attesa che finisse il blocco dei confini del
paese o a scappare impunemente da soli.
Belluzzi verrà esautorato dalla sua funzione di comandante,
rimanendoci assai male, durante la reggenza di Giambattista Braschi
(ott. ‘53-mar. ‘54), che per accettare tale incarico aveva preteso
categoricamente di essere solo lui a capo della locale milizia per i
sei mesi del suo mandato. Proprio Braschi è l’ultimo dei 5 B della
satira in esame. Nato il 3 marzo 1805 da Vincenzo e Maria Giangi,
apparteneva a una famiglia artigiana benestante di Borgo Maggiore
che qui si era stabilita nel corso della prima metà del XVIII secolo
con mastro Giovanni, di professione fabbro, provenendo da Urbino.
Vincenzo svolse il ruolo di amministratore del patrimonio terriero
sammarinese dei conti Maggio-Staccoli: l’epiteto offensivo di
“fabbro conte” che la satira affibbia al figlio, definendolo in
pratica un parvenu, si comprende quindi grazie al mestiere
degli antenati e del padre. Costui fu cooptato consigliere il 13
gennaio del 1818, e divenne secondo reggente nell’aprile del ’24
insieme al nobile Lodovico Belluzzi.
Il figlio Giambattista già nel ’31 era un graduato della locale
milizia, e nell’aprile del ’49 sostituì in Consiglio il genitore
defunto. Fece una carriera velocissima e assolutamente inusuale
tanto da venire subito nominato all’interno del Congresso economico,
che all’epoca svolgeva importanti funzioni amministrative e
politiche, composto da dieci consiglieri ritenuti particolarmente
capaci. Un mese dopo divenne membro del Consiglio dei XII, altro
rilevante organo politico sammarinese riservato ai consiglieri più
importanti. Il 21 luglio fu innalzato addirittura alla nobiltà, e il
1° ottobre, sempre del ’49, diventò primo reggente con Marino
Lonfernini come secondo.
Non sappiamo a cosa si deve tanto singolare successo in appena sei
mesi. Gli atti del Consiglio principe e sovrano, da cui si è
ricavata buona parte delle informazioni fornite, fanno intuire che
in quel momento il paese era carente di uomini ritenuti idonei a
farlo uscire dalla burrasca in cui si era venuto a trovare, per cui
è lecito supporre che Braschi fosse considerato particolarmente
valente, e godesse della massima stima da parte dei governanti che
già sedevano ai vertici della repubblica. D’altronde era stato
inviato lui a trattare con l’arciduca Ernesto lo stesso giorno in
cui la truppa di Garibaldi era entrata in territorio. L’appellativo
di “Rodomonte” che la Satira dei 5 B gli affibbia fa inoltre
intendere che fosse un tipo fin troppo deciso, come d’altra parte la
sua reggenza dopo l’omicidio Bonelli dimostrerà ampiamente. Negli
anni successivi continuò a fare carriera politica entrando in vari
altri organi finanziari e amministrativi di San Marino.
Probabilmente proprio perché era tra i politici più influenti del
paese, e sicuramente perché come primo reggente aveva avuto un ruolo
decisivo nella risoluzione della terribile situazione sociale
creatasi dopo la fuga di Garibaldi, diventò un bersaglio dei
democratici.
Come già si è anticipato, Braschi fu nominato reggente anche nel
semestre dopo l’omicidio Bonelli, ma fuggì immediatamente dalla
Repubblica il giorno prima che scadesse il suo mandato, senz’altro
per le minacce ricevute, ma anche per le azioni compiute o tollerate
durante questa sua reggenza molto turbolenta e contestata che gli
avrebbero potuto determinare brutte conseguenze personali. Dopo il
suo allontanamento dal paese non presenziò più a nessun Consiglio
rinunciando a tutti gli incarichi che aveva e che gli furono
proposti per ricoinvolgerlo nella vita pubblica sammarinese.
Ugualmente nel marzo del ’54 scappò dalla repubblica anche Belzoppi,
stanco “della vita pubblica che fin da’ suoi primordi non gli fruttò
che agitazioni, calunnie, e pericoli”, come scrisse alla Reggenza,
ma senza dubbio preoccupato che le minacce verbali nei suoi
confronti potessero trasformarsi in qualcosa di più concreto e
tragico, visto ciò che era accaduto all’amico Bonelli, e considerato
che lui, più dello stesso Bonelli, era il bersaglio ricorrente e
vituperato dei libelli in circolazione. Anche Belzoppi si rifiutò di
tornare a fare politica, disdegnando gli incarichi e le nuove
funzioni all’interno del Consiglio che gli vennero in seguito
proposte.
Più che una “satira” pungente e solo irrisoria, dunque, il documento
che si è esaminato si dimostrò un messaggio terribile e minaccioso
che scosse a fondo i nervi di chi ne fu bersaglio. Oggi invece
rappresenta un’importante testimonianza di un periodo tanto inquieto
e pieno di imprevedibili colpi di scena da essere unico nella lunga
storia sammarinese.
|