Il
periodo napoleonico
Nell'aprile del 1796 il giovanissimo generale francese Napoleone
Bonaparte iniziò la campagna d'Italia con una serie di folgoranti
vittorie. In maggio penetrò con le sue truppe dentro Milano, nei
mesi successivi riuscì ad estendere la sua influenza ed il suo
dominio su tutta l'Italia centro-settentrionale, entrando ad un
certo punto in contatto anche con la Repubblica di San Marino.
Inizialmente le autorità sammarinesi assistettero senza particolare
partecipazione o timori a quanto egli stava facendo nel nord Italia,
preoccupandosi solo, alla fine di giugno, di nominare una
commissione per contattare il generale, nel caso ve ne fosse stato
bisogno, riverirlo e pregarlo di preservare la secolare indipendenza
del loro Stato. Nel '96, tuttavia, Napoleone rimase abbastanza
lontano dai confini sammarinesi, per cui non si allacciò alcuna
relazione tra il generale e San Marino: alla fine questa commissione
non dovette svolgere praticamente alcuna funzione.
Il contatto invece avvenne il 5 febbraio 1797, quando la Reggenza si
vide recapitare da Rimini, ormai in mano francese, una lettera dai
toni imperiosi firmata da un subalterno di Napoleone, il generale
Berthier, in cui si chiedeva l'immediata riconsegna del locale
vescovo, monsignor Ferretti, che si sapeva rifugiato a San Marino.
La richiesta mise ovviamente in agitazione i governanti sammarinesi,
che s'impegnarono subito per ritrovare il vescovo. Non vi
riuscirono, però, perché si era già rifugiato altrove scappando dal
territorio. Scrissero quindi a Berthier per comunicare l'esito
infruttuoso delle ricerche svolte, ma anche per garantire piena
collaborazione futura, nonché per avanzare la tacita richiesta di
poter essere rispettati nella secolare indipendenza del loro Stato.
“Non avrete mai a lagnarvi di una piccola popolazione povera,
altrettanto che ambiziosa della libertà che gode da tempo
immemorabile”, scrissero nella loro risposta, mettendo subito in
evidenza i motivi per cui non meritava invaderli: la piena
disponibilità alla cooperazione, la piccolezza e povertà, la mitica
libertà perpetua.
Il 7 febbraio i Francesi inviarono a San Marino un loro
ambasciatore, il noto scienziato Gaspare Monge, per assicurare i
Reggenti che Napoleone non aveva intenzioni ostili verso l'antica
Repubblica, e per garantire l'amicizia, la simpatia e la fratellanza
della Repubblica Francese. “La libertà è stata bandita dall’Europa –
disse – ed esiste solo a San Marino, dove, per la saggezza dei
governanti e soprattutto per la virtù dei cittadini è stata
conservata nel tempo e attraverso le peripezie della storia”.
La missione di Monge dovette rasserenare molto gli animi dei
sammarinesi, che fino a questo momento non potevano essere in grado
di immaginarsi quali fossero le reali intenzioni di Napoleone nei
loro confronti. “Sembraci ancora un sogno la gentile sorpresa che
voi ci faceste coll’augusto carattere di cui eravate investito –
scrissero le autorità da San Marino al Monge in data 12 febbraio –
Questa è la prima volta che distinti dalla turba dei servi, abbiamo
ricevuto un onore che era riserbato alla vostra grande Nazione di
conferirci”.
I Francesi, dunque, non solo avevano evitato di soggiogare la
Repubblica, ma addirittura le avevano dato, primi fra tutti, una
sorta di riconoscimento internazionale, fornendo ai suoi cittadini
una fisionomia ben precisa e distinguendoli dalla “turba dei servi”.
Ancor più dovettero rimanere tranquillizzati da un'altra lettera del
28 febbraio, siglata direttamente da Napoleone, in cui veniva
specificato che egli aveva dato ordine affinché fossero donati alla
Repubblica sammarinese in segno di amicizia quattro cannoni (che per
motivi ignoti non arrivarono mai a San Marino), e mille quintali di
biade, che invece furono regolarmente consegnati.
I rapporti con i francesi furono quindi subito ottimi, ma è
importante chiedersi perché Napoleone, che nella sua avanzata
fulminea non aveva rispettato alcun altro Stato di quelli con cui
era entrato in contatto, sottomettendoli tutti al suo imperio e
saccheggiando senza alcun ritegno le ricchezze che scovava, ebbe un
atteggiamento così collaborativo e rispettoso verso San Marino.
Il motivo probabilmente è legato al mito internazionale di cui la
Repubblica sammarinese già in questo secolo godeva, cioè alla
simpatia che tutte le grandi nazioni e diversi intellettuali avevano
nei suoi confronti in quanto era considerato il più antico Stato del
mondo, e quello che da tempi immemorabili si reggeva tramite un
governo democratico e repubblicano, senza avere particolari
ambizioni se non la semplice sopravvivenza. Non era facile,
soprattutto per Napoleone che stava combattendo in quel momento
proprio animato da ideali simili, cancellare con la forza un simile
emblema. Anzi, gli era sicuramente più conveniente e propagandistico
conservarlo e proteggerlo.
Così fece: negli anni successivi i sammarinesi furono in grado di
giovarsi di questa amicizia per redigere, nel 1798 e 1802, alcuni
trattati da cui poterono ricavare qualche privilegio di natura
commerciale e apprezzabili vantaggi economici.
La sommossa del 1797
L’arrivo
di Napoleone e degli ideali che portava con sé suscitarono a San
Marino come altrove velleità riformatrici desiderose di profonde
innovazioni di natura politica e sociale, e tese ad eliminare una
volta per sempre il cosiddetto “Ancien Regime”. Se si tiene presente
poi che a San Marino nel corso del Settecento già vi erano stati
forti attriti nei confronti delle istituzioni ai tempi dell’Alberoni
e del blocco del cardinale Valenti Gonzaga, si può comprendere
adeguatamente quali furono le cause dell’insurrezione del 1797, che
poi verrà definita “giacobina”.
Tutto iniziò a causa del pane e del vino. Nell’aprile del 1797 venne
presentata ai nuovi Reggenti Giuliano Belluzzi e Girolamo Paoloni
un’istanza d’arengo in cui si chiedeva di migliorare la qualità del
pane, che da un po’ di tempo non aveva un gran sapore, e di impedire
l’esportazione di vino fuori confine per evitare di ridurne le
scorte, e conseguentemente di vederne lievitare il prezzo.
Nonostante le assicurazioni fornite dai Reggenti di impegnarsi in
prima persona affinché la petizione andasse a buon esito, nel mese
di maggio ancora non erano stati presi provvedimenti in merito, per
cui gli instanti cominciarono a mormorare sempre più contro il
governo, reo di essersi dimostrato del tutto indifferente di fronte
a quelle che consideravano legittime richieste di onesti cittadini
preoccupati del bene di tutti i sammarinesi. Le proteste
cominciarono a svilupparsi particolarmente nelle bettole di Borgo,
dove si ritrovavano per bere e giocare a carte gli artigiani del
paese così come i contadini.
Un giorno di maggio Giuseppe Moracci, uno degli instanti, si accorse
che presso la cantina Filippi in Borgo alcuni forestieri stavano
comperando vino per portarlo fuori confine. Subito si diede da fare
per trovare qualcuno che lo aiutasse ad impedire un tale misfatto:
con facilità rintracciò parecchi compagni decisi come lui a tenere
il vino in Repubblica. Tutti insieme si recarono da Mazzasette, il
cantiniere di Filippi, e con metodi bruschi e minacciosi si opposero
alla vendita del vino, obbligando i forestieri a riportare
all’interno del locale quello che già avevano caricato sul loro
carro. Subito dopo si recarono presso le altre cantine del Borgo per
inventariare il vino disponibile, arrivando a buttare giù le porte a
chi non si mostrava disponibile.
Questa fu la prima azione degli “insorgenti”, come vennero poi
definiti. La loro seconda iniziativa fu quella di riunire un
insieme di uomini decisi a tutelare il pane e il vino, che in quest’epoca
erano la base dell’alimentazione quotidiana dei più, ma anche
desiderosi “di mettere un buon ordine nel governo”, come
cominciarono a dichiarare nei comizi, negli scritti e nella
propaganda che andavano divulgando per il territorio. L’iniziale
richiesta di natura puramente alimentare, quindi, venne arricchita
da altri elementi, e si trasformò in critica apertamente politica
nei confronti del governo, ritenuto responsabile di avere snobbato,
per aristocratica boria, un’importante petizione popolare, e di
essere ormai lontano dai concreti bisogni dei cittadini.
Dopo una sorta di patto di sangue sottoscritto dagl’insorgenti, essi
redassero un secondo esposto da inoltrare al governo e si
adoperarono per raccogliere le firme di altri cittadini. Il 3
giugno, giorno di riunione del Consiglio, si recarono sul Pianello
in un centinaio per consegnare la petizione in cui si accusavano i
governanti di aver seriamente compromesso nell’ultimo secolo la
tranquillità della Repubblica, perché alla democrazia era stata
sostituita la tirannia e si era violentato lo statuto. Era stato poi
creato assurdamente un ceto nobile, responsabile, secondo i
contestatori, dei maggiori guai di San Marino; in più si avanzavano
forti sospetti sulla regolarità della pubblica finanza, e
sull’onestà dei pubblici amministratori. Si chiedevano dunque
quattro cose: il ritorno integrale allo statuto del ‘600; il
Consiglio doveva sempre essere composto da sessanta membri; le
cariche pubbliche non dovevano essere riservate solo ai nobili; i
pubblici amministratori dovevano rendere conto periodicamente dei
soldi che gestivano.
Il Consiglio stabilì di rendere i conti entro due mesi, di
sottomettersi alla piena osservanza dello statuto, ed elesse subito
sette nuovi consiglieri per colmare i posti vacanti. Apparentemente
gl’insorgenti avevano vinto, ma nelle settimane successive non
accadde quanto promesso, per cui le polemiche divamparono nel paese
insieme a documenti anonimi pieni di accuse e “libelli incendiarii”,
come venivano definiti dalle autorità. Nel Consiglio del 12 giugno
venne presentata un’altra istanza in cui si chiedevano sempre le
stesse riforme e in più l’abolizione della nobiltà. Anche questa
volta vi erano più di sessanta persone sul Pianello in attesa della
risposta, tra cui i capi della sommossa che erano armati e
minacciavano addirittura di dar fuoco al Palazzo Pubblico.
Il Consiglio ovviamente promise che avrebbe assecondato tutte le
richieste, abolendo all’istante la nobiltà (che comunque verrà
ripristinata in fretta dopo qualche tempo), e l’assembramento si
sciolse. In realtà alla fine del mese le autorità crearono un
“Comitato di Pubblica Sicurezza” preposto a sopprimere il tumulto,
sedare le polemiche ed incarcerare i capi della sommossa, cosa che
avvenne nei mesi successivi, in particolare in agosto, anche se
alcuni dei capi riuscirono a fuggire al di fuori dei confini. Tra
l’autunno e l’inverno si svolse il processo a carico degli
insorgenti, che vennero tutti condannati alla prigionia o
all’esilio, e l’intera faccenda giunse a conclusione col ripristino
della situazione sociale e politica precedente.
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