Pane, vino e ribellione
nuovi apporti storiografici
sull’insurrezione
del 1797
I fatti di cui
si sta per parlare sono nelle loro linee generali già ben noti,
essendo stati in passato ripetutamente sottoposti ad analisi e
commenti, a volte arricchiti di nuovi dettagli, da tutti gli
studiosi che hanno trattato della storia contemporanea sammarinese.
Tuttavia il presente saggio nasce da un nuovo importante e corposo
documento che ho potuto reperire presso l’Archivio di Stato della
Repubblica di San Marino, documento mai prima utilizzato da altri,
che permette di integrare le informazioni risapute contribuendo così
ad una conoscenza ancora più dettagliata dell’importante fatto
storico : l’incartamento processuale relativo al procedimento
giudiziario a cui vennero sottoposti i rivoltosi del 1797, ovvero i
cosiddetti giacobini che contestarono con irruenza il governo
sammarinese in quel frangente. Il voluminoso fascicolo, composto da
quasi mille pagine manoscritte, elenca in maniera
certosina un nugolo di testimonianze di coloro che vennero
direttamente o indirettamente coinvolti nella faccenda, e contiene
parecchi documenti scritti, affissi in pubblico e fatti circolare
tra la popolazione dagli insorgenti per divulgare le loro
idee ed i loro propositi.
La nuova documentazione reperita non stravolge in verità più di
tanto l’evoluzione della vicenda rispetto a quanto già è
conosciuto; tuttavia permette indubbiamente di eliminare qualche
perplessità e di colmare diverse lacune sull’articolato avvenimento,
fornendo maggiore chiarezza e più notizie su un insieme di fatti
che, ne sono persuaso, potranno essere indagati ed
interpretati ancora a lungo come cardini della contemporaneità
sammarinese.
I
Tutto iniziò per colpa del
pane e del vino. Nell’aprile del 1797 venne presentata
ai nuovi Reggenti Giuliano Belluzzi e Girolamo Paoloni
un’istanza d’arengo in cui si chiedeva di migliorare la qualità del
pane, che da un po’ di tempo non aveva un gran sapore, e di impedire
l’esportazione di vino fuori confine per evitare di ridurne le
scorte, e conseguentemente di vederne lievitare il prezzo.
Nonostante le assicurazioni fornite dai Reggenti di impegnarsi in
prima persona affinché la petizione andasse a buon esito, nel mese
di maggio ancora non erano stati presi provvedimenti in merito, per
cui i petizionari cominciarono a mormorare sempre più contro il
governo, reo di essersi dimostrato del tutto indifferente difronte a
quelle che consideravano legittime richieste di onesti cittadini
preoccupati del bene di tutti i Sammarinesi.
Le proteste
cominciarono a svilupparsi particolarmente nelle bettole di Borgo,
dove si ritrovavano saltuariamente per bere e giocare a carte gli
artigiani del paese ed anche qualche contadino. C’è da sottolineare,
però, che la contestazione inizialmente scaturì da scalpellini,
muratori, sarti, e da qualche letterato privo di incarichi politici
e di impegni a livello consigliare; solo in un secondo momento
coinvolse i contadini, protagonisti involontari di un fenomeno di
cui non potevano forse capire del tutto la portata.
Un giorno
Giuseppe Moracci, uno dei petizionari, si accorse che presso la
cantina Filippi in Borgo alcuni forestieri avevano comperato del
vino e lo stavano caricando sul loro carro col chiaro intento di
portarlo fuori confine. Subito si diede da fare per trovare qualcuno
che lo aiutasse ad impedire un tale fatto : reperì con facilità e
velocemente parecchi compagni decisi come lui a tenere il vino in
Repubblica. Tutti insieme si recarono da Mazzasette, il
cantiniere di Filippi, e con metodi bruschi e minacciosi si opposero
alla vendita del vino, obbligando i forestieri a riportare
all’interno del locale quello che già avevano caricato sul loro
mezzo. Subito dopo fecero l’inventario di tutto il vino disponibile
presso la bettola, poi si mossero compatti verso le altre cantine
del Borgo per svolgere lo stesso tipo di controllo ed elencazione. I
cantinieri all’inizio opposero qualche resistenza perché reputavano
quell’azione del tutto illegittima ed arbitraria, nonché prepotente,
come ebbe a dichiarare qualcuno. Ma il gruppo dei rivoltosi era
assai deciso, tanto che arrivò a buttare a terra con violenza la
porta della cantina Belzoppi perché il gestore si era
rifiutato di aprirgliela : naturalmente quest’atto fece in modo che
tutti diventassero molto più collaborativi e disponibili a
soddisfare le richieste di Moracci e degli altri che lo
spalleggiavano.
Verificato e
registrato il vino presente in Borgo, la comitiva, sempre concorde,
si portò presso l’abitazione del Reggente Belluzzi con l’intenzione
di consegnargli l’inventario compilato, nonché per esortarlo di
nuovo ad intervenire tangibilmente nella faccenda. Belluzzi prese
atto dell’accaduto, ma non volle ritirare l’elenco del vino.
Assicurò tuttavia che avrebbe fatto del suo meglio per risolvere il
problema, salvare il vino sammarinese e calmare gli animi. Con ciò
si concluse il primo episodio della mossa popolare, come
venne successivamente definita da tutti, e la brigata si sciolse.
II
Sicuramente
quest’episodio, capitato in un giorno imprecisato di maggio, fu
all’origine di quanto successe in seguito. Dagli atti processuali
non emerge con chiarezza se il gruppo che si formò per bloccare
l’esportazione di vino si fosse già in precedenza organizzato per
intervenire all’occorrenza, o se si componesse occasionalmente,
stimolato da quanto stava accadendo nella cantina di Mazzasette.
L’impressione che ho avuto leggendo l’insieme delle testimonianze e
cogliendo quel poco che alcuni degli inquisiti dichiararono in
merito, è che una sorta di unione tra i più polemici nei confronti
del governo era già avvenuta fin dalla presentazione in aprile
dell’istanza d’arengo relativa al pane ed al vino, e si era
consolidata nei giorni successivi vedendo che la loro supplica
non aveva prodotto effetti, perché proprio alcuni di questi
petizionari saranno coloro che si porranno arrabbiati e risoluti
alla testa del moto. Ancora prima dei fatti appena narrati, dunque,
costoro avevano raggiunto una sorta di comunione d’intenti che li
aveva portati ad agire compatti appena ne avevano avuto
l’occasione, ed a svolgere con sospetta celerità un’opera di
proselitismo tra conoscenti ed amici per dar la massima forza
possibile, ed una legittimazione popolare, all’azione intrapresa.
La loro seconda
iniziativa fu proprio quella di riunire un insieme di
uomini decisi a volere il miglioramento della qualità del pane,
pronti ad evitare l’esportazione del vino, desiderosi di mettere
un buon ordine nel governo, come ebbe a dichiarare al giudice
inquirente uno dei capi della sommossa, Ippolito Ceccoli.
L’iniziale richiesta di natura puramente alimentare, quindi, venne
arricchita da altri elementi, e si trasformò senza indugio in
critica apertamente politica nei confronti del governo, ritenuto
responsabile di avere snobbato, per aristocratica boria, una
petizione la cui esecuzione avrebbe dovuto essere immediata per
l’utilità che l’intero paese ne avrebbe potuto trarre. Vedremo che
sussistevano rancori personali e di altro genere nei confronti dei
principali governanti pure prima dell’arengo di aprile : anche
questi ovviamente ebbero un certo peso nell’alimentare la fiammella
che si stava accendendo. Comunque subito dopo aver inventariato il
vino del Borgo il gruppo, che era composto da una ventina di uomini,
decise di sottoscrivere un’altra petizione, sempre riguardante il
pane ed il vino, da presentare al governo. Non è chiaro se già
all’interno di questa petizione venissero avanzate richieste di
altra natura. La reticenza di molti testimoni e l’ignoranza di
altri, che praticamente si trovarono coinvolti in una contestazione
politica mentre si erano impegnati solo per appoggiare una richiesta
di natura alimentare, o comunque non antigovernativa, non permette
di capire a fondo quanta improvvisazione e quanta
premeditazione vi fosse nel portare avanti un piano politico
prestabilito. La seconda istanza venne sottoscritta da tutti coloro
che avevano assaltato le bettole e, nei giorni successivi, da altri
esplicitamente indotti a farlo da chi si era messo a capo della
mossa, ovvero Pietro Casali, sarto del Borgo, Ippolito Ceccoli,
anch’egli sarto del Borgo che lavorava nella stessa bottega di
Casali, Marino Balsimelli, scalpellino di Città, i fratelli Michele
e Francesco Martelli, muratori delle Piagge, Ubaldo Biordi,
contadino di San Giovanni, e Giuseppe Moracci che all’inizio, finché
la faccenda riguardò solo il pane ed il vino, fu senz’altro il più
attivo di tutti. Dandosi molto da fare, ed arrivando a trattare
anche male chi non se la sentiva di aderire alla loro iniziativa,
costoro riuscirono a raccogliere in breve un centinaio di aderenti
che sottoscrissero una nuova istanza da presentare, questa volta
direttamente, al Consiglio. Sempre negli ultimi giorni di maggio l’unione,
come ormai si era battezzata, tornò a riunirsi un’altra volta, pare
in casa di Ceccoli, per sottoscrivere una sorta di patto di sangue e
di reciproca fedeltà : chi si fosse dissociato, o avesse voluto
uscire dal gruppo, sarebbe stato immediatamente fucilato, o meglio
moschettato.
Si arrivò così al
3 giugno, giorno previsto per la riunione del Consiglio. I capi
dell’unione per dar consistenza numerica al loro tumulto
istigarono a recarsi sul Pianello tutti i sottoscrittori del foglio,
e quanti incontravano per strada. Alla fine, prima che i consiglieri
entrassero nel Palazzo Pubblico, si ritrovarono in buon numero:
Pietro Casali, che probabilmente li contò, disse in 88. A questo
punto Francesco Martelli consegnò la petizione nelle mani di Matteo
Martelli e Marino Bertoni, due consiglieri, mentre Ippolito
Ceccoli, che lo affiancava, teneva in mano lo statuto dicendo a
Deputati, che nel Foglio v’erano i punti che volevamo, e che nello
Statuto v’era la Legge, che si doveva osservare e che aspettavamo il
Rescritto senza muoverci dal Pianello, come dichiarò in seguito.
Ma qual era il contenuto dell’istanza ? In pratica i petizionari
accusavano i governanti di aver seriamente compromesso nell’ultimo
secolo quella tranquillità interna della Repubblica che da tempi
immemorabili la caratterizzava. Alla democrazia era stata sostituita
la tirannia e le gloriose leggi su cui era stato fondato lo stato
sammarinese erano state violentate ed accantonate con l’inserire
decreti del tutto contrari all’originario spirito repubblicano che
le permeava. Era stato poi creato assurdamente un ceto nobile,
responsabile dei maggiori guai di San Marino, ed in più si
avanzavano forti sospetti sulla regolarità della pubblica finanza, e
sull’onestà dei pubblici amministratori. Ma ora i tempi erano
cambiati, ed i Francesi avevano mostrato al mondo che la nobiltà
andava abolita perché non aveva più senso. Ispirati dunque ai
nuovi princìpi del momento gli insorgenti reclamavano la
perfetta osservanza dello Statuto, l’abolim. di tutti i decreti, che
non sono contenuti nelle Rub. dello Statuto, l’annichilim.
dell’introdotto lib. d’oro, e che le provide determinazioni del sud.
Statuto non possino essere derogate senza il pub. consenso del Gen.
Arringo. Inoltre il Consiglio doveva essere composto sempre da
60 membri, come specificava lo statuto, le cariche pubbliche non
dovevano essere riservate solo ai nobili ma a tutti, i pubblici
amministratori dovevano rendere conto periodicamente della loro
gestione, ed altro ancora. Chi dimostrerà avversione alle nostre
pretenzioni, darà un segno evvidente di essere ribelle alla Patria
- sottolinearono - Abbiamo voluto in iscritto esporre le nre
dimande a solo fine di osservare le leggi, che dicono : Che tutti i
Capi di Famiglia della nra Rep. come che democratica abbiano jus di
appresentarsi al pub. Arringo, e che in tempo dello stesso nessuno
possa fare sussurri, prevedendo adunque che chi avesse esposto al
pubb. Arringo cod.a nra volontà ne sarebbe nato un qualche
bisbiglio, abbiamo voluto evvitarlo con esporre soltanto al pubb.o
Gen. Cons. Principe la nostra ben giusta volontà, al quale come si
disse consegnò una volta tutte le faccoltà il Popolo Repubblicano.
(cfr. Appendice 1)
Come si può
constatare direttamente dal documento riportato, nell’istanza non vi
è più traccia del pretesto che aveva permesso ai capi della
mossa di attirare alla loro causa tanta gente (in
particolare contadini analfabeti che avevano sottoscritto la
petizione con una croce), cioè la richiesta relativa al pane ed al
vino. La questione era divenuta esclusivamente politica: si volevano
prioritariamente riforme politiche, perché forse si pensava che le
migliorie di natura più tangibile sarebbero avvenute in seguito come
necessaria e logica conseguenza. E’ anche probabile, come le
deposizioni processuali di qualche contadino coinvolto permettono di
supporre, che al ceto rurale la polemica venisse presentata nella
sua veste più cruda e comprensibile, evitando in tal modo
deliberatamente di manifestare i risvolti politici della faccenda
per non spaventare nessuno (un attacco al Principe nelle sue
funzioni istituzionali per menti semplici doveva sembrare qualcosa
di folle), ed avere quindi la maggiore adesione possibile alla causa
riformista.
Il Consiglio
comunque stabilì di rendere i conti entro due mesi e di voler la
piena osservanza dello statuto; elesse subito sette nuovi
consiglieri per colmare i posti vacanti.
Queste risoluzioni vennero immediatamente comunicate ai minacciosi
membri della mossa ancora stazionanti all’esterno del
Palazzo Pubblico : costoro rimasero tanto felici dell’esito avuto da
portarsi in massa alla vicina Pieve al grido di Viva San Marino
per ringraziare immediatamente il santo protettore della comunità,
al cui aiuto si doveva di certo la felice conclusione della vicenda.
Ma ben presto
l’entusiasmo si trasformò in delusione e rabbia : al ritorno della
Pieve, sempre nei pressi del Pianello, il gruppo incontrò Marino
Fazzini, un chierico che aveva partecipato alla stesura
dell’istanza, il quale, dopo aver letto la risoluzione consiliare,
disse molto esplicitamente ai Martelli ed agli altri : Vanno
coglionato ; questo Rescritto non è buono da niente. Il gruppo
in un primo momento non recepì più di tanto il messaggio e proseguì
in allegria fino al Borgo, dove si sciolse. Ma il parere di Fazzini,
suffragato da quello di altri uomini di lettere del paese consultati
il giorno successivo, fece capire ai capi della mossa che la
loro era stata solo una vittoria mutilata da cui avevano ricavato
ben poco, praticamente solo promesse tutte da verificare. Si venne
inoltre a sapere che quattro dei sette neo-consiglieri eletti
il 3 giugno non avevano l’età prevista dallo statuto per poter
ricoprire tale carica, per cui, nonostante l’assicurazione di voler
osservare scrupolosamente le norme statutarie, i consiglieri avevano
fin da subito fatto vedere che in fondo si sentivano autorizzati di
fare come volevano. L’unione ovviamente si sentì presa
in giro, e gli animi cominciarono ad entrare in ebollizione.
III
Nei giorni seguenti gli uomini della
mossa con la rabbia nel cuore incominciarono a contestare
apertamente e senza mezzi termini il governo sammarinese. Iniziarono
a circolare per il paese satire e libelli che
criticavano astiosamente i consiglieri, tra cui il polemico
Discorso al popolo sammarinese che riproduco in appendice (doc.
n° 3), e le bettole del Borgo divennero i luoghi dove sostenersi ed
infiammarsi a vicenda.
Vi era già
rancore nei confronti dei Signori, cioè del ceto nobile, per
alcuni fatti poco chiari accaduti qualche anno prima e su cui non si
era mai fatta (o forse non si era mai voluto fare) luce del tutto.
Nel febbraio del 1782 erano stati assassinati infatti a pugnalate
Virginio Lolli e la sua serva, pare per derubare del denaro dalla
casa del Lolli che era un vecchio avaro che prestava soldi ad
interesse. Nello stesso anno era stato scoperto un giro di monete
false fabbricate a San Marino da un certo Francesco Giurovich, esule
di Zara che si era rifugiato un paio di anni prima in Repubblica
proprio per sottrarsi ad una imputazione di fabbricazione e
spaccio di denaro falso. La voce popolare aveva attribuito subito
l’omicidio ad alcuni nobili rampolli del paese, ovvero a Francesco
Manenti, Alessandro e Claudio Belluzzi e Giuseppe Belzoppi, quattro
amici a corto di denaro e con qualche debito, ai quali l’omicidio
sarebbe servito per sistemare le proprie finanze. Ugualmente si
diceva che Giurovich, nel portare a termine la sua azione illegale,
avesse ricevuto l’aiuto di altri individui, tra cui alcuni
componenti dell’oligarchia ai vertici del paese. Don Gaetano Angeli,
l’accusatore più pugnace degli oligarchi, aveva sparato a zero sul
governo incolpandolo di non voler scoprire i complici del falsario,
mentre il Reggente nobile Begni aveva esercitato pressioni affinché
venissero sospese le indagini in merito per evitare eccessivi costi
alle casse pubbliche.
La vicenda è
complessa e, da quanto ho potuto verificare tramite un sommario
esame delle carte processuali, meriterebbe di essere ristudiata a
fondo, anche se alcuni studiosi hanno già scritto in merito qualche
pagina.
Tuttavia in questa sede è importante soprattutto sottolineare che
già da quei fatti era certamente nato un mormorio risentito verso
chi era ai vertici del paese, verso i Signori cioè, che tutto
potevano senza dover rendere conto a nessuno, e per questo erano il
bersaglio prediletto di chi non godeva di un proprio spazio
all’interno dell’elite governativa. L’aria riformista
importata in Italia dalle truppe napoleoniche fece il resto,
rispolverando vecchie ruggini nascoste, ma non annichilite. Tra
l’altro per l’omicidio Lolli era finito in un primo momento
ingiustamente in carcere anche Giuseppe Moracci, colui che con
l’istanza sul pane ed il vino era stato l’iniziatore di tutto. E’
chiaro che in una piccola e per nulla acculturata realtà politica di
provincia ben difficilmente si poteva dar origine a sconvolgimenti
e mosse popolari se gli eventuali stimoli ideologici che
potevano starvi alla base non si allacciavano a motivi concreti
(il pane ed il vino) e a risentimenti personali. Anche in questo
caso, come nel delitto Bonelli del 1853 o nell’arengo del 1906, si
assiste alla fusione di queste tre indispensabili componenti
polemiche, e quindi allo sviluppo di un fenomeno del tutto abnorme
per la storia del piccolo Stato, tanto abnorme da sfuggire al
controllo ed alla stessa comprensione della maggior parte dei suoi
principali protagonisti.
La petizione che
doveva essere presentata al Consiglio del 3 giugno conteneva nella
sua stesura iniziale anche precisi riferimenti ai fatti riguardanti
Giurovich e Lolli, almeno stando alla deposizione di uno dei capi
della mossa, Marino Balsimelli.
Egli, fatti alcuni mesi di carcerazione, in data 2 novembre 1797
dichiarò che, dopo aver portato insieme agli altri la nota con
l’inventario del vino al Reggente Belluzzi, il quale a parole si era
dimostrato simpatizzante per la causa dell’Unione dicendo
loro che non si volevano rendere i conti, quantunque vi fossero
più risoluzioni in Consiglio, si decise di inoltrare una
petizione al Consiglio del 3 giugno; Francesco Martelli si prese la
briga di farla preparare da persone di sua fiducia. Dalla
deposizione dello stesso Martelli raccolta dal giudice in data 11
settembre
risulta che autori di questo primo scritto furono don Vincenzo
Rossini e il chierico Marino Fazzini. In seguito questa istanza
venne presentata al gruppo di contestatori in una riunione in casa
di Ippolito Ceccoli, e tutti ne rimasero contenti. Fu
successivamente mostrata anche a Francesco Tini che criticò i toni
polemici in essa contenuti, ed invitò a moderarla togliendo i
riferimenti all’omicidio Lolli ed all’affare Giurovich. Quindi la
prima petizione avrebbe dovuto essere più caustica di quanto alla
fine non fu, ma si preferì attenuarne i toni evitando le
insinuazioni gratuite e non sufficientemente suffragate da
documentazione, e limitandosi a chiedere riforme basate
esclusivamente sullo statuto; si pensava così di togliere
probabilmente i pretesti a cui potevano attaccarsi i consiglieri per
non concedere nulla.
Tuttavia le
risoluzioni del Consiglio del 3 giugno furono quelle che sappiamo ;
qualcuno dovette dunque pentirsi di avere usato tanta misura per
raccogliere solo frutti così acerbi. Si decise dunque di proseguire
la protesta abbandonando i toni morbidi, e mostrandosi oltremodo
risoluti a pretendere quanto era fuor da ogni dubbio giusto,
ovvero un ritorno senza condizioni e senza compromessi allo statuto.
Dopo il 3 giugno, quindi, gli uomini dell’Unione si diedero
da fare per organizzare un altro Consiglio, e per sensibilizzare il
maggior numero possibile di concittadini alla questione per cui
stavano prodigandosi. Un secondo scritto assai più risoluto del
primo fu elaborato, pare sempre da Rossini e Fazzini che divennero
in questo modo le menti e gli intellettuali dell’Unione, e
venne inoltrato al Consiglio riunitosi il 12 giugno.
L’inconcludente rescritto dal Gle Consiglio emanato, diceva,
come che fa vedere l’incuria di ascoltare le giuste voci del Popolo,
è stato un maggiore incentivo per proclamare di nuovo avanti il med.
Gle Consiglio. In sintesi gli uomini della mossa,
presenti sul Pianello questa volta in 63, si dichiaravano
profondamente insoddisfatti di quanto concesso dal precedente
Consiglio, e di non essere per nulla appagati da un rescritto
così ristretto come quello che avevano ricevuto in tale
occasione. Essi invece volevano innovazioni sostanziali, e chiarezza
assoluta sulle deliberazioni che il Consiglio avrebbe preso. Erano
sette le riforme che pretendevano :
1 - L’abbolizione dei
decreti.
2 - La sopressione
dell’abusivamente introdotta Aristocrazia.
3 - Che abbiano il suo giro
le cariche, e le incombenze pubbliche.
4 - Il consenso del Gle
Aringo per derogare, o formare un qualche decreto dello Statuto,
altrimenti questo istesso Aringo si convocherà a norma degli
Statuti, e si stabilirà tutto ciò, che
si volesse essere dipendente dal Pubb. Genle Consiglio.
5 - La consegna sul momento
del libro d’oro, e del libro de decreti in mano del Popolo.
6 - Che si levi ogni
distintivo frà i due Capitani introdotto, quando che ambi due sono
eguali dovendosi però la precedenza al più meritevole o per
anzianità, o per dottrina, e non per condizione o per pretenzione di
grado, come sapiamo aver praticato gli antenati, che davano la
preferenza ai più dotti, o ai più anziani.
7 - Osservanza
perfetta dello Statuto, e insomma la riforma di tutti gli abusi
introdotti, quali ora non sovvengono, mà che coll’andare del tempo
saranno scoperti, e in conseguenza evitati.
Dunque una serie
piuttosto profonda di innovazioni, anche se apparentemente potrebbe
sembrare che gli insorgenti non chiedessero niente di
speciale rispetto a quanto già esisteva codificato nella
legislazione e nella leggendaria (ma non si sa quanto veritiera)
tradizione democratica sammarinese. In realtà erano richieste alte
quelle avanzate al Consiglio, perché andavano contro una
logica elitaria che da sempre contraddistingueva la cultura politica
in generale, e nello specifico il governo locale, logica che lo
aveva portato ad assumere la veste di Principe, come
pomposamente, ma anche coerentemente, si definiva. Un principe
capace di sottomettersi alla presunta democrazia di cui gli statuti,
le norme, le consuetudini locali erano in qualche modo una parziale
e teorica garanzia era un controsenso per l’epoca, una pazzia per la
mentalità dominante. Da qui le ostilità verso la mossa, e la
reticenza nel concedere a bottegai ed artigiani quanto da un
punto di vista puramente formale era forse legale, ma che per
i costumi del tempo e la cultura della classe padrona del paese
doveva suonare del tutto assurdo, temibile e pericoloso per la
stabilità del paese e per la sua plurisecolare e mitica
indipendenza.
Tra l’altro vi
erano sicuramente dei problemi concreti da risolvere per poter
aderire alle richieste degli insorgenti, primo fra tutti
l’impossibilità di ricostruire i conti pubblici e rendere
trasparenti i bilanci, vista la gestione casereccia e facilona con
cui si amministravano i denari dello Stato. Comunque i
consiglieri difronte alle decise rimostranze degli uomini della
mossa, sentendoli rumoreggiare pericolosamente sul Pianello,
temendo di poterci forse rimettere anche la pelle,
non poterono far altro che fornir loro un insieme di deliberazioni
capaci di lasciarli soddisfatti, anche perché i loro avversari si
dicevano pronti a prender l’armi per diffendere i diritti nostri
non solo, mà anche quelli della Patria comune, della nostra cara
Repub, come era chiaramente esplicitato alla fine dell’istanza
inoltrata. (cfr. Appendice 2) Perciò il Consiglio
sentenziò in questa maniera :
1° - I così detti nobili
di buon grado e volontariamente rinunziano alla pretesa Aristocrazia
per mettersi a livello cogli altri Sig.i Cittadini.
2° - Che debba depositarsi in
mano di quattro Sig.ri Depositari, che or ora verranno eletti, il
Libro de’ Decreti per rimetterli ad un esame ponderato di una
Deputazione speciale onde abolire tutti quelli che sono in
opposizione collo Statuto.
3° - L’elezione de’ quattro
infrascritti Revisori dei conti coll’ordine di consegnare ai
medesimi in termine di due giorni tutt’i libri delle revisioni. Per
la qual elezione si venne alle seguenti nomine : Sig. Matteo
Martelli, Sig. Pietro Zoli, Sig. Giov. Battista Clini, Sig. Vincenzo
Belzoppi. I quali retroscritti sig.i Revisori furono di unanime
consenso del G.le Consiglio destinati pure a ricevere la consegna
dei libri dei Decreti, la quale dovrà seguire immediatamente dopo il
Consiglio.
Si venne in seguito alle
nomine dei Consiglieri che mancano a formare il pieno numero di
sessanta. (...) De’ quali ottennero il Sig. Vincenzo Martelli, il
Sig. Giuseppe Moracci, il Sig. Silvestro Cecchetti, il Sig. Giulio
Zampini
In sintesi venne
deciso di attenersi scrupolosamente allo Statuto, e di rendere
palesi i conti pubblici. Appena prese queste decisioni sei
consiglieri, capeggiati da Antonio Onofri, si recarono sul Pianello
presso i capi della mossa per aggiornarli sulle
deliberazioni assunte, e per comunicare che potevano andare quella
sera stessa presso l’abitazione del Reggente Belluzzi per ritirare
il rescritto ufficiale. Così successe : gli insorgenti si
sentirono alla fine della giornata i trionfatori della polemica
vicenda, anche perché, come si sarà di certo notato, un loro capo,
ovvero quel Giuseppe Moracci che tanta parte aveva avuto nell’insorgenza,
era stato scaltramente, di certo non per caso, nominato consigliere.
IV
L’andamento della
sommossa dovette con ogni probabilità dar forza e baldanza a coloro
che la fomentavano, perché molti testimoni interrogati dal
commissario della legge, ovviamente quelli che non presero una parte
attiva al fenomeno limitandosi a subirlo o ad osservarlo,
dichiararono che in varie occasioni i capi della mossa
avevano tenuto comportamenti arroganti e prepotenti nelle loro
azioni. Un giorno, per esempio, malmenarono un soldato che avevano
colpevolizzato di non aver svolto adeguatamente il suo dovere di
vigilanza durante una fiera in Borgo. Un altro giorno litigarono con
un macellaio del Borgo accusato di nascondere della carne salata per
venderla fuori confine. Un’altra volta ancora rimbeccarono la moglie
di un altro macellaio perché aveva trattato in malo modo una
cliente. Ugualmente esercitarono pressioni tali sulla Reggenza e
sugli edili da costringerli a vagliare sotto la loro diretta
sorveglianza il grano depositato presso l’Abbondanza, ed a gettare
via alcuni mastelli di grano considerato fradicio e maleodorante.
Poi compirono frequenti visite allo spaccio per verificare che la
qualità del pane qui venduto fosse buona. Marino Martelli, altro
macellaio del Borgo, venne offeso apertamente perché accusato di
smerciare la porchetta ad un prezzo giudicato troppo elevato. Le
bettole furono tenute sotto stretta sorveglianza perché non
cedessero il loro vino a stranieri o a prezzi eccessivi. Ippolito
Ceccoli giunse ad affrontare minacciosamente Ambrogio Fabrini,
consigliere, perché gli era stato comunicato che costui in Consiglio
aveva manifestato ostilità nei confronti della mossa. Marino
Capicchioni venne offeso come vilano porco perché aveva
dichiarato di non avere remore contro il suo Principe, e di non
essere disposto a partecipare alla contestazione che la mossa
stava portando avanti nei suoi confronti. Tra l’altro gli venne
anche intimato di recarsi il meno possibile in Borgo perché la sua
presenza non era gradita. I fratelli Martelli in compagnia di
Balsimelli e Moracci, incontrando un giorno in Città il nobile
Giuseppe Mercurj, che sapevano essere loro ostile, lo apostrofarono
come falsario, e gli dissero che se i consiglieri a lui alleati
fossero rimasti a loro avversi se li bruciaranno le Case, e si
faranno saltar giù dalle Finestre. Insomma i capi della mossa
si comportavano come se fossero i padroni del paese, come
diversi dichiararono al giudice, vantandosi tra l’altro apertamente
delle loro gesta, e del nuovo ordine che stavano dando allo Stato.
Ancor più
accentuarono questi atteggiamenti dopo il Consiglio del 12 giugno,
anche perché erano certi d’aver dalla loro parte alcuni Signori,
ovvero consiglieri del primo ceto, e di poter contare all’occorrenza
sul loro concreto appoggio. Inoltre erano intimamente convinti
d’essere nel giusto, sia perché la loro azione non era portata
avanti per fini personali ma per il miglioramento delle condizioni
di tutti, sia perché pretendevano in fondo solo quello che doveva
essere per forza equo, moralmente e legalmente, perché contenuto nel
sacro Statuto dello Stato, vero e proprio pilastro monumentale
su cui la Repubblica era stata eretta dai mitici ed infallibili
padri. Questa posizione emergerà chiaramente alla fine di tutto il
procedimento processuale, quando il commissario della legge Marfori
metterà i capi della sommossa difronte alle loro responsabilità :
tutti cascheranno dalle nuvole dicendosi allibiti per le accuse che
venivano loro rivolte, in quanto non pensavano di certo che le loro
azioni potessero essere soggette a condanna penale proprio
grazie a quelle disposizioni statutarie per cui si erano mossi.
Interessante a
questo riguardo è anche un discorso carpito da Agostino Arzilli,
contadino di Serravalle, a Pietro Casali e Marino Balsimelli mentre
costoro erano a passeggio in sua compagnia lungo la Costa. Arzilli
dichiarò al giudice che Casali e Balsimelli gli dissero
che se non fossero stati Loro,
la Rep. se ne andava affatto, perché non si rendevano più i conti,
non si soddisfacevano più neppure i Legati pij, e che loro volevano
far accomodare tutto, e che non avevano timore di nessuno, perché
erano più di duecento, e che a Loro bastava il Borgo, e le Spiaggie,
perché sapevano tener in mano la Schiopella, e che se Essi morivano
andavano in Paradiso, ma non così gli altri che sarebbero andati a
Casa del Diavolo. Dissero ancora che avrebbero avuto contro i
Castelli, ma che tanto non avrebbero avuto timore.
Anche Marino Balsimelli confermò di aver fatto simili affermazioni
in presenza di Arzilli.
In pratica gli
insorgenti erano convinti di combattere una sorta di guerra
santa contro un gruppo di traditori e di infedeli che avevano
dissacrato col loro comportamento le inviolabili leggi del piccolo
Stato. Due libelli pittorici affissi di notte in Borgo,
ovvero due disegni quasi certamente fatti da una delle menti della
mossa, il chierico Giambattista Clini, possono essere
una chiara testimonianza del sentimento epico che doveva
caratterizzare i capi della stessa : nel primo si vede incatenato ad
un ceppo uno smunto e malinconico San Marino, indicato come il
misero Titano, che regge nella mano destra il monte con le tre
vette. Davanti ha un fiero guerriero, additato come Amor
Patriotico, che nella mano destra brandisce una spada, mentre
nella sinistra impugna saldamente una ghirlanda di foglie. Il
Titano incatenato, e nudo rappresentava la miseria in cui i Ssi.
Avevano ridotto il Pubblico colla loro mala amministrazione e con
essersi apropriati tutti i danari del Pubblico. Che il genio colla
sciabola alla mano rapresentava l’amore patriotico de Solevati, che
col fare ripristinare le Casse pubbliche, e coll’osservanza delle
Leggi dello Statuto voleva ridonar la libertà al Titano, e
rivestirlo. Questa fu la spiegazione del disegno fornita al
giudice da Filippo Sabattini che dichiarò d’averla ascoltata
direttamente da Clini a cui l’illustrazione era stata commissionata
da Fazzini.
La stessa mano
qualche tempo dopo dipinse e fece circolare un altro disegno
intitolato Il Titano liberato dall’Amor della Patria in cui
davanti al nobile guerriero si para un San Marino più tonico ed
allegro, liberato da qualsiasi catena, con la ghirlanda sulla testa,
con il monte Titano in una mano, e nell’altra il libro degli
Statuti. Poiché i Solevati pensavano di godere dell’appoggio
di molti altri e di avere dalla loro parte anche influenti
personaggi del governo, acquistarono tanta spavalderia da divenire
arroganti, e tanta arroganza da farsi ciechi difronte alla reale
consistenza del movimento che avevano saputo mettere in piedi.
Infatti molti avevano aderito alla mossa per motivi
prettamente tangibili, ovvero per un miglioramento della qualità del
pane, ed un ribasso del costo del vino, mentre erano del tutto
disinteressati alle motivazioni politiche, o ancor più ne potevano
essere timorosi (dalle testimonianze raccolte pare proprio che la
prima istanza fatta sottoscrivere ai popolani dopo l’assalto alle
cantine riguardasse solo il pane ed il vino). Le motivazioni
politiche divennero invece subito prioritarie per i capi
dell’insurrezione, tanto che soppiantarono del tutto le
recriminazioni relative al pane ed al vino. Quando prima dell’inizio
del Consiglio del 12 giugno Michele Martelli urlò che si sarebbe
dato fuoco al Palazzo Pubblico se non fossero state date risposte
positive alle richieste avanzate, molti dei presenti lo criticarono
apertamente, e con ogni probabilità iniziarono da quel momento a
dissociarsi dalla mossa, che aveva assunto
improvvisamente, ed in maniera per molti inaspettata, una piega
diversa da quella iniziale. I Signori favorevoli alla
sommossa, poi, ebbero sempre un atteggiamento ambiguo nei confronti
di chi stava portando avanti concretamente la polemica : li
appoggiarono nascostamente, scrivendo o correggendo i loro
testi, suggerendo senz’altro anche quello che si doveva perseguire,
fungendo da consulenti, ma senza sbilanciarsi ed esporsi più di
tanto. Aspettavano nella penombra pronti a cogliere forse l’attimo
più propizio per emergere, ma anche pronti a tirarsi indietro o a
dichiarare la loro estraneità o marginalità al fenomeno se le cose
fossero andate male. Così in effetti fu, perché alla fine, quando il
governo comincerà un’opera di sistematica repressione della
mossa, il vasto movimento popolare di cui si ipotizzava
l’esistenza si dimostrerà invece solo una unione di
pochi poveri disgraziati che verranno lasciati soli al loro destino,
un’immensa ed evanescente bolla di sapone.
Gli oligarchi
sammarinesi con molte probabilità iniziarono fin dal Consiglio del
12 giugno a pensare di reprimere la mossa, sentita ormai come
una minaccia incombente che poteva portare a gravi sconquassi
interni : i suoi capi si ispiravano apertamente a quanto accaduto in
Francia, e Moracci in un suo comizio in Borgo aveva urlato tra
l’altro che i Francesi non avevano avuto paura di far cadere una
testa reale, sottintendendo ovviamente che anche i Sammarinesi
potevano all’occorrenza comportarsi nella stessa maniera. Inoltre
all’interno della mossa vi erano uomini dai pensieri
diversi : vi erano i moderati, che pretendevano riforme minime ; vi
erano coloro che cercavano rivincite personali, come Moracci per
esempio, la cui animosità era sicuramente legata anche ai giorni di
carcere che aveva dovuto ingiustamente scontare per l’omicidio Lolli,
ed all’indifferenza con cui era stata accolta dal Consiglio la sua
istanza sul pane ed il vino ; vi erano figure losche la cui azione
all’interno del gruppo non era chiaramente definibile né da parte
dei governanti, né da parte dei sollevati. Sicuramente la più
sinistra di tutte era quella di Ercole Bertola, proprietario
terriero di Rimini, con possedimenti anche a San Marino, che qui si
era sposato ed era venuto ad abitare nel 1794. Costui in una
riunione dei capi della mossa, di cui non si sa purtroppo la
data, volle presentare un suo piano per eseguire con sicurezza la
piena osservanza dello Statuto, l’abbolimento del Libro d’oro e di
tutti i decreti contrarj alla Sud. Legge, e far divenire il governo
nel primiero stato come era per lo passato. Il piano prevedeva
di radunare al più presto un Consiglio, andare a prendere in modo
amichevole presso le loro abitazioni i consiglieri restii a
parteciparvi, presentare a Consiglio riunito il foglio con le
richieste elaborate, ed essere in presento almeno 60
uomini atti all’armi. Se non fosse stato concesso subito quanto
richiesto, bisognava dividere i 60 Uomini in tanti Pichetti,
coll’impadronirsi delle due porte della Fortezza, porre 20 Uomini
armati nel Pubblico Palazzo, e far sapere che i consiglieri
sarebbero rimasti sequestrati al suo interno finché non avessero
pienamente concesso quanto desiderato. Poi occorreva armare tutti
gli uomini abili a difendere la patria, e se ciò non fosse
bastato a normalizzare la situazione, era necessario bruciare
pubblicamente il libro dei decreti, ed il giorno dopo convocare
l’arengo per rimettere le cose a posto.
Questo piano venne mostrato a Marino Balsimelli e Francesco
Martelli, che lo respinsero, così come fecero anche Vincenzo
Belzoppi e Pietro Zoli che invitò addirittura a bruciarlo.
Ingenuamente, o forse per ingraziarsi le autorità in previsione che
la faccenda finisse poco bene, Ippolito Ceccoli, che tra i capi dei
sollevati fu in effetti l’unico a subire come prima condanna
l’esilio invece del carcere, lo consegnò direttamente nelle mani di
Antonio Onofri, Segretario di Stato : verosimilmente fu questo il
documento che spinse il governo a rompere gli indugi ed
a reprimere con decisione la mossa. L’otto novembre Bertola
venne interrogato dalle autorità giudiziarie di Rimini, suo rifugio
dal 24 giugno quando era scappato da San Marino; dichiarò che egli
si era limitato a scrivere il piano dietro dettatura di Fazzini, e
che ad avere intenzioni violente e sanguinarie contro il governo
erano Franzoni, Michele Martelli e Pietro Casali, convinti che
senza il terorismo non avrebbono mai ottenuto quello, che
chiedevano. Disse inoltre che vi era l’intenzione anche di
uccidere i nobili Angeli e Giannini che erano stati gli ispiratori
di tutta la sommossa, ma in seguito si erano tirati indietro
intimoriti. Sottolineò che questi fatti li aveva già raccontati
anche al comandante delle locali milizie Raffaele Gozi. Dichiarò
infine che l’intenzione dei capi della sommossa, ad eccezione di
Francesco Martelli che definì più moderato degli altri, era quella
di ammazzare ed incarcerare tutti i consiglieri ostili, compreso
Onofri, poi convocare un arengo in cui eleggere un nuovo Consiglio,
mantenendo ancora però esclusi gli uomini di Montegiardino, Faetano
e Serravalle perché
Paesi di conquista.
Certamente non è
facile comprendere appieno il ruolo di Bertola in tutta la
questione. Dalle dichiarazioni di chi venne incarcerato pare che
egli non fosse nemmeno considerato un membro della mossa, ma
solo uno che vi voleva entrare con mire indefinibili. Francesco
Martelli lo credeva una spia,
anche se non si capisce per chi, e tutti i detenuti ne
diffidavano, tanto da dichiarare concordemente che il suo piano non
venne minimamente preso in considerazione. Il fatto comunque che
fosse estero, e che proprio lui avesse ordito un piano che prevedeva
un vero e proprio colpo di Stato, deve avere indotto i locali
governanti a pensare che tutta la mossa poteva in realtà
nascondere una qualche macchinazione nata fuori confine per
impossessarsi della Repubblica. Così almeno dichiarò al giudice il
consigliere Matteo Martelli in data 9 ottobre.
La Rossini nel suo studio su questo periodo
accetta la tesi fatta circolare ad arte all’epoca tra la popolazione
per rendere antipatici ai più i capi della mossa, ovvero la
volontà di consegnare la Repubblica allo Stato della Chiesa da parte
di Bertola e dei capi dell’Unione. Bertola però non era un
filo-papalino, ma tutt’al più un filo-francese : ne fa fede una
lettera riportata dal Franciosi,
e già evidenziata da Buscarini
in cui il generale Chabot in data 4 ottobre manifesta la sua
riconoscenza alla Reggenza per aver graziato Bertola
(je suis très reconnaisant de ce que vous avez bien voulu à ma
consideration faire grace au Citoyen Berthola en lui accordant la
concession de tout ce qu’il reclamait près de vous).
Buscarini più realisticamente crede che la mossa fosse nata
da due volontà ben precise : il desiderio di un rinnovamento
politico da una parte, e la volontà di congiurare a favore del
potere pontificio dall’altra da parte dei sacerdoti e dei chierici
che fungevano da intellettuali dell’Unione. Vi possono essere
ulteriori ipotesi verosimili oltre a queste, ma è meglio parlarne
più avanti, quando si sarà ultimata la narrazione dei fatti.
V
Le deliberazioni
del Consiglio del 12 giugno dovettero lasciare negli uomini dell’Unione
sentimenti contrastanti : i capi inizialmente ne furono senz’altro
contenti perché in fondo erano riusciti ad ottenere quello che
volevano, almeno apparentemente ; gli altri invece, ovvero
soprattutto i contadini che in larga parte si erano recati sul
Pianello senza ben sapere cosa andavano a fare e cosa si pretendeva
dal Consiglio (almeno così risulta dalla maggior parte delle loro
deposizioni e dal fatto che vi fu anche chi chiese consigli in
merito al suo padrone), quando si accorsero che le pretese erano
assai più complesse di quelle iniziali riguardanti il pane ed il
vino, e soprattutto quando udirono la minaccia del fuoco proferita
da Martelli, e seppero che alcuni capi erano armati ed altre armi
ancora erano disponibili lì vicino presso l’abitazione di
Giovanni della Muratora se le cose non fossero andate secondo
programma, dovettero sicuramente avere forti ripensamenti su tutta
la faccenda, e chiedersi se meritava continuare a soffiare sul
fuoco, o giungere ad un dignitoso rappacificamento col Principe.
D’altronde non è improbabile che abbiano subito pressioni
psicologiche dai membri più influenti del Consiglio, che dall’alto
della loro cultura e del secolare potere sociale ed economico che
detenevano (potere che senza dubbio era concretamente vincolante per
la maggior parte degli insorti), di certo conoscevano le
tecniche necessarie per insinuare direttamente o indirettamente nel
popolino l’angoscia per quello che stavano facendo, e la paura per
le probabili conseguenze e ripercussioni morali e materiali delle
loro sconvolgenti azioni. Così appena un paio di settimane dopo,
ovvero nella seduta consigliare del 25 giugno, venne inoltrato un
documento dai toni ben diversi rispetto a quelli presentati nei
Consigli precedenti. Recita il verbale di quella seduta :
Fù letta una supplica in nome
del Popolo della Repubblica, in cui chiedeva perdono delle mancanze
commesse nell’espressioni de’ fogli presentati alle ultime
Consigliari Adunanze. Il General Consiglio calcolando come potevasi
essere abusato della buona fede e dell’ignoranza dei ricorrenti
dall’estensore ed occulti stimolatori, convenne nella massima di
concedere a tutti gl’insorgenti scoperti e sottoscritti nei fogli
che dovranno essere presentati un ampio perdono, riservandosi di
procedere e d’invigilare sugli esteri, sugli autori dei libelli
incendiari anonimi quali deve credersi avessero tutt’altro in animo
che il comun bene e il vantaggio della Patria
.
Non ci è dato
conoscere se gli estensori ed i sottoscrittori di questo documento
fossero gli stessi dei documenti precedenti. Dagli atti processuali
si evince che i capi della mossa, quelli cioè che vennero
imprigionati o fuggirono dal territorio, non accettarono il perdono
concesso in questo Consiglio perché non era rivolto a loro che erano
gli autori dei libelli incendiari anonimi, ed i veri
responsabili dell’insurrezione. Ma allora il perdono a chi era
rivolto ? Ovviamente a tutti gli altri imbrogliati nella loro
buona fede, e nella loro ignoranza (tipiche
caratteristiche del contadino credulone e sempliciotto) dall’estensore
delle istanze precedenti, e dagli occulti stimolatori del
tutto, occulti solo in teoria, perché in pratica si erano già
esposti a tal punto, ed avevano agito con tanta scomposta ed ingenua
veemenza da essere facili bersagli per chi aveva veramente le armi
in mano, cioè i governanti. Probabilmente quando si sciolse questo
Consiglio gli oligarchi non sapevano bene chi fossero le menti che
avevano elaborato le istanze e che stavano producendo satire
e libelli puntualmente divulgate in Borgo ed in Città. O
forse sì, visto che i Martelli e gli altri che trainavano la
mossa potevano aver fatto confidenze ai consiglieri che
credevano dalla loro parte. Ma questo non era al momento il problema
prioritario perché la mossa si era ormai spaccata : i capi
erano stati emarginati (Bertola capo o no era addirittura già
scappato dal paese il giorno prima del Consiglio), e gli
intellettuali, che conoscevano lo statuto e la tradizione
democratica a cui si voleva tornare, e che avevano trasformato una
protesta sociale in contestazione politica, sarebbero stati
individuati rapidamente e con facilità, anche perché in Paese non
dovevano essere tanti quelli ostili al Consiglio, sia al suo
interno, sia al suo esterno, capaci di pensare, scrivere o comunque
affrontare criticamente certe problematiche. I Martelli, Pietro
Casali, Ippolito Ceccoli avevano sì una cultura elementare che
permetteva loro di leggere e scrivere in maniera sgrammaticata ; non
erano cioè analfabeti come la maggior parte dei contadini che
avevano sottoscritto con una croce il primo documento elaborato dopo
l’assalto alle cantine del Borgo. Tuttavia la loro cultura minima
non consentiva di creare scritti complessi come quelli presentati al
Consiglio, o affissi nelle piazze (riportati in appendice al
presente lavoro). Per questo ogni documento prodotto veniva
candidamente sottoposto all’attenzione di tutti coloro che avevano
una cultura adeguata per fornire un parere, o anche apportare
correzioni, e che erano ritenuti simpatizzanti della santa causa
portata avanti dalla mossa .
Tra l’altro gli
interrogatori a cui vennero sottoposti gli incarcerati da
parte del commissario della legge sono una chiara dimostrazione
della conoscenza approssimativa che essi avevano di quello Statuto
nel cui nome stavano conducendo la loro crociata. Il problema
principale degli oligarchi, dunque, non era l’individuazione delle
menti, ma la riduzione del numero degli insorgenti, la
secessione della massa ingannata nella sua buona fede e nella
sua ignoranza da chi l’aveva fatta maliziosamente
precipitare in quell’inganno. La richiesta di perdono esaminata il
25 giugno fu il segnale che si attendeva per agire e riportare le
cose alla normalità, nonché per isolare gli occulti stimolatori
dell’antipatica, e fino a quel momento pericolosa faccenda. A
tal effetto fù istituito un Comitato di pubblica salvezza e
polizia composto di sei persone unitamente alla Reggenza, -
prosegue il verbale della stessa seduta consiliare - due delle
quali dovranno prendersi dalla Città, due dal Borgo e due dalla
campagna, i quali sei soggetti dovranno essere scelti mediante
maggioranza dei voti dal numero di dodici consiglieri. (...)
E siccome per la
sicurezza de’ Consiglieri e per il buon esito degli affari fù
riconosciuto indispensabile il silenzio, fù dato, d’ordine del G.le
Consiglio, per mezzo di me infra.tto, il giuramento di segretezza a
tutti i Sig. Consiglieri
.
Il Consiglio,
quindi, colse la palla al balzo per istituire un nuovo organismo
poliziesco preposto alla salvaguardia della pubblica salvezza,
perché, secondo l’opportunistica ottica degli oligarchi contestati,
gli uomini della mossa non miravano certo al bene della
Repubblica, bensì solo alla sua perdizione. E’ ovvio che elevandosi
al ruolo di salvatori della patria pronti a far quadrato per
infrangere le cupe mire di chi attentava all’eterna e mitica
indipendenza dello Stato sammarinese vi erano maggiori possibilità
di emarginare del tutto i capi dell’insurrezione, e togliere loro le
eventuali residue simpatie di cui forse potevano godere ancora tra
la popolazione. Non a caso nella prima riunione del nuovo comitato,
tenuta il 29 giugno, si attribuirono le maggiori colpe della vicenda
ad Ercole Bertola che aveva una gran parte nella Rivoluzione
(come venne verbalizzato non si sa con quanta buona fede),
stabilendo che venisse arrestato se fosse ritornato in Repubblica.
Si decise pure di richiedere il permesso al Vescovo per poter
procedere contro i chierici Giovanni Sabatini, Marino Fazzini e
Giuseppe Clini che ponno aver parte in quest’affare
soprattutto coll’avere affisso dei
libelli infamatorj.
Un estero ed alcuni ecclesiastici venivano quindi considerati i
paurosi occulti stimolatori dell’insolita Rivoluzione,
per cui è facile che i governanti sammarinesi leggessero, o
preferissero leggere, tutta la vicenda non come una contestazione
politica e sociale interna, ma come un temibile attacco al cuore
dello Stato perpetrato dagli eterni nemici della Repubblica, ovvero
tutti coloro che stavano al di là dei suoi secolari confini, bramosi
di appropriarsi del suo territorio e di porre così fine alla sua
invidiata indipendenza. D’altra parte i Signori erano
abituati a considerarsi incontestabili ed intoccabili, e sempre al
di sopra di tutto e di tutti, per cui non è da escludere che
avessero reali difficoltà psicologiche ad ammettere la fondatezza di
critiche nei loro riguardi da parte degli usualmente docili
popolani. Inoltre nel ‘700 gli episodi legati al cardinale Alberoni
e successivamente al cardinale Valenti - Gonzaga dovevano aver
accentuato ancor più nei sammarinesi il timore di essere
soggiogati da forze esterne, per cui accusare preti, clericali e
riminesi di un presunto attacco allo Stato e alla sua inviolabile
indipendenza aveva ottime probabilità di far breccia nel cuore di
chi, pur simpatizzando con i rivoltosi, era cresciuto nel mito di
un’autonomia santa e perenne, ovvero di ogni cittadino verace.
Comunque sia, inizialmente la mossa venne interpretata più
come un fenomeno esterno che interno, e questo può essere una
spiegazione del perché non vennero subito emessi mandati di arresto
contro i Martelli e gli altri.
Il 1° luglio si
scrisse al Vescovo per chiedere il permesso di cui si è detto , e
per comunicargli che alcuni mal intenzionati, abusando
dell’ignoranza e della credulità di molti cittadini, tentarono in
questi ultimi giorni di sorprendere il Gle Consiglio con dette
rappresentanze insolenti, e di alterare la pubblica quiete con
scritti anonimi incendiarj e maldicenti. Poiché era
indispensabile scoprire gli artefici di una cospirazione tanto
iniqua, e vi erano forti indizj contro qualche Ecclesiastico,
ed alcuni chierici, si chiedeva il nulla osta per
procedere legalmente contro costoro.
Il 17 luglio il Vescovo concesse il richiesto permesso,ma
nel frattempo, precisamente l’11 luglio, il Comitato era giunto alla
decisione di dare una punizione esemplare ai sollevati che
avevano rifiutato il perdono concesso, e che stavano continuando a
riscaldare gli animi coll’affiggere
scritti infamatorj ed
incendiarj.
Si stabilì
dunque di arrestare durante la fiera di luglio i fratelli Martelli,
Pietro Casali, Giovanni Silvestri e Giovanni Domenico Franzoni. Il
18 luglio il Comitato ripensò tale ordine per il pericolo che
correvasi di far nascere bisbiglio e confusione in un giorno tale di
concorso con dubbio anche di sviare Le Fiere, e per paura di non
riuscire ad arrestare tutti insieme quelli che si era stabilito.
Maturato pertanto meglio l’affare - recita il verbale -
si convenne
di far venire tal carcerazione doppo la Fiera ; e siccome corre voce
che in quel giorno i sollevati possino fare della pubblicità con
farsi vedere con fiocco d’oro al capello e con dei berettoni, fù
risoluto che, nel caso, si faccia seguire l’arresto di tutti quanti
i complici di questa nuova ribalderia facendo servire questo nuovo
fatto per un punto addizionale di Sommario, e nel caso che questo
sospetto non si verifichi, l’esecuzione si faccia cadere unicam. su
quei tali che furono mentovati nell’ultima adunanza. E quanto al
tempo preciso ed al modo, ciò dipenderà da quei prudenziali riflessi
e da quel contratempo che al Sig. Comandante Gle. sembrerà più
confacente.
I membri del
Comitato manifestarono dunque precisi tentennamenti
nell’imprigionare i capi della mossa, forse perché non
avevano del tutto la sicurezza che fossero rimasti in pochi, o forse
per paura che un’azione troppo plateale avrebbe potuto destare
polemiche e malumori interni e soprattutto esterni alla Repubblica.
I dubbi erano tanti da indurre il Comitato a riportare il 29 luglio
in Consiglio il problema. Si ribadì ancora una volta che il Comitato
aveva carta bianca sulla questione, e gli venne anche data
facoltà di organizzare una
guardia civica per la pubblica
sicurezza.
Vi era probabilmente ancora la speranza che le contestazioni
potessero rientrare tranquillamente, e che la faccenda si sgonfiasse
da sola senza dover usare le maniere forti. Ma non si teneva conto
dello spirito mistico e solenne che animava i capi della mossa,
sempre più convinti di star combattendo una guerra santa contro dei
miscredenti. E fino a quando, o Nobili pretesi, e immaginarj, che
vantate un titolo fantastico, e menzognero, v’abuserete della lunga
nostra tolleranza ? recitava uno dei tanti libelli affissi in
Borgo traboccante di questo spirito ; Forse dovremo esser sempre
il bersaglio del vostro dispotismo, l’oggetto della vostra tirannia,
ed il ludibrio del vostro genio maligno ? E non dovranno esser mai
rafrenate le vostre iniquità, la vostra audacia ? Niente vi comovono
i lamenti d’un Popolo risvegliato da vergognoso lettargo ? (...)
Affrettiamoci, e corriamo a rapire quei Sacrosanti Statuti acciò
non siano affatto dispersi, e perduti. In essi consiste ancora la
Salute della Repubblica. E’ questo il tempo di distinguere ogni vero
Cittadino. La Patria è nostra Madre commune, e come Madre la
dobbiamo onorare, e diffendere. Se mai La perdessimo, quale sarebbe
il nostro pentimento, il nostro Cordoglio ? Sì, che bisogna farla
risorgere. Noi soli potiamo rimetterla nella Sua pristina salute. Da
noi dipende, che Ella riacquista le sue perdute forze, e che come
prima ritorni a risplendere nell’universo. (Appendice n° 3 )
Ovviamente non
bastava un perdono paternalisticamente concesso dall’alto, che
non comprendeva di certo i capi della mossa, per cancellare
in fretta il gusto di tanta enfasi, e la voglia di sentirsi i
redentori della patria. Questa forma mentis fu però anche ciò che
rovinò i capi della mossa, i quali, reputandosi più che mai
redentori, pensarono di essere autorizzati a collocarsi al di
sopra di quelle leggi nel cui nome combattevano, e di potersi
comportare, lo ripeto, come i nuovi padroni del paese, anzi, come
tanti Robin Hood che toglievano ai ricchi per dare ai poveri,
che si ergevano a strenui difensori del debole contro il forte. Vi
sono diversi episodi della mossa popolare che si potrebbero
citare a sostegno di questa tesi, ma ve n’è uno in verità più
emblematico di tutti di cui fu protagonista Camillo Sabattini, uno
studente simpatizzante della mossa, coinvolto anche in
qualche sua azione, che finì incarcerato con gli altri capi : un
giorno egli aveva avuto da ridire con un Signore,
precisamente Emiglio Gozi, il quale lo aveva percosso e maltrattato.
Senza perdersi d’animo, aveva raccontato tutto ai suoi amici della
mossa che gli dissero di stare tranquillo perché era sotto la
loro ala protettrice. Allora scrisse a Gozi la seguente lettera :
Al Cittadino Emiglio
Gozi, O Cittadino io ò fatto il tutto ben noto a miei Concittadini
ed essi mi hanno esortato, che faci due righe, e stii cheto, e che
per questa volta tralasci di fare la mia giusta vendetta, affinché
non nasca qualche gran sussurro. Essi ti mandano a dire, che guardi,
e guardi bene di non venire più a mortificarmi ingiustamente ; ma
nepure di guardarmi in viso, altrimenti se non sarò abile a
vendicarmi da me stesso, essi hanno detto, che faranno le mie giuste
difese, e che mi diffenderanno in tutto. Avete inteso, prevaletevi
dell’aviso, altrimenti non anderà sempre così
.
Gli atteggiamenti
dei sollevati, quindi, assumevano tinte sempre più
provocatorie agli occhi dei governanti, e sul principio del mese di
agosto bastava ormai poco per far tracimare le sempre più agitate
acque. L’otto agosto il Comitato tornò a riunirsi per riesaminare la
faccenda, anche perché gl’insorgenti continuavano ad essere
baldanzosi, e durante la fiera di luglio Michele Martelli
ed un altro avevano strapazzato il soldato di cui si è detto. Poiché
vi era il pericolo di un qualche disordine maggiore nella Fiera
avvenire, si decise di arrestare una volta per tutte coloro che
già erano stati individuati nella riunione dell’11 luglio con
aggiunto Ippolito Ceccoli. Si stabilì che l’arresto dovesse avvenire
con il minor trambusto possibile nei modi e nei tempi più opportuni.
Nell’interrogare
i carcerati della mossa, il giudice Marfori indagò a
fondo sull’episodio del soldato malmenato, per cui si possono
conoscere nella giusta maniera i motivi di tale azione. Martelli e
gli altri lo aggredirono non per prepotenza o spavalderia, ma sempre
per quella sindrome da redentore di cui si è detto. Egli infatti
venne sorpreso mentre non curava come avrebbe dovuto la vigilanza
durante la fiera, ovvero la mansione per cui si trovava in quel
luogo. Questo fatto agli occhi degli uomini dell’Unione , che
erano sempre nella logica di mettere un giusto ordine nelle cose,
apparve come un insulto al buon andamento della fiera, ed uno dei
tanti sintomi del caos e della noncuranza in cui era stata
precipitata la Repubblica da parte di governanti negligenti, per cui
si sentirono autorizzati ad intervenire, ed anche a litigare con
violenza subito dopo con il superiore del soldato, accorso per
vedere cosa stesse succedendo, ed incolpato di non saper
comandare i suoi uomini come andava fatto.
Inoltre è
possibile che i governanti avessero un altro timore, e che il
qualche disordine maggiore di cui si parlò nella riunione
dell’otto agosto si riferisse proprio a questo pericolo non
esplicitato, ma di cui forse avevano qualche sentore : poiché gli
uomini della mossa ancora non avevano ottenuto tutto ciò che
volevano, ed in particolare non avevano ancora potuto ricevere il
tanto agognato rendimento dei conti pubblici, nonostante si
recassero frequentemente a casa del Reggente nobile e dei revisori
nominati proprio per sollecitarne la pubblicazione, essi
cominciarono nuovamente a pensare che le promesse ricevute nel
Consiglio del 12 giugno fossero destinate ad avere solo esecuzione
parziale perché non si voleva rendere pubblici i bilanci. In realtà
sappiamo da alcune dichiarazioni rilasciate al giudice Marfori da
parte di uomini del governo che non era concretamente possibile
redigere e divulgare i bilanci, perché la gestione casalinga delle
locali finanze aveva permesso sempre ai pubblici amministratori di
comportarsi a loro discrezione (e chissà con quanti abusi) coi soldi
della comunità, quindi di non sentirsi vincolati più di tanto a
conservare una rigorosa documentazione della loro amministrazione
tramite cui rendere trasparenti le loro azioni. Non potendo quindi
verificare i conti della pubblica amministrazione, gli insorgenti
entrarono sempre più nell’idea che i principali governanti
sammarinesi fossero tutti ladri, e che andassero sostituiti con
uomini più probi. Da qui l’intenzione di riunire un arengo di tutti
i capifamiglia nella prima domenica dopo l’elezione della nuova
Reggenza, così come previsto dallo statuto, in cui mettere sotto
accusa i consiglieri troppo furbi e quelli ostili alla mossa.
Rossini e Fazzini si erano già impegnati a redigere un piano con cui
regolamentare tale assemblea.
Intimoriti dunque
dall’andamento degli eventi e da tutto ciò che poteva ancora
accadere, venne dato l’ordine di imprigionare i capi della mossa.
I soldati delle milizie, comandati da Raffaele Gozi, eseguirono
gli arresti sabato 19 agosto; in carcere finirono Michele Martelli,
Pietro Casali, Ubaldo Biordi, Ippolito Ceccoli, Bernardino Casali e
Camillo Sabattini, mentre gli altri riuscirono a fuggire fuori
confine. In un primo momento Francesco Martelli, Franzoni, Moracci e
Fazzini si ritrovarono presso l’abitazione di Anastasio Albini a
Valle Sant’Anastasio. Costui testimoniò in data 4 settembre che
appena arrivati essi si erano sfogati con lui spiegando l’accaduto,
e lamentandosi che i governanti li volevano arrestare per non
rendere i conti richiesti. La loro intenzione era quella di
rivolgersi alle autorità francesi della Romagna, o addirittura a
quelle centrali di Roma. Moracci avrebbe voluto usare modi più
violenti con il distruggere i mulini per affamare la popolazione
sammarinese ed indurla così alla ribellione, ed anche tagliar la
testa a tre o quattro de Caporioni. Poi se ne andarono via
tutti. Martelli arrivò fino a Forlì, dove denunciò alle autorità
francesi la repressione a cui era stata sottoposta la mossa.
Poi se ne tornò a Rimini fiducioso in un loro intervento
riparatore ; i Francesi però non si mossero più di tanto, e Martelli
venne arrestato e consegnato agli sbirri sammarinesi il 6 settembre.
Nel frattempo il
Comitato di Pubblica Sicurezza si riunì varie volte : il 21 agosto
decise di stendere un Bando che ordini l’arresto dei cinque
fuggiaschi colla libertà a chiunque anche di tirare. Il 26 si
convenne che era assolutamente necessario interrogare Bertola, e si
stabilì di sveltire l’iter del processo prescindendo da tutte
quelle solennità, che sono richieste dal gius comune. Per questo
venne ordinato al giudice Marfori di abbandonare le formalità
inutili, e di evitare l’uso della tortura che in quella particolare
circostanza giudiziaria doveva sembrare del tutto fuori luogo.
Il 27 si tornò a riunire per verificare il modo in cui si poteva
interrogare Bertola, e si decise di fornirgli un salvacondotto
per venirsi ad esaminare a condizione che venga di notte, e non si
faccia mai vedere pubblicam. nel qual caso il salvo condotto non li
suffragherebbe. Bertola comunque non rientrerà in territorio
sammarinese, ma verrà interrogato a Rimini l’otto novembre da parte
del locale giudice Guidobaldo Oddi. Nei giorni successivi vi
furono altre riunioni, ed il 4 settembre venne deciso di creare una
Guardia Civica capace di garantire la sicurezza pubblica in Borgo ed
in Città. Probabilmente tale deliberazione dipese dalla voce che
circolava di un possibile attacco alle carceri per liberare i
detenuti. Questa, comunque, fu l’ultima riunione del Comitato, segno
evidente che la faccenda era ormai sotto il totale controllo del
governo. Nei mesi successivi, per la verità, alcuni simpatizzanti
della mossa cercarono ancora di scuotere le autorità francesi
tramite una sorta di richiesta d’aiuto in cui si giungeva a
dichiarare che era addirittura meglio rinunciare alla secolare
indipendenza della Repubblica, facendosi annettere dalla Cisalpina,
piuttosto che continuare a rimanere nella situazione dispotica e per
nulla garantista in cui si trovava San Marino :
Cittadino Ministro
Il Popolo della Repubblica di
S. Marino, oppresso oramai dal suo consiglio composto d’un numero di
decisi aristocratici che si fanno nominare col titolo di nobili ;
vedendo calpestato dai medesimi La sua antica, e Democratica
Costituzione vedendosi spogliare Le pubbliche Casse non sicure
le persone ed in somma sotto un giogo d’oligarchi che non conoscono
che la Legge di saziare il suo Egoismo, e la Sua ambizione e che
distruggono qualunque diritto di patto sociale si risolve rivolgersi
a voi, Cittadino Ministro, per domandarvi la vostra mediazione,
acciò potere riacquistare quella Libertà che à goduto, e che l’ha
fatto felice p. 14 secoli.
Dopo che un Popolo Liberatore
della miglior parte d’Europa à vinto e distrutto i suoi nemici, dopo
che la miglior parte d’Italia à ricevuto da questo una rigenerazione
Politica, e che à reso ai Popoli quei veri diritti che
caratterizzano il Cittadino, qual sarà mai quell’individuo che nato
di sangue libero potrà giacere sotto l’oligarchia la più tirannica
chi non voleva, se non i despoti, p. concorrere al compartimento dei
beni che il Popolo Cisalpino a luogo di sperare dalla sua libertà.
Ove sarà quel vero cittadino sammarinese, che non desideri la
riunione del suo Paese ad un popolo che la sua carriera politica lo
porta a delle future glorie infinite. Ove si troverà colui, se non
qualche schiavo di questi despoti, che non frema nel vedere la
carcerazione di quei buoni cittadini che richiamati dai diritti
costituzionali, osarono dimandare ai despoti medesimi il rendimento
di Conti p. le Casse pubbliche già usurpate e vuotate. Questi
bravi e buoni cittadini rinchiusi in una torre stanno aspettando dai
loro fratelli Sammarinesi quel voto che già è formato in tutti i
cuori p. l’oppressione dei tiranni. Le forze di questo piccolo
popolo, veruna speranza possono prestare ai suoi giusti desideri ;
Tutta è riposta nel vostro Patriottismo, cittadino Ministro, acciò
vogliate sottoporre al Direttorio Esecutivo della Repubblica
Cisalpina, il desiderio, ed il voto generale di un Popolo che
domanda unanimamente la riunione del suo territorio alla medesima.
Immitatore il Governo Cisalpino della madre dei Popoli, della
rigeneratrice delle fertili contrade della Lombardia, in portare la
libertà a coloro che la dimandano, sperano tutti i Cittadini
Sammarinesi, che presto potranno gloriarsi di far parte pur loro
dell’Italica Repubblica, tornando così nuovamente a godere di quella
libertà, e di quei diritti che per tanto tempo sono stati
risguardati sacri nel piccolo recinto di S. Marino.
Salute e rispetto
Sebbene la
lettera sia senza data, è stata sicuramente scritta dopo
l’incarcerazione dei capi della mossa, e si può considerare
come l’ultimo tentativo, andato completamente a vuoto perché le
autorità della Cisalpina non le diedero ufficialmente alcun peso, di
mutare la situazione politica sammarinese. Il 5 dicembre in
Consiglio si sottolineò che ancora vi era sentore di mal animo di
alcuni dei nostri, i quali spargevano delle voci allarmanti e
dannose alla nostra libertà quasi che la nostra Rep. che conta tanti
secoli di antichità dovesse essere o soprafatta da nuovi
Repubblicani, o noi avessimo bisogno di prendere in prestito quella
libertà che da tempo immemorabile siamo in possesso di godere, e
probabilmente questa esternazione era legata proprio alla lettera
recapitata alla Cisalpina ; ma la questione era ormai conclusa e
questi ultimi bagliori non avevano la forza necessaria per
riscaldare nuovamente l’ambiente sammarinese, né per creargli
particolari simpatie nel circondario. Nell’ottobre del ’97 il
giudice Marfori giunse alla conclusione della sua indagine con
l’incriminazione ufficiale degli arrestati. Il 17 egli contestò a
Pietro Casali i seguenti reati :
1)
Per essersi
unito co’ Solevati, e fattosi poi uno de capi de medesimi col
procurare d’acrescere il numero degl’uniti, facendo ancora girare
Fogli concernenti tal insurezione, e segnat. quello, che
incomincia :”Discorso al Popolo di S. Marino”.
2)
Per
avere cogl’altri dell’unione impedita l’esportazione di vino dal
Borgo già misurato, e imbotato, usando ancora la violenza di buttare
a terra la porta della Cantina di Casa Belzoppi perché il sig.
Vincenzo non volle dargli la chiave, prendendo ancora la nota del
vino esistente nelle rispettive Cantine.
3)
Per
avere acconsentito al patto verbale fatto tra gl’Insorgenti di
essere moschettato chi si fosse ritirato dall’unione.
4)
Per
essersi con altri Solevati tumultuariamente portato in tempo di
primo Consiglio sul Pianello, e ancora in tempo di secondo
Consiglio, nella qual occasione di più si protestò che se gl’uniti
non avevano il Rescritto, i Consiglieri non sarebbero usciti dal
Palazzo facendo tale protesta replicata volta, e in modo che fosse
sentito da essi Deputati che ricevevano il Foglio.
5)
Dall’essere intervenuto in d.o Pianello pel secondo Consiglio
provisto d’arme da fuoco.
6)
Per
avere acconsentito di far delle Cocarde da darsi agli uniti secondo
il modello mandatoli entro un Biglietto a mano di Camillo Sabattini
derivante da Marino Fazzini. *
7)
Per
avere voluto assieme con altri dell’unione, che il pubb.o Grananista
dell’Abbondanza depositasse una chiave dell’Abbondanza presso una
terza Persona, venendosi così a smaccare un ministro pub.o.
8)
Per le
jattanze fatte con Giorgio Martelli dicendo persino, che doveva
finire questa bugiera, e altre nel Macello del Battifoglio in Borgo
colla moglie di quel macellaro, e con esso pure.
9)
Per
avere affissa una sattira su di una Tavoletta in forma di
notificazione in sito pub.o del Borgo, e di giorno.
10)
Per avere disprezzato il perdono, che il General
Consiglio Principe s’era degnato d’accordare agl’Insorgenti, mentre
Esso lo doveva procurare tosto che seppe essere stato ricusato da
Franco Martelli, e pochi altri compagni a nome di tutta l’unione.
11)
Finalmente per le tante altre mancanze, atti
avanzati, arbitrj risultanti dal Processo, La Curia, e Fisco
pretendono ch’Egli sia incorso nelle pene comminate dallo Statuto, e
altre Leggi di questa Eccma Repub. contro quelli, che comettono
simili cose.
Casali rimase taciturno e
perplesso di fronte alle accuse mossegli : Non so che dirmi,
rispose al giudice ;
solo mi raccomando alla
clemenza del mio Principe, che suplico avermi misericordia con
perdonarmi tutti i miei trascorsi commessi.
Nello stesso
giorno anche Camillo Sabattini fu posto dinanzi alle sue
responsabilità, identiche ovviamente a quelle di Casali. Anch’egli
si limitò ad invocare clemenza e perdono. Il 21 fu la volta di
Michele Martelli ; egli disse di non sentirsi colpevole di niente, e
che quello che aveva fatto dovesse risguardare il solo vantaggio
del Povero. Alla fine si rassegnò come i suoi compagni ad
implorare misericordia. Il 27 ed il 28 toccò a Francesco Martelli :
si dichiarò del tutto innocente perché ciò che aveva fatto mirava
solo ai vantaggi del Paese. Se aveva agito male lo aveva
fatto involontariamente ed in assoluta buona fede.
Mercoledì otto novembre Onofri si recò a Rimini per ascoltare la
deposizione di Bertola, ed alla fine del mese venne nominato come
difensore degli imputati Francesco Giannini, avvocato dei poveri. Il
20 dicembre egli presentò la sua memoria difensiva basata tutta
sulle buone intenzioni dei suoi clienti, e sulla semplice volontà
che avevano di divulgare nel paese idee ed azioni vantaggiose per
tutti. Essi si erano dimostrati ostili alle proposte più radicali,
come quelle contenute nel piano Bertola, ed avevano anche ottenuto
concreti effetti positivi per la cittadinanza con quanto avevano
fatto a favore del pane e del vino. Il 24 dicembre il
Consiglio esaminò una richiesta dei detenuti in cui lo si pregava di
giungere in fretta alla conclusione del procedimento e quindi alla
sentenza.
Il giudice, però, probabilmente non si sentiva ancora pronto per
concludere la questione. Infatti negli atti consiliari è
verbalizzato quanto segue : Per sollecitare il disbrigo di questa
processura fece pregare il Sig. Commissario a voler dare la
definitiva sentenza, non ostante che si fosse protestato già da
principio di non volervi aver parte (...). Egli cedeva alle
premure del G.le Consiglio colla condizione però di voler giudicare
unitam. al Comitato di P.S. ; il G.le Consiglio abilitò a quest’effetto
il Comitato unitamente al Sig. Commissario colla legge che sia
bastante il numero dei tre soggetti che ora lo compongono a decidere
colla maggioranza de’ voti.
Buscarini imputa questa
strana e per noi arbitraria decisione di affiancare un comitato di
esclusiva estrazione politica ad un giudice ordinario un chiaro
segno dei dubbi che aveva lo stesso commissario della legge ad
assumersi la piena responsabilità della sentenza, vista la natura
squisitamente politica del procedimento penale.
Questa spiegazione può essere parzialmente vera, anche se coi nuovi
elementi che ci vengono forniti dagli atti processuali non è più
possibile definire il processo esclusivamente politico, perché è
fuor di dubbio che la mossa non si è limitata a contestazioni
verbali o scritte, ma ha abbattuto porte, ha violato proprietà
private, ha malmenato individui, ne ha offesi altri, ha ricattato il
Consiglio, ha minacciato stragi e si è armata anche per eseguirle.
Motivi per condannare gli insorgenti ce n’erano anche senza
curare più di tanto gli aspetti ideologici, per cui non credo che
Marfori avesse dimostrato reticenza nell’emanare la sentenza perché
aveva dei dubbi sulla reale colpevolezza penale dei processati.
Penso, invece, che i dubbi del giudice dipendessero da altro, e
soprattutto dal non aver definito adeguatamente il ruolo di tutti
gli incarcerati nella faccenda, ed anche di chi incarcerato non era.
Le menti della mossa, per esempio, riescono praticamente a
farla franca, così come i presunti consiglieri che nell’ombra la
sostenevano e di cui non vi sono che rare ed impercettibili tracce
negli atti processuali. Inoltre analizzando le mille pagine degli
interrogatori condotti dal giudice ho avuto l’impressione che spesso
egli non abbia saputo o voluto giungere al cuore del problema,
limitandosi frequentemente a girarvi attorno con domande leziose e
senza un logico filo conduttore. Non sono riuscito a capire fino in
fondo se ciò sia dipeso da una certa incompetenza del funzionario
(essere giudice a San Marino non doveva essere particolarmente
ambito da chi competente era) coinvolto in un affare troppo grosso
per le sue possibilità, oppure da ordini provenienti dai suoi
superiori, ovvero dagli oligarchi, tendenti a salvare qualcuno e ad
affondare esemplarmente qualche altro privo delle necessarie
protezioni politiche. Vi era poi fretta di concludere tutto perché
la faccenda stava già creando polemiche nel circondario (cfr. app.
n° 7 e 8), e gli oligarchi erano ben consapevoli che tutto si
potevano permettere fuorché attriti con i Francesi ed i loro
simpatizzanti.
L’undici gennaio
il giudice Marfori comminò la pena stabilendo cinque anni di carcere
per i fratelli Martelli, Ubaldo Biordi e Pietro Casali, l’esilio per
tre anni ad Ippolito Ceccoli, e l’immediata scarcerazione per
Camillo Sabattini che venne ritenuto sufficientemente punito col
carcere che aveva dovuto subire fino a quel momento.
Gli incarcerati capirono che la loro crociata era irrimediabilmente
perduta, ed il 16 gennaio 1798 indirizzarono al Consiglio, blandito
come padre misericordioso, una straziante richiesta di
perdono dettata dalla lunga prigionia che li aveva fatti
abbastanza comprendere le conseguenze del delitto commesso.
Il Consiglio preso atto del pentimento dei condannati e, forse
timoroso di poter correre dei rischi a voler persistere in un
atteggiamento troppo rigido, viste le simpatie che indubbiamente gli
uomini della mossa avevano suscitato al di fuori dei confini,
decise di condonare gli anni di carcere comminati, obbligando però i
condannati a giurare fedeltà alla Repubblica, e col precetto di
non portar armi di sorte alcuna ne di tenerle in casa, di non unirsi
in nuovi complotti coi loro aderenti, di presentarsi ogni sei mesi
per la riferma, di non partire dal Territorio della Repubblica
senz’espressa licenza della Reggenza pro tempore. Al Ceccoli la
contumacia venne ridotta ad un anno soltanto, e nei mesi successivi
fu concesso il perdono anche a chi era riuscito ad evitare il
carcere fuggendo.
Con ciò l’intera
faccenda giunse alla sua
conclusione più ovvia, ovvero ad un mantenimento assoluto dello
statu quo ante.
VI
Coi nuovi
dettagli che ho fornito tramite questo breve studio mi auguro di
aver contribuito ad una migliore comprensione dei fatti del 1797,
anche se è possibile invece che l’abbia forse complicata. Fino a
queste mie pagine la vicenda, per quanto articolata, si poteva
leggere semplicemente come l’eterna lotta del male contro il bene,
dove i maligni erano i governanti, ostili alle giuste rimostranze
del popolo risvegliato, ed i buoni erano ovviamente gli
uomini della mossa, avviliti nelle loro sacrosante pretese. O
anche viceversa, perché esiste un’ampia storiografia locale che ha
sempre teso a vedere come positivo tutto quanto fatto dal governo, e
come esecrabile quanto fattogli contro o in contestazione. Da
un punto di vista puramente storico importa solo che l’insurrezione
sia accaduta, così da trasmetterci un mare di informazioni sulla
società sammarinese di fine ‘700 : cercarvi meriti e demeriti
potrebbe essere quindi pretestuoso e soggettivo. Tuttavia è
incontestabile, anche se tipico dei tempi, che gli oligarchi
al potere avessero la colpa di gestire come una proprietà privata,
con arbitri, abusi, ruberie, prepotenze e tanta arroganza una
comunità di uomini che andava giustamente fiera della sua epica
indipendenza. Ma è altrettanto incontestabile che gli insorgenti
ebbero la colpa di ispirarsi con puerile entusiasmo e ciecamente a
quanto era accaduto in Francia senza rendersi conto, ma sarebbe
meglio dire senza aver conoscenza, delle profonde e radicate
differenze socio - culturali che sussistevano tra Francesi e
Sammarinesi, tra popoli, cioè, figli di evoluzioni storiche assai
diverse e non accomunati da nulla oltre ai chimerici ideali
repubblicani perseguiti dagli uni e dimenticati dagli altri. Se si
calcola che le menti della mossa popolare sammarinese erano
un prete ed alcuni chierici, nonché la nebulosa figura di Bertola,
forse l’unico che assomigli un poco ai rivoluzionari transalpini,
si può facilmente capire la distanza che c’era con quanto era
accaduto e stava ancora avvenendo in Francia, e quanta ambiguità
potesse caratterizzare la locale sommossa, figlia di tutte le
ideologie e di nessuna. E’ chiaro che gli artigiani che si resero
suoi promotori furono quelli più ingenuamente e rozzamente
affascinati dagli ideali importati in Italia dai Francesi, e vi si
richiamarono con puntualità, convinti che bastasse avere
teoricamente ragione per fare e vincere una rivoluzione. Gli
ecclesiastici, invece, non potevano di certo essere figli degli
stessi ideali. Essi probabilmente divennero le menti della mossa
perché erano un preciso punto di riferimento per il popolino anche
prima di quest’episodio, perché possedevano le conoscenze
necessarie per capire che a San Marino le cose non andavano come
avrebbero potuto e dovuto, perché erano l’unica alternativa
culturale a chi stava ai vertici del piccolo stato, perché forse nel
corso del tempo il locale clero aveva sviluppato un’intima antipatia
verso politici che si rifiutavano fieramente di sentirsi soggetti
più di tanto all’autorità papale. Fu don Gaetano Angeli colui che
più di tutti contestò il Consiglio per l’omicidio Lolli e per
l’affare Giurovich. Furono don Rossini e Fazzini che modificarono
l’iniziale protesta riguardante il pane ed il vino in una
contestazione prettamente politica ancorata con rabbia agli statuti
secenteschi della Repubblica. Furono sicuramente loro con gli altri
chierici coinvolti ad avvolgere di una patina eroica e sacrale il
movimento. Non credo che si adoperassero per consegnare la
Repubblica al Papa : i tempi non erano i più adatti per una simile
azione, ed i ricordi legati all’episodio alberoniano, e soprattutto
al blocco del 1786 attuato dal cardinale Valenti-Gonzaga dovevano
essere ben vivi. E’ facile, invece, che abbiano agito in buona fede,
animati schiettamente da un senso di giustizia nei confronti della
popolazione, e da profondo malumore verso i poteri laici rei, come
verrà ribadito sempre in un libello accusatorio del 1823,
scritto pare da un certo don Annibale Righi, ma a cui
lo stesso don Rossini non doveva essere del tutto estraneo, di
mantenere un perenne disordine nell’amministrazione pubblica,
e di aver edificato uno stato ove altro non trovasi che la
miscredenza e l’irreligione; ove covansi gli odi, le frodi ed il mal
costume, ove l’insubordinazione è la guida dei prepotenti cittadini,
che sotto simbolo d’indipendenza tramandano l’uno all’altro il
comando. Tra l’altro all’interno dello stesso libello ci si
sofferma di nuovo sul delitto Lolli per ribadire che era uno dei
principali misfatti deliberatamente rimasti impuniti per colpa dei
disonesti governanti, e si torna ad accusare gli oligarchi per come
si erano comportati verso i capi della mossa nel 1797.
La mossa
però aveva anche un’altra anima più rozza ed euforica, più portata
all’azione impulsiva che alle chiacchiere, quella operaia cioè, che
si era sviluppata da esigenze assai più concrete e molto meno
teoriche : il bisogno di avere un pane mangiabile, il vino a basso
costo,
la carne a prezzi abbordabili. Proprio perché operaia questa parte
della mossa, che probabilmente tendeva all’autogestione nelle
polemiche spicciole e quotidiane senza riferirsi più di tanto
alle sue menti, si comportava con rudezza eccessiva tanto da
attirarsi le antipatie non solo dei governanti, ma anche di parecchi
di quei popolani nel cui nome avevano fondato la loro Unione.
Gli atti processuali riportano tante deposizioni di macellai,
contadini, artigiani in genere pronti ad infamare gli uomini della
mossa come prepotenti, arroganti, oppressori, nuovi padroni
ed altro ancora. Angelo Cervellini, per esempio, oste ed albergatore
del Borgo, aveva sentito affermare in varie occasioni da Casali,
Franzoni e Ceccoli che era ora che questi Signori la finissero e
che volevano un poco comandare loro, e non aveva remore a
definire come una vera briconata ciò che la mossa
aveva compiuto.
La minaccia di dar fuoco al Palazzo del governo proferita da
Martelli o di prendere le armi se il Consiglio non avesse
supinamente accettato tutte le richieste degli insorgenti
sono altri chiari indicatori dell’avventata grossolanità, emula di
gesta avulse dalle locali consuetudini, dei capi operai della
mossa, così come lo sbigottimento suscitato da simili
affermazioni nella maggior parte dei presenti sul Pianello denota la
labilità ed improvvisazione di tutto il fenomeno. Forse realmente
non c’era altro mezzo per rompere la stagnante situazione politica
di San Marino, per farla pagare ai Signori, ma se osserviamo
la faccenda secondo la prospettiva dei governanti, se valutiamo
tutta la potenziale rischiosità che la sommossa poteva avere dal
loro punto di vista, se pensiamo che metodi così aggressivi verso le
istituzioni politiche non hanno riscontri nella storia e nella
tradizione sociale sammarinese, la galera per gli insorgenti
appare come un obbligo fin troppo procrastinato.
L’insurrezione
del 1797, dunque, non può essere letta come semplice
contrapposizione di due parti, una positiva, l’altra negativa, e
neppure come il tentativo di consegnare la Repubblica al Papa, ai
Francesi o a chissà chi altro. Fu invece una vicenda intricata dove
forse ebbero una minima parte alcuni degli aspetti appena elencati,
anche se mi risulta difficile crederlo, ma dove indubbiamente giocò
un ruolo fondamentale prima di tutto la cultura democratica locale,
tradizionale e plurisecolare tanto da essere la colonna portante
della locale mentalità, vivificata dagli ideali e dagli esempi
importati dalla Francia, poi il malessere sociale derivante dalla
precarietà economica dei tempi, e dal timore della fame (il pane ed
il vino non erano optionals, ma alimenti fondamentali della
dieta quotidiana). D’altronde se si leggono i documenti n° 7 e
8 riportati in appendice, un articolo del Democratico imparziale
di Bologna prodotto a sostegno della mossa, e la risposta
allo stesso di Antonio Onofri, ovviamente ostile agli insorgenti,
risulta palese che anche all’epoca non fu per nulla facile
semplificare la questione per dimostrare l’assoluta legittimità
dell’una o dell’altra posizione : entrambi gli scritti presentano
forzature, imprecisioni, bugie ed omissioni, ovvero nessuno dei due
contendenti riesce a trovare la via più breve e più fondata per
dimostrare di avere totalmente ed incontestabilmente ragione.
La cultura
democratica sammarinese necessiterà ancora di lunga maturazione per
rompere civilmente e senza violenza il dominio della casta che la
sovrastava, e per cercar di tornare alle sue origini leggendarie, ma
ritenute da tutti assolutamente vere. E’ fuor di dubbio, però, che i
fatti del 1797, pur con i limiti e con le ambiguità con cui ci si
presentano, sono un punto nodale del cammino di tale cultura, una
tappa di un percorso nato secoli fa, e di cui ancora è impossibile
vedere la meta.
Disegni anonimi affissi dai
rivoltosi
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Appendice documentaria
Documento n° 1
Istanza
presentata al Consiglio del 3 giugno 1797
La piccola Repubblica di S.
Marino, le di cui giuste Leggi sono state sin ora il solo motivo
della di Lei interna conservazione, si è per il corso di 14 secoli
mantenuta nella sua indipendente Libertà. Scorre però quasi un
secolo, da che Ella più non gode quella tranquillità, quella pace,
che dagli antichi suoi Padri ereditava. Abbolite le sacrosante
Leggi, andati in disuso i pubblici diritti, salita in cattedra la
prepotenza d’alcuni despoti, privati ne restarono la maggior parte
degli Abitanti di quella felice consolazione che n’era il di Lei
constitutivo. Il solo e primiero motivo di un tal divario è
l’essersi introdotto l’abuso di formar nuovi decreti contrarj ai pmi
principj delli Statuti aumentandosi di giorno in giorno codeste
opposte determinazioni, ma molto più crescendo l’incuranza
d’osservare le pme fondamentali leggi della Patria ebbero principio
i tanti disordini, che per prudenza si tacciano, e che sono non solo
a cod. Popolo ma anche all’universo ben noti. Ebbero dunque
l’origine dall’intromettere il sognato grado di nobiltà, o sia
Cittadini del p.o Ordine l’usurparsi del peculio delle pubb. Casse,
la dimenticanza de’ rendim.ti de’ conti, il trascurare la
soddisfazione de’ Legati Pii, insomma lo spianto del Pubblico,
l’infelicità del privato, l’innosservanza delle leggi, la tirannia
de’ Desputi, l’oppressione de’ vari Cittadini, mancanze tutte, che
dalle Statut.e Leggi vengono rigorosamente vietate. Grazie al Cielo
però che dopo sì lungo tempo di tolleranza su tanto disordine giunse
il giorno opportuno di smascherare l’impostura, di rimpristinare il
Governo abolito, di ritornare a godere i giorni tranquilli dell’età
trapassate : regnava per l’universo tutta quella Aristocrazia
cotanto lesiva ai diritti dell’umanità fuorché in questo Governo non
aveva piantate le sue radici. Il suddito oppresso però da un tal
governo illuminatosi finalmente scosse il suo letargo ne infranse i
legami per fin sino alle confinanti provincie. Sparsi pertanto da
qualche tempo anche in questa Rep. Che ha sempre conosciuto il Gov.
Democratico i nocivi semi di tale aristocrazia ne furono la funesta
cagione della soversione di tanti diritti della Patria ; crediamo
però che se qualcuno sin’ora avrà aderito a tale Aristocrazia
sarà presentem. Illuminato, ed obbligato a metterla in obblio per
dimostrarsi vero Cittadino, per osservare le leggi che la vietano, e
per rendersi degno dell’aleanza fatta coll’amica Nazion Francese. Il
General Consiglio Principe assoluto di questa Rep. Al quale solo
aspetta di rendere inviolabili le Leggi Statutarie s’arrosischi
d’aver sin ora lasciati impuni i profanatori della med., e molto più
si vergogni di sentire il rimprovero del Popolo che inculca
l’osservanza delle Leggi al med.o solito costume di qualunque
Governo egli è che debba procurare il Sovrano la conservaz. Dello
Stato, l’obbedienza alle Statutarie Costituzioni, la riforma degli
abusi. I sud.i adunque della Rep. assai più premurosi del pub. bene
di quello sia lo stesso lor Principe vedendo che ne sono conculcate,
e messe in dimenticanza le leggi si danno il pregio di doverne
inculcare al Gen. Cons. la perfetta osservanza. Quest’unico oggetto
è stato il motivo che li à indotti a porgere al Pubblico Gen. Cons.
Principe le sue lagnanze volendo che si decreti la perfetta
osservanza dello Statuto, l’abolim. di tutti i decreti, che non sono
contenuti nelle Rub.dello Statuto, l’annichilim. dell’introdotto lib.
d’oro, e che le provide determinazioni del sud. Statuto non possino
essere derogate senza il pub. consenso del Gen. Arringo. Fù
questi che nella erezione di questa piccola Repca consegnò al Gen,
Consiglio di 60 uomini, che tanti più non sono, e quali vogliamo che
in tal numero siano eletti di nuovo ed i stabilim. Dello
Statuto, che anco in questo era stato derogato, le redini del
Governo, le leggi da osservarsi, gl’inosservanti da punirsi ; se
dunque l’istesso Generale Consiglio se ne rende inosservante, l’istesso
Popolo diventa il Giudice, ed il condannatore dell’istesso Consilio.
E chi potrà negar questo ? Il Cielo ci guardi però da un tal
pensiero. Conosciamo anche noi, che la sola innavedutezza, e la sola
ignoranza in alcuni, e in alcuni altri la prepotenza, e l’impostura
sono stati i motivi dell’innoservanza delli statuti , e
dell’innovazione di tanti decreti contrarj alle leggi vergognosi al
Principe, e nocivi alla Patria ; però ci basterà soltanto porgere un
lume ai Consiglieri, acciò si emendi ciascuno nel proprio diffetto o
dell’ignoranza, o della prepotenza essendo sicuri che
decreteranno senza esitazione l’osservanza di quelle leggi che per
tanto tempo osservate furono valevoli a conservare nel suo lustro
una piccola Terra, e dopo che più non si osservano sono la causa del
suo vituperevole disprezzo. Non sembri che la parola vogliamo sia
una prepotente espress., mentre vien proferita soltanto per
dimostrare l’amore del Popolo verso la Patria, essendo che senza l’ajuto
del Popolo e di lui consenso il Principe non potrà rimpristinare il
Governo. Più giusta non puol essere la nostra pretensione onde il
Popolo Sammarinese si farà un pregio presso l’universo di
dichiararsi osservatore delle sue Leggi quali sono state il motivo
per cui in ogni tempo, ed in specie nelle pte. Circostanze si è resa
celebre ed invidiabile questa piccola Terra, non solo nei Stati
limitrofi, ma anche agli trasmontani ed ai più rimoti sono note le
nre Leggi, e come giuste ebbero il favorevole incontro di essere
applaudite da tutti, pure a che prò ? Se da quelli che le professano
invece d’osservarle sono con malvaggio e crudele disprezzo abolite
calpestate e distrutte, non sarebbe così favorito questo piccolo
tratto di Terra se sapessero gli Esteri che Leggi così venerabili
sono in tal maniera disprezzate ed incolte, che tante abusive
inosservanze sono comesse dai despoti tiranni della stessa lor
Patria, ogni buon cittad.o che ama il ben della Patria, che desidera
il pregio ed il rispetto della Rep.a, che nutrisca in petto sentim.
d’onore dovrà acconsentire alla nra. Volontà pubblica, altriment.
Chi dimostrerà avversione alle nostre pretenzioni, darà un segno
evvidente di essere ribelle alla Patria. Abbiamo voluto in iscritto
esporre le nre dimande a solo fine di osservare le leggi, che
dicono : Che tutti i Capi di Famiglia della nra Rep. come che
democratica abbiano jus di appresentarsi al pub. Arringo, e che in
tempo dello stesso nessuno possa fare sussurri, prevedendo adunque
che chi avesse esposto al pubb. Arringo cod.a nra volontà ne sarebbe
nato un qualche bisbiglio, abbiamo voluto evvitarlo con esporre
soltanto al pubb.o Gen. Cons. Principe la nostra ben giusta volontà,
al quale come si disse consegnò una volta tutte le faccoltà il
Popolo Repubblicano. Avverta pertanto lo stesso Gen. Cons. essere lo
stesso Popolo, che così vole, e non un qualche particolare Rifleta
che viene a ciò obbligato ogni buon Cittad.o, ed in specie ognuno,
che ha giurato fedeltà alle Rub. Dello statuto, e dopo d’aver ben
considerato, crediamo che nessuno avrà coraggio d’esentarsi
dall’osservanza di qualunque piccola Rub.a dell’accenn. Statuto. Il
Consiglio deve essere formato di 60 uomini ; perché dunque non più
tanti ne sono ? Perché nell’elezione de’ Pub. Rappresentanti non si
deve avere riguardo allo Statuto ? Si devono rendere i conti nei
termini delle Leggi prescritte ; perché dunque si lasciano
trapassare i lustri e la metà de’ secoli. Perché le Cariche, e le
incombenze pub. in mano soltanto dei aristocratici pretesi ? Perché
non darli il suo giro ? Perché non adempiere le soddisfazioni
dei pii Legati al sup. Consiglio affidati da quei Benefat. già
difronte l’anime le quali gridano vendetta nel cospetto di quel Dio,
che stanco di più soffrire tante prepotenze, e tirannie intima al
mondo tutto rigorosa riforma ? Da questo derivano tanti
spergiuri, e scomuniche, le quali sono la cagione della rovina delle
famiglie e degli interessi privati e pubblici. Eh che tali
innoservanze più non si possono soffrire si venghi adunque al
ristabilim. Delle Patrie Leggi per ridare le felicità passate degli
antichi giorni, che godevano i nri Padri, e che lasciarono in nostra
balia di poterne godere.
Il Popolo della Repca della Terra di S. Marino
( ASRSM,
Atti Criminali, b. 703)
Documento n° 2
Istanza presentata al
Consiglio del 12 giugno 1797
L’inconcludente rescritto dal
Gen. Consiglio emanato, come che fà vedere l’incuria di ascoltare le
giuste voci del Popolo, è stato un maggiore incentivo per
proclamare di nuovo avanti il med.o Gle. Consiglio. Non basta avere
accordato soltanto la rendita de Conti, la creazione di nuovi
Consiglieri. Non basta, dicessimo, il rendim.o de conti, se non
vengano ancora reintegrate le pub. Casse esauste da alcuni
particolari, che ne ...? o debitori, per che anche a questo dovranno
anche conseguentem. venire obbligati. Non è sufficiente la creazione
di nuovi Consiglieri, se anche questa si rende invalida per alcune
mancanze dallo Statuto vietato. Non è solam. questo, che chiede il
Popolo illuminato, una volta e stanco di soffrire la Tirannia
del Governo. Si tace però su di ciò, che forma la prima base
del ...? (rovesciato) legittimo Principe, e la prepotenza del
dispotismo. Ma se per il povero Popolo è stato ...? se non fosse
giunto ad intendere la perfida ostinazione chi ha promulgato un
rescritto così ristretto. Sappia però il Gen.le Consiglio, che
non gli riuscirà d'inorpellare la giustizia, di abbagliare la vista
ad un Popolo intero di procedere ulteriormente nell'impostura, e
nella prepotenza, e che non si cesserà mai di proclamare per
l'osservanza delle leggi intanto che non si sarà ottenuto tutto ciò
che seco porta il bene della Patria, il vantaggio del Pubblico,
l'utile del privato. Per ciò fare adunque (come già l'altra
volta si disse) il più necessario si è di abbolire i decreti, di
annullare l'abusivamente introdotta Aristocrazia, di amettere il
consenso del Pubblico Gle Arringo nel dovere abbolire, o formar un
qualche nuovo decreto, e fattosi questo, ne verrà per legittima
naturale conseguenza l'osservanza della Statutarie constituzioni. A
questo fa d'uopo fare il sacrifizio, e del libro de decreti, e
del libro d'oro, o sia dove sono registrati i pretesi ...?
Aristocratici. Nocivo il primo, perché contenendo molti decreti
contrarj allo Statuto, si ragira a piacimento dei despoti secondo i
bisogni, facendo valere dove fa d'uopo i decreti, e dove si fà
d'uopo li Statuti. Molto più nocivo il secondo, e non ammesso dalle
leggi, ma bensì introdotto dall'abuso, perché per varj umani
rispetti vengono abbolite le divine, ed umane leggi, conculcata la
giustizia, e perché il tutto si fa lecito, e si arroga
l'onnipotente, e prepotente aristocrazia. Si sa benissimo, che se è
colpa degl'ora ...? pretesi Nobili l'esser nati in così misere
condizioni, ma che ne anno ereditato dagl'Avi, ed Ascendenti loro da
poco tempo l'abusivo titolo. A questo riflesso però molto più
volentieri se ne dovranno scordare e disappassionatam.
rinunciarlo, considerando di non possederlo legittimamente, ma solo
per colpa dei loro Antenati. L'azioni sono quelle, che formano il
distintivo dell'Uomo dabene; coloro pertanto saranno i più
rispettati, e che saranno avuti in maggiore considerazione, quali
faranno vedere le loro ruvinose operazioni , che desidereranno il
bene del Pubblico, l'adempimento degli obblighi dei pii Legati; e
siccome il rinunciare al titolo usurpato di Aristocratico sarà
riguardato come una doverosa, e virtuosa azione, speriamo che tutti
si vorranno a gara distinguere coll'abbolim. spontaneo di un
tale titolo più per loro vituperoso, che onorevole, sapendo
benissimo con nostra consolazione, che alcuni di già con tutta la
rassegnazione si sono risoluti d'abbandonarlo. Del mondo intero
ne vediamo l'esempio universale, essendo che i popoli
illuminati, e stanchi di soffrir la Tirrania, e la prepotenza di chi
l'illecito si fà lecito, abboriscono l'Aristocrazia o con soprimerla
a forza, o con rinunciarla spontaneamente abbenchè ereditata
legittimamente dai loro antichi Padri e qui nel nostro Governo, che
si amette distinzione di grado, invece di detestarlo si deve
abusivamente introdurre ? Ah nò, non sarà mai possibile. Il Popolo,
che forma il costitutivo del Governo cesserà d'essere sudito, e il
Gle Consiglio cesserà d'essere Principe quando si vedranno osservate
quelle leggi, che il Popolo istesso diede al Gle Consiglio da
osservare, e da farsi osservare. Accerta però lo stesso Gle
Consiglio da osservare, e da farsi osservare. Accerta però lo
stesso Gle Consiglio, che è Gle il ricorso, che è tutto l'intero
Popolo, che riclama, e che la voce del Popolo è voce di Dio. Dio
immortale. Che cosa più giusta puol dimandare il Popolo, a chi
riconosce per suo legittimo Principe, che l'osservanza delle Leggi?
e pure non vi concede. Anzi nel tempo stesso....... l'osservanza de
Statuti, con solenne spergiuro ne deroga una Rubrica con crear
Consiglieri, che ancor non son giunti all'età necessaria dalli
Statuti richiesta, o che per altri impedimenti non potendo essere
curati. E poi si deve tacere, e non si dovrà ripetere il tutto dalla
prepotenza, e dall’impostura, ovvero dall’ignoranza e dall’inavedutezza ?
Si persuada il Gle Consiglio, che il Popolo Sammarinese non è
indotto a far questo da stimolo di sedizione, ovvero da qualche odio
maligno contro qualche membro del suo legittimo Ppe, ma bensì da
quel dolce amore della Patria, alla quale ogni buon Cittadino
si deve dimostrare riconoscente e per porre nel suo pristino
splendore quel Principe, il quale da suoi infedeli ministri tradito
con disdoro di tutta la popolazione geme la sua gloria offuscata
dall’Aristocratico nembo. Ecco dunque in che si ristringono le
nostre domande. Vogliamo 1° - L’abbolizione dei decreti. 2° - La
sopressione dell’abusivamente introdotta Aristocrazia. 3° -
Che abbiano il suo giro le cariche, e le incombenze pubbliche. 4° -
Il consenso del Gle Aringo per derogare, o formare un qualche
decreto dello Statuto, altrimenti questo istesso Aringo si
convocherà a norma degli Statuti, e si stabilirà tutto ciò, che si
volesse essere dipendente dal Pubb. Genle Consiglio. 5° - La
consegna sul momento del libro d’oro, e del libro de decreti in mano
del Popolo. 6° - Che si levi ogni distintivo frà i due Capitani
introdotto, quando che ambi due sono eguali dovendosi però la
precedenza al più meritevole o per anzianità, o per dottrina, e non
per condizione o per pretenzione di grado, come sapiamo aver
praticato gl’antenati , che davano la preferenza ai più dotti, o ai
più anziani quantunque ... ? 7°- Osservanza perfetta dello Statuto,
e insomma la riforma di tutti gli abusi introdotti, quali ora non
sovvengono, mà che coll’andare del tempo saranno scoperti, e in
conseguenza evitati. Non si presumino alcuni Consiglieri contrarj
alla giusta dimanda di poter abbagliare e inorpellare il Popolo con
qualch’altro dubbioso rescritto, mentre sarà sempre pronto a
riclamare di nuovo, quando non vede ripristinato l’antico governo,
abbattuta la prepotente Tirania, premiata la virtù, punito il vizio,
e ubbidita perfettamente la Legge del sacrosanto Statuto. Se tutto
questo non giova a persuadere il Gle Consiglio della Nostra ben
giusta volontà, saremo sforzati a prender l’armi per diffendere i
diritti nostri non solo, mà anche quelli della Patria comune, della
nostra cara Repub. Del Nostro Glorioso Levita Protettore. Non
isperiamo però di doverci innoltrare ad un simile passo, essendo ben
persuasi, che a tutti egualm. Sta a cuore il pub. E privato bene,
l’osservanza delle umane e buone leggi, la perpetua conservaz. Della
Nostra amata Repub. Quale senza tanti decreti, mà solo coll’osservanza
dei Prinpli Statuti, si è per tanto tempo mantenuta nella sua
quiete, e tranquilla pace, e libertà, sintantoche introdottasi
l’Abominevole Aristocrazia non ha provati tutti i sinistri
disastrosi, e nocivi incontri dai quali preghiamo l’Onnipotente
Iddio, e l’impareggiabile, ed inclito Protettore S. Marino, che ce
ne liberino, e che ci assistino in qualunque pub., e privato nostro
bisogno. Staremo dunque attendendo ansiosamente un benigno, copioso,
autentico, chiaro, e decisivo riscontro unitam. al pto
foglio, al qle secondo il Costume trascurato l’altra volta, và
annesso lo stesso rescritto e il radunato Popolo non partirà sin
tanto ch@on avrà ricevuta quella risoluzione, che giustam. richiede.
Il Popolo della Repub.a
(ASRSM,
Atti Criminali, b. 703)
Documento n° 3
Discorso al Popolo di S.
Marino
E fino a quando, o Nobili
pretesi, e immaginarj, che vantate un titolo fantastico, e
menzognero v’abuserete della lunga nostra tolleranza ? Forse dovremo
esser sempre il bersaglio del vostro dispotismo, l’oggetto della
vostra tirannia, ed il ludibrio del vostro genio maligno ? E non
dovranno esser mai rafrenate le vostre iniquità, la vostra audacia ?
Niente vi comovono i lamenti d’un Popolo risvegliato da vergognoso
lettargo ? E questi insorti romori, che vi minacciano rigoroso
castigo se non osservate il dovere di Cittadini, non anno niente
scemato il vostro orgoglio ? E i rimorsi della coscienza non più si
sentano nel vostro cuore già divenuto insensato, e avezzo ad ogni
misfatto ? Credete che non ci siano note le vostre ordite trame ?
Non sapete, che le vostre inique operazioni a noi sono tutte
palese ? Che non faceste nella morte del Loli per difendere un
assassino ? Quali scelerati ragiri non si videro allorché tentavate
di copprire l’enorme delitto d’un falso monatario, che doveva essere
vivo abbrucciato, opprimendo la Giustizia, e portando in trionfo la
malvaggità ? Da chi sono state obbliate le venerande leggi, resa
vedova le pubbliche casse, i pubblici errarj se non dai pretesi
Nobili ? O tempi ! O costumi ! Il Pubblico Generale Consiglio
Principe vede queste cose. I Capitani ogni giorno le lamentevoli
voci ascoltano di colloro, che gridano giustizia ; e questi falsi
Nobili tuttavia resistano nella loro perfidia ? Anzi vengono ammessi
nel pubblico Consiglio. Oh Dio ! E come potranno adunque andar bene
i pubblici affari ? Ah che il tutto è in scompiglio : un caos
informe è divenuta la povera Repubblica. E noi Figli amorosi d’una
sì cara Patria rimireremo con ciglio indiferente la sua caduta ? Da
chi mai Ella spererà soccorso se non da Noi ? Se più tardiamo sarà
il tutto inutile : E’ imminente l’infausto istante di sue rovine.
Affrettiamoci, e corriamo a rapire quei Sacrosanti Statuti, acciò
non siano affatto dispersi, e perduti. In Essi consiste ancora la
salute della Repubblica. E’ questo il tempo di distinguere ogni vero
Cittadino. La Patria è nostra madre commune, e come madre la
dobbiamo onorare e diffendere. Se mai la perdessimo, quale sarebbe
il nostro pentimento, il nostro cordoglio ? Sì che bisogna farla
risorgere. Noi soli potiamo rimetterla nella Sua pristina salute. Da
noi dipende, che Ella riacquista le sue perdute forze, e che come
prima ritorni a risplendere nell’universo. Trè sole cose, o
Cittadini, sono necessarie per il suo ristabilimento, e tutte facili
a conseguirsi da voi, che avete il cuore infiammato da Patriottico
amore : l’osservanza in tutto, e per tutto di quelle Sante Leggi,
che chiamansi Statuto. L’abbolimento de nuovi decreti. Ed un
sempieterno obblio a quel falso, preteso, e pernicioso grado di
nobiltà.
Che queste trè cose siano del
tutto necessarie, ragionevoli, e giuste in breve appertamente ve lo
dimostrerò. Il Popolo Sammarinese avendo per lunga serie di anni da
se governata la piccola Repubblica, che ha collocata sua sede su
questo alpestre monte, sempre bramoso d’un metodo di governo più
vantaggioso e quieto, pensò di affidare le redini del Comando, come
già fece, al Pubblico Generale Consiglio Principe di sessanta
Uomini, riserbandosi due volte all’anno il pubblico Arringo. Il
pensiero fù certamente degno di Lui, mà forse non l’avrebbe eseguito
se si fosse immaginato, che per la trascuraggine, ed ignoranza in
alcuni, e per la malizia e prepotenza in altri di questi
Consiglieri, dovevano essere abbolite le vere leggi, e in loco di
queste sostituiti certi falsi decreti ad esse contrarj, e
reppugnanti. Inosservate, anzi obbliate le leggi come potrem dunque
esser ben regolati ? Se quelli, che dovrebbero invigilare, e
procurare la loro osservanza obbrobriosamente sen dormono, o fingono
di dormire, vogliamo ancor noi con Essi seguitare a dormire, e
intanto lasciarci affatto incatenare, e permettere che il pubblico
sia del restante spogliato ? Nò bisogna squoterci, e risvegliar chi
dobbiamo. Oh vergogna ! Oh vitupero ! Se i Consiglieri fossero stati
vigilanti, e intenti al loro dovere non sarebbero insorti tanti
disordini. Mà s’arrosischino pure, essendo stato il Popolo
necessitato a inculcarli l’osservanza di quelle Leggi, che essi
avrebbero dovuto inculcare al Popolo. Il Popolo, e con ragione,
potrebbe levarli il comando, e al doppio giustamente punirli,
giacché si sono resi inosservanti, e non le anno fatte osservare a
chi dovevano. Ciò in vero meritarebbero mà spero, che voi, o
prudenti Cittadini, non lo farete. Le Leggi sono quelle, che da per
tutto comandano, i Principi ne sono i ministri, ed ancor Essi sono a
queste soggietti. Se qui in San Marino si fossero osservate non
sarebbero entrati tanti mali, e tanti abusi. Se ogni dato tempo si
fosse reso conto delle pubbliche ingerenze, e se indifferentemente
le cariche avessero avuto il loro giro, come comanda lo Statuto, ora
le pubbliche casse non sarebbero in tanta miseria. E non dovremo
vedere che gl’indegni usurpatori vomitino fuori quel tanto, che anno
tranguggiato ? Che si faccia è cosa troppo doverosa, e in breve
rendino pur conto coloro, che anno divorate le tenui sostanze della
povera Repubblica : E questi Conti dovrebbero esser fatti alla
presenza di deputati non consanguinei ai debitori, non
sospetti di Aristocrazia, né d’infedeltà. Ancor non giova che siano
resi i conti se non vengono reintegrate le pubbliche casse ; e
sarebbe ottima cosa il levare i libri dalle di loro mani,
sigillarli, e consegnarli a suddetti deputati. Nelle presenti
circostanze è stata una cosa veramente onorevole alla nostra
Repubblica il non esser ricca, ma l’esser poi tanto miserabile che
più non possa susistere è cosa vituperevole. La Legge vole, che
tutti quelli i quali saranno debitori al pubblico, egualmente
soddisfaccino al loro debito. E qui perché alcuni devono essere
costretti a sodisfare, ed altri nò ? Forse perché non portano
scolpito in fronte l’infame, l’immaginario titolo di Nobiltà ? Ah
che ancora la Giustizia languisce oppressa, ed è immersa frà
gl’orrori di un cupo obblio ! Ed il pubblico Consiglio da se solo
non mai potrà risarcire a tanti danni. Mà... Che Consiglio ? Il
Principe Consiglio ora più non esiste ; lasciossi cadere di mano lo
scettro del Comando, che gli era stato dal Popolo affidato. Ed ecco
con che si prova. Lo Statuto nella Rubrica decima nona comanda, e
vuole, che tutti quei Capitani, i quali non avranno reso conto del
loro Capitaniato debbano essere scancellati dal numero dei
Consiglieri ; ora qui la maggior parte de Consiglieri sono stati
Capitani e non anno reso conto ; dunque la maggior parte de
Consiglieri non hà più voce in Consiglio. Quei pochi che restano non
sono sufficienti per formarne dei nuovi, e per questo bisognerà, non
essendovi più quel numero, che formava il Principe, bisognerà
convocare il Pubblico Generale Arringo, ed ivi sciegliere quei
Consiglieri, che mancano, di nuovo poscia affidando il Governo
ai sessanta Uomini coll’avvertirli, che dovranno, non come per il
passato, procurare l’osservanza delle leggi, dal che per conseguenza
ne viene l’abbolizione degli intromessi temerarj abusi. Il Consiglio
secondo lo Statuto non puol esser maggiore, ne minore di sessanta,
ed ora appena sono quaranta. Niuno deve essere creato Consigliere se
non ha l’età di anni venticinque, e nell’ultimo Consiglio dei trè
del corrente Giugno ne furono creati due, minori della ricercata
età, col derogare subito una Rubrica di quelle leggi, che vi
avevano, o Cittadini, promesso d’osservare in quell’inorpellato
rescritto fatto alla vostra supplica, con il quale crederono i
despoti Titani della nostra misera Patria d’ingannarvi. Adesso si
conosce quanti invalidi Consigli sono stati radunati ! Quante nulle
risoluzioni ! Oltre di questo lo Statuto comanda che tutti quelli,
che essendo debbitori al pubblico, e non avranno soddisfatto, non
debbono aver loco in Consiglio se non dopo una intera restituzione ;
e qui tanti de pretesi Nobili sono debitori di somme considerabili,
e ciò non ostante essi nel Consiglio si prendono il primo loco ;
quando sono Capitani portano pendente al Capello un nappo d’oro a
differenza degli altri, che non sono di quel falso grado ; e lo
Statuto dice, che tutti i Consiglieri sono frà di loro eguali, non
ponendovi alcuna distinzione, e dovendosi distribuire i posti
per ordine d’anzianità. E si deve tacere ? E non dobbiamo dire le
nostre ragioni in rimirare un lagrimevole rovescio in tutte le
cose ? Di più. Alcuni de pretesi Nobili nel loro Capitaniato anno a
nome del Consiglio presi dei denari a censo, ed il Consiglio non
sapeva nulla. Ah stupisco con qual animo i Consiglieri, e i Capitani
quando prendono possesso del loro officio giurino sopra del Santo
Evangelo di fare il proprio dovere ! Sono tutti spergiuri, e
scommunicati. Uditemi. Al pubblico Consiglio sono affidate certe
Capelle da farsi offiziare ; alcune doti da dispensarsi alle povere
zittelle ; il monte frumentario da distribuirsi ai bisognosi. E
questi come vanno ? I Capellani non possono mai avere la mercede
delle loro fatiche ; le doti quasi mai si distribuiscono ; e al
monte appena un terzo gli è rimasto del grano, che possedeva. E poi
devono andar bene gl’affari del pubblico, e dei privati ? Le anime
dei già trapassati benefattori, che instituirono tali legati,
gridano vendetta nel cospetto di quell’Ente supremo, che sarà stanco
di più tollerare tanta iniquità. Le nostre leggi sono ottime e
sante, mà non più si osservano, e da tale innosservanza dipendono
tanti inconvenienti. E’ stolto il garrire di coloro, che dicono, che
i Statuti avrebbero bisogno di essere riformati. Se non fossero
venerabili non sariano stati venerati da tanti Popoli. Se non
fossero giusti e salubri non avriano per sì lungo tempo conservata
in placido stato la Republica. Si vede bensì bene, che subito che fù
trascurata la loro osservanza vacillò. In una sola cosa saria d’uopo
riformarli, cioè nelle pene pecuniarie, le quali riguardo al tempo,
in cui furono instituite ora sono troppo leggiere, mà farlo però
sempre col consenso del Generale Arringo. Oh perfidia insensibile !
Voler vivere frà disturbi quando si potrebbe vivere in perfettissima
quiete. Mà noi felici però se nel Popolo terminò la trascuraggine,
il dispotismo la tirannia nei falsi Nobili. Or che conosciamo il
nostro dovere non potiamo senza aggravamento della coscienza star
più neghitosi in così pernicioso silenzio come stolidi, ed
insensati. Sarebbe la nostra una vera crudeltà rimirare la Patria
aggonizante, e non arrecargli ajuto. L’osservanza quanto prima dello
Statuto potrà risanarli le accerbe ferite. Si credetemi : nelle
leggi consiste l’esistenza della Repubblica se la volete.
Mà poco, o cari concittadini
si potrebbero osservare le leggi se non venissero abboliti quei
nuovi, e falsi decreti, che il pubblico Generale Consiglio privo di
una tale autorità ardì di formare. Allorche gli fù affidato il
governo, gli furon ancora date quelle leggi necessarie per regolare
con giustizia questa piccola nazione. Egli dunque perché formarne
delle nuove ? Quale necessità lo hà costretto a ciò fare ? Con qual
potere ? Il solo desio in molti di tiranneggiare gli hà animati a
comettere un tale eccesso. E quei nuovi decreti che contengono ? Oh
se lo sapeste, o Cittadini ! Contengono cose obbrobriose a Voi, e
dannevoli alla Patria. Lo Statuto vuole, che tutti i pubblici affari
siano dal Consiglio Generale di Sessanta Uomini considerati, e
stabiliti ; ed ora riferiscono nel Consiglio quel tanto si puol dire
che meno importa ; mà il tutto, ed il più essenziale a forza di
ragiri si risolve dai pretesi Nobili a modo loro nelle private
Congregazioni, nelle quali se v’interviene qualch’altro Consigliere
non nobile prima di farlo venire procurano di tirarlo al loro
partito. Se poi nel pubblico Consiglio riferiscono qualche rilevante
affare, stabiliscono prima nelle sudette Congregazioni in qual
maniera glielo possono rappresentare per ottenere il loro intento,
succedendo il più delle volte che con bugie ben ordite danno ad
intendere ai troppo buoni Consiglieri il falso per il vero, il
giusto per l’iniquo. Nelle ballottazioni fanno molte sporcherie.
Quando i Consiglieri arringano sopra cose che non avrebbero piacere,
si alzano dal proprio luogo e si mettono a cicalare acciò non siano
intesi, e in somma nel Consiglio detti Nobili pretesi anno
introdotti molti scelerati abusi, che se non vengono lavati non
potersi risolver mai niente. E infatti come puol sussistere la
nostra libertà, la nostra ugguaglianza se tutti i primi ministri del
Principe Consiglio sono Aristocratici, e nemici accerrimi della
nostra Democrazia ? La di loro infedeltà, la di loro perfidia non
han mai permesso, che siano ascoltati i ragionevoli nostri lamenti.
Dunque s’abbolischino ancora queste inique congregazioni. Il
pubblico Secretario non puol essere uno de Consiglieri ; ed ora il
Secretario fa da Consigliere, da Capitano, e da Principe. Egli
sempre interpreta la volontà del Consiglio a modo suo senza quasi
mai chiedere il commune parere. Quello che fa Lui è ben fatto. E che
non puole errare come gli altri uomini ? E’ forse un Dio ? E’ forse
infallibile ? Quantunque operi bene è sempre condannabile ; perché
il Secretario non deve far altro che scrivere realmente le
risoluzioni del Generale Consiglio, e non mai comandare, e farla da
Principe. Alcuni alle volte si sono serviti abusivamente del
pubblico sigillo nei propri affari. Non è molto tempo, che ne fu
fatto mancare uno forse per servirsene nei loro bisogni. Disordini
tutti, che dal Consiglio vengono indegnamente tollerati senza alcuno
risentimento. L’elezione dei Capitani deve esser fatta senza alcuna
distinzione, eccettuata quella del merito, e della capacità, ed ora
è stato intromesso l’iniquo abuso, che l’uno dei Capitani debba
sempre essere uno de pretesi Nobili, dandosi il nome di primo
Capitano. Ed intanto lo Statuto dice, che siano scielti dodici i più
idonei frà i sessanta uomini senza nominare ne il Nobile ne il
Plebeo, ne il primo ne il secondo. Chi volesse ad uno ad uno
narrarvi i decreti che sono stati ingiustamente, e senza autorità
fatti, sarebbe cosa al sommo tediosa, anzi stomachevole ad
ascoltarsi, mà bastavi il sapere che il volume, in cui sono scritti,
oltrepassa in grandezza il libro de Statuti.
L’illustre Repubblica Francese
hà in vero verso di noi dimostrato un gran rispetto unito a molti
beneficj ed onori, mà la cagione di sì gran sorte sapete chi è
stato ? Sono state le nostre leggi. Esse sono tanto sacrosante, che
ci anno acquistata l’amicizia d’una nazione così potente. E se
fossero state differenti, cioè tiranne, ed aristocratiche avressimo
ancor noi sofferto ciò che al presente soffre l’Italia tutta, e in
specie la tiranna, e aristocratica Repubblica di Venezia. E mai cosa
credibile, che se gl’avessero questi nostri magnati mostrato il
Libro de nuovi decreti, e quel Libro, che Essi chiamano d’Oro,
saressimo adesso lieti, e contenti d’una si grata sorte ? Nò
certamente. E non avendoglieli mostrati segn’è, che o si
vergognarono di mostrarli le corna del di loro vitupero, oppure
temettero d’incontrare un qualche impaccio. Sì, cari miei Cittadini,
la nostra sarebbe un ingratitudine se ci dimostrassimo sconoscenti
verso d’una Repubblica, che volle annunciarci i dolci nomi di
Fratellanza, e amicizia, potendo se per disgrazia noi irritassimo il
suo furore, del che non v’è dubbio, con un soffio rovesciar questo
monte, e lasciar di noi la sola memoria. Mà più grande sarebbe la
nostra ingratitudine se dimenticati lasciassimo stare in preda all’obblio
quelle care Leggi che furono, e saranno la nostra salute. Si prendi
dunque il Libro nefando, e sacrilego di quei nuovi decreti, e non
dando orrecchio alle garrule voci diquei perfidi, che la chiamano
cosa crudele, sia questo ridotto in cenere, e le ceneri sparse al
vento per eterna dimenticanza di Lui, e di chi lo formò
ingiustamente, e senza veruna autorità.
Con tutto questo, o diletti
Repubblicani, avessimo poco giovato alla salute della nostra
Repubblica, se qui terminasse quel tanto, che dobbiamo fare. Rimane
ancora uno scoglio, che se non viene infranto, e distrutto,
conquasserà di certo la nostra nave, e noi miseri tutti naufragaremo.
Questo superbo, ma però frangibile scoglio è quella pretesa nobiltà,
che senza sapere il come entrò, e pose sue velenose radici nel
nostro governo, già per solita innavertenza, o malizia del Principe
Consiglio, Grado di persone nemiche implacabili della oppressa
umanità, che con ogni sforzo s’affaticano di suchiarli il più puro
sangue. Questa pretesa, e falsissima Nobiltà su quella, che
incominciò a scalzare le fondamenta di questa Repubblica, e che la
hà ridotta a un tale lagrimevole stato da che venne fuori questo
indegno titolo, e sono pochi lustri, subito incominciò a cambiare
d’aspetto, ed ora è tanto aggravata da un tal male, che come dissi è
agonizante. I Nobili furon quelli, che fecero dimenticar le leggi,
che oppressero la Giustizia, e divorarono le sostanze. Oh quanti
enormi delitti sono stati comessi, e fatti comettere da costoro !
Quale barbaria non videsi allorche fù trucidato il Loli, e fugli dal
scelerato uccisore portato via tutto il denaro ? Epure gl’indizi
erano certi che l’uccisore fosse un Nobile. Oh Dio ! Un Nobile ? E
come mai in un cuore alimentato di nobiltà, in un uomo per le di cui
vene serpeggia un sangue delicato, e netto tanta crudeltà ? Ah non è
cosa credibile. Come ? Se lo stesso Giudice prima che venisse
discacciato assicurò che il reo era un Nobile. E poi qual sicuro
indizio non si ricavò dall’improvisa fuga del malfattore ? Qual
indizio non diede il dispotismo de falsi nobili allorche con
minacciarli la morte discacciarono il giusto Giudice perche aveva
scoperto che il delinquente era un Nobile ? Uno stolto avrebbe
conosciuto chi era il reo, mà perche era uno del preteso
infame grado fù troncato il processo. Che sento... Frà i nobili un
assassino ! E il capo dell’unione de falsi monetarj anch’esso
non fù uno de pretesi nobili ? Un nobile era che direggeva una
azione così iniqua, e malvaggia : mà perche era nobile il tutto fù
da suoi simili aquietato, e coperto. L’autore del furto comesso
nella cassa della abbondanza di mille, e più scudi non fù anch’esso
uno de pretesi nobili ? fù senza dubbio. Anzi l’istesso
abbondanziere, il quale volendo viaggiare, e non avendo denari levò
dalla casa detta somma e poi diede ad intendere al pubblico, che gli
era stato rubbato. E poi devono sempre avere le amministrazioni
costoro ? L’ambizione di conservare il decoro d’un tal falso grado
quando non possono li costringe a comettere simili sceleragini.
L’avidità dell’oro gli hà fatto operare prodigj. Per opra loro le
valigie sono volate dalle finestre senza ali. Gl’orologi che
camminano colle ruote anno camminato ancora colle gambe e sono
spariti. Che più ? Gl’istessi sacri tempi non sono restati ilesi
dalla di loro avidità. Più lampade rubbate. Molta compagnia ridotta
in povertà. Ah che chi volesse narrare tutte le iniquità commesse da
questo falso iniquo grado saria impossibile ; mà bastavi il saper
quelle, che sono state comesse negl’ultimi calamitosi tempi della
povera Repubblica, la quale mediante l’indegno regolamento è ormai
affatto fallita. E li dobbiamo soffrire ? Ah non si puole. In questa
maniera la nostra Patria non più potrà susistere. Ancor del veleno
gl’indegni si son serviti per distruggere la misera umanità. E poi
dovrem dire che questa falsa nobiltà non è pernicevole alla
Repubblica ? Se anno disanguato il pubblico, e tiraneggiato il
privato, che più gli rimane da fare ? E non si vergognano
d’insuperbirsi per così scelerate azioni ? Si gloriano di questi
fregi ? Ah non lo comprendo. Aver tanto ardire ancora di discacciar
dal Consiglio un povero innocente Padre perché una sua figlia erasi
matrimonialmente congiunta con uno de pretesi nobili ? Mà non erano
ambedue cittadini secondo il volere del nostro Statuto ? Veramente
la gloria di questo eccelso necessario grado con detta parentela si
rese di molto oscura. Superbi dove giunge il vostro orgoglio ! Io
m’arrossirei d’imparentarmi con questo vostro infame mentito grado,
che frà i suoi trofei non puol vantare, che iniquità, e sceleragini.
Ma sebbene ostasse tanta perfidia l’ingiustamente discacciato
Consigliere fece apparire al Principe la sua innocenza, fù
onorevolmente di nuovo ricevuto in Consiglio, e si manifestò la
tirannia de despoti pretesi nobili. Avete udito, o Cittadini ? Se
avete udito ciò mi basta ; da tutto questo abbastanza potiamo
intendere se sono tolerabili. Se noi permetteremo, che susistino,
(che è impossibile) oltraggiaremo ancor di certo le Leggi, che
proibiscono un tal grado, e che amettano soltanto quello di
Cittadini ; la Repubblica non potrà avere altro regolamento. L’istessa
natura si lagnerà con noi se li tolleriamo. Essa diede agli Uomini
un eguale principio, ed un egual fine ; nella stessa maniera, che
nasce il ricco nasce il povero, e nell’istesso modo, che more il
sudito more il Sovrano : e se Iddio avesse voluto che quaggiù in
terra vi fosse questo grado superiore non avrebbe creati gli Uomini
tutti eguali frà di loro, e d’una istessa natura, mà ne avrebbe
formati alcuni altri d’una specie più nobile. Egli non l’ha fatto,
ma bensi tutti abbiamo la nostra prima origine dal solo Adamo ;
segn’è dunque che Iddio non volle, e non vole questo prepotente
grado, tanto più che ci comanda, che ci dobbiamo amare egualmente
come fratelli. Le sole azioni che uno fa in vita sono quelle, che ci
distinguono dall’altro, e perciò se uno vuol essere onorato deve
essere virtuoso, e giusto, mà non è del dovere che un simile
calpesti un suo simile. In questo mondo tutti siamo uomini, e uomini
mortali, egualmente arrichiti d’uno spirito immortale. Si deve
dunque considerare se lo Spirito, e illustre, e nobile, e non se in
queste nostre vene scorra un sangue reale, e plebeo. In cielo si
premia la virtù secondo, che uno è stato più o meno virtuoso,
e giusto ; così noi in terra dobbiamo fare, gli uomini devono esser
premiati secondo il merito, mà però sempre personalmente, giacchè
non è del dovere, che un Figlio perfido godi gl’onori d’un padre
virtuoso. Devesi sapere, che il nascer sovrano è un caso, e il
divenir virtuoso dipende dalla propria volontà. Ciò non ostante però
l’uomo non deve insuperbirsi di fare virtuose azioni, e deve
considerare che il suo essere è simile a quello del uomo ignorante.
Sebene alcuno camini fastoso, e superbo per le ricchezze, sappia che
la fortuna non cambia specie, ma siamo tutti eguali. Anzi alle volte
il ricco divien povero, e il povero ricco ; venedo il tutto regolato
dalla mente infallibile di quel Ente eterno, infinito, e necessario,
che solo dirigge le universali azioni.
Questo adunque, o amabili
Cittadini, è quel tanto, che io brevemente hò bramato d’esporvi per
comune nostro vantaggio ; e se volete una volta vedere lo stato
primiero della nostra Repubblica è necessario vi ripeto, che
rimettiate in osservanza le vere leggi, che ereditassimo da nostri
antichi, e che ad esse sacrifichiate il Libro de decreti, e il libro
d’oro, che fino ad ora sono stati le nostre catene. La ragione, la
giustizia, il dovere, e l’umanità ciò richiedono smascherata,
scarpita, e cacciata in un profondo obblio questa nobiltà viveremo
tranquilli, e felici. Avremo la sorte di godere quegl’aurei giorni,
che goderono i nostri Padri, e quella amabile Libertà che essi
trasmisero in nostro retaggio. Anzi spero, che quegli istessi i
quali portano questo falso titolo, conosciuto l’errore in cui con
gran vergogna sono vissuti, lo detesteranno come hà fatto la
Repubblica di Venezia, se non vogliono vedere rinovato qui in S.
Marino il terribile massacro della Repubblica di Genova. Sì, spero,
che senza aspettare simili violenze, mà mediante il proprio
ravedimento, che da se si spoglieranno d’un tale immaginario grado
per farli vedere ottimi Cittadini, veri osservatori delle leggi, e
degni amici dell’illustre nazione Francese. E non facendolo, questo,
o Popolo illustre è il tempo di spezzare i ceppi, d’infrangere le
catene, e di squotere il giogo. Ora che il cuore vi bolle in seno,
ed arde d’amore verso la cara Patria procurate di conseguire le
giuste vostre pretensioni. Ai secoli remoti ne andrà il vostro nome.
L’istessa Francia v’amirerà, e loderà il genio vostro mirabile, e se
prima vi favorì, ora maggiormente procurerà di premiare la vostra
virtù. Il secolo della balordagine, e della tirannia terminò, e deve
incominciare quello della vera umanità, e della Giustizia. Più
presto, che vi liberarete dai lacci, più presto ancora sarete
felici, e ramentandovi l’obbligo di Cittadini, vi auguro un felice
successo.
(ASRSM, Atti
Criminali, b. 703)
Documento n° 4
Libello anonimo
affisso in Borgo
Popoli di Sammarino vi siete
addormentati ? Svegliatevi dal vostro sonno. I perfidi Aristocratici
ora più che prima orgogliosi vi tramano insidie, e non ve ne
avvedete ? Nei sacrileghi scomunicati Consigli, che fanno, vi
machinano un ingiusto castigo, e quello, che fa inorridire si è, che
vi sono contrarj ancora alcuni di quelli, che si vantano
Democratici, e che dovrebbero per ogni titolo sostenere la vostra
causa. Riclamate per la giustizia, dimandate il buon ordine, volete
ristabilito il corrotto governo, e trovate chi costantemente vi si
fa contrario? Ah che tali oppressori della giustizia, sovvertitori
del buon ordine, usurpatori del governo, meritano di essere
trucidati. E voi tacete, e lasciate impunemente regnare l’iniquità,
e la prepotenza ? Ah non lo voglio credere. Faceste i primi vostri
giusti risentimenti sull’esterioramento del vino, ed ora, che
giorno, e notte si vede trasportare dagl’esteri fuori dello stato,
neghittosamente tacete ? Ve ne pentirete poi, quando ne sentirete
l’accrescimento del prezzo. Il più che ubertoso raccolto del grano,
e biade vi promette di dovere in quest’anno a vil prezzo godere i
preziosi doni del Cielo, eppure sappiate, che alcuni Aristocratici,
che per fortuna si trovano avere qualche piccolo avanzo d’entrata,
si studiano di apprezzarlo esorbitantemente, sitibondi secondo il
solito del sangue de poveri.
Non missura cutem nisis plena cruoris hirudo.
E voi vi lasciarete svenare,
vi lasciarete cavare dalle vene il sangue, e non ne farete
risentimento ? Nò, non lo credo.
(ASRSM, Atti
Criminali, b. 703)
Documento n° 5
Libello anonimo affisso in Borgo
Barbari Consiglieri, perché
rapirci la nostra diletta Legge ?... Ah che indarno imploriamo da
Voi. Care Leggi dunque noi vi rivedemmo solo per perdervi di
nuovo ?... Tiranni Consiglieri dov’è la nostra Legge ? Crudeli ! per
qual cagione a Noi la rendeste, se di nuovo la togliete agl’occhi
nostri, per porla in mano a coloro, che con piede empio crudelmente
la calpestano ? Oh ingiustizia esecrabile ! perché esaudirci ?
perché ascoltare le nostre troppo giuste dimande ? Dio testimonio de
nostri Voti, de nostri lamenti abbi cura de buoni ; spalanca
le più cupe, e spaventose voraggini della Terra, ingoja i perfidi
Ribelli nemici dello Sacrosanto Statuto, o scagli un Fulmine su dei
medesimi, e termina in tal guisa la sceleragine . Ma viva il Dio di
Pietro noi crediamo non lungi il giorno della vendetta. Trema il
Tiranno. Intendiamo però sempre eccetuati quei pochi, che sono
giusti.
Cadrà frà poco il fulmine
su del tuo Capo, allora
terminaranno ancora
le tue malvagità
Che fin’a un certo terme
viene da Dio sofferto
quel Reo, ma poi è virtù
che il fio ne pagherà.
ASRSM, ATTI CRIMINALI, B. 703)
Documento n° 6
Notificazione
Il Popolo Sammarinese da 14
secoli godeva la sua quiete, libertà, ed eguaglianza secondo le
leggi dei di lui Statuti, che non amettano l’Aristocrazia. Infino
dalla metà del secolo presente però introdottosi l’abusivo titolo di
Nobile si usurpava tutto il comando del Governo, non riservando per
il resto del Popolo, che il solo nome, e la apparenza di
Consigliere. Si conculcavano le leggi, si introducevano abusi si
formavano decreti contrarj agli Statuti per ragirarli a capriccio
dei desputi, solo l’opportunità dei bisogni. Ora il Popolo però, che
si è accorto dell’inganno degli Aristocratici pretesi, ma hà
reclamato con tutta l’umiltà, e nelle più circospette, e dovute
forme avanti lo stesso Gle Consiglio quantunque avesse potuto
altrimenti da se solo convocare l’Arringo Generale a norma dei suoi
statuti per estirpare un simile abuso, chiede per tanto l’abbolizione
dei decreti contrarj alli Statuti, la sopressione della sognata
Nobiltà, e la perfetta osservanza delle leggi Statutarie. Per anche
non è stata appagata la populara volontà, mà spera di rivedere ben
presto ristabilito il suo antico Governo Democratico, essendosi
anche alcuni Aristocratici dichiarati di volere volontariamente
rinunciare a tale Aristocrazia abusivamente introdotta.
(Biblioteca di Stato della
R.S.M.)
Documento n° 7
Articolo del
Democratico Imparziale del 18-12-1797
Repubblica
di San Marino
Estratto di lettera di
Fusignano 12 brinoso anno VI Repubblicano.
Sul principio del prossimo
passato giugno il partito democratico avanzò un memoriale al
Consiglio Generale, o sia al unione di sessanta persone, ove
facevagli vedere che da mezzo secolo il popolo costituì questo gran
Consiglio principe col patto di far l’arringo ogni sei mesi ed in
altra necessaria occorenza, che il popolo perciò non è suddito
sebbene sia oppresso da ruine e da mali originati dagl’aristocratici
perpetui nemici del popolo, i quali s’erano usurpati titoli e
comando lasciando ad esso le sole cariche d’apparenza, che le leggi
erano violate dai decreti, contaminate dai giudizi perché regolati
dal capriccio e dal privato interesse degli empi. Che il popolo era
stanco d’essere oppresso, che voleva l’integrità delle leggi, la
soppressione dell’aristocrazia, la consegna nelle mani de loro
deputati del libro d’oro infamia dell’umanità, e del libro di quei
decreti che hanno la giustizia oltraggiata, l’abolizione d’ogni
distinzione fra i Capitani, il rendimento dell’amministrazione, onde
sia noto perché sono esauste le casse, e la ragione de’ Consiglieri
mancanti. In vigore di ciò fu fatto il seguente decreto
Avendo il Generale Consiglio
presa ad esame una supplica in nome della Repubblica di S. Marino
specialmente nei punti principali ordinò il seguente rendimento de
conti nel termine di mesi due coll’elezione sul momento dei
Consiglieri possibili per completare il numero dei 60 e colla
espressione di volere in piena osservanza la legge statutaria. Dalla
Sala del Consiglio 3 giugno 1797. A. Onofri Seg.
Questo decreto non piacque al
Popolo. Presentò il susseguente Consiglio un nuovo foglio più
espressivo e persuadente del primo perché protestava a nome di esso
che avrebbe prese le armi per riacquistare i propri diritti. Egli
ebbe molta attività perché il Consiglio venne alla seguente
risoluzione :
Il Capitan Reggente
ed il Gran Consiglio presa in considerazione la supplica avanzata in
nome del Popolo e passati gl’arringhi tutti i membri nobili hanno
rinunciato di buona voglia (piamente si crede) alla pretesa
aristocrazia per mettersi a livello cogl’altri Cittadini. Saranno
creati quattro revisori presso di cui saranno depositati i libri de
pubblici conti unitamente al libro de’ decreti da cui verranno
cancellati quelli che saranno contrari alla legge de nostri statuti.
Dalla Residenza 12 giugno 1797. Antonio Onofri Segretario.
Il Popolo così fu quieto. Ma
che ? I conti s’imbrogliano, gl’ex nobili andavano debitori di somme
vistose. Cosa fan costoro ? S’appigliano al raggiro, alla calunnia,
armi le più nobili della nobiltà, e fan sì che s’intimi un processo
contro i Democratici come sollevatori del Popolo e nemici della
pubblica tranquillità e quel che è più bello, di lesa maestà per
aver dichiarato di voler impugnare le armi. Questo stile copiato
dalle tracce del Senato Bolognese e dal Comitato Centrale Cispadano,
che sono stati lo scandalo de popoli liberi, e l’esecrazione de’
liberatori, fece sì che alcuni di essi fuggissero, ma che molti
altri restassero vittime della aristocratica perfidia. Sono essi
ancora fra ceppi, le traccie de lor processi sono segnate da
imposture, calunnie, studiate deposizioni di corrotti testimoni,
molti nobili o del lor partito. Il scellerato Onofri col manto di
democratico s’è preso l’impegno d’informare a suo capriccio i
governi dell’Emilia per poter carpire un ordine che i riffugiati
fossero consegnati al Governo di S. Marino. Ma quanto s’inganna
questo pazzo. Io so che i Commissari Oliva e Monti sono stati di ciò
informati, che essi conosceranno la perfidia di costui e che non
permetteranno mai che questi perseguitati siano dati in balia
dell’aristocratico furore.
Ecco, o Cittadini, il quadro
luttuoso della vantata democratizzazione di S. Marino. E fin a
quando dovrà regnare nell’Italia Repubblicana quest’orgia di
scellerati nemici della umanità e della giustizia ? Quando sarà quel
momento che si sventeranno i loro raggiri ? Io mi consolo che così
esclamava ancora la Francia, ma che finalmente è venuto un 18
fruttidoro che ha operati prodigi.
(Il Democratico Imparziale
o sia Giornale di Bologna, n. 49, Lunedì 18 dicembre anno I
della Repubblica Cisalpina)
Documento n° 8
Risposta di Antonio Onofri
all’articolo del
Democratico
Imparziale
San Marino 16 Nivoso 1797
Il Cittadino Antonio Onofri
al Cittadino Estensore del
Foglio di Bologna appellato il Democratico Imparziale
Ricevo da un amico
nell’ordinario corrente il vostro foglio num. 49. Egli à creduto che
m’interessi l’articolo che riguarda la mia Patria e la mia persona.
Infatti doveva Egli ben credere che non potesse essermi indifferente
di leggere il carattere che vi è piacciuto di farmi, ed i precisi
colori coi quali mi dipingete. Vi confesso però che non ne ò provata
pena alcuna sul riflesso che la vostra detrazione non toglierà alla
mia fama niente più di quello che un vostro elogio saprebbe donarmi.
Non già perché io non vi creda un onest’uomo ma perché forse
deferite troppo ai vostri corrispondenti ; Tuttavia perché il
silenzio per mia parte potrebbe essere interpretato per una
impossibilità di rispondere, permettetemi ch’io vi dica che avanti
di dare ad una persona il titolo di scellerato convien essere un po’
meglio informato dei fatti, e delle ragioni che lo caratterizzano
tale. La sommossa di San Marino fù ben diversa da quella che voi
decantate, e più che lo sforzo della Democrazia fù il principio di
un’anarchia la più... Eccovi in compendio le loro mosse verificate
da testimonj decisa, più assai che non ne abbisognano, e dalla loro
stessa confessione. Il primo loro passo fù di attrupparsi in num. Di
dieci o quindici, e d’impedire ad un buon cittadino della campagna
di estrarre dal Territorio un carico di vino abbenche l’estrazione
di questo genere fusse libera a tutti ; e non contenti di questo si
fecero lecito esiggere da tutti i possidenti una nota esatta di
tutto il vino che esisteva in Paese gettando a terra la porta di un
mercante che ricusò di darli la chiave. In seguito s’impadronirono
dei pubblici granaj e consegnarono a persona da loro deputata la
chiave che riteneva il Ministro eletto dal Consiglio. Al principio
di Giugno fecero una Rappresentanza al Consiglio in nome del Popolo
senza ne sapesse nulla, e tra mezzo ad alcune giuste domande, che
furongli accordate, dimenticando il rispetto dovuto alla
Rappresentanza nazionale, in termini minacciosi toglievano al
Consiglio la podestà di far le leggi in avvenire. In quell’occasione
uno de’ capi fece intendere al Consiglio per mezzo di due suoi
membri, che se non gli si accordava tutto non si sarebbe escito
dalla Sala, e che le fascine erano pronte per darvi foco.
Fecero degli affissi
incendiarj invitando la plebe a trucidare i possidenti sul riflesso
che questi volessero fissare i prezzi dei generi di prima necessità.
Carcerato d’ordine del
Tribunale un cittadino della Campagna per una querela criminale, un
suo parente che era de’ sollevati si presentò alla Reggenza
intimandoli che se non lo avessero subito rilasciato avrebbe in
compagnia de suoi colleghi gettate a terra le porte delle carceri ed
in tal guisa liberato.
In un giorno di fiera due di
questi si fecero lecito di bastonare un soldato della campagna
attualmente in uffizio, milantando che in altra fiera volevano
comandar essi, e che non volevano villani. Ed al Comandante Generale
che ne li sgridò, risposero con tutti gl’improperj i più vili. Uno
di questi sollevati confessa ultroneam. Che i congiurati anno delle
mire sanguinarie, e lo depone avanti il Gen. Chabot, che lo conferma
in una sua lettera alla Rappresentanza della Repubblica di San
Marino. Quest’associazione à un segretario che scrive una lettera ad
uno dell’unione dando un modello di coccarda, che non era certo ne
Francese ne Cisalpina. Tutte queste cose escono verificate da
testimonj e dalle deposizioni de’ rei medesimi. ... dite Sig.
Democratico imparziale : Vi pare questo lo sforzo della Democrazia,
o non piuttosto il principio dell’anarchia e della sfrenatezza la
più aperta. Non dovete ignorare che i Cittadini non ponno esercitare
i loro diritti politici se non nelle Assemblee primarie, o comunali.
Che niuna particolare associazione può fare a nome del Popolo
petizioni o rappresentanze, e molto meno arrogarsi la qualificazione
di Popolo Sovrano. Che ogni attruppamento deve essere dissipato. Che
le proprietà debbono essere rispettate. Che i petizionari non
debbono mai dimenticare il rispetto dovuto alle autorità costituite.
Se vi foste prima informato della verità de’ fatti, voi non sareste
incorso nella taccia di calunniatore e non avreste prodigati
sfrontatamente degli epiteti ingiuriosi che infine ricadono sovra di
voi poiché chi dà una taccia indebitamente, la incorre. Informandovi
avreste potuto, per esempio, sapere qual’era la pubblica opinione
riguardo all’aristocrazia di San Marino. Che presso di noi non ci è
stato mai libro d’oro. Che i Deputati delle Conversazioni nobili non
davano accesso nelle loro società ai Cittadini di Sanmarino. Che una
Dama di una Città perdeva tutti i suoi diritti magnatizj sposando un
Sammarinese. Che l’inquisitore del S. Uffizio di Rimino non permise
la stampa di un Sonetto perché i Cap. Regg. Erano qualificati col
titolo di Eccellenze, e mille altre cose di tal fatta. Quanto alla
qualità de sollevati che due di essi eransi uniti ai sollevati della
montagna contro i Francesi e che uno di questi punito dalla
Repubblica fù rimesso in grazia per l’interposiz. Del Gen.le
Sahuguet. Che la maggior parte di coloro sparlava apertam. della
nazion francese cotanto benemerita della nostra Repubblica.. Quanto
a me certam. che io non ò saputo approvare le mosse di quelli, che
voi chiamate partito democratico, e che meglio avreste appellato
anarchico. La qualità delle persone che lo animavano bastava a
renderlo sospetto. Un Prete, varj chierici, e il piviale del Vescovo
erano i mantici occulti di questa sollevazione. Doppo la sacra
congiura dell’Alberoni contro la mia Patria associazioni di tal
fatta non ponno non essermi estremamente sospette.
(As Rsm, Atti del
Comitato di P.S. e Vig. e del Congresso deputato per gli affari
relativi ai Francesi, busta 61)
Documento n° 9
Richiesta di annessione alla
Cisalpina
Cittadino Ministro
Il Popolo della Repubblica di
S. Marino, oppresso ormai dal suo consiglio composto d’un numero di
decisi aristocratici che si fanno nominare col titolo di nobili ;
vedendo calpestato dai medesimi La sua antica, e Democratica
Costituzione vedendosi spogliare Le pubbliche Casse non sicure le
persone ed in somma sotto un giogo d’oligarchi che non conoscono che
la Legge di saziare il suo Egoismo, e la sua ambizione e che
distruggono qualunque diritto di patto sociale si risolve rivolgersi
a voi, Cittadino Ministro, per domandarvi La vostra mediazione,
acciò potere riacquistare quella Libertà che à goduto, e che l’ha
fatto felice p. 14 secoli.
Dopo che un Popolo Liberatore
della miglior parte d’Europa à vinto e distrutto i suoi nemici, dopo
che la miglior parte d’Italia a ricevuto da questo una rigenerazione
Politica, e che à reso ai Popoli quei veri diritti che
caratterizzano il Cittadino, qual sarà mai quell’individuo che nato
di sangue libero, potrà giacere sotto l’oligarchia la più tirannica
chi non voleva, se non i despoti, p. concorrere al compartimento dei
beni che il Popolo Cisalpino a luogo di sperare dalla sua libertà.
Ove sarà quel vero cittadino sammarinese, che non desideri la
riunione del suo Paese ad un popolo che la sua carriera politica lo
porta a delle future glorie infinite. Ove si troverà colui, se non
qualche schiavo di questi despoti, che se non frema nel vedere la
carcerazione di quei buoni cittadini che richiamati dai diritti
costituzionali, osarono dimandare ai despoti medesimi il rendimento
di Conti p. le Casse pubbliche già usurpate e vuotate. Questi bravi
e buoni cittadini rinchiusi in una torre stanno aspettando dai loro
fratelli Sammarinesi quel voto che già è formato in tutti i cuori p.
l’oppressione dei tiranni. Le forze di questo piccolo popolo, veruna
speranza possono prestare ai suoi giusti desideri ; Tutta è riposta
nel vostro Patriottismo, cittadino Ministro, acciò vogliate
sottoporre al Direttorio Esecutivo della Repubblica Cisalpina, il
desiderio, ed il voto generale di un Popolo che domanda unanimamente
la riunione del suo territorio alla medesima. Immitatore il Governo
Cisalpino della madre dei Popoli, della rigeneratrice delle fertili
contrade della Lombardia, in portare la libertà a coloro che la
dimandano, sperano tutti i Cittadini Sammarinesi, che presto
potranno gloriarsi di far parte pur loro dell’Italica Repubblica,
tornando così nuovamente a godere di quella libertà, e di quei
diritti che per tanto tempo sono stati risguardati sacri nel piccolo
recinto di S. Marino.
Salute e rispetto
Firmati :
Giuseppe Moracci, Pietro
Casali, Marino Fazzini, Giuseppe Forsani, Francesco Martelli,
Arcisio Giangi, Gaetano Bevilacqua, Marino Balsimelli, Vincenzo
Belzoppi, Gio. Dom.co Frangioni, Marino Mafioli, Pier Marino Guidi,
Giovanni della Muratora, Michele Martelli, Vincenzo Farnesi,
Giuseppe Bruschi, Marino Casali, Vincenzo Martelli.
(La lettera è
riportata in : G.B .CURTI PASINI, Ricerche sui rapporti della
Repubblica di San Marino con i governi napoleonici in Italia,
San Marino 1940. L’autore l’ha ricavata dall’Archivio di Stato di
Milano.)
NOTE
E’ riprodotta in G. B. CURTI PASINI, op. cit. La
lettera era firmata da : Giuseppe Moracci, Pietro Casali, Marino
Fazzini, Giuseppe Forsani, Francesco Martelli, Arcisio Giangi,
Gaetano Bevilacqua, Marino Balsimelli, Vincenzo Belzoppi, Gio.
Dom. Franzoni, Marino Mafioli, Pier Marino Guidi, Giovanni della
Muratora, Michele Martelli, Vincenzo Farnesi, Giuseppe Bruschi,
Marino Casali, Vincenzo Martelli.
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