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I rapporti diplomatici del governo socialcomunista con l’Est negli anni ’50   

Durante gli anni della Guerra Fredda, San Marino fu l’unico Stato occidentale ai cui vertici era stato eletto fin dal 1945 un governo composto prevalentemente da socialisti e comunisti. Come si sa, all’epoca l’Occidente, spinto dalla red scare e dalla dottrina Truman degli Stati Uniti d’America, nonché dal cattolicesimo, timoroso di una drastica opera di scristianizzazione delle società da parte del bolscevismo, vedeva il comunismo come una temibilissima minaccia politica e culturale pronta a ghermirlo.

Alla maggioranza dei Sammarinesi, tuttavia, che erano per lo più contadini e operai, tali apprensioni poco interessavano, per cui continuarono imperterriti a mandare al potere il loro governo “rosso”, che non a caso si definiva in ogni occasione «dei lavoratori», anche nelle elezioni del ‘49, del ‘51 e del ‘55.

In quest’ultima tornata elettorale il locale partito comunista riuscì a portare all’interno del Consiglio dei LX addirittura 19 suoi esponenti, dimostrazione concreta che circa un terzo dei votanti, esclusivamente uomini perché le donne potranno esprimere il loro voto solo a partire dal 1964, sosteneva i “rossi” più oltranzisti.

Nei dodici anni della loro esperienza di governo, i socialcomunisti subirono continui ostacoli e boicottaggi, politici e soprattutto economici, da parte dell’Occidente e dell’Italia in particolare, che non accettava assolutamente ai vertici della Repubblica più antica del mondo, come anche all’epoca era considerata, chi era ritenuto un pericolo da qualunque prospettiva lo si guardasse, ovvero gli eredi di Lenin e di Stalin.

San Marino nel ’49 aveva tentato di far fronte ai suoi gravi problemi economici con l’impianto di un casinò, ma anche questo, dopo pochi mesi di attività, era stato costretto a chiudere dalla polizia italiana che, piazzatasi sui confini, rallentava ogni flusso da e soprattutto per la Repubblica.

Il paese riuscì ad andare avanti solo indebitandosi sempre più, per cui si cominciò a guardare  cautamente a Est per reperire quel sostegno che l’Ovest si rifiutava di fornire[1]. L’Est naturalmente fu ben felice all’idea di poter creare una sorta di avamposto nel cuore dell’Europa occidentale, così come lo fu pure il forte partito comunista italiano.

Tramite una lettera inviata il 4 dicembre 1951 al console generale sammarinese di Roma, Mario Morescalchi, l’Ungheria fu la prima a fare un passo avanti per stringere rapporti diplomatici con San Marino. Questa prima comunicazione non destò l’interesse del console e probabilmente nemmeno delle autorità sammarinesi, per cui gli ungheresi ne trasmisero un’altra l’8 gennaio del ‘52 per sollecitare una risposta.

Il 9 gennaio Morescalchi trasmise il sollecito al governo sammarinese tramite Gino Giacomini, Segretario per gli Affari Esteri. Egli espose la richiesta ai colleghi di governo che si dimostrarono favorevoli al nuovo rapporto diplomatico. La cosa fu comunicata alla legazione ungherese residente a Roma il 28 gennaio, giorno in cui Giorgio Kalmàr, il funzionario che seguiva la pratica per l’Ungheria, si era recato di persona a San Marino per omaggiare la Reggenza «in una visita improntata ai sensi della più cordiale amicizia».

Già in passato, ovvero fin dal 7 febbraio 1899, la Repubblica sammarinese aveva allacciato rapporti diplomatici con l’Ungheria, che però si erano interrotti durante e a causa della prima guerra mondiale. «Ora la Repubblica popolare Ungherese rinnovata nella Sua struttura sociale ed elemento di nobili tradizioni di  civiltà, di culture, di pace, viene a noi con simpatico e spontaneo gesto a chiedere ufficialmente uno scambio di rapporti diplomatici e noi dobbiamo sentirci onorati di questa iniziativa che valorizza il nostro paese, e rispondere aderendo con compiacimento alla cortese richiesta, nell’intento anche di portare un piccolo ma significativo contributo all’affrattellamento (sic) fra le nazioni e alla pace fra i popoli», scrisse Giacomini come appunto, datato 4 marzo, da leggere in quel giorno al Consiglio Grande e Generale.

Com’era logico per i tempi, questi nuovi contatti con un paese satellite dell’Unione Sovietica non passarono inosservati in Italia. Già il giornale “Emilia” il 6 marzo pubblicò un articolo in cui si diceva che l’iniziativa d’instaurare rapporti diplomatici con l’Ungheria era dipesa da un’idea personale di Morescalchi, cosa che invece egli negava decisamente comunicandolo a Giacomini con lettera dell’11 marzo. Il Segretario una settimana dopo gli rispose di stare tranquillo perché non aveva alcuna responsabilità nella trattativa in corso, che stava rapidamente andando in porto per esplicita volontà del governo sammarinese.

Infatti tramite due lettere del 14 e del 19 marzo, il governo ungherese comunicò che come console sceglieva il diplomatico Miklòs Vass, già residente a Roma, nome che Giacomini annunciò al Consiglio il 29 aprile sollecitando «il ripristino dei rapporti consolari con l’Ungheria». Il parlamento sammarinese concesse in quella seduta l’exequatur: Giacomini il giorno dopo trasmise l’informazione alle autorità magiare.   

Vass rimase console fino all’anno successivo quando fu sostituito da Janos Dobai, che ricevette l’exequatur dal Consiglio il 30 aprile 1953. Costui poi manterrà tale ruolo fino al settembre del 1956.

Tra la documentazione archivistica che ci fornisce queste informazioni (non abbondante, per la verità), c’è un’interessante lettera «amichevole e diplomatica», come la definisce il suo autore, del senatore comunista Umberto Terracini scritta a Giacomini il 27 agosto del ’53. Egli desiderava sapere se corrispondeva a verità quanto era venuto a sapere, ovvero che vi era un precedente accordo tra San Marino e la repubblica italiana, «non già l’Italia repubblicana ma l’Italia fascista, della quale questi buoni repubblicani clericali hanno riassunto e osservano in pieno tutta l’eredità», che vietava l’accreditamento presso San Marino di qualunque console già titolare di rappresentanze diplomatiche in Italia. Qualcuno gli aveva riferito che fin lì l’Italia era stata accondiscendente verso gli accreditamenti di rappresentanti diplomatici occidentali presso lo Stato sammarinese, come quello francese, ma era stata una sua concessione, non un diritto della Repubblica. Salutandolo con “fraterna simpatia”, attendeva un chiarimento in merito.

Giacomini gli rispose il 1° settembre assicurando che non vi erano accordi simili tra i due Stati: infatti i consoli d’America, della Gran Bretagna, di Francia e della Svizzera accreditati presso San Marino erano gli stessi accreditati anche in Italia. «Evidentemente e questo lo si rileva anche da altre circostanze, Palazzo Chigi ha il proposito di ostacolare il corso delle normali relazioni fra l’Ungheria e San Marino», evidenziò il Segretario, chiudendo la lettera con «Caro ed illustre compagno, Ti ricambio di cuore i più calorosi, fraterni e memori saluti»[2].

Il legame con l’Est era comunque solido, e la figura di Stalin magnificata, almeno fino al momento in cui furono gli stessi vertici del partito comunista sovietico ad iniziare la cosiddetta “destalinizzazione”. Quando il dittatore morì il 5 marzo 1953, il governo sammarinese inviò all’URSS il seguente telegramma:

«Governo et popolo della Repubblica di San Marino profondamente commossi improvvisa fine capo dei popoli dell’Unione Sovietica, artefice della memorabile difesa e vittoria contro le barbarie naziste, fautore di pace, deplorano crudele destino che strappa ai lavoratori di tutto il mondo l’alfiere della nuova civiltà et inviano al Governo e ai cittadini dell’Unione Socialista i sentimenti del loro profondo cordoglio ed elevano alla memoria del grande condottiero l’omaggio che ogni popolo civile deve  Giuseppe Stalin rivendicatore di ogni libertà».

Il giorno dopo fu Georgij Malenkov, il successore di Stalin, che rimarrà premier russo per un paio di anni, a ricevere il seguente telegramma:

“Governo et popolo Repubblica San Marino si felicitano Vostra nomina Capo Governo Unione Sovietica et formulano voti augurali che illuminata Vostra opera, ispirata al pensiero e all’insegnamento grandi predecessori, sia foriera di pace e prosperità per tutti i popoli amanti della libertà e della giustizia sociale»[3].

I rapporti con l’Ovest divennero da qui in poi sempre più problematici. Il 24 novembre 1955, in uno dei suoi innumerevoli viaggi a Roma per cercare di ottenere maggiore cooperazione e aiuto economico per San Marino, Giacomini incontrò il Presidente del Consiglio Antonio Segni a cui fece un fosco quadro della difficile situazione sammarinese. «Ho parlato diretto: bisogna cambiare mentalità di fronte a S.M. ci vuole un altro metro di valutazione. Bisogna sanare le manchevolezze e esprimere un atteggiamento più ragionevole», racconta direttamente tramite un documento autografo: occorreva, insomma, che l’Italia e l’Occidente non avessero timore del governo socialcomunista che certamente non aveva velleità di stampo bolscevico.

L’incontro tra i due uomini si chiuse con la richiesta da parte di Giacomini di un trattamento politico più collaborativo, tale «da non costringerci a buttarci nelle braccia di altri». Il Ministro, sempre da quanto narra Giacomini nel documento in esame, diede «vivace segno di aver capito e di convenire con me»[4].

L’Italia nei mesi successivi non cambiò atteggiamento nei confronti della Repubblica, anche se la minaccia di buttarsi tra le braccia di altri, ovvio il riferimento implicito all’URSS, non dovette lasciare indifferente il suo governo.

In effetti nei primi mesi del 1956 le autorità sammarinesi s’industriarono per stringere rapporti diplomatici più diretti con l’Unione Sovietica, con cui comunque già esistevano legami di natura culturale grazie all’Associazione San Marino-URSS, gemella dell’Associazione San Marino-Ungheria, nata in precedenza.

La cosa destò nervosismo, e i periodici italiani anticomunisti cominciarono a dire che sul Titano era stato creato un istituto poligrafico di indole comunista «come centro di propaganda bolscevica sottratto al controllo della legge italiana».

Lo stesso console d’Italia residente in Repubblica scrisse a Roma che presso il kursaal di San Marino venivano organizzate mostre, proiezioni e conferenze per propagandare il comunismo, e anche per «minare la fede religiosa dei contadini»[5].  

Ugualmente in giugno sbraitarono contro lo stabilimento delle relazioni consolari con l’Unione Sovietica che già risultavano essere «in corso di esecuzione». «San Marino feudo russo?», titolò un suo articolo il “Giornale d’Italia”, definendo l’iniziativa diplomatica un «atto politicamente impudente ed audace».

Il “Nuovo Titano”, giornale del Partito Socialista Sammarinese, che narra questi fatti[6], afferma che non vi era nulla di cui meravigliarsi perché nel programma di governo presentato dai socialcomunisti per le elezioni del ’55 era esplicitato senza ambiguità il desiderio d’internazionalizzare sempre più la Repubblica con «l’estensione dei rapporti diplomatici e culturali coi governi retti a democrazia popolare, nel supremo obiettivo della distensione e della pace universale»[7].

Nella seduta del Consiglio del 2 luglio Giacomini specificò che le pratiche svolte per stabilire «rapporti amichevoli e culturali attraverso organi ufficiali a livello consolare» con l’URSS erano complete: ora occorreva dare il «crisma a queste relazioni» concedendo l’exequatur a Eugenio Jovnirenko, il diplomatico scelto dai russi.

La Democrazia Cristiana attraverso le parole di Federico Bigi protestò contro tale innovazione dicendo che simili rapporti dovevano essere instaurati solo con l’Occidente, ma la maggioranza socialcomunista rimase fedele alla sua azione votando l’exequatur[8].

I giornali italiani continuarono a biasimare con veemenza il governo sammarinese per simile azione, ma il “Nuovo Titano” ribadì più volte che era soltanto un fatto previsto con chiarezza dal programma di governo. Inoltre era da considerarsi come una  «cordiale e semplice stretta di mano ufficiale, scambiata al di sopra dei monti e delle cortine» che non meritava il «diluvio di accuse» suscitate.

I periodici avversari parlavano invece di una «repubblichetta sovietica» nel centro d’Italia, lanciando accuse velenose[9], «e tutto questo perché San Marino, avendo rapporti internazionali con tutte le nazioni occidentali, ha dato l’exequatur pure ad un console sovietico, che risiede a Roma, che a San Marino si fa vivo solo in qualche cerimonia ufficiale e che è l’agente di formali rapporti di amicizia e di cortesia che non hanno alcuna conseguenza deteriore!» [10].

Jovnirenko rimase console fino all’agosto del 1957, poi fu sostituito da Alexei Pokrovski, primo Segretario dell’Ambasciata dell’URSS in Italia. Giacomini fu informato del fatto con lettera del 13 agosto; rispose il 17 che prendeva atto di quanto comunicato, porgeva al nuovo console il benvenuto del governo, e assicurava che sarebbe stato concesso in fretta l’exequatur appena sarebbero giunte sul Titano «le relative Lettere Patenti».

L’exequatur fu concesso agli inizi di ottobre, in piena crisi legata ai fatti di Rovereta che nella seconda metà del mese determinarono il cambio di governo con la caduta dei socialcomunisti. Ovviamente i rapporti diplomatici con l’URSS in seguito furono subito accantonati.

 

 

[1] Sul periodo si veda il mio Gino Giacomini, una vita intensa, il politico, San Marino 2018.

[2] Archivio di Stato della RSM, Documenti della Segreteria Affari Esteri, buste A549 e A568.

[3] Ivi, busta A564.

[4] Notizie ricavate dall’agendina tascabile del periodo di Giacomini reperibile all’interno dell’Archivio Giacomini depositato presso la sede della Fondazione 25 marzo.

[5] D. Micheloni, La Repubblica Rossa analisi della crisi del ’57, Aiep Editore, San Marino 1999, p. 58.

[6] “Il Nuovo Titano”, n. 187 del 14/6/56.

[7] “Il programma governativo”, in “Il Nuovo Titano”, n. 181 del 18/11/55.

[8] “Il Nuovo Titano”, n. 188-189 del 23/9/56.

[9] Ivi. Al suo interno sono riportati stralci ricavati dai giornali critici con San Marino, così come all’interno di altri suoi numeri del periodo.

[10] Archivio di Stato della RSM, Documenti della Segreteria Affari Esteri, busta A636.

 

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