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 L'Ottocento
parte 2a

Subito dopo il passaggio dei garibaldini, San Marino dovette affrontare aspre e ricorrenti polemiche con lo Stato Pontificio, che lo reputava ormai un covo di fuorilegge ed un comodo rifugio per i suoi nemici, quindi un costante pericolo per la sua sicurezza. Vi erano state periodicamente accuse simili anche negli anni precedenti, tuttavia non così rabbiose come saranno quelle degli anni successivi al 1849, soprattutto perché le autorità pontificie e quelle del Granducato di Toscana erano convinte che all’interno del territorio sammarinese stesse complottando indisturbata una minacciosa e feroce setta mazziniana pronta a tutto.

La Santa Sede accusava dunque San Marino di dar rifugio con eccessiva faciloneria ad individui che potevano essere assai pericolosi da un punto di vista politico, ma anche criminale, e di non far più di tanto per tenerli sotto stretto controllo. Nel 1849, 1850 e 1851 si svolse una fitta corrispondenza tra i due Stati tramite cui queste accuse divennero sempre più astiose ed infiammate, finché nel giugno del 1851 lo Stato Pontificio, convinto che in territorio sammarinese si nascondessero addirittura 400 rifugiati, si decise ad accerchiarlo con l'appoggio di circa 3.000 soldati austriaci, minacciando di invaderlo qualora non fossero stati consegnati in fretta tutti i presunti rifugiati.

In effetti il giorno 25, dopo averlo però negoziato a priori con le autorità sammarinesi, le armate austriache entrarono in territorio, fecero numerose perquisizioni, spesso usando modi fin troppo spicci ed arroganti, arrestarono quasi tutti i rifugiati che trovarono, appena 35, poi se ne andarono.

Per breve tempo le polemiche si placarono, tuttavia nei mesi successivi la Santa Sede ricominciò a polemizzare con la Repubblica sempre per gli stessi motivi. Gli animi rimasero quindi surriscaldati, anche quelli di diversi giovani Sammarinesi che parteggiavano apertamente per i rifugiati, condividendone gli ideali, e che mal giudicavano i locali governanti per la collaborazione prestata negli arresti del 25, e per la eccessiva arrendevolezza e sudditanza secondo loro dimostrata a Roma.

Inoltre San Marino in questi anni stava attraversando un periodo di profonda crisi economica e di grande miseria, con mancanza di lavoro, poche possibilità per tanti di sfamarsi, profondo malessere sociale. Il pauperismo, la dimensione oligarchica e nobiliare del paese, contro cui già si era periodicamente polemizzato anche nel secolo precedente, gli infiammanti ideali politici che circolavano liberamente eccitarono gli animi e le fantasie di alcuni giovani locali. Così il 14 luglio 1853 (ricorrenza dello scoppio della rivoluzione francese) un paio di questi ragazzi del Borgo (Luigi Pasqui, autore materiale dell’assassinio, e Marino Giovannarini, l’unico dei due che venne in seguito catturato ed incarcerato; avevano preso parte alla prima guerra d'indipendenza, ed erano stati al fianco di Garibaldi nella difesa della Repubblica Romana) probabilmente insieme ad altri individui sammarinesi e non, repubblicani di tendenza mazziniana, tra cui quel Francesco Righi a cui già si è accennato in una puntata precedente, ordirono un complotto politico ed uccisero in un agguato mentre stava rientrando a casa, con un colpo di arma da fuoco, il Segretario Generale Gian Battista Bonelli, massima figura politica di quel tempo. 

Dopo questo omicidio le tensioni di natura politica tra coloro che volevano innovazioni anche a San Marino (soprattutto un ritorno alla sua tradizione democratica del passato, prima che s’instaurasse nobiltà ed oligarchia, ed un miglioramento delle condizioni sociali) ed i conservatori, che erano meno disposti ad introdurre troppe novità di natura politica in un momento tanto turbolento della storia italiana, si acuirono, e portarono ad altri due omicidi (del dottor Annibale Lazzarini, medico condotto di Città e dintorni, e del giovane notaio neolaureato Giuseppe Angeli) perpetrati nell'agosto del 1853 e nel marzo dell'anno dopo. 

Ovviamente simili fatti, accaduti in un paese che in genere era piuttosto tranquillo, misero in forte allarme Roma e il Granducato di Toscana, timorosi che all’interno dei confini sammarinesi agisse una setta politica assassina, ostile ovviamente a tutti gli Stati del vecchio regime, in grado prima o poi di nuocere anche a loro.

San Marino, per garantire la sua sopravvivenza e prevenire eventuali rappresaglie da parte dei suoi confinanti, era per fortuna già corso ai ripari fin dal 1851/52, cercando tutela e protezione presso qualche potente corte europea. Aveva trovato amicizia e disponibilità all’aiuto in Napoleone III, neo imperatore di Francia, a cui fin dall’11 dicembre del 1852 era stata scritta una lettera piena di complimenti, e nei primi mesi del ’53 era stato inviato il conte Adriano Piccolimini come ambasciatore. Nei mesi successivi le relazioni con la corte napoleonica divennero ancora più strette, tanto che la Repubblica decise di attivarvi addirittura un suo consolato presieduto dall’avvocato Giovanni Paltrinieri.

Grazie a questi nuovi rapporti diplomatici, Granducato di Toscana e Stato Pontificio non se la sentirono d’intervenire senza prima avvisare la Francia di quello che secondo loro stava accadendo in territorio sammarinese. Dopo l’uccisione di Lazzarini, Napoleone si decise di verificare come stessero le cose veramente, per cui inviò a San Marino un suo uomo, il barone Baudet, per sincerarsi della situazione. Dopo qualche giorno di permanenza, costui relazionò che i timori manifestati da Firenze e Roma erano eccessivi, perché i delitti Angeli e Lazzarini non si potevano imputare ad una setta assassina, ma erano avvenuti per cause contingenti. La situazione dunque si normalizzò, e le acque tornarono a placarsi fino a quando, con la seconda guerra d'indipendenza, non nacque il regno d'Italia.

Per secoli San Marino è rimasto circondato dallo Stato Pontificio, che ne ha ovviamente condizionato mentalità, abitudini, ritmi esistenziali. Dopo la seconda guerra d’indipendenza, però, e la conseguente fondazione del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II, questa situazione è per forza di cose giunta a mutarsi. Da questo momento in poi, infatti, la piccola repubblica ha dovuto allacciare rapporti con i suoi nuovi vicini, variando consuetudini pressoché statiche e immutate da tempi immemorabili.

San Marino non aveva mai potuto avere rapporti del tutto tranquilli con lo Stato Pontificio, che si rifiutava in maniera categorica di ritenere totalmente indipendente e sovrano il piccolo Stato. Da qui ricorrenti polemiche ed infinite ambiguità nei rapporti, nonché azioni anche forti da parte di Roma. Alle soglie dell'unificazione italiana, quindi, San Marino godeva di una sovranità parziale e contestata dallo Stato che lo circondava, per cui quando questo scomparve ed al suo posto sorse il Regno d'Italia, i sammarinesi non sapevano bene come sarebbero stati considerati da questi loro nuovi confinanti, e soprattutto non si potevano immaginare se la loro indipendenza sarebbe stata ancora rispettata in maniera relativa, assoluta, o per nulla. 

Le autorità del Titano si erano però già mosse per tempo, perché fin dal 1857 avevano allacciato rapporti amichevoli e diplomatici con il Regno di Savoia, istituendo a Torino un loro "Incaricato d'Affari", ovvero un ambasciatore. Per ingraziarsi Cavour, inoltre, nel novembre dello stesso anno gli avevano donato un'onorificenza, cioè una medaglia, istituita pochi anni prima, che di solito il governo sammarinese offriva per gratitudine a chi avesse reso qualche servizio di particolare importanza alla Repubblica, oppure per accattivarsi personalità di cui si poteva avere bisogno.

Negli anni immediatamente successivi, San Marino non ebbe particolari rapporti col Regno di Savoia. Contatti più fitti, invece, iniziarono dal 1860, cioè dal momento in cui tutti i territori attorno ai confini sammarinesi caddero sotto il controllo del governo piemontese. Le prime relazioni tra il neo-regno italiano e la vetusta repubblica non furono comunque sempre tranquille e cordiali. In questo particolare periodo storico San Marino rappresentava un problema anche per i suoi nuovi vicini, perché il suo territorio spesso veniva utilizzato dai nemici dei piemontesi o dai disertori dell’esercito sabaudo come rifugio in cui nascondersi.

I primi funzionari di Torino che si insediarono a capo delle città e dei comuni dell'Emilia-Romagna inizialmente contattarono la Repubblica solo per chiedere la consegna di qualche rifugiato. Tuttavia occorre dire che il modo in cui le autorità italiane si rivolgevano a quelle sammarinesi era ben diverso e assai più cordiale di quello che in precedenza era stato tenuto dalle autorità pontificie, perché l'Italia fin da subito ebbe verso la Repubblica un atteggiamento di rispettosa stima, considerandola a tutti gli effetti uno Stato autonomo e sovrano da non sottomettere al suo dominio.

Fino al 1862, comunque, si sviluppò qualche tensione tra i due Stati per i motivi che si sono detti, ma anche per accuse di contrabbando di sale, tabacco e polvere pirica che l'Italia periodicamente rivolgeva a San Marino. Si giunse dunque alla decisione di stipulare una convenzione per regolamentare ufficialmente i rapporti, ed eliminare tutti i motivi e le ambiguità che potevano provocare ulteriori dissidi e malumori. 

La convenzione venne stipulata nel 1862 e permise di tranquillizzare realmente le relazioni tra i due Stati. L'importanza di questo trattato, poi, è legata al fatto che fu in pratica il primo documento ufficiale con cui venne sancita pubblicamente la sovranità e l'indipendenza della Repubblica di San Marino, anche se con tale atto il piccolo Stato divenne soggetto al "protettorato" dell'Italia, ovvero ad una sorta di controllo costante del suo operato nazionale ed internazionale.

La convenzione provocò pure alcune limitazioni alle possibilità commerciali di San Marino, tuttavia l'Italia compensò tali vincoli, che in questo periodo comunque non erano davvero un problema per i sammarinesi, ancora totalmente immersi in una realtà prevalentemente rurale e provinciale, quindi con scarse potenzialità commerciali, con un canone doganale, una cifra annuale, cioè, che in questi anni rappresenterà un importante se non addirittura fondamentale introito per il misero bilancio sammarinese.

I motivi che indussero l’Italia a rispettare la Repubblica senza sottometterla sono diversi: il primo è senz'altro dovuto al "mito" che San Marino aveva saputo acquisire nel corso dei secoli, ovvero alla fama internazionale di cui godeva già prima del 1860, e delle simpatie che lo portavano ad avere amici ed estimatori in Italia ed in tutto il mondo. La sua annessione da parte piemontese avrebbe di certo provocato reazioni e proteste dovunque, e sarebbe stata una pessima pubblicità per i Savoia a cui già alcuni sovrani europei guardavano con diffidenza e timore. 

Un secondo motivo fu senz'altro il particolare rapporto di amicizia e protezione che San Marino aveva saputo creare con la Francia di Napoleone III già dal 1853-54.

Un terzo motivo probabilmente dipese dal fatto che non giunsero al Piemonte da parte dei sammarinesi richieste di far parte del Regno italiano, o di svolgere plebisciti pro o contro l’annessione del loro Stato, segno sicuro che la popolazione desiderava rimanere com'era. 

Dopo la convenzione del 1862, Italia e San Marino convissero meglio. Ogni tanto, però, qualche polemica scoppiava ancora per i soliti motivi legati al contrabbando o al ruolo di enclave che il suolo sammarinese volente o nolente assumeva per chi voleva nascondersi alla giustizia del regno italiano, o anche per quei politici, soprattutto d’ispirazione mazziniana, che, per evitare persecuzioni, si riunivano presso qualche amico sammarinese, come l’avvocato Giacomo Martelli di Borgo.

Per tali motivi nel 1872 venne rifatta la convenzione con ulteriori clausole a garanzia delle richieste e dei malcontenti del neo regno italiano. Nel 1874, tuttavia, dopo momenti di forte tensione, l’Italia, convinta che in quel momento San Marino stesse dando rifugio a 75 ricercati, tra cui vari politici considerati rivoluzionari e pericolosi, mise in atto il blocco dei confini per diversi mesi, con perquisizioni meticolose e dispetti vari.

Per normalizzare la situazione, la Repubblica alla fine dovette assoggettarsi alle pretese dei suoi confinanti, aprendo un consolato italiano al suo interno, che sarebbe servito in quel momento soprattutto a controllare in maniera diretta la correttezza del rispetto della convenzione da parte sammarinese, e assumendo qualche altro gendarme in aggiunta ai due di cui già disponeva. Fatto ciò, il blocco venne levato, ed i rapporti tra i due Stati si mantennero a lungo assai pacifici.

A parte queste tensioni di natura diplomatica, il periodo in esame fu per San Marino piuttosto tranquillo e vide un discreto aumento delle possibilità economiche dello Stato grazie soprattutto a due introiti di cui prima degli anni ’60 non disponeva: il canone doganale, e la vendita delle onorificenze. Il canone, pattuito con la convenzione del ’62, portava ora annualmente nelle casse di San Marino 19.080 lire; se si calcola che i bilanci statali degli anni precedenti l’unificazione si aggiravano sui 6.000/6.500 scudi romani, ovvero 30/35.000 lire (che comunque è una cifra assai modesta, indice delle scarse potenzialità finanziarie di San Marino), si comprende quanto il canone incidesse sulle magre entrate locali.

Ancor più influì la vendita delle onorificenze, pratica iniziata dopo la creazione dell’ordine equestre di San Marino, attuata tra il 1859 e l’anno seguente, e soprattutto dopo l’istituzione dei titoli nobiliari, avvenuta a partire dal 1861 con l’assegnazione del titolo di Duca d’Acquaviva ad Enrico d’Avigdor, neo incaricato d’affari sammarinese presso la corte di Napoleone III.

I titoli onorifici non vennero inizialmente creati per essere venduti, ma solo per avere strumenti, all’epoca particolarmente apprezzati e ricercati, con cui ingraziarsi personalità di spicco. Ben presto però le autorità sammarinesi si resero conto di avere una merce pregiata assai appetibile per i più abbienti, per cui molte onorificenze vennero distribuite per semplici motivi economici.  Nel 1866 si stabilì addirittura che nessun titolo onorifico, di quelli a pagamento ovviamente, dovesse essere assegnato con offerte inferiori alle 1.000 lire. Se si calcola che tale cifra era di poco più bassa a quanto percepito all’epoca dal medico primario della Repubblica (1.500 lire annue), si può intuire che miniera d’oro avesse scoperto all’improvviso San Marino in un periodo in cui non gli era possibile economicamente nient’altro.

I titoli di duca, marchese o conte costavano molto di più, tra le 10 e le 22.000 lire, in genere. Addirittura 60.000 lire vennero offerte, con eccezionale generosità, dalla signora Maria Antonietta Andrè di Parigi per il titolo di duchessa, soldi che poi servirono per avviare la costruzione del nuovo palazzo pubblico.

Accanto a queste cospicue entrate, sono da annoverare anche quelle minori, ma sempre utili, legate alla vendita di monete sammarinesi, coniate per la prima volta nel 1864, e di francobolli, a partire dal 1877.

In pratica nel giro di pochi anni San Marino prima raddoppiò, poi quadruplicò l’entità delle sue entrate,  e questo gli permise di avviare lavori rimandati in continuazione per la perenne carenza di denaro, come il miglioramento del sistema viario, ritenuto basilare per poter sviluppare i commerci, o la costruzione di infrastrutture imponenti come il nuovo palazzo pubblico, in grado di rispondere meglio alle nuove esigenze diplomatiche e di una burocrazia in necessario sviluppo per i tempi più complessi e dinamici che si stavano consolidando.

La maggior parte dei nuovi introiti fu quindi investita in opere pubbliche, fatto che venne piano piano a mutare la fisionomia prevalentemente rurale che il paese aveva in precedenza, creando una classe operaia molto più numerosa di prima, e continuamente bisognosa degli stanziamenti statali per sopravvivere, con una economia instabile, però, perché troppo legata ad introiti contingenti ed imprevedibili. Nell’ultimo decennio del secolo, quando caleranno di molto le entrate legate alle onorificenze, e si ultimerà il palazzo pubblico, costato la strabiliante somma di 350.000 lire, la situazione favorevole degli anni precedenti giungerà al termine, ed inizierà una fase di disagio sociale e di contestazione destinata a crescere sempre più nei primi anni del secolo nuovo.

I primi giornali sammarinesi

    Il primo giornalismo sammarinese fu un fenomeno che ebbe origine solo negli ultimi due decenni dell'Ottocento, perché fino a quegli anni il governo della Repubblica non accettò mai la stampa in territorio di giornali per paura che potessero essere elementi di discordia prima con lo Stato Pontificio, poi col Regno italiano.  
   
In realtà pare che anche prima di questo periodo qualche giornale clandestino, frutto della penna dei rifugiati politici che si nascondevano saltuariamente all'interno dei confini sammarinesi, fosse stato stampato per far propaganda anti-pontificia, tuttavia il primo giornale d'interesse prettamente locale fu La Nefelococchighia, uscito solo due volte: il 9 ed il 23 aprile 1881. La nascita di questo giornale dipese di certo dalla creazione della prima tipografia sammarinese, avvenuta nel marzo del 1879 per opera di Giuseppe Angeli, ed alla crescita di un gruppo di giovani intellettuali locali, studenti o laureati, entusiasti della nuova dimensione culturale che si stava evolvendo in Italia in questi anni. La Nefelococchighia ebbe carattere comico-satirico, con lievi ambizioni di natura culturale.  
   
Il secondo giornale locale fu Il Giovane Titano stampato per la prima volta l'8 maggio 1881, ovvero un paio di settimane dopo l'uscita dell'ultimo numero della Nefelococchighia. Questo periodico ebbe vita più lunga perché ne uscirono in tutto 25 numeri di cui 20 nel 1881, 4 nel 1882, ed uno solo nel 1883. Il Giovane Titano fu un giornale ardentemente contestatore ed anticlericale, molto critico nei confronti del governo sammarinese reo, agli occhi dei suoi giovani redattori, di essere inadeguato all'evoluzione dei tempi, ed incapace di fornire alla Repubblica gli stimoli necessari per stare al passo con quanto avveniva in Italia e nel mondo. Il motto del giornale era Muoviamoci!, e fa capire chiaramente che suo obiettivo era quello di sostenere una politica interna di rinnovamento, e di richiamare l'attenzione dei Sammarinesi sull'esigenza di riformare molte delle locali consuetudini politiche e sociali. Il giornale criticò sistematicamente l'amministrazione della giustizia, delle finanze, della politica in generale, e bersagliò in continuazione le corporazioni religiose che avevano sede dentro i confini sammarinesi. Avanzò anche ripetute richieste per far istituire scuole, un asilo infantile, un ospedale per cronici, ed altre infrastrutture di interesse pubblico. Spesso usò toni forti e violentemente polemici, per cui fu osteggiato dal governo sammarinese che era senza dubbio il suo bersaglio prediletto.  
   
Un altro giornale di questo periodo fu La Repubblica di San Marino che uscì complessivamente in tredici numeri tra l'ottobre del 1881 ed il febbraio del 1883. Fu un periodico assai diverso dal Giovane Titano, privo della sua impostazione politica e sociale, non particolarmente riformista, e sicuramente meno aggressivo e polemico. Si concentrò prevalentemente sulla poesia, su saggi di cultura varia, sulla letteratura e l'arte. Diede parecchio spazio ai problemi scolastici della Repubblica propugnando l'istituzione delle scuole su tutto il territorio, o il loro miglioramento dove già c'erano.  
   
Quarto giornale sammarinese ad essere pubblicato fu La Lotta, uscito una sola volta il 16 settembre 1883. Lo diressero due giovani che avevano già fatto parte della redazione del Giovane Titano e che gli diedero la stessa impronta contestatrice e battagliera. La Lotta dichiarava di essere avversa al Consiglio, e contraria a parecchi consiglieri, di cui metteva in dubbio anche l'onestà. Proclamava inoltre di volere il suffragio universale, la soppressione dei conventi e dell'insegnamento religioso, e di voler combattere a favore del progresso morale e materiale di San Marino.  
   
Altro giornale uscito  negli stessi anni fu Il Radicale; ne vennero stampati solo quattro numeri nella prima metà del 1889. Anche questo foglio s'ispirò alla linea dura e polemica che aveva caratterizzato Il Giovane Titano, contestando con violenza il Consiglio, ritenuto oligarchico ed illiberale, e schierandosi apertamente a favore del suffragio universale, e di altre riforme politiche e sociali indispensabili per mantenere il paese al passo coi tempi.  
   
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento uscirono solo alcuni numeri unici: Il 30 Settembre 1894, stampato come pubblicazione straordinaria per l'inaugurazione del nuovo Palazzo Pubblico, il I Maggio, primo giornale edito a cura del nuovo Partito Socialista Sammarinese nel 1898, il Bullettino dell'Accademia Enciclopedica Sammarinese, uscito anch'esso nel 1898 come foglio burlesco ed ironico creato da un neo gruppo locale denominatosi Accademia Enciclopedica Sammarinese, ed infine il 1° Ottobre 1900, incentrato quasi interamente sulla grave crisi economica in cui si era venuta a trovare la Repubblica. Qualche parola la dedicò anche al problema dell'istruzione, ed a pochi altri argomenti sociali.  
   
Per tre anni non vennero più stampati giornali in loco. Solo nel 1903 uscì Il Nuovo Titano per fare propaganda a favore dell'arengo e contro il governo oligarchico al potere.

Il Palazzo Pubblico

        E' quasi certo che il primo Palazzo Pubblico di San Marino sia stato edificato nel corso del 1300, periodo in cui il minuscolo centro abitato sorto sul monte Titano si stava espandendo, e stava avvertendo il bisogno di allargare le sue mura difensive (fino a quell'epoca sviluppate solo attorno alla prima torre) comprendendovi anche alcune zone che in precedenza erano al loro esterno, ovvero la zona dell'attuale Pianello e della Pieve.  
    Si è ipotizzato che anche prima di questo periodo esistesse una casa, forse privata, utilizzata dai Sammarinesi come luogo in cui ritrovarsi per prendere le decisioni sulla vita della comunità; tuttavia fu solo col consolidarsi della dimensione politica di Comune e della sua peculiare cultura  autonomista che San Marino avvertì la necessità di costruire un palazzo adibito a luogo di ritrovo per i suoi organismi politici e per quei pochi uffici di cui era dotato in quel remoto periodo storico. Pare che in quegli anni lo stato sammarinese potesse usufruire addirittura di due edifici per scopi politici: la cosiddetta "Parva Domus" (menzionata già in documenti del 1353 e 1378), verosimilmente primo palazzo pubblico della comunità, in cui i Capitani Reggenti erano soliti risiedere nei giorni di pubblica udienza, e la "Domus Comunis Magna", ovvero il palazzo sede delle assemblee politiche sammarinesi più numerose (Consiglio e Arengo), costruito sempre nel corso del 1300, con molte probabilità dopo la "Parva Domus", ovvero negli ultimi decenni del secolo.  
    Con sicurezza non si sa se le sedi di questi edifici fossero quelle attuali sul Pianello, anche se è quasi certo che i due palazzi siano nati dove si trovano tuttora. Sappiamo comunque che da questi anni in poi la "Domus Comunis Magna" divenne il cosiddetto "Palazzo del Governo" dello Stato sammarinese, così come abbiamo menzione nei documenti rimastici di sistematiche opere di restauro a cui lo si doveva sottoporre periodicamente sia per il suo naturale invecchiamento, sia per il fenomeno di bradisismo a cui è soggetto il monte nella zona dove è collocato. Sappiamo per certo che venne riparato e sicuramente trasformato nel suo aspetto nella seconda metà del '500, epoca in cui dovette assumere la fisionomia da edificio secentesco che mantenne fino all'800, quando venne abbattuto per far spazio alla nuova costruzione.
Il vecchio Palazzo Pubblico era caratterizzato da un piccolo portico sul Pianello, e comprendeva al suo interno un grande atrio nel quale era stato posto un palcoscenico su cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali prima della costruzione del Teatro Titano, avvenuta all'inizio del secolo scorso. Sullo stesso piano vi era l'ufficio della Segreteria di Stato; nel piano sottostante vi erano gli uffici del Camerlengo (cioè il tesoriere del comune), del Catasto e del Registro. Nei sotterranei vi erano anche spazi utilizzati spesso come prigione. Tramite una scala, chiusa da un cancello di legno, si saliva ai piani superiori dove si trovavano l'archivio e la sala del Consiglio dei Sessanta, arredata molto semplicemente con banchi di legno e con quadri alle pareti. Sulla facciata del Palazzo era collocato un grande stemma di pietra raffigurante le tre penne di San Marino. 
    Il Pianello, sede storica del Palazzo e maggiore piazza del paese, aveva il pavimento fatto di mattoni disposti a spina. Sotto il suo piano erano state costruite intorno al 1477 alcune cisterne per l'acqua potabile, di cui la popolazione si poteva approvvigionare attraverso quattro bocche che si aprivano direttamente sulla piazza soprastante. Le cisterne principali erano due: una più grande capace di contenere 600 mc. d'acqua, l'altra un po' più piccola da 450 mc. L'acqua che vi affluiva era quella piovana; per depurarla esisteva una terza cisterna più piccola, che fungeva da filtro e che veniva chiamata "purgatorio", contenente ghiaia e carbone di legna, dove si faceva passare l'acqua per renderla più pulita. E' certo che all'interno delle cisterne si facessero dimorare sempre pesci d'acqua dolce, utili anch'essi come depuratori, tramite cui si poteva dedurre il grado di contaminazione dell'acqua.     
  

Il nuovo Palazzo Pubblico

       Nel corso dell'Ottocento le autorità e la popolazione di San Marino cominciarono ad avvertire sempre più l'esigenza di un Palazzo Pubblico nuovo, maggiormente funzionale, più prestigioso e appariscente di quello vecchio, dotato anche di una più forte carica simbolica capace di far intuire immediatamente la funzione politica e sociale di quell'edificio. Inoltre erano anni di facili entrate economiche per la Repubblica, dopo secoli di profonda miseria, e ciò avrà sicuramente inciso sul desiderio di costruire qualcosa di mastodontico e anche avulso dalla realtà urbanistica sammarinese, abituata da sempre a centellinare su tutto, anche sugli edifici più caratteristici e rappresentativi. 
    Fin dalla prima metà dell'Ottocento emerse tra le autorità sammarinesi il desiderio di ristrutturare, ampliandolo, il vecchio Palazzo Pubblico, sia per dare una sede più decorosa ai Reggenti e agli altri organismi politici, sia perché nel corso del tempo erano aumentati gli uffici pubblici e si sentiva il bisogno di raggrupparli all'interno di un'unica sede facilmente fruibile dal pubblico e più spaziosa. Inoltre il vecchio Palazzo cominciava a sentire il peso dei secoli e manifestava segni di usura e logoramento. Nel 1834, per esempio, i Reggenti Giuliano Malpeli e Pietro Tassini proposero al Consiglio di restaurare il Palazzo Pubblico perché per il "decoro della Repubblica" era importante che vi fosse "un luogo decente per la residenza dei Reggenti", dove potessero sistemarsi "con la dovuta regolarità tutti gli altri pubblici uffici". Vi era però un problema assai grave da superare per edificare il nuovo Palazzo: la carenza di denaro che sempre caratterizzava le casse dello Stato sammarinese, in questi anni estremamente povero e privo di risorse. Il progetto venne quindi lasciato cadere, anche se nei decenni successivi periodicamente all'interno del Consiglio continuarono ad emergere lagnanze per lo stato pietoso del vecchio edificio pubblico, e proposte per il suo restauro o addirittura per la sua ricostruzione completa.  

Fino ai primi anni '80, però, non fu possibile trovare i fondi necessari per avviare il tanto sognato restauro del Palazzo Pubblico; solo dalla seduta consigliare del 20 dicembre 1880 in poi fu possibile progettare concretamente la sua ricostruzione. In quell'occasione infatti si evidenziò che una certa Eugenia Margherita Andrè aveva offerto una cifra assai consistente per l'epoca, cioè 60.000 lire, per acquistare dalla Repubblica il titolo nobiliare di Duchessa (San Marino fin dagli anni '60 aveva cominciato a distribuire onorificenze e titoli dietro pagamento di cifre assai elevate). Si pensò di utilizzare questo denaro a favore del Palazzo Pubblico e di raccoglierne altro ancora perché la cifra, pur considerevole, non sarebbe di certo bastata.
    Nel 1881 si presero i primi contatti con l'architetto romano Francesco Azzurri, tuttavia fino al 1883 non si pose seriamente mano al problema. Nella seduta consigliare del 19 aprile 1883 l'architetto Azzurri lesse una relazione in cui analizzava le pietose condizioni del vecchio Palazzo, e specificava come avrebbe voluto costruire il nuovo. Il 7 maggio 1884 venne collocata la prima pietra del nuovo Palazzo Pubblico la cui costruzione richiese ben dieci anni. Il 30 settembre 1894 fu inaugurato ufficialmente alla presenza di Giosuè Carducci che lesse un discorso intitolato "La libertà perpetua di San Marino", composto per l'occasione, divenuto in seguito assai famoso tra i sammarinesi, e studiato per anni all’interno delle locali scuole.

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