Un ricordo della Pinella
Era l’ormai lontanissimo 1967 quando conobbi per la prima volta la
professoressa Pinella Reffi, o meglio la Pinella, come tra noi
studenti la chiamavamo, ovviamente quando non ci ascoltava e
potevamo tralasciare l’ufficialità del suo ruolo e la tragica
inferiorità, per dirla con linguaggio alla Fantozzi, della nostra
posizione di semplici studenti alle prime armi con la scuola
superiore.
Ero appena passato dalla terza media alla quarta ginnasio, come si
chiamava allora il primo anno del liceo classico, iniziando così un
percorso all’interno dell’unica scuola superiore all’epoca esistente
in territorio sammarinese.
La Pinella era praticamente la nostra insegnante totale: da lei
apprendevamo italiano, storia, geografia, latino e greco. C’era
anche qualche altro insegnante di cui conservo ancora vaghi e
nebbiosi ricordi, ma certamente non aveva nulla da spartire con la
nostra insegnante universale, croce e delizia della maggior parte
delle ore che si trascorrevano a scuola e anche di quelle a casa,
visto la mole di compiti che dovevamo sbrigare quasi
quotidianamente.
Venivo dalla scuola della famosa quanto terribile Vanna, come
confidenzialmente noi studenti chiamavamo, ovviamente quando non ci
sentiva, la professoressa Vanna Graziani, che mi aveva accompagnato
nei tre anni delle medie.
Lei senz’altro più nostra croce che delizia, anche se poi ho dovuto
ammettere, e i miei compagni di sventura scolastica con me, che
senza la Vanna e senza la Pinella forse non avremmo compiuto le
carriere scolastiche ed universitarie che individualmente abbiamo
fatto negli anni seguenti.
Le metodologie d’insegnamento erano però alquanto diverse: più
classiche e piene di tremolii, naturalmente da parte di noi
studenti, quelle della Vanna; più dolci e dialogiche quelle della
Pinella.
Entrambe, però, riuscivano ad ottenere quello che si proponevano: un
insegnamento di alta qualità che per forza di cose giungeva a
selezionare i meno capaci da quelli più idonei a proseguire percorsi
didattici che sarebbero divenuti sempre più complessi.
La Pinella in quel periodo lavorava sempre in coppia e in parallelo
con la Mara Piochi, ovvero l’altra insegnante del biennio delle
stesse materie, titolare del corso B, anch’essa tostissima e decisa
nei suoi proponimenti, cioè nell’instillare nella mente dei suoi
studenti un nugolo di dati, informazioni, ragguagli e soprattutto un
metodo adeguato e articolato di apprendimento.
Mi ricordo che inizialmente fu proprio dura. Se ci era sembrato
difficile l’insegnamento della Vanna, quello della Pinella e della
Mara era ancora più gravoso e laborioso.
Non perché ne fossimo spaventati, ma proprio perché, rispetto
all’impegno delle scuole medie, ora lo studio e il lavoro da
sbrigare erano aumentati considerevolmente.
D’altronde il salto da un tipo di scuola all’altra risulta spesso
traumatico, oggi come allora.
Inoltre all’epoca l’obbligo scolastico si fermava ai 14 anni, per
cui nessuno ci costringeva a proseguire lungo un percorso tortuoso
che, in genere, non si sarebbe fermato al semplice diploma liceale,
ma sarebbe dovuto giungere fino alla laurea, sempre che ce
l’avessimo fatta.
La selezione era quindi un imperativo categorico che gl’insegnanti
si sentivano dentro, così da non illudere più di tanto coloro che
era più opportuno fermare subito, per indurli a cambiare scuola
scegliendone una più semplice, o a dedicarsi ad un’attività
lavorativa, piuttosto che continuare lungo un cammino scolastico che
sicuramente si sarebbe dimostrato via via più arduo e anche costoso.
Se oggi guardo ai miei compagni di allora e a quello che sono giunti
ad essere nella vita, debbo dire che in genere la selezione fatta
durante il mio biennio è stata abbastanza efficace. Infatti della
trentina di ragazzi giunti nel triennio conclusivo del liceo, solo
due o tre non si sono laureati. Gli altri sono diventati per lo più
medici, insegnanti, farmacisti e avvocati pienamente inseriti e
operativi all’interno della nostra società.
Inoltre in quegli anni c’era lo spauracchio dell’esame di ammissione
alla prima classe del triennio, e gli esaminatori avrebbero dovuto
essere proprio i nostri futuri insegnanti.
Mi ricordo la prima parte della quinta ginnasio come un incubo
perché la Pinella e la Mara, sempre per chiamarle confidenzialmente,
timorose di fare brutta figura di fronte alla commissione
esaminatrice del triennio, o meglio che le facessimo sfigurare con
le nostre più che probabili incompetenze, ci riempivano di versioni
da tradurre, temi da comporre, compiti da eseguire per tenerci
allenati e pronti a qualsiasi sciagura didattica ci potesse
capitare.
Per fortuna, però, eravamo nel 1968, l’anno fatidico delle
contestazioni studentesche, dell’utopia legata al famoso slogan
della “fantasia al potere”, degli eschimo, dei capelli lunghi, delle
barbe incolte, del sogno di fare una scuola migliore, della gente
migliore, un mondo migliore.
A San Marino il ’68 fu per molti aspetti emulativo verso quanto
stava succedendo al di là dei nostri confini, ma non risultò
traumatico, né particolarmente polemico ed aggressivo come altrove.
Si dimostrò comunque un toccasana per il nostro esame di ammissione
che, ad anno scolastico inoltrato, venne improvvisamente abolito.
Non so se il ’68 sia riuscito nel suo intento di fondare un mondo
migliore: certamente per noi creò subito un anno scolastico
migliore, per cui tutti tirammo un profondo sospiro di sollievo e
passammo al triennio conclusivo senza ulteriori scogli impervi da
superare.
Cosa mi ricordo della Pinella al di là di quanto detto? Un sorriso
sempre presente, una donna piacevole nell’aspetto e nei modi, una
gentilezza ed un rispetto per gli studenti non sempre facile da
trovare tra i docenti, una competenza didattica sempre pronta ad
indirizzarci nei nostri tanti momenti d’incertezza.
Non è poco per un insegnante lasciare ricordi simili. Anzi, è
proprio tanto.
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