L’Ottocento
L’Ottocento, soprattutto
nella sua seconda parte, fu epoca densa di avvenimenti e di grandi
mutamenti per la Repubblica di San Marino dopo secoli di sostanziale
immobilismo. Il mutamento principale cui si assistette nel secolo fu
senz’altro di natura demografica. Per secoli il territorio
sammarinese era rimasto pressoché immutato come numero di residenti:
alla fine del Settecento i residenti si aggiravano intorno alle
3.000 unità circa, per un totale di meno di 700 famiglie sparse
lungo tutto il suolo sammarinese, numero che grosso modo era stato
costante anche nei secoli precedenti. Nell’Ottocento questa cifra
venne invece stravolta, tanto che nel 1836 è stato calcolato che le
famiglie residenti fossero circa 900, per un totale di 5.000
individui circa; nel 1865, data del primo censimento ufficiale
curato dallo Stato, risultavano esservi 1.243 famiglie per un
complessivo di 7.080 individui, numero che si accrebbe fino a 9.600
nel 1905.
In pratica nell’Ottocento la popolazione si triplicò. I motivi di
questo aumento straordinario furono più o meno gli stessi che
portarono ad aumenti demografici considerevoli un po’ in tutto il
mondo occidentale: meno carestie, meno malattie letali, grazie al
miglioramento di alcune conoscenze scientifiche, e per San Marino
probabilmente vi fu anche un flusso immigratorio consistente,
soprattutto nella seconda metà del secolo, quando si ampliarono
all’interno del territorio le opportunità di lavoro grazie ai vari
lavori alle strade ed alle infrastrutture che vennero attuati.
E’ chiaro, comunque, che l’aumento demografico rappresentò anche un
problema per la comunità sammarinese, abituata a sopravvivere sempre
con gli stessi ritmi e nelle stesse maniere da tempi immemorabili,
soprattutto ricavando i mezzi di sussistenza dalla terra. Non a caso
nel 1813 le locali autorità fecero stampare uno statuto agrario,
figlio dell’ultima cultura agronomica che si era sviluppata in vari
paesi europei nel corso del Settecento, per elevare le conoscenze
dei contadini così da migliorare la produttività dei campi, ancora
soggetti ad essere coltivati con metodologie inadeguate, che li
facevano produrre molto meno di quello che avrebbero potuto e
dovuto.
In realtà le norme dello statuto impiegarono decenni per far breccia
nella cultura agronomica di sempre, tanto che ancora a metà secolo
erano numerosi i contadini che lavoravano la terra con sistemi
arcaici e scarsamente fruttuosi. D’altra parte una caratteristica
dei primi 50/60 anni dell’Ottocento fu proprio quella di aspirare ad
evolversi in tutti gli ambiti, stimolati soprattutto dalla cultura
che aveva portato in Italia Napoleone, ma di non riuscire a farlo
più di tanto sia per la povertà materiale e culturale della
popolazione, sia per le perenni ristrettezze delle casse statali,
del tutto incapaci a sostenere tangibilmente le iniziative promosse,
sia per la mentalità ultraconservatrice dei più, sia per la
turbolenza del periodo, che non permetteva alla società sammarinese
di avere la pace necessaria per attuare riforme di un certo peso.
Nella prima metà dell’Ottocento furono ben poche le novità di
rilievo che poterono realmente essere attuate: tra le infrastrutture
merita senz’altro menzionare la nuova Pieve, edificata in stile
neoclassico su disegno dell’architetto Antonio Serra di Bologna tra
il 1825, data in cui si diede inizio allo scempio della demolizione
della vecchia chiesa, che probabilmente risaliva al X-XI secolo, e
il 1838, quando venne aperta al pubblico, anche se i lavori per
rifinirla proseguirono fino al 1855. Costò più di 40.000 scudi, una
cifra esorbitante se si calcola che lo stipendio più alto che la
Repubblica si poteva permettere nel periodo era di 200 scudi annui
dati al chirurgo capo.
Tra le novità istituzionali, invece, meritano di essere menzionati
il Congresso degli Affari Esteri, per intrattenere rapporti
diplomatici con gli altri paesi, istituito ufficialmente nel 1826, e
la Congregazione Economica, creata nel 1830 per controllare
l'economia statale. Degno di essere ricordato è pure il primo
ufficio postale sammarinese, inaugurato nel 1833, e l’apertura del
primo ufficio del catasto nel ’34. All’epoca ciascuno di questi
uffici occupava a tempo parziale un solo impiegato.
Figura centrale del primo Ottocento sammarinese fu senz’altro
Antonio Onofri. Nato nel 1759 da famiglia antica e nobile, già da
tempo ai vertici della Repubblica, divenne segretario generale di
San Marino (massima carica politica dell’epoca) nel 1789, ovvero in
un periodo estremamente complesso ed in evoluzione. Fu lui che tenne
i rapporti coi francesi durante il loro dominio sulla penisola
italiana. Fu lui che presenziò come ambasciatore sammarinese
all’incoronazione a re d’Italia di Napoleone nel maggio del 1805, ed
in seguito venne accolto in udienza privata per parlare di questioni
riguardanti San Marino. Fu sempre lui che in quegli anni turbolenti,
recandosi di persona presso diverse corti, cercò di far sopravvivere
la Repubblica attirandole simpatie e procacciandole qualche
vantaggio di natura economica e commerciale.
Onofri fu un personaggio politico nuovo per San Marino, che fino a
questo periodo aveva avuto scarso bisogno di funzionari di tal
specie, simili ai segretari politici odierni, ed economicamente non
se li era nemmeno mai potuti permettere. Ma i tempi e la nuova
fisionomia assunta dalla penisola italiana avevano indotto anche il
piccolo Stato a mutare le sue metodologie di sempre, così come
l’indurranno a cambiare gradualmente mentalità.
Quando, dopo Waterloo, Napoleone cadde definitivamente, il Congresso
di Vienna nella sua sistemazione restauratrice dell’Europa ignorò
completamente San Marino, che aveva avuto l’intelligenza di non
accettare ampliamenti territoriali o benefici troppo appariscenti da
parte del giovane generale francese. La Repubblica, dunque, ritornò
ai suoi standard esistenziali di sempre, alle polemiche con Roma,
ora un po’ più velenose, alla sua miseria diffusa.
Il clima intellettuale illuminista e costituzionalista importato dai
francesi, però, lasciò precisi segni nella mentalità dei giovani
italiani e, di conseguenza, in quella di qualche sammarinese più
sensibile ai nuovi influssi culturali. Il Risorgimento iniziò dunque
ad incidere sulla società sammarinese, in particolare su qualche
giovane a partire dagli anni ’20. Col fallimento dei moti italiani
del ‘20-’21, infatti, molti ribelli cercarono di evitare la galera o
di salvarsi la pelle nascondendosi dentro i confini della
Repubblica, grazie alla compiacenza di chi per motivi ideologici o
anche pratici li aiutava.
Le autorità locali erano in genere tolleranti con questi individui,
anche perché era assai difficile in questi anni controllare con
meticolosità chi entrava o usciva dal territorio. Se non davano
troppi fastidi o problemi, venivano lasciati in pace e potevano
sostare sul suolo sammarinese per tutto il tempo che volevano, a
meno che altri Stati non ne richiedessero l'estradizione con
motivazioni convincenti. In questo caso, per non doverli catturare e
consegnare, il più delle volte si preferiva avvisarli di lasciare il
territorio per tempo.
Col fallimento dei moti del 1830-31 si ripeterono episodi analoghi,
perché San Marino divenne nascondiglio di tantissimi ricercati per
motivi politici o di altra natura. Soprattutto il Borgo, sede ogni
mercoledì di mercato, e periodicamente di importanti fiere, dove vi
erano locande, camere, servizi e possibilità di lavoro e
sopravvivenza adatti a chi doveva starsene lontano da casa per lungo
tempo, era rifugio molto frequentato. Ovviamente, dimorandovi, i
rifugiati entravano in contatto con persone e gioventù del luogo,
divenendo un veicolo di informazione per tutti, e di condizionamento
per chi rimaneva affascinato dagli ideali o aspirazioni da cui erano
animati. Non a caso furono soprattutto giovani del Borgo coloro che
aderirono con maggior slancio ai moti risorgimentali. La prima
traccia di questa partecipazione risale ai moti del ’30-’31, quando
alcuni giovani di San Marino, tra cui il farmacista Francesco Righi,
che verrà in seguito implicato in gravi fatti di sangue accaduti nel
1853-54, andranno a combattere al fianco dei loro coetanei italiani.
Pare inoltre, anche se furono voci mai del tutto chiarite, che in
loco fossero state fabbricate 3.000 cartucce con cui contribuire
alla rivoluzione in atto, e si tramasse di costituire una filiale
della Giovine Italia di ispirazione mazziniana.
Nel 1845 intorno a San Marino scoppiarono altri moti, ed anche a
questi presero parte attivamente vari giovani sammarinesi, per la
precisione tredici, di cui conosciamo nome e cognome grazie a
documenti che ci sono rimasti. Anche in questa occasione i moti non
portarono alcuna novità, e molti rivoluzionari dovettero scappare
trovando riparo anche dentro i confini di San Marino.
La prima Guerra d'Indipendenza vide la partecipazione di altri
sammarinesi, in numero ancor più cospicuo, così come sappiamo che
alcuni giovani avevano dato manforte a Garibaldi e Mazzini nella
difesa della Repubblica Romana, per cui si può dire che a metà
Ottocento a San Marino vi erano alcune decine di persone che
simpatizzavano apertamente per la causa italiana, e che
partecipavano direttamente ai moti armati che stavano sconvolgendo
la penisola.
Tra l'altro, nel marzo del '48 fu stampato e divulgato
clandestinamente tra la popolazione un opuscolo di tendenza
giobertiana in cui si criticavano molti aspetti della società
sammarinese, e si pretendevano innovazioni politiche e sociali.
Questo documento è un'ulteriore testimonianza della cultura politica
riformista che stava circolando tra la gioventù locale, ideali non
solo rivolti a sostenere le teorie politiche italiane, ma tesi pure
a criticare apertamente la Repubblica ed i suoi politici,
considerati i veri responsabili dei mali del paese.
L'episodio
garibaldino
Il momento in cui la cultura
risorgimentale si manifestò in tutta la sua forza fu dopo il
passaggio delle truppe garibaldine sul territorio sammarinese,
avvenuto il 31 luglio del 1849.
Nel 1848 scoppiarono moti e sommosse dovunque in Italia, anche a
Roma, da cui nel mese di novembre papa Pio IX dovette fuggire per
salvarsi dall'ira popolare e per rifugiarsi a Gaeta presso il re di
Napoli Ferdinando II. Durante la sua assenza il popolo romano elesse
un nuovo parlamento, decretò la fine del potere temporale del papa,
il 9 febbraio del 1849 proclamò la Repubblica Romana.
Provvisoriamente il potere fu assunto da un triumvirato, di cui
faceva parte anche Mazzini, mentre Garibaldi, tornato
precipitosamente dal sud America dove era fuggito in precedenza, fu
messo a capo dell’esercito che la doveva difendere.
Essa sopravvisse per i primi mesi del 1849, ma nel mese di giugno
venne attaccata dalle armate francesi accorse in aiuto del papa per
ripristinare lo Stato Pontificio. Per tutto giugno Roma venne
sottoposta ad assedio, fin quando il 3 luglio, vista impossibile
ogni resistenza, i triumviri ordinarono la resa ed i francesi
restaurarono lo Stato Pontificio. I capi della Repubblica riuscirono
però a fuggire e ad evitare la cattura. Anche Garibaldi, con circa
2.000 soldati, poté scappare dalla città e dirigersi verso la
Toscana. Tuttavia venne continuamente seguito ed incalzato dalle
truppe francesi, a cui si aggiunsero in seguito quelle austriache,
fino a ridursi nei pressi del monte Carpegna sul finir del mese.
La sera del 29 luglio Garibaldi inviò a San Marino un suo uomo per
comunicare alle locali autorità che il suo esercito voleva recarsi a
Venezia, e aveva necessità di transitare per il territorio
sammarinese. Il reggente Domenico Belzoppi rispose che una simile
azione avrebbe potuto arrecare grave danno alla Repubblica, per cui
non era il caso che l’attraversamento avvenisse. Il giorno dopo
arrivò a San Marino un altro inviato di Garibaldi, sempre per gli
stessi motivi. Ancora una volta fu risposto che il passaggio doveva
essere assolutamente evitato perché avrebbe potuto provocare gravi
danni diplomatici o di altra natura allo Stato sammarinese; sarebbe
comunque stato fornito cibo alle truppe affamate se si fossero
portate sui confini, senza però varcarli.
La mattina del 31 luglio, però, i soldati garibaldini furono
costretti ad entrare in territorio sammarinese perché rischiavano di
essere accerchiati ed annientati dalle truppe nemiche. Erano circa
1.500 uomini a piedi, più 300 uomini a cavallo, con al seguito
parecchi animali da soma, tutti stremati e malridotti dalle tante
disavventure che avevano dovuto fin lì patire. Parte di costoro si
sistemò sullo Stradone, parte si rifugiò in Borgo perché gli fu
vietato di entrare all'interno del centro storico. Alle ore 9
sopraggiunse Garibaldi che andò subito a parlare col Reggente per
comunicargli che, essendo ormai accerchiato, non aveva potuto
evitare di varcare i confini sammarinesi. Belzoppi prese atto di
quanto accaduto, e chiese di evitare rischi e pericoli allo Stato
sammarinese; in cambio i soldati sarebbero stati sfamati e curati.
Garibaldi in seguito se ne andò presso il Convento dei Cappuccini
dove sistemò il suo quartier generale, mangiò rapidamente qualcosa,
e dichiarò sciolte le sue truppe, perché ormai era inutile
continuare a combattere, visto che la Repubblica era accerchiata da
migliaia di soldati nemici che lasciavano ben poca speranza di
vittoria.
Nel frattempo le autorità sammarinesi intrapresero trattative con i
capi delle armate austriache; costoro promisero che non avrebbero
attaccato la Repubblica se i soldati garibaldini se ne fossero
rimasti tranquilli, e che erano disposti a preparare un trattato
tramite cui risolvere pacificamente la faccenda. Secondo questo
documento, la truppa di Garibaldi doveva sciogliersi, ed i suoi
componenti, divisi in piccoli gruppi, dovevano essere scortati fino
al loro domicilio. Avrebbero subito conseguenze solo quelli
ricercati per delitti precisi. Garibaldi e la moglie Anita, che lo
accompagnava, sarebbero stati esiliati per sempre in America.
Queste condizioni furono comunicate a Garibaldi nel pomeriggio; di
sera egli fece sapere alla Reggenza di non poterle accettare, e che
sarebbe subito andato via dal territorio, cosa che fece durante la
notte accompagnato solo dalla moglie e da 150 dei suoi uomini più
fidati. La mattina dopo, quando i soldati rimasti si accorsero della
fuga del generale, si svilupparono momenti di forte tensione perché
si sentirono abbandonati dal loro condottiero, così come vi furono
violenti proteste da parte delle autorità austriache che ritenevano
quelle sammarinesi responsabili della fuga stessa. Tuttavia durante
la stessa giornata la situazione riuscì gradualmente a placarsi, i
soldati garibaldini rimasti vennero disarmati e le armi vennero
consegnate alle truppe austriache che le reclamavano.
Il 2 agosto la faccenda pareva ormai conclusa, perché quasi tutti i
militi garibaldini erano scappati dal territorio. In realtà nei
giorni successivi ci si rese conto che parecchi uomini di Garibaldi,
pare una cinquantina, invece di fuggire erano rimasti nascosti nelle
case sammarinesi; inoltre gli austriaci si erano accorti che non
tutte le armi secondo loro in possesso della truppa garibaldina
erano state riconsegnate, e le pretendevano. Fu compito delle
autorità sammarinesi, nel mese di agosto, ottenere i lasciapassare
per i garibaldini rimasti per farli giungere fino a Livorno dove
imbarcarsi e lasciare l'Italia. La polemica relativa alle armi durò
invece più a lungo, e fu causa di forti acredini con Roma. |