San Marino e l'unità d'Italia: nuove istanze, nuove finanze
Il periodo dopo la seconda guerra d’indipendenza, in cui la penisola
italiana venne in buona parte a unificarsi sotto il regno di
Vittorio Emanuele II, fu un momento fondamentale e di netta
metamorfosi anche per la Repubblica di San Marino.
Infatti, dopo secoli in cui essa, come suo enclave, ebbe rapporti
praticamente solo con lo Stato Pontificio, statico e misero, la
piccola repubblica improvvisamente venne a trovarsi proiettata in
una dimensione politica molto più dinamica e ampia, dove era ormai
chiaro come non bastasse più essere «noti e noi e ignoti agli
altri», come recitava un antico slogan tipico della locale
mentalità.
Era vitale, invece, uscire da se stessi per intraprendere nuove
strade diplomatiche, così da avere rapporti a livello
internazionale, nonché innovativi percorsi commerciali per
sviluppare la locale economia, basata quasi esclusivamente su
un’agricoltura obsoleta e poco produttiva, e per dar lavoro alla
locale popolazione in forte aumento numerico.
Infatti se
a fine ‘700 i
Sammarinesi sull’intero territorio non erano più di 3.500, numero
che era rimasto con poche differenze analogo a quello dei secoli
precedenti, a fine ‘800 avevano già raggiunto il numero di circa
10.000.
Inoltre iniziarono appelli per lo sviluppo di un’alfabetizzazione di
base per tutti, in quanto la cultura cominciava ad essere intesa
come un basilare elemento di sviluppo sociale e individuale, e
l’analfabetismo sammarinese raggiungeva tassi elevatissimi.
Altra richiesta del periodo fu quella di un nuovo Palazzo Pubblico,
per avere un luogo istituzionale adatto ai tempi in rapido mutamento
e alla moderna fisionomia che San Marino voleva assumere.
La sua costruzione, avvenuta tra il 1884 e il 1894, rappresentò
sicuramente l’apice di queste velleità, e il suo aspetto così
monumentale rispetto al precedente palazzo, che non a caso era
conosciuto semplicemente come Magna Domus (grande casa), il
miglior emblema della nuova dimensione pubblica che lo Stato
sammarinese voleva acquisire.
Per rispondere alle istanze del periodo e della gente occorrevano
comunque molti soldi, che San Marino non aveva. I suoi bilanci
preunitari, infatti, erano quanto mai scarni e adatti ad una
minuscola società che si limitava a sopravvivere con un apparato
burocratico pressoché inesistente, di certo non a uno Stato pronto a
svilupparsi e ad internazionalizzarsi.
Tra il 1840 e il 1850 le casse sammarinesi registrarono 63.772 scudi
in entrata (6.377 di media annua, ovvero 34.000 lire circa, la
moneta sabauda che verrà adottata dopo l’unificazione -1 scudo =
5,33 lire -), e 49.843 (4.984 annue) in uscita.
Negli anni successivi, fino al 1862, la situazione cambiò poco in
quanto le entrate furono mediamente sui 6.622 scudi annui, ovvero
35.000 lire circa, mentre le uscite registrarono 6.261 scudi di
media annua, ovvero 33.000 lire circa.
I proventi statali erano prevalentemente dovuti alle tasse indirette
sui beni di monopolio, cioè sale, tabacchi e polvere pirica, che
rendevano circa 3 o 4 volte il loro costo iniziale. Per fare un
esempio si può citare il
bilancio del 1848/49, che registrò 4.284 scudi in entrata, di cui
1.625 ricavati dai tabacchi e 1.685 dal sale, e 4.028 scudi in
uscita.
Le poche tasse dirette, invece, avevano un’incidenza minima.
Nei vent’anni presi in esame, in definitiva, i bilanci sammarinesi
rimasero piuttosto costanti e assai modesti, corrispondenti circa a
qualche decina di stipendi di eventuali impiegati, che San Marino
comunque non aveva perché ancora non se li poteva permettere. Si
calcoli, infatti, che i medici sammarinesi (all’epoca ve n’erano tre
in tutto) percepivano come stipendio annuo negli anni ’50 e nei
primi anni ‘60 tra i 200 e i 250 scudi, ovvero una ventina di scudi
al mese.
Uguale retribuzione prendeva l’altro funzionario più pagato da San
Marino, ovvero il commissario della legge; l’ispettore politico,
cioè il poliziotto più alto di grado, riceveva 180 scudi annui; un
professore del Collegio Belluzzi veniva pagato tra i 120 e i 150
scudi; un operaio incassava tra i 25 baiocchi al giorno, se era capo
muratore (100 baiocchi = 1 scudo), e i 15 se era semplice
bracciante: ovviamente questi soldi gli venivano corrisposti solo
per i giorni in cui lavorava.
D’altra parte la Repubblica aveva poche spese in quanto il suo
ridottissimo apparato burocratico era composto da pochi impiegati
che spesso lavoravano part-time con stipendi irrisori.
Ugualmente la sistemazione delle strade e delle infrastrutture
pubbliche avveniva il più delle volte con l’aiuto obbligatorio e
gratuito della cittadinanza.
Le spese maggiori negli anni più critici e pericolosi si dovevano in
genere al mantenimento di un apparato poliziesco di controllo lungo
tutto il territorio, composto anch’esso però non da carabinieri
professionisti, che in questi anni non potevano essere assunti se
non in numeri minimi, ma dalla milizia cittadina che, per quanto
gratuita, incideva comunque sul bilancio statale.
Dopo la nascita del Regno d’Italia, San Marino riuscì a incrementare
i suoi bilanci con varie entrate mai avute in precedenza, in
particolare con il canone doganale, che riuscì a conseguire
dall’Italia a partire dal 1862 con la stipula della prima
convenzione sottoscritta tra i due Stati, e la vendita delle
onorificenze e dei titoli nobiliari, pratica che la piccola
repubblica avviò a partire dalla metà degli anni sessanta, forzando
non poco la sua plurisecolare cultura pauperistica/patriarcale,
nonché quella repubblicana, che ovviamente reputava incoerente e
paradossale la creazione di titoli nobiliari.
Ma «l'argent fait tot. Coi quattrini si ottiene ogni cosa», ebbe a
dire Palamede Malpeli, uno dei principali fautori di questo
cambiamento di mentalità e di rotta, in una sua relazione letta e
verbalizzata durante il Consiglio del 30 ottobre 1859. Quindi si
abbandonarono le logiche ed i timori dei secoli precedenti per
intraprendere un tragitto malvisto da tanti, ma estremamente
proficuo e facile da percorrere, con costi minimi e rese massime, in
un momento in cui non vi erano altre possibilità d’incamerare
rapidamente denaro.
La pratica di creare titoli onorifici iniziò dopo la creazione
dell’ordine equestre di San Marino, attuata tra il 1859 e l’anno
seguente, e soprattutto dopo l’assegnazione nel 1861 del titolo di
Duca d’Acquaviva ad Enrico d’Avigdor, rappresentante diplomatico
sammarinese presso la corte di Napoleone III, dietro sua esplicita
richiesta perché desiderava ricevere un riconoscimento importante a
causa dei tanti servizi svolti fin lì a favore della Repubblica.
I titoli onorifici non vennero inizialmente realizzati per essere
venduti, ma con lo scopo di avere strumenti idonei ad ingraziarsi
personalità internazionali di spicco.
Ben presto, però, i governanti sammarinesi si resero conto di poter
disporre di una merce pregiata e piuttosto ambita da parte di membri
dei ceti più abbienti, per cui cominciarono a distribuire
onorificenze e titoli nobiliari di varia natura a prezzi elevati,
seguendo l’esempio di altre nazioni che utilizzavano la stessa
pratica per incrementare le loro entrate.
Così nel gennaio del 1865 vennero assegnati i titoli di conte di
Montecchio e di contessa di Fiorentino, in luglio un titolo di duca
di Casole, il 29 gennaio 1866 un titolo di marchese, il 15 gennaio
1867 un ulteriore titolo di conte, il 31 agosto 1868 il titolo di
contessa di Montalbo e altri ancora negli anni seguenti.
I primi titolati furono personaggi francesi raccomandati da
D’Avigdor, insigniti delle onorificenze sammarinesi soprattutto per
il ruolo che stava giocando la Francia come protettrice e garante
della libertà di San Marino. Infatti Napoleone III aveva assunto San
Marino sotto la sua protezione fin dal 1853, e l’anno dopo era stato
aperto proprio a Parigi il primo consolato sammarinese.
Solo dal 1870 vennero attribuiti titoli a personaggi di altre
nazionalità: nel decennio 1870 - 1880 ne furono distribuiti 33; dal
1881 al 1899, 19; dal 1900 al 1931 solo 7.
Diversi di questi titoli furono dati per benemerenze personali, ma
la maggior parte solo per motivi economici e dietro esborso di cifre
spesso molto elevate, perché chi riceveva un’onorificenza era
disposto a pagarla profumatamente e a fare doni preziosi alla
Repubblica.
Per fare alcuni esempi a campione, nel 1865 per un titolo di
marchese San Marino ricevette 5.500 lire; nel 1869 10.000 lire per
un titolo di conte; nel ‘70 12.000 lire per un altro titolo di
marchese; nel ‘72 22.000 lire per il titolo di Duchessa di
Lesignano; 18.000 lire furono incamerate nel 1877 per un altro
titolo di marchese, ben 60.000 lire per un titolo di duchessa nel
1880. Questa ingente somma permise di dare avvio tra il 1884 e il
1894 alla costruzione del nuovo Palazzo Pubblico, che alla fine
venne a costare ben 350.000 lire e mandò in crisi le locali finanze
pubbliche.
Le somme erano diverse perché per vari anni non vi fu un tariffario
a cui attenersi, e si preferiva parlare di omaggi, donativi,
generosi regali, ecc., più che di vendita, per cui quanto
s’incassava dipendeva spesso dalla generosità del beneficiato,
sebbene fosse noto che vi erano dei minimi da rispettare sotto cui
non si poteva scendere, se si voleva ottenere il titolo bramato.
Nel maggio del 1866 il Consiglio stabilì che nessuna onorificenza
del nuovo ordine equestre dovesse essere conferita ad offerte
inferiori alle 1.000 lire, importo assai ragguardevole per l'epoca,
visto che i massimi stipendi che la Repubblica pagava nel periodo ai
pochissimi impiegati di prestigio di cui disponeva si aggiravano tra
le 100 e le 125 lire al mese, mentre un maestro elementare nel 1867
arrivava a percepire al massimo 400 lire all’anno.
Le cifre relative ai titoli nobiliari erano dunque elevatissime,
anche se nei primi anni i governanti sammarinesi non sempre capirono
quanto gli interessati fossero disposti a spendere per averli. Tutti
i titoli, comunque, procurarono importanti introiti variando da un
minimo di 6/8.000 lire per un titolo di barone alle somme di cui si
è detto.
Tuttavia nel 1872 Il Consiglio Principe e Sovrano pensò bene di dare
una logica più rigorosa alla distribuzione delle onorificenze e
prezzi prefissati per la loro vendita varando un “Regolamento
disciplinare” con cui si stabiliva che per ricevere il grado di
Cavaliere fossero necessarie come minimo 1.200 lire, 1.500 per il
titolo di Cavalier Ufficiale, 2.500 per quello di Commendatore e
4.000 per il titolo di Grand'Ufficiale. Il Gran Cordone doveva
essere assegnato solo per ragioni di alta politica.
Tali cifre vennero maggiorate nel 1877; inoltre nella stessa
occasione si deliberò che occorressero minimo 25.000 lire per
ottenere il titolo di barone, 35.000 per quello di conte, 45.000 per
diventare marchese, 60.000 lire per essere duca, sempre che il
titolo non dovesse essere conferito esclusivamente per motivi
politici e diplomatici.
L’interesse per i titoli sammarinesi diminuì notevolmente tra coloro
che se li potevano permettere verso la fine dell’Ottocento, periodo
in cui le pubbliche finanze sammarinesi andarono non a caso in
deficit.
D’altra parte anche la nuova cultura progressista ed antinobiliare
che si sviluppò sia a San Marino che fuori cominciò a etichettare le
onorificenze come «obbrobriosi ciondoli», provocando una decisa
contestazione sociale verso il loro conferimento prezzolato e un
rapido declino della loro richiesta e conseguentemente dell’utile
che procuravano.
Comunque, prima che questo calo avvenisse, esse risultarono
fondamentali per eseguire molti di quei lavori infrastrutturali
continuamente rimandati in territorio sammarinese o rallentati dalla
carenza di denaro.
Come si è già anticipato qualche riga fa, l’altro importante cespite
inaspettatamente rinvenuto nel periodo fu il canone doganale
italiano, ottenuto grazie all’articolo 25 della convenzione firmata
tra i due Stati il 22 marzo 1862.
Con tale norma si prevedeva la rinuncia da parte sammarinese del
«libero transito (...) per gli articoli coloniali, merci ed altri
generi qualunque». In cambio la repubblica avrebbe ricevuto un
compenso in denaro da parte italiana calcolato in base al numero dei
residenti in territorio.
San Marino in pratica veniva a sacrificare un suo diritto sovrano,
che mai però aveva potuto praticare in passato per la miseria della
sua situazione commerciale, e che sicuramente non era in grado di
esercitare in tempi brevi neppure da lì in poi, per una cifra che fu
piuttosto considerevole per il suo bilancio, se rapportata ai tempi
ed ai suoi introiti abituali.
In altre parole era riuscita per la prima volta nella sua storia ad
alienare a caro prezzo qualcosa che in quel momento per lei non
aveva in sostanza alcun valore, operazione che poi ripeterà subito
dopo con la vendita dei titoli onorifici.
L'Italia diede come compenso per tale rinuncia la ragguardevole
cifra di 19.080 lire annue tramite tre rate quadrimestrali, ovvero
una somma pari a più della metà della cifra costituente il bilancio
dello Stato sammarinese che, come si è detto, si aggirava mediamente
nei decenni precedenti sulle 34/35.000 lire.
Questi nuovi introiti ampliarono rapidamente i bilanci statali: le
entrate registrate tra il 1862 e il 1872 furono di 994.000 lire,
ovvero circa 99.000 all’anno; quelle tra il 1873 e il 1883 furono di
1.878.927; in seguito i bilanci continuarono a lievitare superando a
fine secolo ormai le 300.000 lire annue.
Dopo l’Arengo del 1906 il fenomeno proseguì nonostante il cospicuo
calo della distribuzione delle onorificenze, e i bilanci raggiunsero
le 500.000 lire annue, con un picco eccezionale nell’anno
amministrativo 1908 - 1909 di 1.300.000 lire, in quanto
s’incassarono 959.000 lire di utili dal nuovo prestito a premi, una
sorta di lotteria internazionale, avviato in quel periodo.
Tale dilatazione ulteriore dei bilanci statali si deve al
reperimento da parte delle autorità sammarinesi di altri cespiti,
come quelli legati alla produzione di monete locali, coniate per la
prima volta nel 1864, e di francobolli, stampati a partire dal 1877.
Tuttavia il canone italiano rappresentò a lungo un introito
importante, accrescendosi periodicamente tramite nuove convenzioni o
aggiornamenti delle convenzioni in vigore. Nel 1872 raggiunse la
cifra di 22.000 lire; nel 1909 fu portato a 68.000 lire, che
divennero 75.000 nel 1910. Nel 1914 e per tutto il periodo bellico
San Marino percepì 360.000 lire (nel 1917-18 il suo bilancio fu di
622.853 lire), cifra ora concordata tra le parti senza tener conto
del numero degli abitanti.
A causa della grande svalutazione che si ebbe dopo la guerra, San
Marino riuscì ad ottenere ulteriori importanti ritocchi dall’Italia
nel 1920, quando il canone fu portato a 600.000 lire, e nel 1923
quando raggiunse la somma di 1.500.000 lire, cifra che rimase
invariata fino alla convenzione del 1939, con cui il canone fu
portato alla quota di 3.600.000 lire.
Questi soldi, a lungo così importanti per le casse sammarinesi,
costituivano però un’arma a doppio taglio proprio perché il loro
mancato pagamento, per un ritardo o per una scelta strategica da
parte italiana, creava subito scompiglio nel bilancio dello Stato
sammarinese, come si vide durante il periodo di crisi di rapporti
tra i due Stati negli anni successivi alla seconda guerra mondiale
che portò ai fatti di Rovereta.
In quegli anni l’Italia centellinò deliberatamente la corresponsione
del canone per mettere in crisi le finanze sammarinesi e il suo
governo, operazione che alla fine portò la repubblica sull’orlo del
collasso economico.
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