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San Marino e l'unità d'Italia: nuove istanze, nuove finanze 

Il periodo dopo la seconda guerra d’indipendenza, in cui la penisola italiana venne in buona parte a unificarsi sotto il regno di Vittorio Emanuele II, fu un momento fondamentale e di netta metamorfosi anche per la Repubblica di San Marino.

Infatti, dopo secoli in cui essa, come suo enclave, ebbe rapporti praticamente solo con lo Stato Pontificio, statico e misero,  la piccola repubblica improvvisamente venne a trovarsi proiettata in una dimensione politica molto più dinamica e ampia, dove era ormai chiaro come non bastasse più essere «noti e noi e ignoti agli altri», come recitava un antico slogan tipico della locale mentalità.

Era vitale, invece, uscire da se stessi per intraprendere nuove strade diplomatiche, così da avere rapporti a livello internazionale, nonché innovativi percorsi commerciali per sviluppare la locale economia, basata quasi esclusivamente su un’agricoltura obsoleta e poco produttiva, e per dar lavoro alla locale popolazione in forte aumento numerico.

Infatti se a fine ‘700 i Sammarinesi sull’intero territorio non erano più di 3.500, numero che era rimasto con poche differenze analogo a quello dei secoli precedenti, a fine ‘800 avevano già raggiunto il numero di circa 10.000.

Questo periodo storico fu gradualmente percepito come diverso e nuovo anche dalla popolazione, che cominciò con sempre maggiore insistenza ad avanzare istanze al governo sammarinese per ottenere un miglior sistema stradale, in quanto quello di cui si disponeva era pessimo e adatto ad un paese chiuso in se stesso. (Sul periodo cfr. V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, la Repubblica di San Marino nell’età della Destra Storica, San Marino 1994, oppure, per un’ampia sintesi, V. Casali, Manuale di storia sammarinese, pp. 93 - 103, San Marino 2009).

Inoltre iniziarono appelli per lo sviluppo di un’alfabetizzazione di base per tutti, in quanto la cultura cominciava ad essere intesa come un basilare elemento di sviluppo sociale e individuale, e l’analfabetismo sammarinese raggiungeva tassi elevatissimi.

Altra richiesta del periodo fu quella di un nuovo Palazzo Pubblico, per avere un luogo istituzionale adatto ai tempi in rapido mutamento e alla moderna fisionomia che San Marino voleva assumere.

La sua costruzione, avvenuta tra il 1884 e il 1894, rappresentò sicuramente l’apice di queste velleità, e il suo aspetto così monumentale rispetto al precedente palazzo, che non a caso era conosciuto semplicemente come Magna Domus (grande casa), il miglior emblema della nuova dimensione pubblica che lo Stato sammarinese voleva acquisire.

Per rispondere alle istanze del periodo e della gente occorrevano comunque molti soldi, che San Marino non aveva. I suoi bilanci preunitari, infatti, erano quanto mai scarni e adatti ad una minuscola società che si limitava a sopravvivere con un apparato burocratico pressoché inesistente, di certo non a uno Stato pronto a svilupparsi e ad internazionalizzarsi.   

Tra il 1840 e il 1850 le casse sammarinesi registrarono 63.772 scudi in entrata (6.377 di media annua, ovvero 34.000 lire circa, la moneta sabauda che verrà adottata dopo l’unificazione -1 scudo = 5,33 lire -), e 49.843 (4.984 annue) in uscita.

Negli anni successivi, fino al 1862, la situazione cambiò poco in quanto le entrate furono mediamente sui 6.622 scudi annui, ovvero 35.000 lire circa, mentre le uscite registrarono 6.261 scudi di media annua, ovvero 33.000 lire circa.

I proventi statali erano prevalentemente dovuti alle tasse indirette sui beni di monopolio, cioè sale, tabacchi e polvere pirica, che rendevano circa 3 o 4 volte il loro costo iniziale. Per fare un esempio si può citare il bilancio del 1848/49, che registrò 4.284 scudi in entrata, di cui 1.625 ricavati dai tabacchi e 1.685 dal sale, e 4.028 scudi in uscita.

Le poche tasse dirette, invece, avevano un’incidenza minima.

Nei vent’anni presi in esame, in definitiva, i bilanci sammarinesi rimasero piuttosto costanti e assai modesti, corrispondenti circa a qualche decina di stipendi di eventuali impiegati, che San Marino comunque non aveva perché ancora non se li poteva permettere. Si calcoli, infatti, che i medici sammarinesi (all’epoca ve n’erano tre in tutto) percepivano come stipendio annuo negli anni ’50 e nei primi anni ‘60 tra i 200 e i 250 scudi, ovvero una ventina di scudi al mese.

Uguale retribuzione prendeva l’altro funzionario più pagato da San Marino, ovvero il commissario della legge; l’ispettore politico, cioè il poliziotto più alto di grado, riceveva 180 scudi annui; un professore del Collegio Belluzzi veniva pagato tra i 120 e i 150 scudi; un operaio incassava tra i 25 baiocchi al giorno, se era capo muratore (100 baiocchi = 1 scudo), e i 15 se era semplice bracciante: ovviamente questi soldi gli venivano corrisposti solo per i giorni in cui lavorava.

D’altra parte la Repubblica aveva poche spese in quanto il suo ridottissimo apparato burocratico era composto da pochi impiegati che spesso lavoravano part-time con stipendi irrisori.

Ugualmente la sistemazione delle strade e delle infrastrutture pubbliche avveniva il più delle volte con l’aiuto obbligatorio e gratuito della cittadinanza.

Le spese maggiori negli anni più critici e pericolosi si dovevano in genere al mantenimento di un apparato poliziesco di controllo lungo tutto il territorio, composto anch’esso però non da  carabinieri professionisti, che in questi anni non potevano essere assunti se non in numeri minimi, ma dalla milizia cittadina che, per quanto gratuita, incideva comunque sul bilancio statale.

Dopo la nascita del Regno d’Italia, San Marino riuscì a incrementare i suoi bilanci con varie entrate mai avute in precedenza, in particolare con il canone doganale, che riuscì a conseguire dall’Italia a partire dal 1862 con la stipula della prima convenzione sottoscritta tra i due Stati, e la vendita delle onorificenze e dei titoli nobiliari, pratica che la piccola repubblica avviò a partire dalla metà degli anni sessanta, forzando non poco la sua plurisecolare cultura pauperistica/patriarcale, nonché quella repubblicana, che ovviamente reputava incoerente e paradossale la creazione di titoli nobiliari.

Ma «l'argent fait tot. Coi quattrini si ottiene ogni cosa», ebbe a dire Palamede Malpeli, uno dei principali fautori di questo cambiamento di mentalità e di rotta, in una sua relazione letta e verbalizzata durante il Consiglio del 30 ottobre 1859. Quindi si abbandonarono le logiche ed i timori dei secoli precedenti per intraprendere un tragitto malvisto da tanti, ma estremamente proficuo e facile da percorrere, con costi minimi e rese massime, in un momento in cui non vi erano altre possibilità d’incamerare rapidamente denaro.

La pratica di creare titoli onorifici iniziò dopo la creazione dell’ordine equestre di San Marino, attuata tra il 1859 e l’anno seguente, e soprattutto dopo l’assegnazione nel 1861 del titolo di Duca d’Acquaviva ad Enrico d’Avigdor, rappresentante diplomatico sammarinese presso la corte di Napoleone III, dietro sua esplicita richiesta perché desiderava ricevere un riconoscimento importante a causa dei tanti servizi svolti fin lì a favore della Repubblica.

I titoli onorifici non vennero inizialmente realizzati per essere venduti, ma con lo scopo di avere strumenti idonei ad ingraziarsi personalità internazionali di spicco.

Ben presto, però, i governanti sammarinesi si resero conto di poter disporre di una merce pregiata e piuttosto ambita da parte di membri dei ceti più abbienti, per cui cominciarono a distribuire onorificenze e titoli nobiliari di varia natura a prezzi elevati, seguendo l’esempio di altre nazioni che utilizzavano la stessa pratica per incrementare le loro entrate.

Così nel gennaio del 1865 vennero assegnati i titoli di conte di Montecchio e di contessa di Fiorentino, in luglio un titolo di duca di Casole, il 29 gennaio 1866 un titolo di marchese, il 15 gennaio 1867 un ulteriore titolo di conte, il 31 agosto 1868 il titolo di contessa di Montalbo e altri ancora negli anni seguenti.

I primi titolati furono personaggi francesi raccomandati da D’Avigdor, insigniti delle onorificenze sammarinesi soprattutto per il ruolo che stava giocando la Francia come protettrice e garante della libertà di San Marino. Infatti Napoleone III aveva assunto San Marino sotto la sua protezione fin dal 1853, e l’anno dopo era stato aperto proprio a Parigi il primo consolato sammarinese. 

Solo dal 1870 vennero attribuiti titoli a personaggi di altre nazionalità: nel decennio 1870 - 1880 ne furono distribuiti 33; dal 1881 al 1899, 19; dal 1900 al 1931 solo 7.

Diversi di questi titoli furono dati per benemerenze personali, ma la maggior parte solo per motivi economici e dietro esborso di cifre spesso molto elevate, perché chi riceveva un’onorificenza era disposto a pagarla profumatamente e a fare doni preziosi alla Repubblica.

Per fare alcuni esempi a campione, nel 1865 per un titolo di marchese San Marino ricevette 5.500 lire; nel 1869 10.000 lire per un titolo di conte; nel ‘70 12.000 lire per un altro titolo di marchese; nel ‘72  22.000 lire per il titolo di Duchessa di Lesignano; 18.000 lire furono incamerate nel 1877 per un altro titolo di marchese, ben 60.000 lire per un titolo di duchessa nel 1880. Questa ingente somma permise di dare avvio tra il 1884 e il 1894 alla costruzione del nuovo Palazzo Pubblico, che alla fine venne a costare ben 350.000 lire e mandò in crisi le locali finanze pubbliche.

Le somme erano diverse perché per vari anni non vi fu un tariffario a cui attenersi, e si preferiva parlare di omaggi, donativi, generosi regali, ecc., più che di vendita, per cui quanto s’incassava dipendeva spesso dalla generosità del beneficiato, sebbene fosse noto che vi erano dei minimi da rispettare sotto cui non si poteva scendere, se si voleva ottenere il titolo bramato.  

Nel maggio del 1866 il Consiglio stabilì che nessuna onorificenza del nuovo ordine equestre dovesse essere conferita ad offerte inferiori alle 1.000 lire, importo assai ragguardevole per l'epoca, visto che i massimi stipendi che la Repubblica pagava nel periodo ai pochissimi impiegati di prestigio di cui disponeva si aggiravano tra le 100 e le 125 lire al mese, mentre un maestro elementare nel 1867 arrivava a percepire al massimo 400 lire all’anno.

Le cifre relative ai titoli nobiliari erano dunque elevatissime, anche se nei primi anni i governanti sammarinesi non sempre capirono quanto gli interessati fossero disposti a spendere per averli. Tutti i titoli, comunque, procurarono importanti introiti variando da un minimo di 6/8.000 lire per un titolo di barone alle somme di cui si è detto.

Tuttavia nel 1872 Il Consiglio Principe e Sovrano pensò bene di dare una logica più rigorosa alla distribuzione delle onorificenze e prezzi prefissati per la loro vendita varando un “Regolamento disciplinare” con cui si stabiliva che per ricevere il grado di Cavaliere fossero necessarie come minimo 1.200 lire, 1.500 per il titolo di Cavalier Ufficiale, 2.500 per quello di Commendatore e 4.000 per il titolo di Grand'Ufficiale. Il Gran Cordone doveva essere assegnato solo per ragioni di alta politica.

Tali cifre vennero maggiorate nel 1877; inoltre nella stessa occasione si deliberò che occorressero minimo 25.000 lire per ottenere il titolo di barone, 35.000 per quello di conte, 45.000 per diventare marchese, 60.000 lire per essere duca, sempre che il titolo non dovesse essere conferito esclusivamente per motivi politici e diplomatici.

L’interesse per i titoli sammarinesi diminuì notevolmente tra coloro che se li potevano permettere verso la fine dell’Ottocento, periodo in cui le pubbliche finanze sammarinesi andarono non a caso in deficit.

D’altra parte anche la nuova cultura progressista ed antinobiliare che si sviluppò sia a San Marino che fuori cominciò a etichettare le onorificenze come «obbrobriosi ciondoli», provocando una decisa contestazione sociale verso il loro conferimento prezzolato e un rapido declino della loro richiesta e conseguentemente dell’utile che procuravano.

Comunque, prima che questo calo avvenisse, esse risultarono fondamentali per eseguire molti di quei lavori infrastrutturali continuamente rimandati in territorio sammarinese o rallentati dalla carenza di denaro.

Come si è già anticipato qualche riga fa, l’altro importante cespite inaspettatamente rinvenuto nel periodo fu il canone doganale italiano, ottenuto grazie all’articolo 25 della convenzione firmata tra i due Stati il 22 marzo 1862.

Con tale norma si prevedeva la rinuncia da parte sammarinese del «libero transito (...) per gli articoli coloniali, merci ed altri generi qualunque». In cambio la repubblica avrebbe ricevuto un compenso in denaro da parte italiana calcolato in base al numero dei residenti in territorio.

San Marino in pratica veniva a sacrificare un suo diritto sovrano, che mai però aveva potuto praticare in passato per la miseria della sua situazione commerciale, e che sicuramente non era in grado di esercitare in tempi brevi neppure da lì in poi, per una cifra che fu piuttosto considerevole per il suo bilancio, se rapportata ai tempi ed ai suoi introiti abituali.

In altre parole era riuscita per la prima volta nella sua storia ad alienare a caro prezzo qualcosa che in quel momento per lei non aveva in sostanza alcun valore, operazione che poi ripeterà subito dopo con la vendita dei titoli onorifici.

L'Italia diede come compenso per tale rinuncia la ragguardevole cifra di 19.080 lire annue tramite tre rate quadrimestrali, ovvero una somma pari a più della metà della cifra costituente il bilancio dello Stato sammarinese che, come si è detto, si aggirava mediamente nei decenni precedenti sulle 34/35.000 lire.

Questi nuovi introiti ampliarono rapidamente i bilanci statali: le entrate registrate tra il 1862 e il 1872 furono di 994.000 lire, ovvero circa 99.000 all’anno; quelle tra il 1873 e il 1883 furono di 1.878.927; in seguito i bilanci continuarono a lievitare superando a fine secolo ormai le 300.000 lire annue.

Dopo l’Arengo del 1906 il fenomeno proseguì nonostante il cospicuo calo della distribuzione delle onorificenze, e i bilanci raggiunsero le 500.000 lire annue, con un picco eccezionale nell’anno amministrativo 1908 - 1909 di 1.300.000 lire, in quanto s’incassarono 959.000 lire di utili dal nuovo prestito a premi, una sorta di lotteria internazionale, avviato in quel periodo.

Tale dilatazione ulteriore dei bilanci statali si deve al reperimento da parte delle autorità sammarinesi di altri cespiti, come quelli legati alla produzione di monete locali, coniate per la prima volta nel 1864, e di francobolli, stampati a partire dal 1877.

Tuttavia il canone italiano rappresentò a lungo un introito importante, accrescendosi periodicamente tramite nuove convenzioni o aggiornamenti delle convenzioni in vigore. Nel 1872 raggiunse la cifra di 22.000 lire; nel 1909 fu portato a 68.000 lire, che divennero 75.000 nel 1910. Nel 1914 e per tutto il periodo bellico San Marino percepì 360.000 lire (nel 1917-18 il suo bilancio fu di 622.853 lire), cifra ora concordata tra le parti senza tener conto del numero degli abitanti.

A causa della grande svalutazione che si ebbe dopo la guerra, San Marino riuscì ad ottenere ulteriori importanti ritocchi dall’Italia nel 1920, quando il canone fu portato a 600.000 lire, e nel 1923 quando raggiunse la somma di 1.500.000 lire, cifra che rimase invariata fino alla convenzione del 1939, con cui il canone fu portato alla quota di 3.600.000 lire.

Questi soldi, a lungo così importanti per le casse sammarinesi, costituivano però un’arma a doppio taglio proprio perché il loro mancato pagamento, per un ritardo o per una scelta strategica da parte italiana, creava subito scompiglio nel bilancio dello Stato sammarinese, come si vide durante il periodo di crisi di rapporti tra i due Stati negli anni successivi alla seconda guerra mondiale che portò ai fatti di Rovereta.

In quegli anni l’Italia centellinò deliberatamente la corresponsione del canone per mettere in crisi le finanze sammarinesi e il suo governo, operazione che alla fine portò la repubblica sull’orlo del collasso economico.

 

 

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