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Pane, vino e ribellione 

nuovi apporti storiografici sull’insurrezione del 1797  

 

 

               I fatti di cui si sta per parlare sono nelle loro linee generali già ben noti, essendo stati in passato ripetutamente sottoposti ad analisi e commenti, a volte arricchiti di nuovi dettagli, da tutti gli studiosi che hanno trattato della storia contemporanea sammarinese[1]. Tuttavia il presente saggio nasce da un nuovo importante e corposo documento che ho potuto reperire presso l’Archivio di Stato della Repubblica di San Marino, documento mai prima utilizzato da altri, che permette di integrare le informazioni risapute contribuendo così ad una conoscenza ancora più dettagliata dell’importante fatto storico : l’incartamento processuale relativo al procedimento giudiziario a cui vennero sottoposti i rivoltosi del 1797, ovvero i cosiddetti giacobini che contestarono con irruenza il governo sammarinese in quel frangente. Il voluminoso fascicolo, composto da quasi mille pagine manoscritte,   elenca in maniera certosina un nugolo di testimonianze di coloro che vennero direttamente o indirettamente coinvolti nella faccenda, e contiene parecchi documenti scritti, affissi in pubblico e fatti circolare tra la popolazione dagli insorgenti per divulgare le loro idee ed i loro propositi[2]. La nuova documentazione reperita non stravolge in verità più di tanto l’evoluzione della vicenda rispetto a quanto già è conosciuto; tuttavia permette indubbiamente di eliminare qualche perplessità e di colmare diverse lacune sull’articolato avvenimento, fornendo maggiore chiarezza e più notizie su un insieme di fatti che,  ne sono persuaso, potranno essere indagati ed interpretati ancora a lungo come cardini della contemporaneità sammarinese.         

           I

Tutto iniziò per colpa del pane e del vino. Nell’aprile  del 1797  venne presentata ai nuovi Reggenti Giuliano Belluzzi e Girolamo Paoloni  un’istanza d’arengo in cui si chiedeva di migliorare la qualità del pane, che da un po’ di tempo non aveva un gran sapore, e di impedire l’esportazione di vino fuori confine per evitare di ridurne le scorte, e conseguentemente di vederne lievitare il prezzo. Nonostante le assicurazioni fornite dai Reggenti di impegnarsi in prima persona affinché la petizione andasse a buon esito, nel mese di maggio ancora non erano stati presi provvedimenti in merito, per cui i petizionari cominciarono a mormorare sempre più contro il governo, reo di essersi dimostrato del tutto indifferente difronte a quelle che consideravano legittime richieste di onesti cittadini preoccupati  del bene di tutti i Sammarinesi.

   Le proteste cominciarono a svilupparsi particolarmente nelle bettole di Borgo, dove si ritrovavano saltuariamente per bere e giocare a carte gli artigiani del paese ed anche qualche contadino. C’è da sottolineare, però, che la contestazione inizialmente scaturì da scalpellini, muratori, sarti, e da qualche letterato privo di incarichi politici  e di impegni a livello consigliare; solo in un secondo momento coinvolse i contadini, protagonisti involontari di un fenomeno di cui non potevano forse capire del tutto la portata.

   Un giorno Giuseppe Moracci, uno dei petizionari, si accorse che presso la cantina Filippi in Borgo alcuni forestieri avevano comperato del vino e lo stavano caricando sul loro carro col chiaro intento di portarlo fuori confine. Subito si diede da fare per trovare qualcuno che lo aiutasse ad impedire un tale fatto : reperì con facilità e velocemente parecchi compagni decisi come lui a tenere il vino in Repubblica. Tutti insieme si recarono da  Mazzasette, il cantiniere di Filippi, e con metodi bruschi e minacciosi si opposero alla vendita del vino, obbligando i forestieri a riportare all’interno del locale quello che già avevano caricato sul loro mezzo. Subito dopo fecero l’inventario di tutto il vino disponibile presso la bettola, poi si mossero compatti verso le altre cantine del Borgo per svolgere lo stesso tipo di controllo ed elencazione. I cantinieri all’inizio opposero qualche resistenza perché reputavano quell’azione del tutto illegittima ed arbitraria, nonché prepotente, come ebbe a dichiarare qualcuno. Ma il gruppo dei rivoltosi era assai deciso, tanto che arrivò a buttare a terra con violenza la porta della cantina Belzoppi perché  il gestore si era rifiutato di aprirgliela : naturalmente quest’atto fece in modo che tutti diventassero molto più collaborativi e disponibili a soddisfare le richieste di Moracci e degli altri che lo spalleggiavano.

   Verificato e registrato il vino presente in Borgo, la comitiva, sempre concorde, si portò presso l’abitazione del Reggente Belluzzi con l’intenzione di consegnargli l’inventario compilato, nonché per esortarlo di nuovo ad intervenire tangibilmente nella faccenda. Belluzzi prese atto dell’accaduto, ma non volle ritirare l’elenco del vino. Assicurò tuttavia che avrebbe fatto del suo meglio per risolvere il problema, salvare il vino sammarinese e calmare gli animi. Con ciò si concluse il primo episodio della mossa popolare, come venne successivamente definita da tutti, e la brigata si sciolse[3].

   

II

   

    Sicuramente quest’episodio, capitato in un giorno imprecisato di maggio, fu all’origine di quanto successe in seguito. Dagli atti processuali non emerge con chiarezza se il gruppo che si formò per bloccare l’esportazione di vino si fosse già in precedenza organizzato per intervenire all’occorrenza, o se si componesse occasionalmente, stimolato da quanto stava accadendo nella cantina di  Mazzasette.  L’impressione che ho avuto leggendo l’insieme delle testimonianze e cogliendo quel poco che alcuni degli inquisiti dichiararono in merito, è che una sorta di unione tra i più polemici nei confronti del governo era già avvenuta fin dalla presentazione in aprile dell’istanza d’arengo relativa al pane ed al vino, e si era consolidata nei giorni successivi vedendo che la loro supplica non aveva prodotto effetti, perché proprio alcuni di questi petizionari saranno coloro che si porranno arrabbiati e risoluti alla testa del moto. Ancora prima dei fatti appena narrati, dunque, costoro avevano raggiunto una sorta di comunione d’intenti che li aveva portati ad agire compatti appena  ne avevano avuto l’occasione, ed a svolgere con sospetta celerità un’opera di proselitismo tra conoscenti ed amici per dar la massima forza possibile, ed una legittimazione popolare, all’azione intrapresa.

   La loro seconda iniziativa fu  proprio quella di  riunire un insieme di uomini decisi a volere il miglioramento della qualità del pane, pronti ad evitare l’esportazione del vino, desiderosi di mettere un buon ordine nel governo, come ebbe a dichiarare al giudice inquirente uno dei capi della sommossa, Ippolito Ceccoli[4]. L’iniziale richiesta di natura puramente alimentare, quindi, venne arricchita da altri elementi, e si trasformò senza indugio in critica apertamente politica nei confronti del governo, ritenuto responsabile di avere snobbato, per aristocratica boria, una petizione la cui esecuzione avrebbe dovuto essere immediata per l’utilità che l’intero paese ne avrebbe potuto trarre. Vedremo che sussistevano rancori personali e di altro genere nei confronti dei principali governanti pure prima dell’arengo di aprile : anche questi ovviamente ebbero un certo peso nell’alimentare la fiammella che si stava accendendo. Comunque subito dopo aver inventariato il vino del Borgo il gruppo, che era composto da una ventina di uomini, decise di sottoscrivere un’altra petizione, sempre riguardante il pane ed il vino, da presentare al governo. Non è chiaro se già all’interno di questa petizione venissero avanzate richieste di altra natura. La reticenza di molti testimoni e l’ignoranza di altri, che praticamente si trovarono coinvolti in una contestazione politica mentre si erano impegnati solo per appoggiare una richiesta di natura alimentare, o comunque non antigovernativa, non permette di capire a fondo quanta  improvvisazione e quanta premeditazione vi fosse nel portare avanti un piano politico prestabilito. La seconda istanza venne sottoscritta da tutti coloro che avevano assaltato le bettole e, nei giorni successivi, da altri esplicitamente indotti a farlo da chi si era messo a capo della mossa, ovvero Pietro Casali, sarto del Borgo, Ippolito Ceccoli, anch’egli sarto del Borgo che lavorava nella stessa bottega di Casali, Marino Balsimelli, scalpellino di Città, i fratelli Michele e Francesco Martelli, muratori delle Piagge, Ubaldo Biordi, contadino di San Giovanni, e Giuseppe Moracci che all’inizio, finché la faccenda riguardò solo il pane ed il vino, fu senz’altro il più attivo di tutti. Dandosi molto da fare, ed arrivando a trattare anche male chi non se la sentiva di aderire alla loro iniziativa[5], costoro riuscirono a raccogliere in breve un centinaio di aderenti che sottoscrissero una nuova istanza da presentare, questa volta direttamente, al Consiglio. Sempre negli ultimi giorni di maggio l’unione, come ormai si era battezzata, tornò a riunirsi un’altra volta, pare in casa di Ceccoli, per sottoscrivere una sorta di patto di sangue e di reciproca fedeltà : chi si fosse dissociato, o avesse voluto uscire dal gruppo, sarebbe stato immediatamente fucilato, o meglio moschettato.

   Si arrivò così al 3 giugno, giorno previsto per la riunione del Consiglio. I capi dell’unione per dar consistenza numerica al loro tumulto istigarono a recarsi sul Pianello tutti i sottoscrittori del foglio, e quanti incontravano per strada. Alla fine, prima che i consiglieri entrassero nel Palazzo Pubblico, si ritrovarono in buon numero: Pietro Casali, che probabilmente li contò, disse in 88. A questo punto Francesco Martelli consegnò la petizione nelle mani di Matteo Martelli  e Marino Bertoni, due consiglieri, mentre Ippolito Ceccoli, che lo affiancava, teneva in mano lo statuto dicendo a Deputati, che nel Foglio v’erano i punti che volevamo, e che nello Statuto v’era la Legge, che si doveva osservare e che aspettavamo il Rescritto senza muoverci dal Pianello, come dichiarò in seguito[6]. Ma qual era il contenuto dell’istanza ? In pratica i petizionari accusavano i governanti di aver seriamente compromesso nell’ultimo secolo quella tranquillità interna della Repubblica che da tempi immemorabili la caratterizzava. Alla democrazia era stata sostituita la tirannia e le gloriose leggi su cui era stato fondato lo stato sammarinese erano state violentate ed accantonate con l’inserire decreti del tutto contrari all’originario spirito repubblicano che le permeava. Era stato poi creato assurdamente un ceto nobile, responsabile dei maggiori guai di San Marino, ed in più si avanzavano forti sospetti sulla regolarità della pubblica finanza, e sull’onestà dei pubblici amministratori. Ma ora i tempi erano cambiati, ed i Francesi avevano mostrato al mondo che la nobiltà andava abolita perché  non aveva più senso. Ispirati dunque ai nuovi princìpi del momento gli insorgenti reclamavano la perfetta osservanza dello Statuto, l’abolim. di tutti i decreti, che non sono contenuti nelle Rub. dello Statuto, l’annichilim. dell’introdotto lib. d’oro, e che le provide determinazioni del sud. Statuto non possino essere derogate senza il pub. consenso del Gen. Arringo. Inoltre il Consiglio doveva essere composto sempre da 60 membri, come specificava lo statuto, le cariche pubbliche non dovevano essere riservate solo ai nobili ma a tutti, i pubblici amministratori dovevano rendere conto periodicamente della loro gestione, ed altro ancora. Chi dimostrerà avversione alle nostre pretenzioni, darà un segno evvidente di essere ribelle alla Patria - sottolinearono - Abbiamo voluto in iscritto esporre le nre dimande a solo fine di osservare le leggi, che dicono : Che tutti i Capi di Famiglia della nra Rep. come che democratica abbiano jus di appresentarsi al pub. Arringo, e che in tempo dello stesso nessuno possa fare sussurri, prevedendo adunque che chi avesse esposto al pubb. Arringo cod.a nra volontà ne sarebbe nato un qualche bisbiglio, abbiamo voluto evvitarlo con esporre soltanto al pubb.o Gen. Cons. Principe la nostra ben giusta volontà, al quale come si disse consegnò una volta tutte le faccoltà il Popolo Repubblicano. (cfr. Appendice 1)

   Come si può constatare direttamente dal documento riportato, nell’istanza non vi è più traccia del pretesto che aveva permesso ai capi della  mossa di attirare alla loro causa  tanta gente (in particolare contadini analfabeti che avevano sottoscritto la petizione con una croce), cioè la richiesta relativa al pane ed al vino. La questione era divenuta esclusivamente politica: si volevano prioritariamente riforme politiche, perché forse si pensava che le migliorie di natura più tangibile sarebbero avvenute in seguito come necessaria e logica conseguenza. E’ anche probabile, come le deposizioni processuali di qualche contadino coinvolto permettono di supporre, che al ceto rurale la polemica venisse presentata nella sua veste più cruda e comprensibile, evitando in tal modo deliberatamente di manifestare i risvolti politici della faccenda per non spaventare nessuno (un attacco al Principe nelle sue funzioni istituzionali per menti semplici doveva sembrare qualcosa di folle), ed avere quindi la maggiore adesione possibile alla causa riformista.

   Il Consiglio comunque stabilì di rendere i conti entro due mesi e di voler la piena osservanza dello statuto; elesse subito sette nuovi consiglieri per colmare i posti vacanti[7]. Queste risoluzioni vennero immediatamente comunicate ai minacciosi membri della  mossa ancora stazionanti all’esterno del Palazzo Pubblico : costoro rimasero tanto felici dell’esito avuto da portarsi in massa alla vicina Pieve al grido di Viva San Marino per ringraziare immediatamente il santo protettore della comunità, al cui aiuto si doveva di certo la felice conclusione della vicenda.

   Ma ben presto l’entusiasmo si trasformò in delusione e rabbia : al ritorno della Pieve, sempre nei pressi del Pianello, il gruppo incontrò Marino Fazzini, un chierico che aveva partecipato alla stesura dell’istanza, il quale, dopo aver letto la risoluzione consiliare, disse molto esplicitamente ai Martelli ed agli altri : Vanno coglionato ; questo Rescritto non è buono da niente. Il gruppo in un primo momento non recepì più di tanto il messaggio e proseguì in allegria fino al Borgo, dove si sciolse. Ma il parere di Fazzini, suffragato da quello di altri uomini di lettere del paese consultati il giorno successivo, fece capire ai capi della mossa che la loro era stata solo una vittoria mutilata da cui avevano ricavato ben poco, praticamente solo promesse tutte da verificare. Si venne inoltre a sapere che quattro dei sette neo-consiglieri  eletti il 3 giugno non avevano l’età prevista dallo statuto per poter ricoprire tale carica, per cui, nonostante l’assicurazione di voler osservare scrupolosamente le norme statutarie, i consiglieri avevano fin da subito fatto vedere che in fondo si sentivano autorizzati di fare come  volevano. L’unione ovviamente si sentì presa in giro, e gli animi cominciarono ad entrare in ebollizione.

 

III

   

    Nei giorni seguenti gli uomini della mossa con la rabbia nel cuore  incominciarono a contestare apertamente e senza mezzi termini il governo sammarinese. Iniziarono a circolare per il paese satire e libelli che criticavano astiosamente i consiglieri, tra cui il polemico Discorso al popolo sammarinese che riproduco in appendice (doc. n° 3), e le bettole del Borgo divennero i luoghi dove sostenersi ed infiammarsi a vicenda.

   Vi era già rancore nei confronti dei  Signori, cioè del ceto nobile, per alcuni fatti poco chiari accaduti qualche anno prima e su cui non si era mai fatta (o forse non si era mai voluto fare) luce del tutto. Nel febbraio del 1782 erano stati assassinati infatti a pugnalate Virginio Lolli e la sua serva, pare per derubare del denaro dalla casa del Lolli che era un vecchio avaro che prestava soldi ad interesse. Nello stesso anno era stato scoperto un giro di monete false fabbricate a San Marino da un certo Francesco Giurovich, esule di Zara che si era rifugiato un paio di anni prima in Repubblica proprio per sottrarsi ad una imputazione di  fabbricazione e spaccio di denaro falso. La voce popolare aveva attribuito subito l’omicidio ad alcuni nobili rampolli del paese, ovvero a Francesco Manenti, Alessandro e Claudio Belluzzi e Giuseppe Belzoppi, quattro amici a corto di denaro e con qualche debito, ai quali l’omicidio sarebbe servito per sistemare le proprie finanze. Ugualmente si diceva che Giurovich, nel portare a termine la sua azione illegale, avesse ricevuto l’aiuto di altri individui, tra cui alcuni componenti dell’oligarchia ai vertici del paese. Don Gaetano Angeli, l’accusatore più pugnace degli oligarchi, aveva sparato a zero sul governo incolpandolo di non voler scoprire i complici del falsario, mentre il Reggente nobile Begni aveva esercitato pressioni affinché venissero sospese le indagini in merito per evitare eccessivi costi alle casse pubbliche.

   La vicenda è complessa e, da quanto ho potuto verificare tramite un sommario esame delle carte processuali, meriterebbe di essere ristudiata a fondo, anche se alcuni studiosi hanno già scritto in merito qualche pagina[8]. Tuttavia in questa sede è importante soprattutto sottolineare che già da quei fatti era certamente nato un mormorio risentito verso chi era ai vertici del paese, verso i Signori cioè, che tutto potevano senza dover rendere conto a nessuno, e per questo erano il bersaglio prediletto di chi non godeva di un proprio spazio all’interno dell’elite governativa.  L’aria riformista importata in Italia dalle truppe napoleoniche fece il resto, rispolverando vecchie ruggini nascoste, ma non annichilite. Tra l’altro per l’omicidio Lolli era finito in un primo momento ingiustamente in carcere anche Giuseppe Moracci, colui che con l’istanza sul pane ed il vino era stato l’iniziatore di tutto. E’ chiaro che in una piccola e per nulla acculturata realtà politica di provincia ben difficilmente si poteva dar origine a sconvolgimenti  e mosse popolari se gli eventuali stimoli ideologici che potevano starvi alla base non si allacciavano a motivi concreti  (il pane ed il vino) e a risentimenti personali. Anche in questo caso, come nel delitto Bonelli del 1853 o nell’arengo del 1906, si assiste alla fusione di queste tre indispensabili componenti polemiche, e quindi allo sviluppo di un fenomeno del tutto abnorme per la storia del piccolo Stato, tanto abnorme da sfuggire al controllo ed alla stessa comprensione della maggior parte dei suoi principali protagonisti.

   La petizione che doveva essere presentata al Consiglio del 3 giugno conteneva nella sua stesura iniziale anche precisi riferimenti ai fatti riguardanti Giurovich e Lolli, almeno stando alla deposizione di uno dei capi della mossa, Marino Balsimelli[9]. Egli, fatti alcuni mesi di carcerazione, in data 2 novembre 1797 dichiarò che, dopo aver portato insieme agli altri la nota con l’inventario del vino al Reggente Belluzzi, il quale a parole si era dimostrato simpatizzante per la causa dell’Unione dicendo loro che non si volevano rendere i conti, quantunque vi fossero più risoluzioni in Consiglio, si decise di inoltrare una petizione al Consiglio del 3 giugno; Francesco Martelli si prese la briga di farla preparare da persone di sua fiducia. Dalla deposizione dello stesso Martelli raccolta dal giudice in data 11 settembre[10] risulta che autori di questo primo scritto furono don Vincenzo Rossini e il chierico Marino Fazzini. In seguito questa istanza venne presentata al gruppo di contestatori in una riunione in casa di Ippolito Ceccoli, e tutti ne rimasero contenti. Fu successivamente mostrata anche a Francesco Tini che criticò i toni polemici in essa contenuti, ed invitò a moderarla togliendo i riferimenti all’omicidio Lolli ed all’affare Giurovich. Quindi la prima petizione avrebbe dovuto essere più caustica di quanto alla fine non fu, ma si preferì attenuarne  i toni evitando le insinuazioni gratuite e non sufficientemente suffragate da documentazione, e limitandosi a chiedere riforme basate esclusivamente sullo statuto; si pensava così di togliere probabilmente i pretesti a cui potevano attaccarsi i consiglieri per non concedere nulla.   

   Tuttavia le risoluzioni del Consiglio del 3 giugno furono quelle che sappiamo ; qualcuno dovette dunque pentirsi di avere usato tanta misura per raccogliere solo frutti così acerbi. Si decise dunque di proseguire la protesta abbandonando i toni morbidi, e mostrandosi oltremodo risoluti a pretendere quanto era  fuor da ogni dubbio giusto, ovvero un ritorno senza condizioni e senza compromessi allo statuto. Dopo il 3 giugno, quindi, gli uomini dell’Unione si diedero da fare per organizzare un altro Consiglio, e per sensibilizzare il maggior numero possibile di concittadini alla questione per cui stavano prodigandosi. Un secondo scritto assai più risoluto del primo fu elaborato, pare sempre da Rossini e Fazzini che divennero in questo modo le menti e gli intellettuali dell’Unione, e venne inoltrato al Consiglio riunitosi il 12 giugno. L’inconcludente rescritto dal Gle Consiglio emanato, diceva, come che fa vedere l’incuria di ascoltare le giuste voci del Popolo, è stato un maggiore incentivo per proclamare di nuovo avanti il med. Gle  Consiglio. In sintesi gli uomini della mossa, presenti sul Pianello questa volta in 63, si dichiaravano profondamente insoddisfatti di quanto concesso  dal precedente Consiglio, e di non essere per nulla appagati da un rescritto così ristretto come quello che avevano ricevuto in tale occasione. Essi invece volevano innovazioni sostanziali, e chiarezza assoluta sulle deliberazioni che il Consiglio avrebbe preso. Erano sette le riforme che pretendevano :

1 - L’abbolizione dei decreti.

2 - La sopressione dell’abusivamente introdotta Aristocrazia.

3 - Che abbiano il suo giro le cariche, e le incombenze pubbliche.

4 - Il consenso del Gle Aringo per derogare, o formare un qualche decreto dello Statuto, altrimenti questo istesso Aringo si convocherà a norma degli Statuti, e si stabilirà tutto ciò,      che si volesse essere dipendente dal Pubb. Genle Consiglio.

5 - La consegna sul momento del libro d’oro, e del libro de decreti in mano del Popolo.

6 - Che si levi ogni distintivo frà i due Capitani introdotto, quando che ambi due sono eguali dovendosi però la precedenza al più meritevole o per anzianità, o per dottrina, e non per condizione o per pretenzione di grado, come sapiamo aver praticato gli antenati, che davano la preferenza ai più dotti, o ai più anziani.

7 - Osservanza perfetta dello Statuto, e insomma la riforma di tutti gli abusi introdotti, quali ora non sovvengono, mà che coll’andare del tempo saranno scoperti, e in conseguenza   evitati.

   Dunque una serie piuttosto profonda di innovazioni, anche se apparentemente potrebbe sembrare che gli insorgenti non chiedessero niente di speciale rispetto a quanto già esisteva codificato nella legislazione e nella leggendaria (ma non si sa quanto veritiera) tradizione democratica sammarinese. In realtà erano richieste alte quelle avanzate al Consiglio,  perché andavano contro una logica elitaria che da sempre contraddistingueva la cultura politica in generale, e nello specifico il governo locale, logica che lo aveva portato ad assumere la veste di Principe, come pomposamente, ma anche coerentemente, si definiva. Un principe capace di sottomettersi alla presunta democrazia di cui gli statuti, le norme, le consuetudini locali erano in qualche modo una parziale e teorica garanzia era un controsenso per l’epoca, una pazzia per la mentalità dominante. Da qui le ostilità verso la mossa, e la reticenza nel concedere a bottegai ed artigiani  quanto da un punto di vista puramente formale era forse legale, ma che  per i costumi del tempo e la cultura della classe padrona del paese doveva suonare del tutto assurdo, temibile e pericoloso per la stabilità del paese e per la sua plurisecolare e mitica indipendenza.

   Tra l’altro vi erano sicuramente dei problemi concreti da risolvere per poter aderire alle richieste degli insorgenti, primo fra tutti l’impossibilità di ricostruire i conti pubblici e rendere trasparenti i bilanci, vista la gestione casereccia e facilona con cui si amministravano i denari dello Stato. Comunque i consiglieri difronte alle decise rimostranze degli uomini della mossa, sentendoli rumoreggiare pericolosamente sul Pianello, temendo di poterci forse rimettere anche la pelle[11], non poterono far altro che fornir loro un insieme di deliberazioni capaci di lasciarli soddisfatti, anche perché i loro avversari si dicevano pronti a prender l’armi per diffendere i diritti nostri non solo, mà anche quelli della Patria comune, della nostra cara Repub, come era chiaramente esplicitato alla fine dell’istanza inoltrata. (cfr. Appendice 2)  Perciò il Consiglio sentenziò in questa maniera :

 1° - I così detti nobili di buon grado e volontariamente rinunziano alla pretesa Aristocrazia per mettersi a livello cogli altri Sig.i Cittadini.

2° - Che debba depositarsi in mano di quattro Sig.ri Depositari, che or ora verranno eletti, il Libro de’ Decreti per rimetterli ad  un esame ponderato di una Deputazione speciale onde abolire tutti quelli che sono in opposizione collo Statuto.

3° - L’elezione de’ quattro infrascritti Revisori dei conti coll’ordine di consegnare ai medesimi in termine di due giorni tutt’i libri delle revisioni. Per la qual elezione si venne alle seguenti nomine : Sig. Matteo Martelli, Sig. Pietro Zoli, Sig. Giov. Battista Clini, Sig. Vincenzo Belzoppi. I quali retroscritti sig.i Revisori furono di unanime consenso del G.le Consiglio destinati pure a ricevere la consegna dei libri dei Decreti, la quale dovrà seguire immediatamente dopo il Consiglio.

Si venne in seguito alle nomine dei Consiglieri che mancano a formare il pieno numero di sessanta. (...) De’ quali ottennero il Sig. Vincenzo Martelli, il Sig. Giuseppe Moracci, il Sig. Silvestro Cecchetti, il Sig. Giulio Zampini [12]

   In sintesi venne deciso di attenersi scrupolosamente allo Statuto, e di rendere palesi i conti pubblici. Appena prese queste decisioni sei consiglieri, capeggiati da Antonio Onofri, si recarono sul Pianello presso i capi della mossa  per aggiornarli sulle deliberazioni assunte, e per comunicare che potevano andare quella sera stessa presso l’abitazione del Reggente Belluzzi per ritirare il rescritto ufficiale. Così successe : gli insorgenti si sentirono alla fine della giornata i trionfatori della polemica vicenda, anche perché, come si sarà di certo notato, un loro capo, ovvero quel Giuseppe Moracci che tanta parte aveva avuto nell’insorgenza, era stato scaltramente, di certo non per caso, nominato consigliere.

 

                                                                     

IV

 

 

   L’andamento della sommossa dovette con ogni probabilità dar forza e baldanza a coloro che la fomentavano, perché molti testimoni interrogati dal commissario della legge, ovviamente quelli che non presero una parte attiva al fenomeno limitandosi a subirlo o ad osservarlo, dichiararono che in varie occasioni i capi della mossa avevano tenuto comportamenti arroganti e prepotenti nelle loro azioni. Un giorno, per esempio, malmenarono un soldato che avevano colpevolizzato di non aver svolto adeguatamente il suo dovere di vigilanza durante una fiera in Borgo. Un altro giorno litigarono con un macellaio del Borgo accusato di nascondere della carne salata per venderla fuori confine. Un’altra volta ancora rimbeccarono la moglie di un altro macellaio perché aveva trattato in malo modo una cliente. Ugualmente esercitarono pressioni tali sulla Reggenza e sugli edili da costringerli a vagliare sotto la loro diretta sorveglianza il grano depositato presso l’Abbondanza, ed a gettare via alcuni mastelli di grano considerato fradicio e maleodorante. Poi compirono frequenti visite allo spaccio per verificare che la qualità del pane qui venduto fosse buona. Marino Martelli, altro macellaio del Borgo, venne offeso apertamente perché accusato di smerciare la porchetta ad un prezzo giudicato troppo elevato. Le bettole furono tenute sotto stretta sorveglianza perché non cedessero il loro vino a stranieri o a prezzi eccessivi. Ippolito Ceccoli giunse ad affrontare minacciosamente Ambrogio Fabrini, consigliere, perché gli era stato comunicato che costui in Consiglio aveva manifestato ostilità nei confronti della mossa. Marino Capicchioni venne offeso come vilano porco perché aveva dichiarato di non avere remore contro il suo Principe, e di non essere disposto a partecipare alla contestazione che la mossa stava portando avanti nei suoi confronti. Tra l’altro gli venne anche intimato di recarsi il meno possibile in Borgo perché la sua presenza non era gradita. I fratelli Martelli in compagnia di Balsimelli e Moracci, incontrando un giorno in Città il nobile Giuseppe Mercurj, che sapevano essere loro ostile, lo apostrofarono come falsario, e gli dissero che se i consiglieri a lui alleati fossero rimasti a loro avversi se li bruciaranno le Case, e si faranno saltar giù dalle Finestre. Insomma i capi della mossa si comportavano come se fossero i padroni del paese, come diversi dichiararono al giudice, vantandosi tra l’altro apertamente delle loro gesta, e del nuovo ordine che stavano dando allo Stato[13].

   Ancor più accentuarono questi atteggiamenti dopo il Consiglio del 12 giugno, anche perché erano certi d’aver dalla loro parte alcuni Signori, ovvero consiglieri del primo ceto, e di poter contare all’occorrenza sul loro concreto appoggio. Inoltre erano intimamente convinti d’essere nel giusto, sia perché la loro azione non era portata avanti per fini personali ma per il miglioramento delle condizioni di tutti, sia perché pretendevano in fondo solo quello che doveva essere per forza equo, moralmente e legalmente, perché contenuto nel sacro Statuto dello Stato,  vero e proprio pilastro monumentale su cui la Repubblica era stata eretta dai mitici ed infallibili padri. Questa posizione emergerà chiaramente alla fine di tutto il procedimento processuale, quando il commissario della legge Marfori metterà i capi della sommossa difronte alle loro responsabilità : tutti cascheranno dalle nuvole dicendosi allibiti per le accuse che venivano loro rivolte, in quanto non pensavano di certo che le loro azioni potessero  essere soggette a condanna penale proprio grazie a quelle disposizioni statutarie per cui si erano mossi.

   Interessante a questo riguardo è anche un discorso carpito da Agostino Arzilli, contadino di Serravalle, a Pietro Casali e Marino Balsimelli mentre costoro erano a passeggio in sua compagnia lungo la Costa. Arzilli dichiarò al giudice che Casali e Balsimelli gli dissero che se non fossero stati Loro, la Rep. se ne andava affatto, perché non si rendevano più i conti, non si soddisfacevano più neppure i Legati pij, e che loro volevano far accomodare tutto, e che non avevano timore di nessuno, perché erano più di duecento, e che a Loro bastava il Borgo, e le Spiaggie, perché sapevano tener in mano la Schiopella, e che se Essi morivano andavano in Paradiso, ma non così gli altri che sarebbero andati a Casa del Diavolo. Dissero ancora che avrebbero avuto contro i Castelli, ma che tanto non avrebbero avuto timore[14]. Anche Marino Balsimelli confermò di aver fatto simili affermazioni in presenza di Arzilli[15].

   In pratica gli insorgenti erano convinti di combattere una sorta di guerra santa contro un gruppo di traditori e di infedeli che avevano dissacrato col loro comportamento le inviolabili leggi del piccolo Stato. Due libelli pittorici affissi di notte in Borgo, ovvero due disegni quasi certamente fatti da una delle menti della mossa, il chierico Giambattista Clini, possono essere una chiara testimonianza del sentimento epico che doveva caratterizzare i capi della stessa : nel primo si vede incatenato ad un ceppo uno smunto e malinconico San Marino, indicato come il misero Titano, che regge nella mano destra il monte con le tre vette. Davanti ha un fiero guerriero, additato come Amor Patriotico, che nella mano destra brandisce una spada, mentre nella sinistra impugna saldamente una ghirlanda di foglie. Il Titano incatenato, e nudo rappresentava la miseria in cui i Ssi. Avevano ridotto il Pubblico colla loro mala amministrazione e con essersi apropriati tutti i danari del Pubblico. Che il genio colla sciabola alla mano rapresentava l’amore patriotico de Solevati, che col fare ripristinare le Casse pubbliche, e coll’osservanza delle Leggi dello Statuto voleva ridonar la libertà al Titano, e rivestirlo. Questa fu la spiegazione del disegno fornita al giudice da Filippo Sabattini che dichiarò d’averla ascoltata direttamente da Clini a cui l’illustrazione era stata commissionata da Fazzini[16].

   La stessa mano qualche tempo dopo dipinse e fece circolare un altro disegno intitolato Il Titano liberato dall’Amor della Patria in cui davanti al nobile guerriero si para un San Marino più tonico ed allegro, liberato da qualsiasi catena, con la ghirlanda sulla testa, con il monte Titano in una mano, e nell’altra il libro degli Statuti. Poiché i Solevati pensavano di godere dell’appoggio di molti altri e di avere dalla loro parte anche influenti personaggi del governo, acquistarono tanta spavalderia da divenire arroganti, e tanta arroganza da farsi ciechi difronte alla reale consistenza del movimento che avevano saputo mettere in piedi. Infatti molti avevano aderito alla mossa per motivi prettamente tangibili, ovvero per un miglioramento della qualità del pane, ed un ribasso del costo del vino, mentre erano del tutto disinteressati alle motivazioni politiche, o ancor più ne potevano essere timorosi (dalle testimonianze raccolte pare proprio che la prima istanza fatta sottoscrivere ai popolani dopo l’assalto alle cantine riguardasse solo il pane ed il vino). Le motivazioni politiche divennero invece subito prioritarie per i capi dell’insurrezione, tanto che soppiantarono del tutto le recriminazioni relative al pane ed al vino. Quando prima dell’inizio del Consiglio del 12 giugno Michele Martelli urlò che si sarebbe dato fuoco al Palazzo Pubblico se non fossero state date risposte positive alle richieste avanzate, molti dei presenti lo criticarono apertamente, e con ogni probabilità iniziarono da quel momento a dissociarsi  dalla mossa, che aveva assunto improvvisamente, ed in maniera per molti inaspettata, una piega diversa da quella iniziale. I Signori favorevoli alla sommossa, poi, ebbero sempre un atteggiamento ambiguo nei confronti di chi stava  portando avanti concretamente la polemica : li appoggiarono nascostamente, scrivendo o correggendo i loro  testi, suggerendo senz’altro anche quello che si doveva perseguire, fungendo da consulenti, ma senza sbilanciarsi ed esporsi più di tanto. Aspettavano nella penombra pronti a cogliere forse l’attimo più propizio per emergere, ma anche pronti a tirarsi indietro o a dichiarare la loro estraneità o marginalità al fenomeno se le cose fossero andate male. Così in effetti fu, perché alla fine, quando il governo comincerà un’opera di sistematica repressione della mossa, il vasto movimento popolare di cui si ipotizzava l’esistenza si dimostrerà invece  solo  una unione di pochi poveri disgraziati che verranno lasciati soli al loro destino, un’immensa ed evanescente bolla di sapone.

   Gli oligarchi sammarinesi con molte probabilità iniziarono fin dal Consiglio del 12 giugno a pensare di reprimere la mossa, sentita ormai come una minaccia incombente che poteva portare a gravi sconquassi interni : i suoi capi si ispiravano apertamente a quanto accaduto in Francia, e Moracci in un suo comizio in Borgo aveva urlato tra l’altro che i Francesi non avevano avuto paura di far cadere una testa reale, sottintendendo ovviamente che anche i Sammarinesi potevano all’occorrenza comportarsi nella stessa maniera. Inoltre all’interno della mossa vi erano uomini dai pensieri diversi : vi erano i moderati, che pretendevano riforme minime ; vi erano coloro che cercavano rivincite personali, come Moracci per esempio, la cui animosità era sicuramente legata anche ai giorni di carcere che aveva dovuto ingiustamente scontare per l’omicidio Lolli, ed all’indifferenza con cui era stata accolta dal Consiglio la sua istanza sul pane ed il vino ; vi erano figure losche la cui azione all’interno del gruppo non era chiaramente definibile né da parte dei governanti, né da parte dei sollevati. Sicuramente la più sinistra di tutte era quella di Ercole Bertola, proprietario terriero di Rimini, con possedimenti anche a San Marino, che qui si era sposato ed era venuto ad abitare nel 1794. Costui in una riunione dei capi della mossa, di cui non si sa purtroppo la data, volle presentare un suo piano per eseguire con sicurezza la piena osservanza dello Statuto, l’abbolimento del Libro d’oro e di tutti i decreti contrarj alla Sud. Legge, e far divenire il governo nel primiero stato come era per lo passato. Il piano prevedeva di radunare al più presto un Consiglio, andare a prendere in modo amichevole presso le loro abitazioni i consiglieri restii a parteciparvi, presentare  a Consiglio riunito il foglio con le richieste elaborate, ed essere in presento almeno 60 uomini atti all’armi. Se non fosse stato concesso subito quanto richiesto, bisognava dividere i 60 Uomini in tanti Pichetti, coll’impadronirsi delle due porte della Fortezza, porre 20 Uomini armati nel Pubblico Palazzo, e far sapere che i consiglieri sarebbero rimasti sequestrati al suo interno finché non avessero pienamente concesso quanto desiderato. Poi occorreva armare tutti gli uomini abili  a difendere la patria, e se ciò non fosse bastato a normalizzare la situazione, era necessario bruciare pubblicamente il libro dei decreti, ed il giorno dopo convocare l’arengo per rimettere le cose a posto[17]. Questo piano venne mostrato a Marino Balsimelli e Francesco Martelli, che lo respinsero, così come fecero anche Vincenzo Belzoppi e Pietro Zoli che invitò addirittura a bruciarlo. Ingenuamente, o forse per ingraziarsi le autorità in previsione che la faccenda finisse poco bene, Ippolito Ceccoli, che tra i capi dei sollevati fu in effetti l’unico a subire come prima condanna l’esilio invece del carcere, lo consegnò direttamente nelle mani di Antonio Onofri, Segretario di Stato : verosimilmente fu questo il documento che  spinse il governo a  rompere gli indugi ed a reprimere con decisione la mossa. L’otto novembre Bertola venne interrogato dalle autorità giudiziarie di Rimini, suo rifugio dal 24 giugno quando era scappato da San Marino; dichiarò che egli si era limitato a scrivere il piano dietro dettatura di Fazzini, e che ad avere intenzioni violente e sanguinarie contro il governo erano Franzoni, Michele Martelli e Pietro Casali, convinti che senza il terorismo non avrebbono mai ottenuto quello, che chiedevano. Disse inoltre che vi era l’intenzione anche di uccidere i nobili Angeli e Giannini che erano stati gli ispiratori di tutta la sommossa, ma in seguito si erano tirati indietro intimoriti. Sottolineò che questi fatti li aveva già raccontati anche al comandante delle locali milizie Raffaele Gozi. Dichiarò infine che l’intenzione dei capi della sommossa, ad eccezione di Francesco Martelli che definì più moderato degli altri, era quella di ammazzare ed incarcerare tutti i consiglieri ostili, compreso Onofri, poi convocare un arengo in cui eleggere un nuovo Consiglio, mantenendo ancora però esclusi gli uomini di Montegiardino, Faetano e Serravalle perché Paesi di conquista[18].

   Certamente non è facile comprendere appieno il ruolo di Bertola in tutta la questione. Dalle dichiarazioni di chi venne incarcerato pare che egli non fosse nemmeno considerato un membro della mossa, ma solo uno che vi voleva entrare con mire indefinibili. Francesco Martelli lo credeva una spia[19], anche se non si capisce per chi, e tutti  i detenuti ne diffidavano, tanto da dichiarare concordemente che il suo piano non venne minimamente preso in considerazione. Il fatto comunque che fosse estero, e che proprio lui avesse ordito un piano che prevedeva un vero e proprio colpo di Stato, deve avere indotto i locali governanti a pensare che tutta la mossa poteva in realtà nascondere una qualche macchinazione nata fuori confine per impossessarsi della Repubblica. Così almeno dichiarò al giudice il consigliere Matteo Martelli in data 9 ottobre[20]. La Rossini nel suo studio su questo periodo[21]  accetta la tesi fatta circolare ad arte all’epoca tra la popolazione per rendere antipatici ai più i capi della mossa, ovvero la volontà di consegnare la Repubblica allo Stato della Chiesa da parte di Bertola e dei capi dell’Unione. Bertola però non era un filo-papalino, ma tutt’al più un filo-francese : ne fa fede una lettera riportata dal Franciosi[22], e già evidenziata da Buscarini[23] in cui il generale Chabot  in data 4 ottobre manifesta la sua riconoscenza  alla Reggenza per aver  graziato Bertola  (je suis très reconnaisant de ce que vous avez bien voulu à ma consideration faire grace au Citoyen Berthola en lui accordant la concession de tout ce qu’il reclamait près de vous).  Buscarini più realisticamente crede che la mossa fosse nata da due volontà ben precise : il desiderio di un rinnovamento politico da una parte, e la volontà di congiurare a favore del potere pontificio dall’altra da parte dei sacerdoti e dei chierici che fungevano da intellettuali dell’Unione. Vi possono essere ulteriori ipotesi verosimili oltre a queste, ma è meglio parlarne più avanti, quando si sarà ultimata la narrazione dei fatti.

 

 

V

 

 

   Le deliberazioni del Consiglio del 12 giugno dovettero lasciare negli uomini dell’Unione sentimenti contrastanti : i capi inizialmente ne furono senz’altro contenti perché in fondo erano riusciti ad ottenere quello che volevano, almeno apparentemente ; gli altri invece, ovvero soprattutto i contadini che in larga parte si erano recati sul Pianello senza ben sapere cosa andavano a fare e cosa si pretendeva dal Consiglio (almeno così risulta dalla maggior parte delle loro deposizioni e dal fatto che vi fu anche chi chiese consigli in merito al suo padrone), quando si accorsero che le pretese erano assai più complesse di quelle iniziali riguardanti il pane ed il vino, e soprattutto quando udirono la minaccia del fuoco proferita da Martelli, e seppero che alcuni capi erano armati ed altre armi ancora erano disponibili lì vicino presso l’abitazione di  Giovanni della Muratora se le cose non fossero andate secondo programma, dovettero sicuramente avere forti ripensamenti su tutta la faccenda, e chiedersi se meritava continuare a soffiare sul fuoco, o giungere ad un dignitoso rappacificamento col Principe. D’altronde non è improbabile che abbiano subito pressioni psicologiche dai membri più influenti del Consiglio, che dall’alto della loro cultura e del secolare potere sociale ed economico che detenevano (potere che senza dubbio era concretamente vincolante per la maggior parte degli insorti), di certo  conoscevano le tecniche necessarie per insinuare direttamente o indirettamente nel popolino l’angoscia per quello che stavano facendo, e la paura per le probabili conseguenze e ripercussioni morali e materiali delle loro sconvolgenti azioni. Così appena un paio di settimane dopo, ovvero nella seduta consigliare del 25 giugno, venne inoltrato un documento dai toni ben diversi rispetto a quelli presentati nei Consigli precedenti. Recita il verbale di quella seduta : Fù letta una supplica in nome del Popolo della Repubblica, in cui chiedeva perdono delle mancanze commesse nell’espressioni de’ fogli presentati alle ultime Consigliari Adunanze. Il General Consiglio calcolando come potevasi essere abusato della buona fede e dell’ignoranza dei ricorrenti dall’estensore ed occulti stimolatori, convenne nella massima di concedere a tutti gl’insorgenti scoperti e sottoscritti nei fogli che dovranno essere presentati un ampio perdono, riservandosi di procedere e d’invigilare sugli esteri, sugli autori dei libelli incendiari anonimi quali deve credersi avessero tutt’altro in animo che il comun bene e il vantaggio della Patria [24].

   Non ci è dato conoscere se gli estensori ed i sottoscrittori di questo documento fossero gli stessi dei documenti precedenti. Dagli atti processuali si evince che i capi della mossa, quelli cioè che vennero imprigionati o fuggirono dal territorio, non accettarono il perdono concesso in questo Consiglio perché non era rivolto a loro che erano gli  autori dei libelli incendiari anonimi, ed i veri responsabili dell’insurrezione. Ma allora il perdono a chi era rivolto ? Ovviamente a tutti gli altri imbrogliati nella loro buona fede, e nella loro ignoranza  (tipiche caratteristiche del contadino credulone e sempliciotto) dall’estensore delle istanze precedenti, e dagli occulti stimolatori  del tutto, occulti solo in teoria, perché in pratica si erano già esposti a tal punto, ed avevano agito con tanta scomposta ed ingenua veemenza da essere facili bersagli per chi aveva veramente le armi in mano, cioè i governanti. Probabilmente quando si sciolse questo Consiglio gli oligarchi non sapevano bene chi fossero le menti che avevano elaborato le istanze e che stavano producendo satire e libelli puntualmente divulgate in Borgo ed in Città. O forse sì, visto che i Martelli e gli altri che trainavano la mossa potevano aver fatto confidenze ai consiglieri che credevano dalla loro parte. Ma questo non era al momento il problema prioritario perché la mossa si era ormai spaccata : i capi erano stati emarginati (Bertola capo o no era addirittura già scappato dal paese il giorno prima del Consiglio), e gli intellettuali, che conoscevano lo statuto e la tradizione democratica a cui si voleva tornare, e che avevano trasformato una protesta sociale in contestazione politica, sarebbero stati individuati rapidamente e con facilità, anche perché in Paese non dovevano essere tanti quelli ostili al Consiglio, sia al suo interno, sia al suo esterno, capaci di pensare, scrivere o comunque affrontare criticamente certe problematiche. I Martelli, Pietro Casali, Ippolito Ceccoli avevano sì una cultura elementare che permetteva loro di leggere e scrivere in maniera sgrammaticata ; non erano cioè analfabeti come la maggior parte dei contadini che avevano sottoscritto con una croce il primo documento elaborato dopo l’assalto alle cantine del Borgo. Tuttavia la loro cultura minima non consentiva di creare scritti complessi come quelli presentati al Consiglio, o affissi nelle piazze (riportati in appendice al presente lavoro). Per questo ogni documento prodotto veniva candidamente sottoposto all’attenzione di tutti coloro che avevano una cultura adeguata per fornire un parere, o anche apportare correzioni, e che erano ritenuti simpatizzanti della santa causa portata avanti dalla mossa .

   Tra l’altro gli interrogatori  a cui vennero sottoposti gli incarcerati da parte del commissario della legge sono una chiara dimostrazione della conoscenza approssimativa che essi avevano di quello Statuto nel cui nome stavano conducendo la loro crociata. Il problema principale degli oligarchi, dunque, non era l’individuazione delle menti, ma la riduzione del numero degli insorgenti, la secessione della massa ingannata nella sua buona fede e nella sua  ignoranza da chi l’aveva fatta maliziosamente precipitare in quell’inganno. La richiesta di perdono esaminata il  25 giugno fu il segnale che si attendeva per agire e riportare le cose alla normalità, nonché per isolare gli occulti stimolatori dell’antipatica, e fino a quel momento pericolosa faccenda.  A tal effetto fù istituito un Comitato di pubblica salvezza e polizia composto di sei persone unitamente alla Reggenza, - prosegue il verbale della stessa seduta consiliare - due delle quali dovranno prendersi dalla Città, due dal Borgo e due dalla campagna, i quali sei soggetti dovranno essere scelti mediante maggioranza dei voti dal numero di dodici consiglieri. (...) E siccome per la sicurezza de’ Consiglieri e per il buon esito degli affari fù riconosciuto indispensabile il silenzio, fù dato, d’ordine del G.le Consiglio, per mezzo di me infra.tto, il giuramento di segretezza a tutti i Sig. Consiglieri[25] .

   Il Consiglio, quindi, colse la palla al balzo per istituire un nuovo organismo poliziesco preposto alla salvaguardia della pubblica salvezza, perché, secondo l’opportunistica ottica degli oligarchi contestati, gli uomini della mossa non miravano certo al bene della Repubblica, bensì solo alla sua perdizione. E’ ovvio che elevandosi al ruolo di salvatori della patria  pronti a far quadrato per infrangere le cupe mire di chi attentava all’eterna e mitica indipendenza dello Stato sammarinese vi erano maggiori possibilità di emarginare del tutto i capi dell’insurrezione, e togliere loro le eventuali residue simpatie di cui forse potevano godere ancora tra la popolazione. Non a caso nella prima riunione del nuovo comitato, tenuta il 29 giugno, si attribuirono le maggiori colpe della vicenda ad Ercole Bertola che aveva una gran parte nella Rivoluzione (come venne verbalizzato non si sa con quanta buona fede), stabilendo che venisse arrestato se fosse ritornato in Repubblica. Si decise pure di richiedere il permesso al Vescovo per poter procedere contro i chierici Giovanni Sabatini, Marino Fazzini e Giuseppe Clini che ponno aver parte in quest’affare soprattutto coll’avere affisso dei libelli infamatorj[26].  Un estero ed alcuni ecclesiastici venivano quindi considerati i paurosi occulti stimolatori dell’insolita Rivoluzione, per cui è facile che i governanti sammarinesi leggessero, o preferissero leggere, tutta la vicenda non come una contestazione politica e sociale interna, ma come un temibile attacco al cuore dello Stato perpetrato dagli eterni nemici della Repubblica, ovvero tutti coloro che stavano al di là dei suoi secolari confini, bramosi di appropriarsi del suo territorio e di porre così fine alla sua invidiata indipendenza. D’altra parte i Signori erano abituati a considerarsi incontestabili ed intoccabili, e sempre al di sopra di tutto e di tutti, per cui non è da escludere che avessero reali difficoltà psicologiche ad ammettere la fondatezza di critiche nei loro riguardi da parte degli usualmente docili popolani. Inoltre nel ‘700 gli episodi legati al cardinale Alberoni e successivamente al cardinale Valenti - Gonzaga dovevano aver accentuato ancor più nei  sammarinesi il timore di essere soggiogati da forze esterne, per cui accusare preti, clericali e riminesi di un presunto attacco allo Stato e alla sua inviolabile indipendenza aveva ottime probabilità di far breccia nel cuore di chi, pur simpatizzando con i rivoltosi, era cresciuto nel mito di un’autonomia santa e perenne, ovvero di ogni cittadino verace. Comunque sia, inizialmente la mossa venne interpretata più come un fenomeno esterno che interno, e questo può essere una spiegazione del perché non vennero subito emessi mandati di arresto contro i Martelli e gli altri.

   Il 1° luglio si scrisse al Vescovo per chiedere il permesso di cui si è detto , e per comunicargli che alcuni mal intenzionati, abusando dell’ignoranza e della credulità di molti cittadini, tentarono in questi ultimi giorni di sorprendere il Gle Consiglio con dette rappresentanze insolenti, e di alterare la pubblica quiete con scritti anonimi incendiarj e maldicenti. Poiché era indispensabile scoprire gli artefici di una cospirazione tanto iniqua, e vi erano forti indizj contro qualche Ecclesiastico, ed alcuni chierici, si chiedeva  il nulla osta per procedere legalmente contro costoro[27]. Il 17 luglio il Vescovo concesse il richiesto permesso[28],ma nel frattempo, precisamente l’11 luglio, il Comitato era giunto alla decisione di dare una punizione esemplare ai sollevati che avevano rifiutato il perdono concesso, e che stavano continuando a riscaldare gli animi coll’affiggere scritti infamatorj ed incendiarj[29]. Si stabilì dunque di arrestare durante la fiera di luglio i fratelli Martelli, Pietro Casali, Giovanni Silvestri e Giovanni Domenico Franzoni. Il 18 luglio il Comitato ripensò tale ordine per il pericolo che correvasi di far nascere bisbiglio e confusione in un giorno tale di concorso con dubbio anche di sviare Le Fiere, e per paura di non riuscire ad arrestare tutti insieme quelli che si era stabilito. Maturato pertanto meglio l’affare - recita il verbale - [30] si convenne di far venire tal carcerazione doppo la Fiera ; e siccome corre voce che in quel giorno i sollevati possino fare della pubblicità con farsi vedere con fiocco d’oro al capello e con dei berettoni, fù risoluto che, nel caso, si faccia seguire l’arresto di tutti quanti i complici di questa nuova ribalderia facendo servire questo nuovo fatto per un punto addizionale di Sommario, e nel caso che questo sospetto non si verifichi, l’esecuzione si faccia cadere unicam. su quei tali che furono mentovati nell’ultima adunanza. E quanto al tempo preciso ed al modo, ciò dipenderà da quei prudenziali riflessi e da quel contratempo che al Sig. Comandante Gle. sembrerà  più confacente.  

   I membri del Comitato manifestarono dunque precisi tentennamenti nell’imprigionare i capi della mossa, forse perché non avevano del tutto la sicurezza che fossero rimasti in pochi, o forse per paura che un’azione troppo plateale avrebbe potuto destare  polemiche e malumori interni e soprattutto esterni alla Repubblica. I dubbi erano tanti da indurre il Comitato a riportare il 29 luglio in Consiglio il problema. Si ribadì ancora una volta che il Comitato aveva carta bianca  sulla questione, e gli venne anche data facoltà di organizzare una guardia civica per la pubblica sicurezza[31]. Vi era probabilmente ancora la speranza che le contestazioni potessero rientrare tranquillamente, e che la faccenda si sgonfiasse da sola senza dover usare le maniere forti. Ma non si teneva conto dello spirito mistico e solenne che animava i capi della mossa, sempre più convinti di star combattendo una guerra santa contro dei miscredenti. E fino a quando, o Nobili pretesi, e immaginarj, che vantate un titolo fantastico, e menzognero, v’abuserete della lunga nostra tolleranza ? recitava uno dei tanti libelli affissi in Borgo traboccante di questo spirito ; Forse dovremo esser sempre il bersaglio del vostro dispotismo, l’oggetto della vostra tirannia, ed il ludibrio del vostro genio maligno ? E non dovranno esser mai rafrenate le vostre iniquità, la vostra audacia ? Niente vi comovono i lamenti d’un Popolo risvegliato da vergognoso lettargo ? (...) Affrettiamoci, e corriamo a rapire quei Sacrosanti Statuti acciò non siano affatto dispersi, e perduti. In essi consiste ancora la Salute della Repubblica. E’ questo il tempo di distinguere ogni vero Cittadino. La Patria è nostra Madre commune, e come Madre la dobbiamo onorare, e diffendere. Se mai La perdessimo, quale sarebbe il nostro pentimento, il nostro Cordoglio ? Sì, che bisogna farla risorgere. Noi soli potiamo rimetterla nella Sua pristina salute. Da noi dipende, che Ella riacquista le sue perdute forze, e che come prima ritorni a risplendere nell’universo. (Appendice n° 3 ) 

   Ovviamente non bastava un perdono paternalisticamente concesso dall’alto,  che non comprendeva di certo i capi della mossa, per cancellare  in fretta il gusto di tanta enfasi, e la voglia di sentirsi  i redentori della patria. Questa forma mentis fu però anche ciò che rovinò i capi della mossa, i quali, reputandosi più che mai redentori,  pensarono di essere autorizzati a collocarsi al di sopra di quelle leggi nel cui nome combattevano, e di potersi comportare, lo ripeto, come i nuovi padroni del paese, anzi, come tanti Robin Hood  che toglievano ai ricchi per dare ai poveri, che si ergevano a strenui difensori del debole contro il forte. Vi sono diversi episodi della mossa popolare che si potrebbero citare a sostegno di questa tesi, ma ve n’è uno in verità più emblematico di tutti di cui fu protagonista Camillo Sabattini, uno studente simpatizzante della mossa, coinvolto anche in qualche sua azione, che finì incarcerato con gli altri capi : un giorno egli aveva avuto da ridire con un Signore, precisamente Emiglio Gozi, il quale lo aveva percosso e maltrattato. Senza perdersi d’animo, aveva raccontato tutto ai suoi amici della mossa che gli dissero di stare tranquillo perché era sotto la loro ala protettrice. Allora scrisse a Gozi la seguente lettera : Al Cittadino Emiglio Gozi, O Cittadino io ò fatto il tutto ben noto a miei Concittadini ed essi mi hanno esortato, che faci due righe, e stii cheto, e che per questa volta tralasci di fare la mia giusta vendetta, affinché non nasca qualche gran sussurro. Essi ti mandano a dire, che guardi, e guardi bene di non venire più a mortificarmi ingiustamente ; ma nepure di guardarmi in viso, altrimenti se non sarò abile a vendicarmi da me stesso, essi hanno detto, che faranno le mie giuste difese, e che mi diffenderanno in tutto. Avete inteso, prevaletevi dell’aviso, altrimenti non anderà sempre così[32] .

   Gli atteggiamenti dei sollevati, quindi, assumevano tinte sempre più provocatorie agli occhi dei governanti, e sul principio del mese di agosto bastava ormai poco per far tracimare le sempre più agitate acque. L’otto agosto il Comitato tornò a riunirsi per riesaminare la faccenda, anche perché gl’insorgenti continuavano ad essere baldanzosi, e durante la fiera di luglio Michele Martelli  ed un altro avevano strapazzato il soldato di cui si è detto. Poiché vi era il pericolo di un qualche disordine maggiore nella Fiera avvenire, si decise di arrestare una volta per tutte coloro che già erano stati individuati nella riunione dell’11 luglio con aggiunto Ippolito Ceccoli. Si stabilì che l’arresto dovesse avvenire con il minor trambusto possibile nei modi e nei tempi più opportuni[33].

   Nell’interrogare i carcerati della  mossa, il giudice Marfori indagò a fondo sull’episodio del soldato malmenato, per cui si possono conoscere nella giusta maniera i motivi di tale azione. Martelli e gli altri lo aggredirono non per prepotenza o spavalderia, ma sempre per quella sindrome da redentore di cui si è detto. Egli infatti venne sorpreso mentre non curava come avrebbe dovuto la vigilanza durante la fiera, ovvero la mansione per cui si trovava in quel luogo. Questo fatto agli occhi degli uomini dell’Unione , che erano sempre nella logica di mettere un giusto ordine nelle cose, apparve come un insulto al buon andamento della fiera, ed uno dei tanti sintomi del caos e della noncuranza in cui era stata precipitata la Repubblica da parte di governanti negligenti, per cui si sentirono autorizzati ad intervenire, ed anche a litigare con violenza subito dopo con il superiore del soldato, accorso per vedere cosa stesse succedendo,  ed incolpato di non saper comandare i suoi uomini come andava fatto.

   Inoltre è possibile che i governanti avessero un altro timore, e che il qualche disordine maggiore di cui si parlò nella riunione dell’otto agosto si riferisse proprio a questo pericolo non esplicitato, ma di cui forse avevano qualche sentore : poiché gli uomini della mossa ancora non avevano ottenuto tutto ciò che volevano, ed in particolare non avevano ancora potuto ricevere il tanto agognato rendimento dei conti pubblici, nonostante si recassero frequentemente a casa del Reggente nobile e dei revisori nominati proprio per sollecitarne la pubblicazione, essi cominciarono nuovamente a pensare che le promesse ricevute nel Consiglio del 12 giugno fossero destinate ad avere solo esecuzione parziale perché non si voleva rendere pubblici i bilanci. In realtà sappiamo da alcune dichiarazioni rilasciate al giudice Marfori da parte di uomini del governo che non era concretamente possibile redigere e divulgare i bilanci, perché la gestione casalinga delle locali finanze aveva permesso sempre ai pubblici amministratori di comportarsi a loro discrezione (e chissà con quanti abusi) coi soldi della comunità, quindi di non sentirsi vincolati più di tanto a conservare una rigorosa documentazione della loro amministrazione tramite cui rendere trasparenti le loro azioni. Non potendo quindi verificare i conti della pubblica amministrazione, gli insorgenti entrarono sempre più nell’idea che i principali governanti sammarinesi fossero tutti ladri, e che andassero sostituiti con uomini più probi. Da qui l’intenzione di riunire un arengo di tutti i capifamiglia nella prima domenica dopo l’elezione della nuova Reggenza, così come previsto dallo statuto, in cui mettere sotto accusa i consiglieri troppo furbi e quelli ostili alla mossa. Rossini e Fazzini si erano già impegnati a redigere un piano con cui regolamentare tale assemblea[34].

   Intimoriti dunque dall’andamento degli eventi e da tutto ciò che poteva ancora accadere, venne dato l’ordine di imprigionare i capi della mossa. I soldati delle milizie, comandati da Raffaele Gozi, eseguirono gli arresti sabato 19 agosto; in carcere finirono Michele Martelli, Pietro Casali, Ubaldo Biordi, Ippolito Ceccoli, Bernardino Casali e Camillo Sabattini, mentre gli altri riuscirono a fuggire fuori confine. In un primo momento Francesco Martelli, Franzoni, Moracci e Fazzini si ritrovarono presso l’abitazione di Anastasio Albini a Valle Sant’Anastasio. Costui testimoniò in data 4 settembre che appena arrivati essi si erano sfogati con lui spiegando l’accaduto, e lamentandosi che i governanti li volevano arrestare per non rendere i conti richiesti. La loro intenzione era quella di rivolgersi alle autorità francesi della Romagna, o addirittura a quelle centrali di Roma. Moracci avrebbe voluto usare modi più violenti con il distruggere i mulini per affamare la popolazione sammarinese ed indurla così alla ribellione, ed anche tagliar la testa a tre o quattro de Caporioni. Poi se ne andarono via tutti. Martelli arrivò fino a Forlì, dove denunciò alle autorità francesi  la repressione a cui era stata sottoposta la mossa. Poi se ne tornò a Rimini fiducioso in un loro intervento riparatore ; i Francesi però non si mossero più di tanto, e Martelli venne arrestato e consegnato agli sbirri sammarinesi il 6 settembre. 

   Nel frattempo il Comitato di Pubblica Sicurezza si riunì varie volte : il 21 agosto decise di stendere un Bando che ordini l’arresto dei cinque fuggiaschi colla libertà a chiunque anche di tirare. Il 26 si convenne che era assolutamente necessario interrogare Bertola, e si stabilì di sveltire l’iter del processo prescindendo da tutte quelle solennità, che sono richieste dal gius comune. Per questo venne ordinato al giudice Marfori di abbandonare le formalità inutili, e di evitare l’uso della tortura che in quella particolare circostanza giudiziaria doveva sembrare del tutto fuori luogo[35]. Il 27 si tornò a riunire per verificare il modo in cui si poteva interrogare Bertola, e si decise di fornirgli un salvacondotto per venirsi ad esaminare a condizione che venga di notte, e non si faccia mai vedere pubblicam. nel qual caso il salvo condotto non li suffragherebbe. Bertola comunque non rientrerà in territorio sammarinese, ma verrà interrogato a Rimini l’otto novembre da parte del locale giudice Guidobaldo Oddi. Nei giorni successivi vi furono altre riunioni, ed il 4 settembre venne deciso di creare una Guardia Civica capace di garantire la sicurezza pubblica in Borgo ed in Città. Probabilmente tale deliberazione dipese dalla voce che circolava di un possibile attacco alle carceri per liberare i detenuti. Questa, comunque, fu l’ultima riunione del Comitato, segno evidente che la faccenda era ormai sotto il totale controllo del governo. Nei mesi successivi, per la verità, alcuni simpatizzanti della mossa cercarono ancora di scuotere le autorità francesi tramite una sorta di richiesta d’aiuto in cui si giungeva a dichiarare che era addirittura meglio rinunciare alla secolare indipendenza della Repubblica, facendosi annettere dalla Cisalpina, piuttosto che continuare a rimanere nella situazione dispotica e per nulla garantista in cui si trovava San Marino :

Cittadino Ministro

Il Popolo della Repubblica di S. Marino, oppresso oramai dal suo consiglio composto d’un numero di decisi aristocratici che si fanno nominare col titolo di nobili ; vedendo calpestato dai medesimi La sua antica, e Democratica Costituzione  vedendosi spogliare Le pubbliche Casse non sicure le persone ed in somma sotto un giogo d’oligarchi che non conoscono che la Legge di saziare il suo Egoismo, e la Sua ambizione e che distruggono qualunque diritto di patto sociale si risolve rivolgersi a voi, Cittadino Ministro, per domandarvi la vostra mediazione, acciò potere riacquistare quella Libertà che à goduto, e che l’ha fatto felice p. 14 secoli.

Dopo che un Popolo Liberatore della miglior parte d’Europa à vinto e distrutto i suoi nemici, dopo che la miglior parte d’Italia à ricevuto da questo una rigenerazione Politica, e che à reso ai Popoli quei veri diritti che caratterizzano il Cittadino, qual sarà mai quell’individuo che nato di sangue libero potrà giacere sotto l’oligarchia la più tirannica chi non voleva, se non i despoti, p. concorrere al compartimento dei beni che il Popolo Cisalpino a luogo di sperare dalla sua libertà. Ove sarà quel vero cittadino sammarinese, che non desideri la riunione del suo Paese ad un popolo che la sua carriera politica lo porta a delle future glorie infinite. Ove si troverà colui, se non qualche schiavo di questi despoti, che non frema nel vedere la carcerazione di quei buoni cittadini che richiamati dai diritti costituzionali, osarono dimandare ai despoti medesimi il rendimento di Conti p. le  Casse pubbliche già usurpate e vuotate. Questi bravi e buoni cittadini rinchiusi in una torre stanno aspettando dai loro fratelli Sammarinesi quel voto che già è formato in tutti i cuori p. l’oppressione dei tiranni. Le forze di questo piccolo popolo, veruna speranza possono prestare ai suoi giusti desideri ; Tutta è riposta nel vostro Patriottismo, cittadino Ministro, acciò vogliate sottoporre al Direttorio Esecutivo della Repubblica Cisalpina, il desiderio, ed il voto generale di un Popolo che domanda unanimamente la riunione del suo territorio alla medesima. Immitatore il Governo Cisalpino della madre dei Popoli, della rigeneratrice delle fertili contrade della Lombardia, in portare la libertà a coloro che la dimandano, sperano tutti i Cittadini Sammarinesi, che presto potranno gloriarsi di far parte pur loro dell’Italica Repubblica, tornando così nuovamente a godere di quella libertà, e di quei diritti che per tanto tempo sono stati risguardati sacri nel piccolo recinto di S. Marino.

                                                                       Salute e rispetto[36]

 

   Sebbene la lettera sia senza data, è stata sicuramente scritta dopo l’incarcerazione dei capi della mossa, e si può considerare come l’ultimo tentativo, andato completamente a vuoto perché le autorità della Cisalpina non le diedero ufficialmente alcun peso, di mutare la situazione politica sammarinese. Il 5 dicembre in Consiglio si sottolineò che ancora vi era sentore di mal animo di alcuni dei nostri, i quali spargevano delle voci allarmanti e dannose alla nostra libertà quasi che la nostra Rep. che conta tanti secoli di antichità dovesse essere o soprafatta da nuovi Repubblicani, o noi avessimo bisogno di prendere in prestito quella libertà che da tempo immemorabile siamo in possesso di godere, e probabilmente questa esternazione era legata proprio alla lettera recapitata alla Cisalpina ; ma la questione era ormai conclusa e questi ultimi bagliori non avevano la forza necessaria per riscaldare nuovamente l’ambiente sammarinese, né per creargli particolari simpatie nel circondario. Nell’ottobre del ’97 il giudice Marfori giunse alla conclusione della sua indagine con l’incriminazione ufficiale degli arrestati. Il 17 egli contestò a Pietro Casali i seguenti reati :

1)   Per essersi unito co’ Solevati, e fattosi poi uno de capi de medesimi col procurare d’acrescere il numero degl’uniti, facendo ancora girare Fogli concernenti tal insurezione, e segnat. quello, che incomincia :”Discorso al Popolo di S. Marino”.

2)   Per avere cogl’altri dell’unione impedita l’esportazione di vino dal Borgo già misurato, e imbotato, usando ancora la violenza di buttare a terra la porta della Cantina di Casa Belzoppi perché il sig. Vincenzo non volle dargli la chiave, prendendo ancora la nota del vino esistente nelle rispettive Cantine.

3)   Per avere acconsentito al patto verbale fatto tra gl’Insorgenti di essere moschettato chi si fosse ritirato dall’unione.

4)   Per essersi con altri Solevati tumultuariamente portato in tempo di primo Consiglio sul Pianello, e ancora in tempo di secondo Consiglio, nella qual occasione di più si protestò che se gl’uniti non avevano il Rescritto, i Consiglieri non sarebbero usciti dal Palazzo facendo tale protesta replicata volta, e in modo che fosse sentito da essi Deputati che ricevevano il Foglio.

5)   Dall’essere intervenuto in d.o Pianello pel secondo Consiglio provisto d’arme da fuoco.

6)   Per avere acconsentito di far delle Cocarde da darsi agli uniti secondo il modello mandatoli entro un Biglietto a mano di Camillo Sabattini derivante da Marino Fazzini. *

7)   Per avere voluto assieme con altri dell’unione, che il pubb.o Grananista dell’Abbondanza depositasse una chiave dell’Abbondanza presso una terza Persona, venendosi così a smaccare un ministro pub.o.

8)   Per le jattanze fatte con Giorgio Martelli dicendo persino, che doveva finire questa bugiera, e altre nel Macello del Battifoglio in Borgo colla moglie di quel macellaro, e con esso pure.

9)   Per avere affissa una sattira su di una Tavoletta in forma di notificazione in sito pub.o del Borgo, e di giorno.

10) Per avere disprezzato il perdono, che il General Consiglio Principe s’era degnato d’accordare agl’Insorgenti, mentre Esso lo doveva procurare tosto che seppe essere stato ricusato da Franco Martelli, e pochi altri compagni a nome di tutta l’unione.

11) Finalmente per le tante altre mancanze, atti avanzati, arbitrj risultanti dal Processo, La Curia, e Fisco pretendono ch’Egli sia incorso nelle pene comminate dallo Statuto, e altre Leggi di questa Eccma Repub. contro quelli, che comettono simili cose.

Casali rimase taciturno e perplesso di fronte alle accuse mossegli : Non so che dirmi, rispose al giudice ; solo mi raccomando alla clemenza del mio Principe, che suplico avermi misericordia con perdonarmi tutti i miei trascorsi commessi[37].

   Nello stesso giorno anche Camillo Sabattini fu posto dinanzi alle sue responsabilità, identiche ovviamente a quelle di Casali. Anch’egli si limitò ad invocare clemenza e perdono. Il 21 fu la volta di Michele Martelli ; egli disse di non sentirsi colpevole di niente, e che quello che aveva fatto dovesse risguardare il solo vantaggio del Povero. Alla fine si rassegnò come i suoi compagni ad implorare misericordia. Il 27 ed il 28 toccò a Francesco Martelli :  si dichiarò del tutto innocente perché ciò che aveva fatto mirava solo ai vantaggi del Paese. Se aveva agito male lo aveva fatto involontariamente ed in assoluta buona fede[38]. Mercoledì otto novembre Onofri si recò a Rimini per ascoltare la deposizione di Bertola, ed alla fine del mese venne nominato come difensore degli imputati Francesco Giannini, avvocato dei poveri. Il 20 dicembre egli presentò la sua memoria difensiva basata tutta sulle buone intenzioni dei suoi clienti, e sulla semplice volontà che avevano di divulgare nel paese idee ed azioni vantaggiose per tutti. Essi si erano dimostrati ostili alle proposte più radicali, come quelle contenute nel piano Bertola, ed avevano anche ottenuto concreti effetti positivi per la cittadinanza con quanto avevano fatto a favore del pane e del vino.  Il 24 dicembre il Consiglio esaminò una richiesta dei detenuti in cui lo si pregava di giungere in fretta alla conclusione del procedimento e quindi alla sentenza[39]. Il giudice, però, probabilmente non si sentiva ancora pronto per concludere la questione. Infatti negli atti consiliari è verbalizzato quanto segue : Per sollecitare il disbrigo di questa processura fece pregare il Sig. Commissario a voler dare la definitiva sentenza, non ostante che si fosse protestato già da principio di non volervi aver parte (...). Egli cedeva alle premure del G.le Consiglio colla condizione però di voler giudicare unitam. al Comitato di P.S. ; il G.le Consiglio abilitò a quest’effetto il Comitato unitamente al Sig. Commissario colla legge che sia bastante il numero dei tre soggetti che ora lo compongono a decidere colla maggioranza de’ voti.

  Buscarini imputa questa strana e per noi arbitraria decisione di affiancare un comitato di esclusiva estrazione politica ad un giudice ordinario un chiaro segno dei dubbi che aveva lo stesso commissario della legge ad assumersi la piena responsabilità della sentenza, vista la natura squisitamente politica del procedimento penale[40]. Questa spiegazione può essere parzialmente vera, anche se coi nuovi elementi che ci vengono forniti dagli atti processuali non è più possibile definire il processo esclusivamente politico, perché è fuor di dubbio che la mossa non si è limitata a contestazioni verbali o scritte, ma ha abbattuto porte, ha violato proprietà private, ha malmenato individui, ne ha offesi altri, ha ricattato il Consiglio, ha minacciato stragi e si è armata anche per eseguirle. Motivi per condannare gli insorgenti ce n’erano anche senza curare più di tanto gli aspetti ideologici, per cui non credo che Marfori avesse dimostrato reticenza nell’emanare la sentenza perché aveva dei dubbi sulla reale colpevolezza penale dei processati. Penso, invece, che i dubbi del giudice dipendessero da altro, e soprattutto dal non aver definito adeguatamente il ruolo di tutti gli incarcerati nella faccenda, ed anche di chi incarcerato non era. Le menti della mossa, per esempio, riescono praticamente a farla franca, così come i presunti consiglieri che nell’ombra la sostenevano e di cui non vi sono che rare ed impercettibili tracce negli atti processuali. Inoltre analizzando le mille pagine degli interrogatori condotti dal giudice ho avuto l’impressione che spesso egli non abbia saputo o voluto giungere al cuore del problema, limitandosi frequentemente a girarvi attorno con domande leziose e senza un logico filo conduttore. Non sono riuscito a capire fino in fondo se ciò sia dipeso da una certa incompetenza del funzionario (essere giudice a San Marino non doveva essere particolarmente ambito da chi competente era) coinvolto in un affare troppo grosso per le sue possibilità, oppure da ordini provenienti dai suoi superiori, ovvero dagli oligarchi, tendenti a salvare qualcuno e ad affondare esemplarmente qualche altro privo delle necessarie protezioni politiche. Vi era poi fretta di concludere tutto perché la faccenda stava già creando polemiche nel circondario (cfr. app. n° 7 e 8), e gli oligarchi erano ben consapevoli che tutto si potevano permettere fuorché attriti con i Francesi ed i loro simpatizzanti.

   L’undici gennaio il giudice Marfori comminò la pena stabilendo cinque anni di carcere per i fratelli Martelli, Ubaldo Biordi e Pietro Casali, l’esilio per tre anni ad Ippolito Ceccoli, e l’immediata scarcerazione per Camillo Sabattini che venne ritenuto sufficientemente punito col carcere che aveva dovuto subire fino a quel momento[41]. Gli incarcerati capirono che la loro crociata era irrimediabilmente perduta, ed il 16 gennaio 1798 indirizzarono al Consiglio, blandito come padre misericordioso, una straziante richiesta di perdono dettata dalla lunga prigionia che li aveva fatti abbastanza comprendere le conseguenze del delitto commesso[42]. Il Consiglio preso atto del pentimento dei condannati e, forse timoroso di poter correre dei rischi a voler persistere in un atteggiamento troppo rigido, viste le simpatie che indubbiamente gli uomini della mossa avevano suscitato al di fuori dei confini[43], decise di condonare gli anni di carcere comminati, obbligando però i condannati a giurare fedeltà alla Repubblica, e col precetto di non portar armi di sorte alcuna ne di tenerle in casa, di non unirsi in nuovi complotti coi loro aderenti, di presentarsi ogni sei mesi per la riferma, di non partire dal Territorio della Repubblica senz’espressa licenza della Reggenza pro tempore. Al Ceccoli la contumacia venne ridotta ad un anno soltanto, e nei mesi successivi fu concesso il perdono anche a chi era riuscito ad evitare il carcere fuggendo[44]. Con ciò l’intera faccenda giunse alla sua conclusione più ovvia, ovvero ad un mantenimento assoluto dello statu quo ante.

 

 

VI

 

 

   Coi nuovi dettagli che ho fornito tramite questo breve studio mi auguro di aver contribuito ad una migliore comprensione dei fatti del 1797, anche se è possibile invece che l’abbia forse complicata. Fino a queste mie pagine la vicenda, per quanto articolata, si poteva leggere semplicemente come l’eterna lotta del male contro il bene, dove i maligni erano i governanti, ostili alle giuste rimostranze del popolo risvegliato, ed i buoni erano ovviamente gli uomini della mossa, avviliti nelle loro sacrosante pretese. O anche viceversa, perché esiste un’ampia storiografia locale che ha sempre teso a vedere come positivo tutto quanto fatto dal governo, e come esecrabile quanto fattogli  contro o in contestazione. Da un punto di vista puramente storico importa solo che l’insurrezione sia accaduta, così da trasmetterci un mare di informazioni sulla società sammarinese di fine ‘700 : cercarvi meriti e demeriti potrebbe essere quindi pretestuoso e soggettivo. Tuttavia  è incontestabile, anche se tipico dei tempi, che  gli oligarchi al potere avessero la colpa di gestire come una proprietà privata, con arbitri, abusi, ruberie, prepotenze e tanta arroganza una comunità di uomini che andava giustamente fiera della sua epica indipendenza. Ma è altrettanto incontestabile che gli insorgenti ebbero la colpa di ispirarsi con puerile entusiasmo e ciecamente a quanto era accaduto in Francia senza rendersi conto, ma sarebbe meglio dire senza aver conoscenza, delle profonde e radicate differenze socio - culturali che sussistevano tra Francesi e Sammarinesi, tra popoli, cioè, figli di evoluzioni storiche assai diverse e non accomunati da nulla oltre ai chimerici ideali repubblicani perseguiti dagli uni e dimenticati dagli altri. Se si calcola che le menti della mossa popolare sammarinese erano un prete ed alcuni chierici, nonché la nebulosa figura di Bertola, forse l’unico che assomigli un poco ai rivoluzionari transalpini,  si può facilmente capire la distanza che c’era con quanto era accaduto e stava ancora avvenendo in Francia, e quanta ambiguità potesse caratterizzare la locale sommossa, figlia di tutte le ideologie e di nessuna. E’ chiaro che gli artigiani che si resero suoi promotori furono quelli più ingenuamente e rozzamente affascinati dagli ideali importati in Italia dai Francesi, e vi si richiamarono con  puntualità, convinti che bastasse avere teoricamente ragione per fare e vincere una rivoluzione. Gli ecclesiastici, invece, non potevano di certo essere figli degli stessi ideali. Essi probabilmente divennero le menti della mossa perché erano un preciso punto di riferimento per il popolino anche prima di quest’episodio, perché  possedevano le conoscenze necessarie per capire che a San Marino le cose non andavano come avrebbero potuto e dovuto, perché erano l’unica alternativa culturale a chi stava ai vertici del piccolo stato, perché forse nel corso del tempo il locale clero aveva sviluppato un’intima antipatia verso politici che si rifiutavano fieramente di sentirsi soggetti più di tanto all’autorità papale. Fu don Gaetano Angeli colui che più di tutti contestò il Consiglio per l’omicidio Lolli e per l’affare Giurovich. Furono don Rossini e Fazzini che modificarono  l’iniziale protesta riguardante il pane ed il vino in una contestazione prettamente politica ancorata con rabbia agli statuti secenteschi della Repubblica. Furono sicuramente loro con gli altri chierici coinvolti ad avvolgere di una patina eroica e sacrale il movimento. Non credo che si adoperassero per consegnare la Repubblica al Papa : i tempi non erano i più adatti per una simile azione, ed i ricordi legati all’episodio alberoniano, e soprattutto al blocco del 1786 attuato dal cardinale Valenti-Gonzaga dovevano essere ben vivi. E’ facile, invece, che abbiano agito in buona fede, animati schiettamente da un senso di giustizia nei confronti della popolazione, e da profondo malumore verso i poteri laici rei, come verrà ribadito sempre in un libello accusatorio del 1823, scritto pare da un  certo  don Annibale Righi, ma a cui  lo stesso don Rossini non doveva essere del tutto estraneo, di mantenere un perenne disordine nell’amministrazione pubblica, e di aver edificato uno stato ove altro non trovasi che la miscredenza e l’irreligione; ove covansi gli odi, le frodi ed il mal costume, ove l’insubordinazione è la guida dei prepotenti cittadini, che sotto simbolo d’indipendenza tramandano l’uno all’altro il comando. Tra l’altro all’interno dello stesso libello ci si sofferma di nuovo sul delitto Lolli per ribadire che era uno dei principali misfatti deliberatamente rimasti impuniti per colpa dei disonesti governanti, e si torna ad accusare gli oligarchi per come si erano comportati verso i capi della mossa nel 1797[45].

   La mossa però aveva anche un’altra anima più rozza ed euforica, più portata all’azione impulsiva che alle chiacchiere, quella operaia cioè, che si era sviluppata da esigenze assai più concrete e molto meno teoriche : il bisogno di avere un pane mangiabile, il vino a basso costo[46], la carne a prezzi abbordabili. Proprio perché operaia questa parte della mossa, che probabilmente tendeva all’autogestione nelle polemiche spicciole e quotidiane senza  riferirsi più di tanto alle sue menti, si comportava con rudezza eccessiva tanto da attirarsi le antipatie non solo dei governanti, ma anche di parecchi di quei popolani nel cui nome avevano fondato la loro Unione. Gli atti processuali riportano tante deposizioni di macellai, contadini, artigiani in genere pronti ad infamare gli uomini della mossa come prepotenti, arroganti, oppressori, nuovi padroni ed altro ancora. Angelo Cervellini, per esempio, oste ed albergatore del Borgo, aveva sentito affermare in varie occasioni da Casali, Franzoni e Ceccoli che era ora che questi Signori la finissero e che volevano un poco comandare loro, e non aveva remore a definire come una vera briconata ciò che la mossa aveva compiuto[47]. La minaccia di dar fuoco al Palazzo del governo proferita da Martelli o di prendere le armi se il Consiglio non avesse supinamente accettato tutte le richieste degli insorgenti sono altri chiari indicatori dell’avventata grossolanità, emula di gesta avulse dalle locali consuetudini, dei capi operai della mossa, così come lo sbigottimento suscitato da simili affermazioni nella maggior parte dei presenti sul Pianello denota la labilità ed improvvisazione di tutto il fenomeno. Forse realmente non c’era altro mezzo per rompere la stagnante situazione politica di San Marino, per farla pagare ai Signori, ma se osserviamo la faccenda secondo la prospettiva dei governanti, se valutiamo tutta la potenziale rischiosità che la sommossa poteva avere dal loro punto di vista, se pensiamo che metodi così aggressivi verso le istituzioni politiche non hanno riscontri nella storia e nella tradizione sociale sammarinese, la galera per gli insorgenti appare come un obbligo fin troppo procrastinato.

   L’insurrezione del 1797, dunque, non può essere letta come semplice contrapposizione di due parti, una positiva, l’altra negativa, e neppure come il tentativo di consegnare la Repubblica al Papa, ai Francesi o a chissà chi altro. Fu invece una vicenda intricata dove forse ebbero una minima parte alcuni degli aspetti appena elencati, anche se mi risulta difficile crederlo, ma dove indubbiamente giocò un ruolo fondamentale prima di tutto la cultura democratica locale, tradizionale e plurisecolare tanto da essere la colonna portante della locale mentalità, vivificata dagli ideali e dagli esempi importati dalla Francia, poi il malessere sociale derivante dalla precarietà economica dei tempi, e dal timore della fame (il pane ed il vino non erano optionals, ma alimenti fondamentali della dieta quotidiana).  D’altronde se si leggono i documenti n° 7 e 8 riportati in appendice, un articolo del Democratico imparziale di Bologna prodotto a sostegno della mossa, e la risposta allo stesso di Antonio Onofri, ovviamente ostile agli insorgenti, risulta palese che anche all’epoca non fu per nulla facile semplificare la questione per dimostrare l’assoluta legittimità dell’una o dell’altra posizione : entrambi gli scritti presentano forzature, imprecisioni, bugie ed omissioni, ovvero nessuno dei due contendenti riesce a trovare la via più breve e più fondata per dimostrare di avere totalmente ed incontestabilmente ragione.

   La cultura democratica sammarinese necessiterà ancora di lunga maturazione per rompere civilmente e senza violenza il dominio della casta che la sovrastava, e per cercar di tornare alle sue origini leggendarie, ma ritenute da tutti assolutamente vere. E’ fuor di dubbio, però, che i fatti del 1797, pur con i limiti e con le ambiguità con cui ci si presentano, sono un punto nodale del cammino di tale cultura, una tappa di un percorso nato secoli fa, e di cui ancora è impossibile vedere la meta.  

 

 

Disegni anonimi affissi dai rivoltosi

  

 

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Appendice documentaria

Documento n° 1                 

 

 Istanza presentata al Consiglio del 3 giugno 1797

   

La piccola Repubblica di S. Marino, le di cui giuste Leggi sono state sin ora il solo motivo della di Lei interna conservazione, si è per il corso di 14 secoli mantenuta nella sua indipendente Libertà. Scorre però quasi un secolo, da che Ella più non gode quella tranquillità, quella pace, che dagli antichi suoi Padri ereditava. Abbolite le sacrosante Leggi, andati in disuso i pubblici diritti, salita in cattedra la prepotenza d’alcuni despoti, privati ne restarono la maggior parte degli Abitanti di quella felice consolazione che n’era il di Lei constitutivo. Il solo e primiero motivo di un tal divario è l’essersi introdotto l’abuso di formar nuovi decreti contrarj ai pmi principj delli Statuti aumentandosi di giorno in giorno codeste opposte determinazioni, ma molto più crescendo l’incuranza d’osservare le pme fondamentali leggi della Patria ebbero principio i tanti disordini, che per prudenza si tacciano, e che sono non solo a cod. Popolo ma anche all’universo ben noti. Ebbero dunque l’origine  dall’intromettere il sognato grado di nobiltà, o sia Cittadini del p.o Ordine l’usurparsi del peculio delle pubb. Casse, la dimenticanza de’ rendim.ti de’ conti, il trascurare la soddisfazione de’ Legati Pii, insomma lo spianto del Pubblico, l’infelicità del privato, l’innosservanza delle leggi, la tirannia de’ Desputi, l’oppressione de’ vari Cittadini, mancanze tutte, che dalle Statut.e Leggi vengono rigorosamente vietate. Grazie al Cielo però che dopo sì lungo tempo di tolleranza su tanto disordine giunse il giorno opportuno di smascherare l’impostura, di rimpristinare il Governo abolito, di ritornare a godere i giorni tranquilli dell’età trapassate : regnava per l’universo tutta quella Aristocrazia cotanto lesiva ai diritti dell’umanità fuorché in questo Governo non aveva piantate le sue radici. Il suddito oppresso però da un tal governo illuminatosi finalmente scosse il suo letargo ne infranse i legami per fin sino alle confinanti provincie. Sparsi pertanto da qualche tempo anche in questa Rep. Che ha sempre conosciuto il Gov. Democratico i nocivi semi di tale aristocrazia ne furono la funesta cagione della soversione di tanti diritti della Patria ; crediamo però che se qualcuno sin’ora  avrà aderito a tale Aristocrazia sarà presentem. Illuminato, ed obbligato a metterla in obblio per dimostrarsi vero Cittadino, per osservare le leggi che la vietano, e per rendersi degno dell’aleanza fatta coll’amica Nazion Francese. Il General Consiglio Principe assoluto di questa Rep. Al quale solo aspetta di rendere inviolabili le Leggi Statutarie s’arrosischi d’aver sin ora lasciati impuni i profanatori della med., e molto più si vergogni di sentire il rimprovero del Popolo che inculca l’osservanza delle Leggi al med.o solito costume di qualunque Governo egli è che debba procurare il Sovrano la conservaz. Dello Stato, l’obbedienza alle Statutarie Costituzioni, la riforma degli abusi. I sud.i adunque della Rep. assai più premurosi del pub. bene di quello sia lo stesso lor Principe vedendo che ne sono conculcate, e messe in dimenticanza le leggi si danno il pregio di doverne inculcare al Gen. Cons. la perfetta osservanza. Quest’unico oggetto è stato il motivo che li à indotti a porgere al Pubblico Gen. Cons. Principe le sue lagnanze volendo che si decreti la perfetta osservanza dello Statuto, l’abolim. di tutti i decreti, che non sono contenuti nelle Rub.dello Statuto, l’annichilim. dell’introdotto lib. d’oro, e che le provide determinazioni del sud. Statuto non possino essere derogate senza il pub. consenso del Gen. Arringo.  Fù questi che nella erezione di questa piccola Repca consegnò al Gen, Consiglio di 60 uomini, che tanti più non sono, e quali vogliamo che in tal numero siano eletti di nuovo ed i  stabilim. Dello Statuto, che anco in questo era stato derogato, le redini del Governo, le leggi da osservarsi, gl’inosservanti da punirsi ; se dunque l’istesso Generale Consiglio se ne rende inosservante, l’istesso Popolo diventa il Giudice, ed il condannatore dell’istesso Consilio. E chi potrà negar questo ? Il Cielo ci guardi però da un tal pensiero. Conosciamo anche noi, che la sola innavedutezza, e la sola ignoranza in alcuni, e in alcuni altri la prepotenza, e l’impostura sono stati i motivi dell’innoservanza delli statuti , e dell’innovazione di tanti decreti contrarj alle leggi vergognosi al Principe, e nocivi alla Patria ; però ci basterà soltanto porgere un lume ai Consiglieri, acciò si emendi ciascuno nel proprio diffetto o dell’ignoranza, o della prepotenza essendo sicuri  che decreteranno senza esitazione l’osservanza di quelle leggi che per tanto tempo osservate furono valevoli a conservare nel suo lustro una piccola Terra, e dopo che più non si osservano sono la causa del suo vituperevole disprezzo. Non sembri che la parola vogliamo sia una prepotente espress., mentre vien proferita soltanto per dimostrare l’amore del Popolo verso la Patria, essendo che senza l’ajuto del Popolo e di lui consenso il Principe non potrà rimpristinare il Governo. Più giusta non puol essere la nostra pretensione onde il Popolo Sammarinese si farà un pregio presso l’universo di dichiararsi osservatore delle sue Leggi quali sono state il motivo per cui in ogni tempo, ed in specie nelle pte. Circostanze si è resa celebre ed invidiabile questa piccola Terra, non solo nei Stati limitrofi, ma anche agli trasmontani ed ai più rimoti sono note le nre Leggi, e come giuste ebbero il favorevole incontro di essere applaudite da tutti, pure a che prò ? Se da quelli che le professano invece d’osservarle sono con malvaggio e crudele disprezzo abolite calpestate e distrutte, non sarebbe così favorito questo piccolo tratto di Terra se sapessero gli Esteri che Leggi così venerabili sono in tal maniera disprezzate ed incolte, che tante abusive inosservanze sono comesse dai despoti tiranni della stessa lor Patria, ogni buon cittad.o che ama il ben della Patria, che desidera il pregio ed il rispetto della Rep.a, che nutrisca in petto sentim. d’onore dovrà acconsentire alla nra. Volontà pubblica, altriment. Chi dimostrerà avversione alle nostre pretenzioni, darà un segno evvidente di essere ribelle alla Patria. Abbiamo voluto in iscritto esporre le nre dimande  a solo fine di osservare le leggi, che dicono : Che tutti i Capi di Famiglia della nra Rep. come che democratica abbiano jus di appresentarsi al pub. Arringo, e che in tempo dello stesso nessuno possa fare sussurri, prevedendo adunque che chi avesse esposto al pubb. Arringo cod.a nra volontà ne sarebbe nato un qualche bisbiglio, abbiamo voluto evvitarlo con esporre soltanto al pubb.o Gen. Cons. Principe la nostra ben giusta volontà, al quale come si disse consegnò una volta tutte le faccoltà il Popolo Repubblicano. Avverta pertanto lo stesso Gen. Cons. essere lo stesso Popolo, che così vole, e non un qualche particolare Rifleta che viene a ciò obbligato ogni buon Cittad.o, ed in specie ognuno, che ha giurato fedeltà alle Rub. Dello statuto, e dopo d’aver ben considerato, crediamo che nessuno avrà coraggio d’esentarsi dall’osservanza di qualunque piccola Rub.a dell’accenn. Statuto. Il Consiglio deve essere formato di 60 uomini ; perché dunque non più tanti ne sono ? Perché nell’elezione de’ Pub. Rappresentanti non si deve avere riguardo allo Statuto ? Si devono rendere i conti nei termini delle Leggi prescritte ; perché dunque si lasciano trapassare i lustri e la metà de’ secoli. Perché le Cariche, e le incombenze pub. in mano soltanto dei aristocratici pretesi ? Perché non darli il suo giro ?  Perché non adempiere le soddisfazioni dei pii Legati al sup. Consiglio affidati da quei Benefat. già  difronte l’anime le quali gridano vendetta nel cospetto di quel Dio, che stanco di più soffrire tante prepotenze, e tirannie intima al mondo tutto rigorosa riforma ?  Da questo derivano tanti spergiuri, e scomuniche, le quali sono la cagione della rovina delle famiglie e degli interessi privati e pubblici. Eh che tali innoservanze più non si possono soffrire si venghi adunque al ristabilim. Delle Patrie Leggi per ridare le felicità passate degli antichi giorni, che godevano i nri Padri, e che lasciarono in nostra balia di poterne godere.                                   

                

                               Il Popolo della Repca della Terra di S. Marino

  ( ASRSM, Atti Criminali, b. 703)

 

 Documento n° 2

 

Istanza presentata al Consiglio del 12 giugno 1797

 

L’inconcludente rescritto dal Gen. Consiglio emanato, come che fà vedere l’incuria di ascoltare le giuste  voci del Popolo, è stato un maggiore incentivo per proclamare di nuovo avanti il med.o Gle. Consiglio. Non basta avere accordato soltanto la rendita de Conti, la creazione di nuovi Consiglieri. Non basta, dicessimo, il rendim.o de conti, se non vengano ancora reintegrate le pub. Casse esauste da alcuni particolari, che ne ...? o debitori, per che anche a questo dovranno anche conseguentem. venire obbligati. Non è sufficiente la creazione di nuovi Consiglieri, se anche questa si rende invalida per alcune mancanze dallo Statuto vietato. Non è solam. questo, che chiede il Popolo illuminato, una  volta e stanco di soffrire la Tirannia del Governo. Si tace però su di ciò,  che forma la prima base del ...? (rovesciato) legittimo Principe, e la prepotenza del dispotismo. Ma se per il povero Popolo è stato ...? se non fosse giunto ad intendere la perfida ostinazione chi ha promulgato un rescritto così  ristretto. Sappia però il Gen.le Consiglio, che non gli riuscirà d'inorpellare la giustizia, di abbagliare la vista ad un Popolo intero di procedere ulteriormente nell'impostura, e nella prepotenza, e che non si cesserà mai di proclamare per l'osservanza delle leggi intanto che non si sarà ottenuto tutto ciò che seco porta il bene della Patria, il vantaggio del Pubblico, l'utile del privato. Per ciò fare adunque (come già  l'altra volta si disse) il più necessario si è di abbolire i decreti, di annullare l'abusivamente introdotta Aristocrazia, di amettere il consenso del Pubblico Gle Arringo nel dovere abbolire, o formar un qualche nuovo decreto, e fattosi questo, ne verrà per legittima naturale conseguenza l'osservanza della Statutarie constituzioni. A questo fa d'uopo fare il  sacrifizio, e del libro de decreti, e del libro d'oro, o sia dove sono registrati i pretesi ...? Aristocratici. Nocivo il primo, perché contenendo molti decreti contrarj allo Statuto, si ragira a piacimento dei despoti secondo i bisogni, facendo valere dove fa d'uopo i decreti, e dove si fà d'uopo li Statuti. Molto più nocivo il secondo, e non ammesso dalle leggi, ma bensì introdotto  dall'abuso, perché per varj umani rispetti vengono abbolite le divine, ed umane leggi, conculcata la giustizia, e perché il tutto si fa  lecito, e si arroga l'onnipotente, e prepotente aristocrazia. Si sa benissimo, che se è colpa degl'ora ...? pretesi Nobili l'esser nati in così misere condizioni, ma che ne anno ereditato dagl'Avi, ed Ascendenti loro da poco tempo l'abusivo titolo. A questo riflesso però molto più volentieri se ne dovranno scordare e disappassionatam.  rinunciarlo, considerando di non possederlo legittimamente, ma solo per colpa dei loro Antenati. L'azioni sono quelle, che formano il distintivo dell'Uomo dabene; coloro pertanto saranno i più rispettati, e che saranno avuti in maggiore considerazione, quali  faranno vedere le loro ruvinose operazioni , che desidereranno il bene del Pubblico, l'adempimento degli obblighi dei pii Legati; e siccome il rinunciare al titolo usurpato di Aristocratico sarà riguardato come una doverosa, e virtuosa azione, speriamo che tutti si vorranno a gara distinguere coll'abbolim.  spontaneo di un tale titolo più  per loro vituperoso, che onorevole, sapendo benissimo con nostra consolazione, che alcuni di già con tutta la rassegnazione si sono risoluti d'abbandonarlo. Del mondo intero  ne vediamo  l'esempio universale, essendo che i popoli illuminati, e stanchi di soffrir la Tirrania, e la prepotenza di chi l'illecito si fà lecito, abboriscono l'Aristocrazia o con soprimerla a forza, o con rinunciarla spontaneamente abbenchè ereditata legittimamente dai loro antichi Padri e qui nel nostro Governo, che si amette distinzione di grado, invece di detestarlo si deve  abusivamente introdurre ? Ah nò, non sarà mai possibile. Il Popolo, che forma il costitutivo del Governo cesserà d'essere sudito, e il Gle Consiglio cesserà d'essere Principe quando si vedranno osservate quelle leggi, che il Popolo istesso diede al Gle Consiglio da osservare, e da farsi osservare. Accerta  però lo stesso Gle Consiglio da osservare, e da farsi osservare. Accerta però  lo stesso Gle Consiglio, che è Gle il ricorso, che è tutto l'intero Popolo, che riclama, e che la voce del Popolo è voce di Dio. Dio immortale. Che cosa più giusta puol dimandare il Popolo, a chi riconosce per suo legittimo Principe, che l'osservanza delle Leggi? e pure non vi concede. Anzi nel tempo stesso....... l'osservanza de Statuti, con solenne spergiuro ne deroga una Rubrica con crear Consiglieri, che ancor non son giunti all'età  necessaria dalli Statuti richiesta, o che per altri impedimenti non potendo essere curati. E poi si deve tacere, e non si dovrà ripetere il tutto dalla prepotenza, e dall’impostura, ovvero dall’ignoranza e dall’inavedutezza ?  Si persuada  il Gle Consiglio, che il Popolo Sammarinese non è indotto a far questo da stimolo di sedizione, ovvero da qualche odio maligno contro qualche membro del suo legittimo Ppe, ma bensì da quel dolce amore della Patria, alla quale ogni  buon Cittadino si deve dimostrare riconoscente e per porre nel suo pristino splendore quel Principe, il quale da suoi infedeli ministri tradito con disdoro di tutta la popolazione geme la sua gloria offuscata dall’Aristocratico nembo.  Ecco dunque in che si ristringono le nostre domande. Vogliamo 1° - L’abbolizione dei decreti. 2° - La sopressione dell’abusivamente introdotta  Aristocrazia. 3° - Che abbiano il suo giro le cariche, e le incombenze pubbliche. 4° - Il consenso del Gle Aringo per derogare, o formare un qualche decreto dello Statuto, altrimenti questo istesso Aringo si convocherà a norma degli Statuti, e si stabilirà tutto ciò, che si volesse essere dipendente dal Pubb. Genle Consiglio. 5° - La consegna sul momento del libro d’oro, e del libro de decreti in mano del Popolo. 6° - Che si levi ogni distintivo frà i due Capitani introdotto, quando che ambi due sono eguali dovendosi però la precedenza al più meritevole o per anzianità, o per dottrina, e non per condizione o per pretenzione di grado, come sapiamo aver praticato gl’antenati , che davano la preferenza ai più dotti, o ai più anziani quantunque ... ? 7°- Osservanza perfetta dello Statuto, e insomma la riforma di tutti gli abusi introdotti, quali ora non sovvengono, mà che coll’andare del tempo saranno scoperti, e in conseguenza evitati. Non si presumino alcuni Consiglieri contrarj alla giusta dimanda di poter abbagliare e inorpellare il Popolo con qualch’altro dubbioso rescritto, mentre sarà sempre pronto a riclamare di nuovo, quando non vede ripristinato l’antico governo, abbattuta la prepotente Tirania, premiata la virtù, punito il vizio, e ubbidita perfettamente la Legge del sacrosanto Statuto. Se tutto questo non giova a persuadere il Gle Consiglio della Nostra ben giusta volontà, saremo sforzati a prender l’armi per diffendere i diritti nostri non solo, mà anche quelli della Patria comune, della nostra cara Repub. Del Nostro Glorioso Levita Protettore. Non isperiamo però di doverci innoltrare ad un simile passo, essendo ben persuasi, che a tutti egualm. Sta a cuore il pub. E privato bene, l’osservanza delle umane e buone leggi, la perpetua conservaz. Della Nostra amata Repub. Quale senza tanti decreti, mà solo coll’osservanza dei Prinpli Statuti, si è per tanto tempo mantenuta nella sua quiete, e tranquilla pace, e libertà, sintantoche introdottasi l’Abominevole Aristocrazia non ha provati tutti i sinistri disastrosi, e nocivi incontri dai quali preghiamo l’Onnipotente Iddio, e l’impareggiabile, ed inclito Protettore S. Marino, che ce ne liberino, e che ci assistino in qualunque pub., e privato nostro bisogno. Staremo dunque attendendo ansiosamente un benigno, copioso, autentico, chiaro, e decisivo riscontro unitam.  al  pto foglio, al qle secondo il Costume trascurato l’altra volta, và annesso lo stesso rescritto e il radunato Popolo non partirà sin tanto ch@on avrà ricevuta quella risoluzione, che giustam. richiede.

 

                                                                  Il Popolo della Repub.a

 

(ASRSM, Atti Criminali, b. 703)

   

 

Documento n° 3

 

Discorso al Popolo di S. Marino

 

E fino a quando, o Nobili pretesi, e immaginarj, che vantate un titolo fantastico, e menzognero v’abuserete della lunga nostra tolleranza ? Forse dovremo esser sempre il bersaglio del vostro dispotismo, l’oggetto della vostra tirannia, ed il ludibrio del vostro genio maligno ? E non dovranno esser mai rafrenate le vostre iniquità, la vostra audacia ? Niente vi comovono i lamenti d’un Popolo risvegliato da vergognoso lettargo ? E questi insorti romori, che vi minacciano rigoroso castigo se non osservate il dovere di Cittadini, non anno niente scemato il vostro orgoglio ? E i rimorsi della coscienza non più si sentano nel vostro cuore già divenuto insensato, e avezzo ad ogni misfatto ? Credete che non ci siano note le vostre ordite trame ? Non sapete, che le vostre inique operazioni a noi sono tutte palese ? Che non faceste nella morte del Loli per difendere un assassino ? Quali scelerati ragiri non si videro allorché tentavate di copprire l’enorme delitto d’un falso monatario, che doveva essere vivo abbrucciato, opprimendo la Giustizia, e portando in trionfo la malvaggità ? Da chi sono state obbliate le venerande leggi, resa vedova le pubbliche casse, i pubblici errarj se non dai pretesi Nobili ? O tempi ! O costumi ! Il Pubblico Generale Consiglio Principe vede queste cose. I Capitani ogni giorno le lamentevoli voci ascoltano di colloro, che gridano giustizia ; e questi falsi Nobili tuttavia resistano nella loro perfidia ? Anzi vengono ammessi nel pubblico Consiglio. Oh Dio ! E come potranno adunque andar bene i pubblici affari ? Ah che il tutto è in scompiglio : un caos informe è divenuta la povera Repubblica. E noi Figli amorosi d’una sì cara Patria rimireremo con ciglio indiferente la sua caduta ? Da chi mai Ella spererà soccorso se non da Noi ? Se più tardiamo sarà il tutto inutile : E’ imminente l’infausto istante di sue rovine. Affrettiamoci, e corriamo a rapire quei Sacrosanti Statuti, acciò non siano affatto dispersi, e perduti. In Essi consiste ancora la salute della Repubblica. E’ questo il tempo di distinguere ogni vero Cittadino. La Patria è nostra madre commune, e come madre la dobbiamo onorare e diffendere. Se mai la perdessimo, quale sarebbe il nostro pentimento, il nostro cordoglio ? Sì che bisogna farla risorgere. Noi soli potiamo rimetterla nella Sua pristina salute. Da noi dipende, che Ella riacquista le sue perdute forze, e che come prima ritorni a risplendere nell’universo. Trè sole cose, o Cittadini, sono necessarie per il suo ristabilimento, e tutte facili a conseguirsi da voi, che avete il cuore infiammato da Patriottico amore : l’osservanza in tutto, e per tutto di quelle Sante Leggi, che chiamansi Statuto. L’abbolimento de nuovi decreti. Ed un sempieterno obblio a quel falso, preteso, e pernicioso grado di nobiltà.

Che queste trè cose siano del tutto necessarie, ragionevoli, e giuste in breve appertamente ve lo dimostrerò. Il Popolo Sammarinese avendo per lunga serie di anni da se governata la piccola Repubblica, che ha collocata sua sede su questo alpestre monte, sempre bramoso d’un metodo di governo più vantaggioso e quieto, pensò di affidare le redini del Comando, come già fece, al Pubblico Generale Consiglio Principe di sessanta Uomini, riserbandosi due volte all’anno il pubblico Arringo. Il pensiero fù certamente degno di Lui, mà forse non l’avrebbe eseguito se si fosse immaginato, che per la trascuraggine, ed ignoranza in alcuni, e per la malizia e prepotenza in altri di questi Consiglieri, dovevano essere abbolite le vere leggi, e in loco di queste sostituiti certi falsi decreti ad esse contrarj, e reppugnanti. Inosservate, anzi obbliate le leggi come potrem dunque esser ben regolati ? Se quelli, che dovrebbero invigilare, e procurare la loro osservanza obbrobriosamente sen dormono, o fingono di dormire, vogliamo ancor noi con Essi seguitare a dormire, e intanto lasciarci affatto incatenare, e permettere che il pubblico sia del restante spogliato ? Nò bisogna squoterci, e risvegliar chi dobbiamo. Oh vergogna ! Oh vitupero ! Se i Consiglieri fossero stati vigilanti, e intenti al loro dovere non sarebbero insorti tanti disordini. Mà s’arrosischino pure, essendo stato il Popolo necessitato a inculcarli l’osservanza di quelle Leggi, che essi avrebbero dovuto inculcare al Popolo. Il Popolo, e con ragione, potrebbe levarli il comando, e al doppio giustamente punirli, giacché si sono resi inosservanti, e non le anno fatte osservare a chi dovevano. Ciò in vero meritarebbero mà spero, che voi, o prudenti Cittadini, non lo farete. Le Leggi sono quelle, che da per tutto comandano, i Principi ne sono i ministri, ed ancor Essi sono a queste soggietti. Se qui in San Marino si fossero osservate non sarebbero entrati tanti mali, e tanti abusi. Se ogni dato tempo si fosse reso conto delle pubbliche ingerenze, e se indifferentemente le cariche avessero avuto il loro giro, come comanda lo Statuto, ora le pubbliche casse non sarebbero in tanta miseria. E non dovremo vedere che gl’indegni usurpatori vomitino fuori quel tanto, che anno tranguggiato ? Che si faccia è cosa troppo doverosa, e in breve rendino pur conto coloro, che anno divorate le tenui sostanze della povera Repubblica : E questi Conti dovrebbero esser fatti alla presenza di deputati non  consanguinei ai debitori, non sospetti di Aristocrazia, né d’infedeltà. Ancor non giova che siano resi i conti se non vengono reintegrate le pubbliche casse ; e sarebbe ottima cosa il levare i libri dalle di loro mani, sigillarli, e consegnarli a suddetti deputati. Nelle presenti circostanze è stata una cosa veramente onorevole alla nostra Repubblica il non esser ricca, ma l’esser poi tanto miserabile che più non possa susistere è cosa vituperevole. La Legge vole, che tutti quelli i quali saranno debitori al pubblico, egualmente soddisfaccino al loro debito. E qui perché alcuni devono essere costretti a sodisfare, ed altri nò ? Forse perché non portano scolpito in fronte l’infame, l’immaginario titolo di Nobiltà ? Ah che ancora la Giustizia languisce oppressa, ed è immersa frà gl’orrori di un cupo obblio ! Ed il pubblico Consiglio da se solo non mai potrà risarcire a tanti danni. Mà... Che Consiglio ? Il Principe Consiglio ora più non esiste ; lasciossi cadere di mano lo scettro del Comando, che gli era stato dal Popolo affidato. Ed ecco con che si prova. Lo Statuto nella Rubrica decima nona comanda, e vuole, che tutti quei Capitani, i quali non avranno reso conto del loro Capitaniato debbano essere scancellati dal numero dei Consiglieri ; ora qui la maggior parte de Consiglieri sono stati Capitani e non anno reso conto ; dunque la maggior parte de Consiglieri non hà più voce in Consiglio. Quei pochi che restano non sono sufficienti per formarne dei nuovi, e per questo bisognerà, non essendovi più quel numero, che formava il Principe, bisognerà convocare il Pubblico Generale Arringo, ed ivi sciegliere quei Consiglieri, che mancano, di nuovo poscia  affidando il Governo ai sessanta Uomini coll’avvertirli, che dovranno, non come per il passato, procurare l’osservanza delle leggi, dal che per conseguenza ne viene l’abbolizione degli intromessi temerarj abusi. Il Consiglio secondo lo Statuto non puol esser maggiore, ne minore di sessanta, ed ora appena sono quaranta. Niuno deve essere creato Consigliere se non ha l’età di anni venticinque, e nell’ultimo Consiglio dei trè del corrente Giugno ne furono creati due, minori della ricercata età, col derogare subito una Rubrica di quelle leggi, che vi avevano, o Cittadini, promesso d’osservare in quell’inorpellato rescritto fatto alla vostra supplica, con il quale crederono i despoti Titani della nostra misera Patria d’ingannarvi. Adesso si conosce quanti invalidi Consigli sono stati radunati ! Quante nulle risoluzioni ! Oltre di questo lo Statuto comanda che tutti quelli, che essendo debbitori al pubblico, e non avranno soddisfatto, non debbono aver loco in Consiglio se non dopo una intera restituzione ; e qui tanti de pretesi Nobili sono debitori di somme considerabili, e ciò non ostante essi nel Consiglio si prendono il primo loco ; quando sono Capitani portano pendente al Capello un nappo d’oro a differenza degli altri, che non sono di quel falso grado ; e lo Statuto dice, che tutti i Consiglieri sono frà di loro eguali, non ponendovi  alcuna distinzione, e dovendosi distribuire i posti per ordine d’anzianità. E si deve tacere ? E non dobbiamo dire le nostre ragioni in rimirare un lagrimevole rovescio in tutte le cose ? Di più. Alcuni de pretesi Nobili nel loro Capitaniato anno a nome del Consiglio presi dei denari a censo, ed il Consiglio non sapeva nulla. Ah stupisco con qual animo i Consiglieri, e i Capitani quando prendono possesso del loro officio giurino sopra del Santo Evangelo di fare il proprio dovere ! Sono tutti spergiuri, e scommunicati. Uditemi. Al pubblico Consiglio sono affidate certe Capelle da farsi offiziare ; alcune doti da dispensarsi alle povere zittelle ; il monte frumentario da distribuirsi ai bisognosi. E questi come vanno ? I Capellani non possono mai avere la mercede delle loro fatiche ; le doti quasi mai si distribuiscono ; e al monte appena un terzo gli è rimasto del grano, che possedeva. E poi devono andar bene gl’affari del pubblico, e dei privati ? Le anime dei già trapassati benefattori, che instituirono tali legati, gridano vendetta nel cospetto di quell’Ente supremo, che sarà stanco di più tollerare tanta iniquità. Le nostre leggi sono ottime e sante, mà non più si osservano, e da tale innosservanza dipendono tanti inconvenienti. E’ stolto il garrire di coloro, che dicono, che i Statuti avrebbero bisogno di essere riformati. Se non fossero venerabili non sariano stati venerati da tanti Popoli. Se non fossero giusti e salubri non avriano per sì lungo tempo conservata in placido stato la Republica. Si vede bensì bene, che subito che fù trascurata la loro osservanza vacillò. In una sola cosa saria d’uopo riformarli, cioè nelle pene pecuniarie, le quali riguardo al tempo, in cui furono instituite ora sono troppo leggiere, mà farlo però sempre col consenso del Generale Arringo. Oh perfidia insensibile ! Voler vivere frà disturbi quando si potrebbe vivere in perfettissima quiete. Mà noi felici però se nel Popolo terminò la trascuraggine, il dispotismo la tirannia nei falsi Nobili. Or che conosciamo il nostro dovere non potiamo senza aggravamento della coscienza star più neghitosi in così pernicioso silenzio come stolidi, ed insensati. Sarebbe la nostra una vera crudeltà rimirare la Patria aggonizante, e non arrecargli ajuto. L’osservanza quanto prima dello Statuto potrà risanarli le accerbe ferite. Si credetemi : nelle leggi consiste l’esistenza della Repubblica se la volete.

Mà poco, o cari concittadini si potrebbero osservare le leggi se non venissero abboliti quei nuovi, e falsi decreti, che il pubblico Generale Consiglio privo di una tale autorità ardì di formare. Allorche gli fù affidato il governo, gli furon ancora date quelle leggi necessarie per regolare con giustizia questa piccola nazione. Egli dunque perché formarne delle nuove ? Quale necessità lo hà costretto a ciò fare ? Con qual potere ? Il solo desio in molti di tiranneggiare gli hà animati a comettere un tale eccesso. E quei nuovi decreti che contengono ? Oh se lo sapeste, o Cittadini ! Contengono cose obbrobriose a Voi, e dannevoli alla Patria. Lo Statuto vuole, che tutti i pubblici affari siano dal Consiglio Generale di Sessanta Uomini considerati, e stabiliti ; ed ora riferiscono nel Consiglio quel tanto si puol dire che meno importa ; mà il tutto, ed il più essenziale a forza di ragiri si risolve dai pretesi Nobili a modo loro nelle private Congregazioni, nelle quali se v’interviene qualch’altro Consigliere non nobile prima di farlo venire procurano di tirarlo al loro partito. Se poi nel pubblico Consiglio riferiscono qualche rilevante affare, stabiliscono prima nelle sudette Congregazioni in qual maniera glielo possono rappresentare per ottenere il loro intento, succedendo il più delle volte che con bugie ben ordite danno ad intendere ai troppo buoni Consiglieri il falso per il vero, il giusto per l’iniquo. Nelle ballottazioni fanno molte sporcherie. Quando i Consiglieri arringano sopra cose che non avrebbero piacere, si alzano dal proprio luogo e si mettono a cicalare acciò non siano intesi, e in somma nel Consiglio detti Nobili pretesi anno introdotti molti scelerati abusi, che se non vengono lavati non potersi risolver mai niente. E infatti come puol sussistere la nostra libertà, la nostra ugguaglianza se tutti i primi ministri del Principe Consiglio sono Aristocratici, e nemici accerrimi della nostra Democrazia ? La di loro infedeltà, la di loro perfidia non han mai permesso, che siano ascoltati i ragionevoli nostri lamenti. Dunque s’abbolischino ancora queste inique congregazioni. Il pubblico Secretario non puol essere uno de Consiglieri ; ed ora il Secretario fa da Consigliere, da Capitano, e da Principe. Egli sempre interpreta la volontà del Consiglio a modo suo senza quasi mai chiedere il commune parere. Quello che fa Lui è ben fatto. E che non puole errare come gli altri uomini ? E’ forse un Dio ? E’ forse infallibile ? Quantunque operi bene è sempre condannabile ; perché il Secretario non deve far altro che scrivere realmente le risoluzioni del Generale Consiglio, e non mai comandare, e farla da Principe. Alcuni alle volte si sono serviti abusivamente del pubblico sigillo nei propri affari. Non è molto tempo, che ne fu fatto mancare uno forse per servirsene nei loro bisogni. Disordini tutti, che dal Consiglio vengono indegnamente tollerati senza alcuno risentimento. L’elezione dei Capitani deve esser fatta senza alcuna distinzione, eccettuata quella del merito, e della capacità, ed ora è stato intromesso l’iniquo abuso, che l’uno dei Capitani debba sempre essere uno de pretesi Nobili, dandosi il nome di primo Capitano. Ed intanto lo Statuto dice, che siano scielti dodici i più idonei frà i sessanta uomini senza nominare ne il Nobile ne il Plebeo, ne il primo ne il secondo. Chi volesse ad uno ad uno narrarvi i decreti che sono stati ingiustamente, e senza autorità fatti, sarebbe cosa al sommo tediosa, anzi stomachevole ad ascoltarsi, mà bastavi il sapere che il volume, in cui sono scritti, oltrepassa in grandezza il libro de Statuti.

L’illustre Repubblica Francese hà in vero verso di noi dimostrato un gran rispetto unito a molti beneficj ed onori, mà la cagione di sì gran sorte sapete chi è stato ? Sono state le nostre leggi. Esse sono tanto sacrosante, che ci anno acquistata l’amicizia d’una nazione così potente. E se fossero state differenti, cioè tiranne, ed aristocratiche avressimo ancor noi sofferto ciò che al presente soffre l’Italia tutta, e in specie la tiranna, e aristocratica Repubblica di Venezia. E mai cosa credibile, che se gl’avessero questi nostri magnati mostrato il Libro de nuovi decreti, e quel Libro, che Essi chiamano d’Oro, saressimo adesso lieti, e contenti d’una si grata sorte ? Nò certamente. E non avendoglieli mostrati segn’è, che o si vergognarono di mostrarli le corna del di loro vitupero, oppure temettero d’incontrare un qualche impaccio. Sì, cari miei Cittadini, la nostra sarebbe un ingratitudine se ci dimostrassimo sconoscenti verso d’una Repubblica, che volle annunciarci i dolci nomi di Fratellanza, e amicizia, potendo se per disgrazia noi irritassimo il suo furore, del che non v’è dubbio, con un soffio rovesciar questo monte, e lasciar di noi la sola memoria. Mà più grande sarebbe la nostra ingratitudine se dimenticati lasciassimo stare in preda all’obblio quelle care Leggi che furono, e saranno la nostra salute. Si prendi dunque il Libro nefando, e sacrilego di quei nuovi decreti, e non dando orrecchio alle garrule voci diquei perfidi, che la chiamano cosa crudele, sia questo ridotto in cenere, e le ceneri sparse al vento per eterna dimenticanza di Lui, e di chi lo formò ingiustamente, e senza veruna autorità.

Con tutto questo, o diletti Repubblicani, avessimo poco giovato alla salute della nostra Repubblica, se qui terminasse quel tanto, che dobbiamo fare. Rimane ancora uno scoglio, che se non viene infranto, e distrutto, conquasserà di certo la nostra nave, e noi miseri tutti naufragaremo. Questo superbo, ma però frangibile scoglio è quella pretesa nobiltà, che senza sapere il come entrò, e pose sue velenose radici nel nostro governo, già per solita innavertenza, o malizia del Principe Consiglio, Grado di persone nemiche implacabili della oppressa umanità, che con ogni sforzo s’affaticano di suchiarli il più puro sangue. Questa pretesa, e falsissima Nobiltà su quella, che incominciò a scalzare le fondamenta di questa Repubblica, e che la hà ridotta a un tale lagrimevole stato da che venne fuori questo indegno titolo, e sono pochi lustri, subito incominciò a cambiare d’aspetto, ed ora è tanto aggravata da un tal male, che come dissi è agonizante. I Nobili furon quelli, che fecero dimenticar le leggi, che oppressero la Giustizia, e divorarono le sostanze. Oh quanti enormi delitti sono stati comessi, e fatti comettere da costoro ! Quale barbaria non videsi allorche fù trucidato il Loli, e fugli dal scelerato uccisore portato via tutto il denaro ? Epure gl’indizi erano certi che l’uccisore fosse un Nobile. Oh Dio ! Un Nobile ? E come mai in un cuore alimentato di nobiltà, in un uomo per le di cui vene serpeggia un sangue delicato, e netto tanta crudeltà ? Ah non è cosa credibile. Come ? Se lo stesso Giudice prima che venisse discacciato assicurò che il reo era un Nobile. E poi qual sicuro indizio non si ricavò dall’improvisa fuga del malfattore ? Qual indizio non diede il dispotismo de falsi nobili allorche con minacciarli la morte discacciarono il giusto Giudice perche aveva scoperto che il delinquente era un Nobile ? Uno stolto avrebbe conosciuto chi era il reo, mà perche era uno del  preteso infame grado fù troncato il processo. Che sento... Frà i nobili un assassino !  E il capo dell’unione de falsi monetarj anch’esso non fù uno de pretesi nobili ? Un nobile era che direggeva una azione così iniqua, e malvaggia : mà perche era nobile il tutto fù da suoi simili aquietato, e coperto. L’autore del furto comesso nella cassa della abbondanza di mille, e più scudi non fù anch’esso uno de pretesi nobili ? fù senza dubbio. Anzi l’istesso abbondanziere, il quale volendo viaggiare, e non avendo denari levò dalla casa detta somma e poi diede ad intendere al pubblico, che gli era stato rubbato. E poi devono sempre avere le amministrazioni costoro ? L’ambizione di conservare il decoro d’un tal falso grado quando non possono li costringe a comettere simili sceleragini. L’avidità dell’oro gli hà fatto operare prodigj. Per opra loro le valigie sono volate dalle finestre senza ali. Gl’orologi che camminano colle ruote anno camminato ancora colle gambe e sono spariti. Che più ? Gl’istessi sacri tempi non sono restati ilesi dalla di loro avidità. Più lampade rubbate. Molta compagnia ridotta in povertà. Ah che chi volesse narrare tutte le iniquità commesse da questo falso iniquo grado saria impossibile ; mà bastavi il saper quelle, che sono state comesse negl’ultimi calamitosi tempi della povera Repubblica, la quale mediante l’indegno regolamento è ormai affatto fallita. E li dobbiamo soffrire ? Ah non si puole. In questa maniera la nostra Patria non più potrà susistere. Ancor del veleno gl’indegni si son serviti per distruggere la misera umanità. E poi dovrem dire che questa falsa nobiltà non è pernicevole alla Repubblica ? Se anno disanguato il pubblico, e tiraneggiato il privato, che più gli rimane da fare ? E non si vergognano d’insuperbirsi per così scelerate azioni ? Si gloriano di questi fregi ? Ah non lo comprendo. Aver tanto ardire ancora di discacciar dal Consiglio un povero innocente Padre perché una sua figlia erasi matrimonialmente congiunta con uno de pretesi nobili ? Mà non erano ambedue cittadini secondo il volere del nostro Statuto ? Veramente la gloria di questo eccelso necessario grado con detta parentela si rese di molto oscura. Superbi dove giunge il vostro orgoglio ! Io m’arrossirei d’imparentarmi con questo vostro infame mentito grado, che frà i suoi trofei non puol vantare, che iniquità, e sceleragini. Ma sebbene ostasse tanta perfidia l’ingiustamente discacciato Consigliere fece apparire al Principe la sua innocenza, fù onorevolmente di nuovo ricevuto in Consiglio, e si manifestò la tirannia de despoti pretesi nobili. Avete udito, o Cittadini ? Se avete udito ciò mi basta ; da tutto questo abbastanza potiamo intendere se sono tolerabili. Se noi permetteremo, che susistino, (che è impossibile) oltraggiaremo ancor di certo le Leggi, che proibiscono un tal grado, e che amettano soltanto quello di Cittadini ; la Repubblica non potrà avere altro regolamento. L’istessa natura si lagnerà con noi se li tolleriamo. Essa diede agli Uomini un eguale principio, ed un egual fine ; nella stessa maniera, che nasce il ricco nasce il povero, e nell’istesso modo, che more il sudito more il Sovrano : e se Iddio avesse voluto che quaggiù in terra vi fosse questo grado superiore non avrebbe creati gli Uomini tutti eguali frà di loro, e d’una istessa natura, mà ne avrebbe formati alcuni altri d’una specie più nobile. Egli non l’ha fatto, ma bensi tutti abbiamo la nostra prima origine dal solo Adamo ; segn’è dunque che Iddio non volle, e non vole questo prepotente grado, tanto più che ci comanda, che ci dobbiamo amare egualmente come fratelli. Le sole azioni che uno fa in vita sono quelle, che ci distinguono dall’altro, e perciò se uno vuol essere onorato deve essere virtuoso, e giusto, mà non è del dovere che un simile calpesti un suo simile. In questo mondo tutti siamo uomini, e uomini mortali, egualmente arrichiti d’uno spirito immortale. Si deve dunque considerare se lo Spirito, e illustre, e nobile, e non se in queste nostre vene scorra un sangue reale, e plebeo. In cielo si premia la  virtù secondo, che uno è stato più o meno virtuoso, e giusto ; così noi in terra dobbiamo fare, gli uomini devono esser premiati secondo il merito, mà però sempre personalmente, giacchè non è del dovere, che un Figlio perfido godi gl’onori d’un padre virtuoso. Devesi sapere, che il nascer sovrano è un caso, e il divenir virtuoso dipende dalla propria volontà. Ciò non ostante però l’uomo non deve insuperbirsi di fare virtuose azioni, e deve considerare che il suo essere è simile a quello del uomo ignorante. Sebene alcuno camini fastoso, e superbo per le ricchezze, sappia che la fortuna non cambia specie, ma siamo tutti eguali. Anzi alle volte il ricco divien povero, e il povero ricco ; venedo il tutto regolato dalla mente infallibile di quel Ente eterno, infinito, e necessario, che solo dirigge le universali azioni.

Questo adunque, o amabili Cittadini, è quel tanto, che io brevemente hò bramato d’esporvi per comune nostro vantaggio ; e se volete una volta vedere lo stato primiero della nostra Repubblica è necessario vi ripeto, che rimettiate in osservanza le vere leggi, che ereditassimo da nostri antichi, e che ad esse sacrifichiate il Libro de decreti, e il libro d’oro, che fino ad ora sono stati le nostre catene. La ragione, la giustizia, il dovere, e l’umanità ciò richiedono smascherata, scarpita, e cacciata in un profondo obblio questa nobiltà viveremo tranquilli, e felici. Avremo la sorte di godere quegl’aurei giorni, che goderono i nostri Padri, e quella amabile Libertà che essi trasmisero in nostro retaggio. Anzi spero, che quegli istessi i quali portano questo falso titolo, conosciuto l’errore in cui con gran vergogna sono vissuti, lo detesteranno come hà fatto la Repubblica di Venezia, se non vogliono vedere rinovato qui in S. Marino il terribile massacro della Repubblica di Genova. Sì, spero, che senza aspettare simili violenze, mà mediante il proprio ravedimento, che da se si spoglieranno d’un tale immaginario grado per farli vedere ottimi Cittadini, veri osservatori delle leggi, e degni amici dell’illustre nazione Francese. E non facendolo, questo, o Popolo illustre è il tempo di spezzare i ceppi, d’infrangere le catene, e di squotere il giogo. Ora che il cuore vi bolle in seno, ed arde d’amore verso la cara Patria procurate di conseguire le giuste vostre pretensioni. Ai secoli remoti ne andrà il vostro nome. L’istessa Francia v’amirerà, e loderà il genio vostro mirabile, e se prima vi favorì, ora maggiormente procurerà di premiare la vostra virtù. Il secolo della balordagine, e della tirannia terminò, e deve incominciare quello della vera umanità, e della Giustizia. Più presto, che vi liberarete dai lacci, più presto ancora sarete felici, e ramentandovi l’obbligo di Cittadini, vi auguro un felice successo.

(ASRSM, Atti Criminali, b. 703)

 

Documento n° 4

 

Libello anonimo affisso in Borgo

 

Popoli di Sammarino vi siete addormentati ? Svegliatevi dal vostro sonno. I perfidi Aristocratici ora più che prima orgogliosi vi tramano insidie, e non ve ne avvedete ? Nei sacrileghi scomunicati Consigli, che fanno, vi machinano un ingiusto castigo, e quello, che fa inorridire si è, che vi sono contrarj ancora alcuni di quelli, che si vantano Democratici, e che dovrebbero per ogni titolo sostenere la vostra causa. Riclamate per la giustizia, dimandate il buon ordine, volete ristabilito il corrotto governo, e trovate chi costantemente vi si fa contrario? Ah che tali oppressori della giustizia, sovvertitori del buon ordine, usurpatori del governo, meritano di essere trucidati. E voi tacete, e lasciate impunemente regnare l’iniquità, e la prepotenza ? Ah non lo voglio credere. Faceste i primi vostri giusti risentimenti sull’esterioramento del vino, ed ora, che giorno, e notte si vede trasportare dagl’esteri fuori dello stato, neghittosamente tacete ? Ve ne pentirete poi, quando ne sentirete l’accrescimento del prezzo. Il più che ubertoso raccolto del grano, e biade vi promette di dovere in quest’anno a vil prezzo godere i preziosi doni del Cielo, eppure sappiate, che alcuni Aristocratici, che per fortuna si trovano avere qualche piccolo avanzo d’entrata, si studiano di apprezzarlo esorbitantemente, sitibondi secondo il solito del sangue de poveri.

                            Non missura cutem nisis plena cruoris hirudo.

E voi vi lasciarete svenare, vi lasciarete cavare dalle vene il sangue, e non ne farete risentimento ? Nò, non lo credo.

(ASRSM, Atti Criminali, b. 703)

 

 

 Documento n° 5

 

                                                    Libello anonimo affisso in Borgo

 

Barbari Consiglieri, perché rapirci la nostra diletta Legge ?... Ah che indarno imploriamo da Voi. Care Leggi dunque noi vi rivedemmo solo per perdervi di nuovo ?... Tiranni Consiglieri dov’è la nostra Legge ? Crudeli ! per qual cagione a Noi la rendeste, se di nuovo la togliete agl’occhi nostri, per porla in mano a coloro, che con piede empio crudelmente la calpestano ? Oh ingiustizia esecrabile ! perché esaudirci ? perché ascoltare le nostre troppo giuste dimande ? Dio testimonio de nostri Voti, de nostri lamenti abbi cura de buoni ; spalanca le più cupe, e spaventose voraggini della Terra, ingoja i perfidi Ribelli nemici dello Sacrosanto Statuto, o scagli un Fulmine su dei medesimi, e termina in tal guisa la sceleragine . Ma viva il Dio di Pietro noi crediamo non lungi il giorno della vendetta. Trema il Tiranno. Intendiamo però sempre eccetuati quei pochi, che sono giusti.

                                   Cadrà frà poco il fulmine

                                     su del tuo Capo, allora

                                       terminaranno ancora

                                          le tue malvagità

                                    Che fin’a un certo terme

                                        viene da Dio sofferto

                                     quel Reo, ma poi è virtù

                                  che il fio ne pagherà.      

 

ASRSM, ATTI CRIMINALI, B. 703)                                                                                                                                                                                      

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Documento n° 6 

 

                                                                                                                  

  Notificazione

 

Il Popolo Sammarinese da 14 secoli godeva la sua quiete, libertà, ed eguaglianza secondo le leggi dei di lui Statuti, che non amettano l’Aristocrazia. Infino dalla metà del secolo presente però introdottosi l’abusivo titolo di Nobile si usurpava tutto il comando del Governo, non riservando per il resto del Popolo, che il solo nome, e la apparenza di Consigliere. Si conculcavano le leggi, si introducevano abusi si formavano decreti contrarj agli Statuti per ragirarli a capriccio dei desputi, solo l’opportunità dei bisogni. Ora il Popolo però, che si è accorto dell’inganno degli Aristocratici pretesi, ma hà reclamato con tutta l’umiltà, e nelle più circospette, e dovute forme avanti lo stesso Gle Consiglio quantunque avesse potuto altrimenti da se solo convocare l’Arringo Generale a norma dei suoi statuti per estirpare un simile abuso, chiede per tanto l’abbolizione dei decreti contrarj alli Statuti, la sopressione della sognata Nobiltà, e la perfetta osservanza delle leggi Statutarie. Per anche non è stata appagata la populara volontà, mà spera di rivedere ben presto ristabilito il suo antico Governo Democratico, essendosi anche alcuni Aristocratici dichiarati di volere volontariamente rinunciare a tale Aristocrazia abusivamente introdotta.

 

(Biblioteca di Stato della R.S.M.)

 

Documento n° 7

 

Articolo del Democratico Imparziale del 18-12-1797

 

    Repubblica di San Marino

Estratto di lettera di Fusignano 12 brinoso anno VI Repubblicano.

Sul principio del prossimo passato giugno il partito democratico avanzò un memoriale al Consiglio Generale, o sia al unione di sessanta persone, ove facevagli vedere che da mezzo secolo il popolo costituì questo gran Consiglio principe col patto di far l’arringo ogni sei mesi ed in altra necessaria occorenza, che il popolo perciò non è suddito sebbene sia oppresso da ruine e da mali originati dagl’aristocratici perpetui nemici del popolo, i quali s’erano usurpati titoli e comando lasciando ad esso le sole cariche d’apparenza, che le leggi erano violate dai decreti, contaminate dai giudizi perché regolati dal capriccio e dal privato interesse degli empi. Che il popolo era stanco d’essere oppresso, che voleva l’integrità delle leggi, la soppressione dell’aristocrazia, la consegna nelle mani de loro deputati del libro d’oro infamia dell’umanità, e del libro di quei decreti che hanno la giustizia oltraggiata, l’abolizione d’ogni distinzione fra i Capitani, il rendimento dell’amministrazione, onde sia noto perché sono esauste le casse, e la ragione de’ Consiglieri mancanti. In vigore di ciò fu fatto il seguente decreto

Avendo il Generale Consiglio presa ad esame una supplica in nome della Repubblica di S. Marino specialmente nei punti principali ordinò il seguente rendimento de conti nel termine di mesi due coll’elezione sul momento dei Consiglieri possibili per completare il numero dei 60 e colla espressione di volere in piena osservanza la legge statutaria. Dalla Sala del Consiglio 3 giugno 1797. A. Onofri Seg.

Questo decreto non piacque al Popolo. Presentò il susseguente Consiglio un nuovo foglio più espressivo e persuadente del primo perché protestava a nome di esso che avrebbe prese le armi per riacquistare i propri diritti. Egli ebbe molta attività perché il Consiglio venne alla seguente risoluzione :

Il Capitan Reggente ed il Gran Consiglio presa in considerazione la supplica avanzata in nome del Popolo e passati gl’arringhi tutti i membri nobili hanno rinunciato di buona voglia (piamente si crede) alla pretesa aristocrazia per mettersi a livello cogl’altri Cittadini. Saranno creati quattro revisori presso di cui saranno depositati i libri de pubblici conti unitamente al libro de’ decreti da cui verranno cancellati quelli che saranno contrari alla legge de nostri statuti. Dalla Residenza 12 giugno 1797. Antonio Onofri Segretario.

Il Popolo così fu quieto. Ma che ? I conti s’imbrogliano, gl’ex nobili andavano debitori di somme vistose. Cosa fan costoro ? S’appigliano al raggiro, alla calunnia, armi le più nobili della nobiltà, e fan sì che s’intimi un processo contro i Democratici come sollevatori del Popolo e nemici della pubblica tranquillità e quel che è più bello, di lesa maestà per aver dichiarato di voler impugnare le armi. Questo stile copiato dalle tracce del Senato Bolognese e dal Comitato Centrale Cispadano, che sono stati lo scandalo de popoli liberi, e l’esecrazione de’ liberatori, fece sì che alcuni di essi fuggissero, ma che molti altri restassero vittime della aristocratica perfidia. Sono essi ancora fra ceppi, le traccie de lor processi sono segnate da imposture, calunnie, studiate deposizioni di corrotti testimoni, molti nobili o del lor partito. Il scellerato Onofri col manto di democratico s’è preso l’impegno d’informare a suo capriccio i governi dell’Emilia per poter carpire un ordine che i riffugiati fossero consegnati al Governo di S. Marino. Ma quanto s’inganna questo pazzo. Io so che i Commissari Oliva e Monti sono stati di ciò informati, che essi conosceranno la perfidia di costui e che non permetteranno mai che questi perseguitati siano dati in balia dell’aristocratico furore.

Ecco, o Cittadini, il quadro luttuoso della vantata democratizzazione di S. Marino. E fin a quando dovrà regnare nell’Italia Repubblicana quest’orgia di scellerati nemici della umanità e della giustizia ? Quando sarà quel momento che si sventeranno i loro raggiri ? Io mi consolo che così esclamava ancora la Francia, ma che finalmente è venuto un 18 fruttidoro che ha operati prodigi.

 

(Il Democratico Imparziale o sia Giornale di Bologna, n. 49, Lunedì 18 dicembre anno I della Repubblica Cisalpina)

 

   

Documento n° 8

 

  Risposta di Antonio Onofri all’articolo del

Democratico Imparziale

San Marino 16 Nivoso 1797

 

Il Cittadino Antonio Onofri

al Cittadino Estensore del Foglio di Bologna appellato il Democratico Imparziale

  Ricevo da un amico nell’ordinario corrente il vostro foglio num. 49. Egli à creduto che m’interessi l’articolo che riguarda la mia Patria e la mia persona. Infatti doveva Egli ben credere che non potesse essermi indifferente di leggere il carattere che vi è piacciuto di farmi, ed i precisi colori coi quali mi dipingete. Vi confesso però che non ne ò provata pena alcuna sul riflesso che la vostra detrazione non toglierà alla mia fama niente più di quello che un vostro elogio saprebbe donarmi. Non già perché io non vi creda un onest’uomo ma perché forse deferite troppo ai vostri corrispondenti ; Tuttavia perché il silenzio per mia parte potrebbe essere interpretato per una impossibilità di rispondere, permettetemi ch’io vi dica che avanti di dare ad una persona il titolo di scellerato convien essere un po’ meglio informato dei fatti, e delle ragioni che lo caratterizzano tale. La sommossa di San Marino fù ben diversa da quella che voi decantate, e più che lo sforzo della Democrazia fù il principio di un’anarchia la più... Eccovi in compendio le loro mosse verificate da testimonj decisa, più assai che non ne abbisognano, e dalla loro stessa confessione. Il primo loro passo fù di attrupparsi in num. Di dieci o quindici, e d’impedire ad un buon cittadino della campagna di estrarre dal Territorio un carico di vino abbenche l’estrazione di questo genere fusse libera a tutti ; e non contenti di questo si fecero lecito esiggere da tutti i possidenti una nota esatta di tutto il vino che esisteva in Paese gettando a terra la porta di un mercante che ricusò di darli la chiave. In seguito s’impadronirono dei pubblici granaj e consegnarono a persona da loro deputata la chiave che riteneva il Ministro eletto dal Consiglio. Al principio di Giugno fecero una Rappresentanza al Consiglio in nome del Popolo senza ne sapesse nulla, e tra mezzo ad alcune giuste domande, che furongli accordate, dimenticando il rispetto dovuto alla Rappresentanza nazionale, in termini minacciosi toglievano al Consiglio la podestà di far le leggi in avvenire. In quell’occasione uno de’ capi fece intendere al Consiglio per mezzo di due suoi membri, che se non gli si accordava tutto non si sarebbe escito dalla Sala, e che le fascine erano pronte per darvi foco.

Fecero degli affissi incendiarj invitando la plebe a trucidare i possidenti sul riflesso che questi volessero fissare i prezzi dei generi di prima necessità.

Carcerato d’ordine del Tribunale un cittadino della Campagna per una querela criminale, un suo parente che era de’ sollevati si presentò alla Reggenza intimandoli che se non lo avessero subito rilasciato avrebbe in compagnia de suoi colleghi gettate a terra le porte delle carceri ed in tal guisa liberato.

In un giorno di fiera due di questi si fecero lecito di bastonare un soldato della campagna attualmente in uffizio, milantando che in altra fiera volevano comandar essi, e che non volevano villani. Ed al Comandante Generale che ne li sgridò, risposero con tutti gl’improperj i più vili. Uno di questi sollevati confessa ultroneam. Che i congiurati anno delle mire sanguinarie, e lo depone avanti il Gen. Chabot, che lo conferma in una sua lettera alla Rappresentanza della Repubblica di San Marino. Quest’associazione à un segretario che scrive una lettera ad uno dell’unione dando un modello di coccarda, che non era certo ne Francese ne Cisalpina. Tutte queste cose escono verificate da testimonj e dalle deposizioni de’ rei medesimi. ... dite Sig. Democratico imparziale : Vi pare questo lo sforzo della Democrazia, o non piuttosto il principio dell’anarchia e della sfrenatezza la più aperta. Non dovete ignorare che i Cittadini non ponno esercitare i loro diritti politici se non nelle Assemblee primarie, o comunali. Che niuna particolare associazione può fare a nome del Popolo petizioni o rappresentanze, e molto meno arrogarsi la qualificazione di Popolo Sovrano. Che ogni attruppamento deve essere dissipato. Che le proprietà debbono essere rispettate. Che i petizionari non debbono mai dimenticare il rispetto dovuto alle autorità costituite. Se vi foste prima informato della verità de’ fatti, voi non sareste incorso nella taccia di calunniatore e non avreste prodigati sfrontatamente degli epiteti ingiuriosi che infine ricadono sovra di voi poiché chi dà una taccia indebitamente, la incorre. Informandovi avreste potuto, per esempio, sapere qual’era la pubblica opinione riguardo all’aristocrazia di San Marino. Che presso di noi non ci è stato mai libro d’oro. Che i Deputati delle Conversazioni nobili non davano accesso nelle loro società ai Cittadini di Sanmarino. Che una Dama di una Città perdeva tutti i suoi diritti magnatizj sposando un Sammarinese. Che l’inquisitore del S. Uffizio di Rimino non permise la stampa di un Sonetto perché i Cap. Regg. Erano qualificati col titolo di Eccellenze, e mille altre cose di tal fatta. Quanto alla qualità de sollevati che due di essi eransi uniti ai sollevati della montagna contro i Francesi e che uno di questi punito dalla Repubblica fù rimesso in grazia per l’interposiz. Del Gen.le Sahuguet. Che la maggior parte di coloro sparlava apertam. della nazion francese cotanto benemerita della nostra Repubblica.. Quanto a me certam. che io non ò saputo approvare le mosse di quelli, che voi chiamate partito democratico, e che meglio avreste appellato anarchico. La qualità delle persone che lo animavano bastava a renderlo sospetto. Un Prete, varj chierici, e il piviale del Vescovo erano i mantici occulti di questa sollevazione. Doppo la sacra congiura dell’Alberoni contro la mia Patria associazioni di tal fatta non ponno non essermi estremamente sospette.

 

(As Rsm, Atti del Comitato di P.S. e Vig. e del Congresso deputato per gli affari relativi ai Francesi, busta 61)  

 

Documento n° 9

 

Richiesta di annessione alla Cisalpina

 

Cittadino Ministro

 

Il Popolo della Repubblica di S. Marino, oppresso ormai dal suo consiglio composto d’un numero di decisi aristocratici che si fanno nominare col titolo di nobili ; vedendo calpestato dai medesimi La sua antica, e Democratica Costituzione vedendosi spogliare Le pubbliche Casse non sicure le persone ed in somma sotto un giogo d’oligarchi che non conoscono che la Legge di saziare il suo Egoismo, e la sua ambizione e che distruggono qualunque diritto di patto sociale si risolve rivolgersi a voi, Cittadino Ministro, per domandarvi La vostra mediazione, acciò potere riacquistare quella Libertà che à goduto, e che l’ha fatto felice p. 14 secoli.

Dopo che un Popolo Liberatore della miglior parte d’Europa à vinto e distrutto i suoi nemici, dopo che la miglior parte d’Italia a ricevuto da questo una rigenerazione Politica, e che à reso ai Popoli quei veri diritti che caratterizzano il Cittadino, qual sarà mai quell’individuo che nato di sangue libero, potrà giacere sotto l’oligarchia la più tirannica chi non voleva, se non i despoti, p. concorrere al compartimento dei beni che il Popolo Cisalpino a luogo di sperare dalla sua libertà. Ove sarà quel vero cittadino sammarinese, che non desideri la riunione del suo Paese ad un popolo che la sua carriera politica lo porta a delle future glorie infinite. Ove si troverà colui, se non qualche schiavo di questi despoti, che se non frema nel vedere la carcerazione di quei buoni cittadini che richiamati dai diritti costituzionali, osarono dimandare ai despoti medesimi il rendimento di Conti p. le Casse pubbliche già usurpate e vuotate. Questi bravi e buoni cittadini rinchiusi in una torre stanno aspettando dai loro fratelli Sammarinesi quel voto che già è formato in tutti i cuori p. l’oppressione dei tiranni. Le forze di questo piccolo popolo, veruna speranza possono prestare ai suoi giusti desideri ; Tutta è riposta nel vostro Patriottismo, cittadino Ministro, acciò vogliate sottoporre al Direttorio Esecutivo della Repubblica Cisalpina, il desiderio, ed il voto generale di un Popolo che domanda unanimamente la riunione del suo territorio alla medesima. Immitatore il Governo Cisalpino della madre dei Popoli, della rigeneratrice delle fertili contrade della Lombardia, in portare la libertà a coloro che la dimandano, sperano tutti i Cittadini Sammarinesi, che presto potranno gloriarsi di far parte pur loro dell’Italica Repubblica, tornando così nuovamente a godere di quella libertà, e di quei diritti che per tanto tempo sono stati risguardati sacri nel piccolo recinto di S. Marino.

                                       Salute e rispetto               

 

         Firmati :

Giuseppe Moracci, Pietro Casali, Marino Fazzini, Giuseppe Forsani, Francesco Martelli, Arcisio Giangi, Gaetano Bevilacqua, Marino Balsimelli, Vincenzo Belzoppi, Gio. Dom.co Frangioni, Marino Mafioli, Pier Marino Guidi, Giovanni della Muratora, Michele Martelli, Vincenzo Farnesi, Giuseppe Bruschi, Marino Casali, Vincenzo Martelli.

 

(La lettera è riportata in : G.B .CURTI PASINI, Ricerche sui rapporti della Repubblica di San Marino con i governi napoleonici in Italia, San Marino 1940. L’autore l’ha ricavata dall’Archivio di Stato di Milano.)

 

                                              NOTE

[1] Cfr. C. BUSCARINI,  Il governo oligarchico e gli avvenimenti politici del 1797 nella Repubblica di San Marino, San Marino 1972 ; P. FRANCIOSILa Repubblica di San Marino durante il periodo napoleonico, Imola 1912 ; AAVV, L’avvento dell’era moderna a San Marino, San Marino 1990, P. BOSCHI,  La Repubblica di S. Marino durante la rivoluzione e l’impero francese, Torino 1894, G. B. CURTI PASINI, Ricerche sui rapporti della Repubblica di San Marino con i governi napoleonici in Italia, San Marino 1940, P. ROSSINI, Un secolo di vita sammarinese 1748-1848, San Marino 1938, P.P.GUARDIGLI, L’oligarchia sammarinese e l’Illuminismo, e La Rivoluzione francese e Napoleone. Le ripercussioni a San Marino, in AAVV, Storia illustrata della Repubblica di San Marino, San Marino 1985, vol. 1.

[2] ARCHIVIO DI STATO DELLA REPUBBLICA DI SAN MARINO (ASRSM), Atti Criminali, b. 703

[3]ASRSM, Atti Criminali, b.703.

[4]ASRSM, Atti Criminali, cit., deposizione del 22 agosto 1797.

[5] E’ quanto capitò a Marino Capicchioni, per esempio, che venne offeso e minacciato di venire schiaffeggiato perché non aveva voluto sottoscrivere la prima petizione degli insorgenti (deposizione del 21 agosto 1797).

[6] ASRSM, Atti Criminali, cit., deposizioni di Ippolito Ceccoli e Pietro Casali rilasciate il 22 agosto 1797.

[7] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. II, n° 33, seduta del 3 giugno 1797.

[8] Cfr. P. ROSSINI, op. cit. ; C. MALAGOLA, Un ignoto episodio della storia sammarinese : il blocco del 1786, in Inaugurazione del nuovo palazzo del consiglio principe sovrano, San Marino 1894. Le carte processuali sono in ASRSM, Atti Criminali, b. 695.

[9] Atti Criminali, cit., deposizione del 2 novembre 1797, c. 427 e segg.

[10] Ibid., deposizione dell’11 settembre 1797, c. 162 e segg.

[11] Alcuni capi della mossa popolare erano armati, ed altre armi ancora avevano preparato in casa di Giovanni della Muratora, nei pressi del palazzo pubblico. Inoltre Michele Martelli aveva  gridato ai consiglieri che erano pronti a dar fuoco al palazzo con delle fascine che erano accatastate ai suoi piedi se non avessero accettato le loro richieste. Cfr. Atti Criminali, cit.

[12] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, seduta del 12 giugno 1797.

[13] Atti Criminali, cit., deposizioni varie.

[14] Atti Criminali, cit., deposizione del 15 settembre 1797, c. 194 e segg.

[15] Ibid., deposizione del 2 novembre 1797, c. 427 e segg.

[16] Ibid., deposizione del 28 agosto 1797, c. 79 e segg. I disegni, colorati a mano, sono allegati come prove all’interno degli atti processuali. Sono stati riprodotti all’interno di un mio articolo su Napoleone pubblicato nella rivista L’Ospite, anno X, n° 10, marzo 1997, p. 39.

[17] Atti Criminali, cit., Il piano Bertola nella sua stesura originale è a c. 450.

[18] Atti Criminali, cit., Memoria scritta di Bertola datata 8 novembre 1797 ; c. 451 e segg.

[19] Ibid., deposizione del 27,28 ottobre 1797 ; c. 384 e segg.

[20] Ibid.

[21] P. ROSSINI, op. cit.

[22] P. FRANCIOSI, op. cit.

[23] C. BUSCARINI, op. cit.

[24] Atti del Consiglio Principe, cit., seduta del 25 giugno 1797.

[25] Atti del Consiglio Principe, cit.

[26] ASRSM, Atti del Comitato Pubblica Sicurezza e Vigilanza e della Congregazione Deputata sugli affari relativi ai Francesi dal 1797 - 29 giugno, al 22 ott., b. 61.

[27] Atti del Comitato Pubblica Sicurezza e Vigilanza, cit.

[28] Atti Criminali, cit.

[29] Atti del Comitato Pubblica Sicurezza, cit.

[30] Ibid.

[31] Atti del Consiglio Principe, cit., seduta del 29 luglio 1797.

[32] Atti Criminali, cit., c. 53 e segg.

[33] Atti del Comitato Pubblica Sicurezza, cit.

[34] Atti Criminali, cit. Si veda in particolare la deposizione di Francesco Martelli, c. 384 e segg.

[35] Atti Criminali, cit., Atti del Comitato Pubblica Sicurezza, cit.

[36] E’ riprodotta in G. B. CURTI PASINI, op. cit. La lettera era firmata da : Giuseppe Moracci, Pietro Casali, Marino Fazzini, Giuseppe Forsani, Francesco Martelli, Arcisio Giangi, Gaetano Bevilacqua, Marino Balsimelli, Vincenzo Belzoppi, Gio. Dom. Franzoni, Marino Mafioli, Pier Marino Guidi, Giovanni della Muratora, Michele Martelli, Vincenzo Farnesi, Giuseppe Bruschi, Marino Casali, Vincenzo Martelli.

[37] Atti Criminali, cit., c. 340 e segg.

[38] Ibid.

[39] Atti del Consiglio Principe, cit.

[40] C. BUSCARINI, op. cit.

[41] Atti Criminali, cit.

[42] Atti del Consiglio Principe, cit. La richiesta di perdono è pubblicata in V. CASALI, Il delitto Bonelli, San Marino 1992, p. 82.

[43] P. FRANCIOSI, op. cit., C. BUSCARINI, op. cit.

[44] Atti del Consiglio Principe, cit.

[45] E’ pubblicato in P. BOSCHI, Antonio Onofri e le sue ambascerie, Torino 1894, doc. V, ed anche in V. CASALI, Il delitto Bonelli, cit., pp. 82-85.

[46] Negli atti processuali è verbalizzato che per un certo periodo la mossa  riuscì anche nell’intento di abbassare il suo costo, imponendogli un prezzo massimo di tre baiocchi al boccale, cifra inferiore a quella con cui era venduto nel circondario.

[47] Atti processuali, cit., deposizione del 25 agosto 1797, c. 60 e segg.

 

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