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Storia della Milizia Sammarinese


L’epoca medievale

 

Il monte Titano ed il suo circondario sono stati sicuramente frequentati ed abitati fin dalla preistoria, tuttavia la comunità da cui prese in seguito vita la Repubblica di San Marino iniziò a formarsi in periodo alto medievale, ovvero tra la caduta dell’impero romano e il Mille. Purtroppo di questo lungo periodo conosciamo poco o nulla per carenza di fonti documentali. Sappiamo tuttavia, da un unico documento che ci è pervenuto, che nel 511 d.C. sul monte c’era un monastero; sappiamo inoltre che la comunità che si venne formando sul Titano, forse proprio grazie e attorno al monastero, si dedicò ad un personaggio mitico venuto da Arbe, San Marino appunto, su cui ricaviamo notizie da una leggenda scritta intorno al X secolo; sappiamo infine da rari documenti successivi che la comunità sammarinese ad un certo punto si dotò di un castello e di una pieve, probabilmente intorno al X o XI secolo, infrastrutture che lasciano supporre che attorno al Mille sul monte Titano vi fosse già un gruppo di abitanti riuniti in un piccolo villaggio, e desiderosi di difendersi adeguatamente dalle insidie e dai tanti pericoli del tempo.
E’ probabile, ma anche questa è solo un’ipotesi non suffragata da documenti, che fin dall’inizio della loro storia gli abitanti del Titano si siano costituiti in comunità soprattutto per motivi di difesa, di aiuto reciproco e di sopravvivenza. L’asperità del monte, infatti, può far pensare che vi si sia rifugiata gente desiderosa di nascondersi, forse in fuga dal crollo dell’impero romano e dalle invasioni barbariche, pronta a difendersi all’occorrenza approfittando dell’inospitalità e difficoltà ambientali offerte dal luogo che li ospitava. Se così fosse, i Sammarinesi fin dall’inizio della loro evoluzione storica si sono industriati ad essere all’occorrenza militi e difensori della loro vita e della loro terra, condizione che può aver senz’altro accentuato la volontà d’indipendenza e di libertà dagli altri, nonché il senso di appartenenza ad una comunità diversa e non soggetta ad alcuno, e una forte diffidenza verso il mondo esterno.
Queste caratteristiche, che si legarono sempre più a concetti forti come libertà e autonomia, nonché la paura di quanto veniva considerato estraneo e alieno alla realtà locale, sono ben rintracciabili nei documenti e nella mentalità sammarinese fino ad epoche assai vicine alla nostra. D’altra parte, accanto ai luoghi di culto, tanto importanti per la mentalità e la cultura dell’epoca, subito ci si preoccupò di munire il monte di fortilizi adatti alla difesa della comunità. Infatti il centro abitato medioevale si è consolidato attorno alla prima torre, ovvero la Guaita, la cui cinta muraria si è gradualmente allargata e sempre più fortificata in seguito man mano che sono aumentati i residenti, tanto che si costruirono in tempi diversi tre gironi murari. Questo potenziamento del sistema difensivo di San Marino avvenne dopo il Mille e soprattutto durante il periodo comunale, momento storico in cui la comunità si diede un’organizzazione sociale migliore e più articolata, creando anche un sistema militare cittadino di autodifesa che dobbiamo ipotizzare più strutturato e meno lasciato alla libera iniziativa dei singoli Sammarinesi di quanto non fosse l’organizzazione militare precedente a questo periodo.
Le prime tracce comunali a San Marino si hanno a partire dal 1243 quando ai suoi vertici operavano due Consoli (Filippo da Sterpeto e Oddone di Scarito), che sono testimonianza di un processo di autogoverno ormai avviato. La fine del 1200 fu il periodo in cui vennero redatti gli statuti del comune, i primi che ci sono giunti, anche se in parte incompleti. Nel '300 San Marino proseguì nella sua lenta lotta per affrancarsi dai poteri politici che fino ad allora lo avevano vincolato, partecipando alle battaglie che coinvolgevano la sua zona geografica, stringendo alleanze con chi lo poteva aiutare, in particolare i conti di Urbino, continuando ad ampliare gradualmente il suo territorio tramite acquisti di zone e castelli limitrofi, o per sottomissione spontanea.
Tra i documenti che ci sono pervenuti di questo periodo storico, ve n’è uno interessante per il presente studio, una pace datata 16 settembre 1320 tra Benvenuto vescovo del Montefeltro e i Sammarinesi, che fa capire come negli anni precedenti fossero avvenute aspre battaglie tra questi due contendenti, e come San Marino fosse riuscito a conquistare militarmente diverse terre vescovili. Un’altra pace tra Malatesta e Titano del 2 ottobre del 1322, piuttosto vantaggiosa per i Sammarinesi, ci permette di capire che Rimini non era riuscita a sconfiggerli, e che si era dunque dovuta decidere a sottoscrivere un trattato per mantenere buoni rapporti con vicini all’epoca agguerriti e temibili. Alle origini della sua dimensione di terra indipendente ed autonoma, dunque, San Marino dovette affrontare battaglie e scontri armati per affermarsi: ovviamente lo poté fare perchè era militarmente attrezzata ed aveva un’organizzazione tale da riuscire a tenere testa o anche ad essere superiore ai suoi contendenti.
D’altra parte fin dai primi statuti locali si comprende che una delle preoccupazioni prioritarie dei Sammarinesi fu proprio la difesa militare della propria terra sia con la creazione di fortificazioni sempre più possenti, sia con l’organizzazione di una milizia cittadina in grado di presidiare il paese. Tale opera difensiva caratterizzò in particolare i secoli XIII – XVI, ma già nel 1371 il cardinale Anglico nel descrivere il comune di San Marino annotò che era posto collocato sopra una vetta dove vi erano tre “Rocche fortissime” custodite direttamente dagli uomini del comune stesso. Le torri infatti erano custodite da uomini armati: non soldati di professione, che il comune non si poteva economicamente permettere, ma da cittadini che, smessi gli abiti usuali di contadino, bottegaio, artigiano, prestavano la loro opera a vantaggio della comunità.
Nei documenti di archivio vi sono sporadiche tracce che ci dicono che San Marino qualche volta si servì anche di soldati mercenari, come nel 1338, quando vennero assoldati sei mercenari per la custodia della prima e della seconda torre, o nel 1441, quando il conte del Montefeltro spediva un suo uomo a capo di una compagnia di soldati, o nel 1509, quando il Cancelliere di Montefeltro suggeriva di assoldare 50 fanti forestieri per guardia e di tenere 50 militi sammarinesi in ordine, pronti alla difesa, perché vi erano timori di un attacco di Venezia che aveva appena conquistato Rimini. Così come è ben noto l’aiuto fornito all’occorrenza all’amico e protettore di San Marino, il duca di Urbino, che non esitava a sua volta a contraccambiare inviando suoi soldati in soccorso in caso di pericolo, insieme a consiglieri, architetti o professionisti della guerra. Tuttavia usualmente la difesa del Titano e del territorio sammarinese dipendeva esclusivamente dai suoi residenti che, armati come era possibile, e con un minimo di addestramento, sono da sempre stati i veri militi della Repubblica di San Marino.
Negli statuti del 1320 vi è la testimonianza che i Sammarinesi provvedevano da soli ad organizzarsi in milizie cittadine per difendere il loro paese. D’altra parte il XIV fu il secolo in cui il comune di San Marino riuscì ad acquistare sempre maggiori autonomie, liberandosi dal dominio del vescovo del Montefeltro che, nei secoli precedenti, era stato colui che, in nome di Roma, aveva detenuto il potere politico sui Sammarinesi e la loro zona. E’ piuttosto ovvio, dunque, che nei primi statuti sammarinesi giuntici, ovvero quelli redatti tra le fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo, ancora molto legati alla figura e al dominio del vescovo, non si parli di milizie. Probabilmente anche in precedenza i Sammarinesi provvedevano all’autodifesa in qualche modo, visto che si era già sviluppato un sistema di fortificazioni; tuttavia, secondo logica, l’evoluzione e l’organizzazione delle milizie dovette andare di pari passo con lo sviluppo del comune e di quella coscienza sociale che è risultata fondamentale per l’evoluzione di una coscienza statale, e per la nascita del concetto di Repubblica di San Marino, concetto che non a caso si evolve dal XV secolo in avanti. In definitiva si può senz’altro ritenere che la strutturazione delle milizie cittadine sammarinesi sia un chiaro segno della volontà autonomista e comunitaria (poi statale) dei Sammarinesi, alla pari di altri segni analoghi, come l’elaborazione e continua rielaborazione degli statuti, e l’accrescimento del territorio.
Nei tempi più antichi il servizio delle milizie era in genere legato soprattutto alle cosiddette custodiae, ovvero la guardia costante del territorio per controllare chi vi entrava e chi vi circolava, in particolare durante momenti di turbolenza nel circondario, o di grande afflusso di gente, come poteva essere durante i mercati settimanali che si tenevano ogni mercoledì in Borgo, o le fiere annuali, capaci di attirare tanta gente a San Marino per la sua collocazione strategica tra mare ed entroterra, quindi in un luogo dove potevano affluire merci di ogni genere e provenienza. A tale servizio si dedicavano tutti i maschi, che erano però divisi in truppe scelte più attive ed impegnate, chiamate cernae, e truppe di riserva, chiamate dupli, composte appunto da soldati ausiliari che servivano in genere ad integrare chi era assente, svolgendo in pratica il ruolo di militi supplenti facilmente reperibili. Gli uni e gli altri venivano iscritti in appositi ruoli, e accorrevano ogni volta che veniva dato l’allarme ad batocchium tramite la campana grande. Chi non lo faceva veniva multato, tranne coloro che avessero impedimenti reali ed insuperabili, così come veniva punito chi non avesse fatto bene la guardia.
Se queste prime norme statutarie che ci sono giunte documentano la volontà del comune di proteggersi tramite la strutturazione di una difesa efficiente, testimoniano altresì una buona dose ancora di inesperienza e di relativa approssimazione, perché in un’altra norma degli stessi statuti si esplicita chiaramente che i Reggenti potevano decidere sia di giorno che di notte chi fosse tenuto a svolgere le attività militari in questione, lasciando intendere, in definitiva, che l’organizzazione era ancora poco capillare, senz’altro meno di quanto si possa ipotizzare grazie ad altre norme dello stesso statuto, e priva di quegli automatismi che acquisirà invece nel corso dei tempi successivi.
E’ presumibile, dunque, che la creazione dei ruoli di cui si è detto e l’organizzazione delle milizie in genere si sia avviata con le norme statutarie del 1320, ma abbia poi richiesto tempi più lunghi per la messa in opera sistematica e rigorosa. E’ facile pensare che anche prima di tale data esistessero regole e consuetudini con cui gestire la milizia cittadina, ma non ci sono giunti documenti in grado di attestarcelo con sicurezza. Comunque è impossibile che San Marino si fosse dotato di rocche e fortificazioni senza prevedere un sistema di militi in grado di presidiare la comunità o quantomeno di accorrere in caso di attacco o bisogno.
Le milizie erano composte da uomini tenuti a prestare la loro opera gratuitamente. Fin dal XIV secolo vi sono tracce anche di qualche milite prezzolato al loro interno, ma in genere non erano mercenari di professione, bensì militi locali che per la gravosità dell’opera prestata ricevevano un compenso dalla comunità. Sempre per il XIV secolo sappiamo di sei militi, definiti stipendiarii proprio perché ricevevano uno stipendio per la loro opera, preposti alla sorveglianza della seconda e della terza torre. Non dovevano possedere doti particolari; dovevano però essere buoni, idonei ed amanti del buono, retto, pacifico e tranquillo stato di tutto il Comune e degli uomini di San Marino.
Gli stipendiarii erano tenuti a custodire e salvaguardare in ogni modo possibile le due torri, dove dovevano dimorare in continuazione senza mai allontanarsene salvo che con il permesso esplicito dei Reggenti. Le norme statutarie che ci forniscono queste informazioni ci permettono di comprendere come il sistema difensivo non fosse basato su un servizio continuativo dei militi, se si eccettuano quei pochi che, facendolo a tempo pieno, ricevevano un salario, ma fosse occasionale, cioè prestato solo in caso di necessità o di addestramento.
Di questa epoca remota ci sono giunti alcuni documenti che permettono di capire abbastanza bene l’organizzazione delle milizie sammarinesi, che nel corso di tali secoli particolarmente problematici e pericolosi per la Repubblica venne via via affinandosi diventando sempre più meticolosa. Infatti fin dai primi anni del Trecento le autorità locali compilavano un apposito registro, denominato libro cernarum, ovvero registro di chi veniva scelto, in cui erano scrupolosamente annotati tutti i nomi dei maschi compresi tra i 14 e i 60 anni di età, ritenuti abili e quindi obbligati a prestare servizio militare, residenti in territorio. Un funzionario era preposto a mantenere costantemente aggiornato tale registro. All’occorrenza gli uomini idonei, in genere a turno, erano destinati a svolgere i due principali servizi che la milizia dell’epoca prestava in tempi normali, cioè quando non si era in guerra: la custodiam, ovvero servizio di sentinella e di guardia, e la cernam, ossia servizio di pattugliamento.
Grazie a documentazione del 1365 è possibile capire che all’epoca veniva tenuto anche un altro registro (libro custodiarum) in cui erano scrupolosamente indicati i nomi dei militi destinati di volta in volta ad essere di vedetta (guaitam), o di guardia (custodiam) lungo le mura. In pratica, grazie a questi accurati elenchi, possiamo comprendere che nulla era lasciato al caso: chi doveva prestare servizio lo sapeva per tempo, conoscendo pure a quale servizio era comandato, perché molto probabilmente gli elenchi redatti con i nominativi di coloro che dovevano essere in servizio, e le mansioni che dovevano svolgere, venivano affissi in pubblico, diventando facilmente consultabili da tutti, o forse già all’epoca vi era qualcuno preposto ad avvisare i singoli uomini dei loro impegni militari, come succederà nei secoli successivi. Chi invece gestiva l’insieme dei militi aveva un quadro preciso di coloro che erano tenuti a fornire prestazioni militari a vantaggio del comune, e di quale servizio dovessero fornire.
Tra l’altro l’organizzazione era più minuziosa ancora, perché tutti i nominativi registrati erano divisi in manipoli di 10/12 uomini, chiamati cerne. Ogni cerna aveva un proprio numero e un capitano, cosicché un milite sapeva sempre in quale cerna doversi adunare, e a quale superiore dover rispondere. Le cerne erano dunque strumenti agili, mobili, facilmente radunabili e gestibili, e permettevano di avere in un istante sott’occhio l’intera situazione della milizia in generale e di ogni singolo milite in particolare. Infatti accanto ai singoli nomi dei militi venivano annotati vari simboli specifici, detti punctationes, che indicavano a chi gestiva l’organizzazione militare i servizi resi o da rendere da quel particolare membro della milizia cittadina. Questo ovviamente permetteva una certa equità tra tutti i militi, e faceva sì che ognuno contribuisse alla pari degli altri ai servizi da prestare, o, in caso contrario, subisse la pena prevista. Lo stesso sistema veniva utilizzato anche con i dupli, ovvero i militi di riserva, sempre per garantire l’equità tra tutti. E’ probabile, tuttavia, che questa organizzazione che prevedeva una decina di uomini per ogni cerna abbia preso vita nella maniera detta solo a partire dagli inizi del Quattrocento, mentre in precedenza alcune sporadiche informazioni pervenuteci ci fanno intuire che le cerne dovevano essere più numerose (17 – 20 militi), e gestite con meno puntiglio, anche se in merito abbiamo solo deduzioni e non certezze per la scarsa documentazione che ci è giunta da quei lontani secoli.
Tutti i militi, dunque, erano garantiti da una certa equità di trattamento; anche i pochi letterati del paese dovevano offrire il loro apporto alle milizie senza godere di particolari privilegi. Nel 1392, per esempio, venne multato il notaio Ser Giovanni di Bono per non aver fatto la guardia nottetempo.
Il servizio, come già si è detto, non prevedeva per la maggior parte dei militi alcun compenso, ma a volte venivano assunti per qualche tempo militari esperti e di mestiere provenienti da fuori territorio che percepivano invece un salario, come Ser Agnolo da Frontino, che nel 1457 ricevette in paga cinque soldi e dieci danari per il suo impegno a favore della comunità. Anche nel 1480 venne dato un compenso in denaro a sei gruppi di uomini tenuti a far la guardia hognie notte bene e diligentemente, forse perché tale servizio era particolarmente gravoso e non ben accetto ai militi. Comunque è certo che il comune non poteva permettersi economicamente di compensare le centinaia di uomini tenuti al servizio militare, per cui quelle indicate rimangono eccezioni abbastanza contingenti in un quadro di obbligatorietà gratuita.
D’altronde fino a tempi abbastanza vicini a noi i Sammarinesi erano stati costantemente abituati a fornire la loro opera gratuitamente a vantaggio della comunità. Per fare qualche esempio, si può dire che quando franavano o comunque si deturpavano le strade, erano coloro che abitavano nei loro pressi che dovevano riassettarle gratuitamente. Per secoli, inoltre, vi fu l’obbligo di donare alla comunità alcune giornate lavorative non retribuite per la costruzione o ristrutturazione delle infrastrutture pubbliche. Chi si rifiutava doveva pagare la giornata lavorativa a qualcun altro che lavorasse al suo posto. Vi era, insomma, una mentalità comunitaria ben marcata su cui le autorità facevano gran conto per far fronte ai bisogni del comune, senza dover sborsare denaro di cui in genere non si disponeva, mentalità che è facilmente rintracciabile fino alla prima metà del XIX secolo. Le entrate dello Stato, infatti, basate esclusivamente su alcune tasse indirette applicate a beni di largo consumo, e su qualche altro modesto balzello ancora, erano talmente misere da non consentire forti spese in nessun settore, nemmeno per la protezione militare. Da qui l’esigenza di un’organizzazione attenta delle milizie cittadine che in qualche maniera doveva servire a compensare la non professionalità dei militi che le componevano.
I servizi cui erano preposti i soldati dei secoli che stiamo esaminando erano quelli legati al pattugliamento quotidiano, detto cernas grossas, che impegnava una cerna prescelta a giri di sorveglianza dall’alba al tramonto nei luoghi considerati particolarmente a rischio, e ad uno notturno, chiamato cernas parvas. L’altro servizio quotidiano e notturno che veniva svolto era quello più statico di custodia alle porte d’ingresso del paese, alle mura, in piazza, nella rocca e nei luoghi maggiormente elevati o strategici del paese.
Ovviamente vi erano sempre attività di sorveglianza costante anche nei confronti dei mercati settimanali e delle fiere, per il grande afflusso di gente proveniente da tutte le parti, o in occasione di feste e manifestazioni religiose particolarmente importanti. In queste situazioni i militi erano armati di tutto punto per evitare tumulti e disordini facili a scoppiare per la rudezza dei tempi e delle persone. Vi sono testimonianze, però, che ci fanno comprendere che le cerne potevano essere utilizzate anche per pulire le strade ed i luoghi preposti ad ospitare gli eventi in questione, sempre per quello spirito comunitario di cui si è detto, ma anche perché fino alla fine dell’Ottocento San Marino non potrà disporre di spazzini pubblici.
Per quanto concerne l’armamento dei militi in questi secoli in cui ancora non esistevano armi da fuoco, si sa che il comune sammarinese disponeva di una discreta armeria che veniva ampliata frequentemente con l’acquisto di armi nuove. Infatti una norma statutaria del 1339 prevedeva che ogni Reggenza dovesse far acquistare a spese del comune una balestra per arricchire almeno due volte l’anno, con un’arma per l’epoca importante e costosa, la pubblica armeria. Inoltre i militi disponevano anche di “rotelle”, una sorta di scudi metallici circolari con la stessa funzione che hanno oggi gli scudi utilizzati dalla polizia in caso di repressione di baraonde. Probabilmente allora come oggi i militi disponevano di manganelli (forse rudi bastoni) o di altri strumenti contundenti con cui agire in caso di bisogno, protetti naturalmente dalle loro “rotelle”. Da alcuni documenti dell’inizio del ‘400 che ci sono pervenuti appare chiaro che all’epoca ben 70/75 militi armati di balestra erano in servizio presso il mercato settimanale per prevenire problemi, tutti dotati di rotelle.
I militi comunque dovevano spesso provvedere da sé al proprio armamento, perché durante le adunate o i momenti di pericolo avevano l’obbligo di mettere a disposizione della comunità le loro armi private e, per chi non possedeva altro, gli strumenti di lavoro che potevano essere usati come armi (forconi, accette, ecc.) Chi non adempiva ai suoi obblighi militari veniva multato o, in caso di disubbidienza particolarmente grave, imprigionato per qualche giorno. Un’infrazione piuttosto ricorrente era legata al sonno in cui molti militi piombavano durante il loro servizio di sorveglianza. D’altronde occorre tener presente che costoro erano uomini impegnati durante il giorno in altri mestieri, in genere assai duri e difficoltosi, per cui il sonno era una conseguenza inevitabile della stanchezza accumulata.
Altri documenti che ci sono giunti ci permettono di ipotizzare il numero degli uomini che componevano la milizia in questi lontani secoli, anche se, essendo deduzioni, il calcolo può non essere precisissimo. Nel 1406, comunque, San Marino poteva disporre di circa 220 militi, numero che aumentò in seguito fino a raggiungere i 323 uomini nel 1413. Conosciamo inoltre la dislocazione delle cerne, raggruppate in genere per tre, lungo il paese e in Borgo, ovvero a difesa del cuore del comune sammarinese. In un altro documento, datato 1421, le cerne risultano essere 38 con altrettanti capitani, segno che il numero dei militi era aumentato ancora, arrivando probabilmente alla cifra di 400 uomini circa disponibili al servizio.
Da una curiosa testimonianza dell’epoca, una lettera di Oddantonio da Montefeltro del 1440, possiamo comprendere che l’efficienza delle milizie cittadine fosse a volte resa vana dallo scarso entusiasmo che i militi dimostravano nell’espletamento del loro ruolo. Infatti egli si lamenta che troppi uomini partecipavano mal volentieri alle adunate, e che tale atteggiamento poteva essere pericoloso per la Repubblica. (vedi CD) E’ ovvio che le critiche di Oddantonio si dovevano al fatto che il servizio militare era in genere un grosso peso, soprattutto in tempi minacciosi e di servizio prolungato, per chi di giorno aveva altri impegni. D’altra parte gli anni in questione furono tempi molto tempestosi per la penisola italiana e per San Marino, per cui i militi sammarinesi dovettero essere tenuti particolarmente sotto pressione. Soprattutto la prima metà del XV secolo fu epoca di ampi e frequenti scontri tra signori e principi desiderosi di ampliare domini territoriali e potere personale. Venezia, Firenze, Milano, Roma e le altre realtà sociali che formavano il variegato mondo politico dell’Italia dell’epoca erano in perenne stato di agitazione tra loro, con continue guerre e battaglie, ed uno stato di subbuglio generale a cui si mise temporaneamente fine solo nel 1454 con la pace di Lodi. Ovviamente anche la zona di San Marino venne coinvolta più volte dalle agitazioni di cui si è detto, in particolare dalla volontà espansionistica di papa Pio II, desideroso di riprendersi terre che erano state in precedenza dello Stato Pontificio, ma che in seguito erano cadute sotto la signoria dei Malatesta di Rimini.
Tramite richiesta ufficiale, nel 1461 Roma domandò la collaborazione militare anche di San Marino nella guerra che stava conducendo, ben sapendo che la piccola Repubblica da secoli era in dissidio coi Malatesta. Vi furono però tra i Sammarinesi forti resistenze ad intraprendere un'avventura simile, considerata troppo dispendiosa e pericolosa. Per tale motivo inizialmente San Marino si limitò a prestare qualche scarno aiuto e un marginale appoggio, particolarmente alle armate di Federico d'Urbino, alleato anch’egli del papa, senza entrare direttamente in battaglia. Alla fine del mese di settembre del 1462, però, le truppe papaline riuscirono a porre sotto assedio la città di Rimini, dove Sigismondo aveva fatto ritirare l'intero suo esercito. La resistenza che il Malatesta riuscì ad opporre fu tanto caparbia da rendere vani tutti i tentativi di conquistare la città, per cui il papa tornò ad insistere con decisione col governo sammarinese affinché si decidesse ad entrare concretamente in guerra al suo fianco. A questo punto i Sammarinesi non se la sentirono più di tergiversare, e si decisero ad appoggiare direttamente le operazioni militari inviando loro militi in appoggio alle operazioni militari in corso, dopo aver sottoscritto il 21 settembre con la Santa Sede il trattato di Fossombrone con cui s’impegnavano “di dichiarar guerra ai Malatesti e ai loro fautori ad ogni richiesta del Cardinal d Teano, di ricettare le genti ecclesiastiche e dei collegati, di fornire ad esse vettovaglie e aiuti secondo le proprie forze”. Come compenso per i servizi resi, sarebbero stati ceduti alla Repubblica i Castelli di Montegiardino, Serravalle, Fiorentino, oltre al Castello di Faetano, che si era già consegnato spontaneamente, più qualche altro beneficio di natura fiscale.
Nel mese di ottobre la guerra divampò più che mai: le truppe del papa riuscirono a conquistare la maggior parte dei domini di Sigismondo. Nel primi mesi del 1463 il conflitto conobbe un periodo di tregua per colpa dell'inclemenza del tempo. Venezia approfittò di questa pausa per cercare d'intavolare trattative di pace fra i contendenti, così da impedire ulteriori avanzamenti dell’esercito di Roma, senza però riuscirvi. La guerra quindi riprese: nel marzo del 1463 Federico di Urbino avvisò di stare all'erta perché da lì a poco si sarebbero scatenati altri scontri armati, e sarebbe occorso di nuovo il loro aiuto, come in effetti accadde. Il conflitto proseguì per tutta la primavera e l'estate successiva, con violenti scontri, lunghissimi assedi alle città ancora in mano a Sigismondo, in particolare a Fano, e diverse battaglie navali. Solo tra la fine di ottobre e gli inizi del mese successivo il Malatesta si rassegnò a giungere ad un trattato di pace, visto che ormai non aveva più la possibilità di risollevare le sorti della guerra a suo favore. Le condizioni a cui dovette sottostare furono durissime: gli vennero tolte tutte le terre di cui era signore ad eccezione della città di Rimini e di qualche lembo di terra del suo circondario. Per l’aiuto militare fornito San Marino ricevette i Castelli promessi, che erano già stati conquistati prima della fine della guerra.
I militi sammarinesi avevano dunque fornito un valido aiuto alle armate del papa e a quelle di Federico di Urbino, di cui possediamo varie lettere in cui chiedeva proprio l’invio di fanti sammarinesi, in soccorso alle sue truppe. A causa dei tempi e delle guerre in atto, il numero dei militi ebbe forti fluttuazioni nel periodo, tanto che un documento del 1441 elenca solo 29 cerne con 29 comandanti, facendo presupporre che in quell’anno i militi sammarinesi avessero subito un sensibile calo numerico. Un altro documento del 1498 elenca invece 32 cerne, per cui è possibile supporre che nel corso del secolo in questione, pur con variazioni legate senz’altro anche alle emigrazioni periodiche cui dovevano assoggettarsi in periodo invernale i maschi sammarinesi per motivi di lavoro, la milizia locale mediamente si aggirava ancora intorno ai 300 uomini, forza non da poco se si valuta che all’epoca la popolazione complessiva sul territorio era di circa 2.000/2.500 residenti. Nella seconda metà del XV secolo l’organizzazione delle milizie iniziò gradualmente a cambiare, perché nella documentazione che ci è pervenuta sempre più si parla di cernones, ovvero cernoni, che erano plotoni composti da diverse cerne riunite insieme. Pare che questi gruppi di militi, in genere formati in questo periodo da una cinquantina di uomini comandati dai capitani più esperti tra quelli che erano a capo delle singole cerne, venissero utilizzati in particolare quando c’erano pericoli reali o minacce di guerra. Ogni cernone era preposto al controllo di una certa zona (porta, rocca, piazza, ecc.) del paese, quindi anche in questo caso i singoli militi, quando dovevano accorrere ad un certo rintocco di campana (che era il segnale di adunata, diverso in base al motivo dell’adunata e a chi si doveva adunare), sapevano con precisione in quale cernone ritrovarsi, dove, ed agli ordini di chi.
Dopo il 1463 temporaneamente le turbolenze legate alla guerra terminarono, e San Marino poté tornare alla sua vita di sempre, pur disponendo ora di parecchi militi più preparati ed esperti. Non a caso uno dei mestieri a cui diversi Sammarinesi si dedicarono in questi secoli fu proprio quello del soldato mercenario. Questo periodo storico fu comunque per la Repubblica quello più turbolento da un punto di vista bellico, in cui le milizie sammarinesi vennero messe costantemente a dura prova, perché anche nel secolo successivo San Marino ebbe notevoli preoccupazioni di indole militare. Infatti furono vari i tentativi di invadere ed occupare il suo suolo, fatto che mantenne in perenne stato di allarme il sistema difensivo che si era saputo approntare e perfezionare nel corso dei secoli precedenti.



L’epoca moderna



Il primo grave problema che San Marino dovette affrontare proprio agli inizi del 1500 fu l’invasione attuata da Cesare Borgia che, aiutato dal padre, papa Alessandro VI, e anche dal re di Francia, voleva crearsi un suo principato nel centro Italia. Tra il 1499 ed il 1501 egli conquistò Imola, Forlì, Pesaro, Cesena, Rimini e Faenza, venendo nominato Duca di Romagna nel maggio del 1501. Questa rapida espansione lo portò ad un certo punto in contatto anche con San Marino, che invase e mantenne sotto il suo dominio tra il 1502 e l’anno successivo. Purtroppo nulla si sa con precisione di come Borgia sia riuscito a conquistare la piccola Repubblica, se per opera di qualche inganno o attraverso cruenti ed impari scontri armati. Comunque è presumibile che le milizie sammarinesi siano state impegnate nella difesa del territorio e nel contrastare l’invasione, dovendo soccombere alla maggior potenza dell’esercito nemico. Il suo potere venne meno quando nell’agosto del 1503 morì il papa, suo grande protettore, fatto che provocò l'immediata sollevazione di tutte le terre che aveva sottomesso e il ritorno per San Marino alla sua autonomia precedente.
La tragica esperienza e la paura legata all’occupazione del Borgia dovette stimolare le autorità sammarinesi a potenziare e riformare il sistema militare locale. Infatti grazie ad alcuni documenti databili alle prime decadi del 1500 sappiamo che il numero dei militi che componevano i cernoni era stato aumentato notevolmente: infatti nel 1522 questi erano 6, mentre saranno 8 nel 1528, composti da più di novanta uomini ciascuno, per un complessivo di 733 militi, numero comunque particolarmente elevato che non si ripeterà più nei documenti successivi in cui il numero dei militi non supererà mai i 660. Sappiamo inoltre che il territorio venne suddiviso in una ventina di località presidiate ciascuna da una squadra di militi più o meno ampia. Queste località formavano una sorta di cerchia difensiva a protezione del cuore della Repubblica, ovvero il monte Titano. Per tale motivo vennero dislocati manipoli di militi a San Giovanni, Cailungo, Valdragone, Acquaviva, Teglio ecc. Le squadre più consistenti e meglio armate erano in Città (68 uomini), Borgo (34), Domagnano (28), Cailungo (29), ma vi erano gruppi di uomini di poco inferiore come numero a Serravalle, Faetano e sulle vie di comunicazione principali col riminese. Più sguarniti risultano essere i confini verso Urbino, naturalmente perché non vi erano grossi timori che potessero arrivare attacchi o pericoli da quella parte. I militi dislocati nel centro storico presidiavano, come già si è detto, i suoi punti più nevralgici e a rischio. Da un documento del 1522 risulta che le zone più protette erano la porta del paese e le mura che da lì si sviluppavano verso la porta della rupe, ovvero i punti che sorvegliavano la strada proveniente dal Borgo, che erano presidiate da tre cernoni armati con schioppetti, archibugi e spingarde. Un cernone, sempre dotato delle armi di cui si è detto, stava a guardia invece delle mura che si sviluppavano lungo l’attuale Stradone. Due altri cernoni armati presidiavano le mura che chiudevano il centro storico andando dallo Stradone all’arco della fratta. Infine un gruppo di nove uomini più quattordici schiopiteri era dislocato sul Pianello a guardia del palazzo pubblico, ma anche pronto ad accorrere in ausilio agli altri militi dove poteva servire.
Verso il 1530 l’organizzazione delle milizie sammarinesi iniziò a modificarsi e ristrutturarsi ancora una volta. Da un documento del 1528, infatti, è possibile ricavare che ormai tutte le milizie erano subordinate a tre capitani (Samaritano di Andrea Tini, Stanghilinus Francisci Bellutij, GiohanBatista Bartoli Bellutij), aiutati da sedici caporali, due cancellarij (cancellieri, ovvero funzionari preposti a compiti di natura gestionale), un bandirario (colui che portava la bandiera), un tamborino (tamburino). Agli ordini di questo stato maggiore sottostavano 326 militi, ora definiti fanti, 14 uomini addetti alle artiglierie pesanti (che sappiamo composte da 1 falconetto, 5 moschetti, 8 spingarde, 1 bombardina), 19 addetti agli archibugi da cavalletto. Scompare in pratica il concetto di “cerna” in questo documento. In un altro scritto di qualche anno dopo che ci è giunto tale nome verrà sostituito con “squadra”.
Altro documento assai interessante di questi anni è una sorta di regolamento delle milizie, il primo che ci sia pervenuto, datato 24 gennaio 1539, tramite cui ci viene spiegato come all’epoca venivano chiamati all’adunata i militi. Vi erano tre tipi di segnali cui gli uomini dovevano obbedire e rispondere se non volevano incorrere in sanzioni:
1. un suono breve e un suono lungo di campana avvertiva che vi era un’adunata generale da lì ad otto giorni;
2. tre rintocchi avvisavano che vi era la necessità di un’adunata generale entro quattro ore;
3. tre rintocchi, due spari ed un fuoco in cima alla rocca segnalavano un allarme immediato, e tutti i militi dovevano radunarsi subito nei luoghi precedentemente stabiliti e noti a ciascuno, altrimenti avrebbero dovuto pagare una multa salata e subirsi tre giorni di prigionia.
Lo stesso documento è interessante perché ci permette di capire che in quel momento le milizie sammarinesi si avvalevano della collaborazione di 30 mercenari, chiamati “lance spezzate”, probabilmente assunti per aiutare e istruire alle armi ed al combattimento gli uomini di San Marino in una fase storica particolarmente turbolenta e di seria minaccia all’incolumità della Repubblica. Le lance spezzate restarono in territorio sammarinese per diversi anni. Inoltre pare che già in quell’anno venisse imposta una sorta di divisa ai militi, o comunque un abbigliamento caratterizzante, perché nello stesso scritto che ci fornisce tutte queste informazioni si dice che entro il 15 agosto tutti dovessero procurarsi le armi ed i panni che li sono stati imposti.
La grande vivacità militare che si registra in questo periodo è legata ai fatti storici che la Repubblica di San Marino ha dovuto subire, soprattutto nella prima metà del 1500. Infatti dopo la caduta di Cesare Borgia, Venezia s’impossessò per qualche anno di Rimini, e San Marino temette di poter subire guai da un vicino tanto potente. Per questo organizzò meglio le sue milizie, ma si premurò anche di chiedere ed ottenere rassicurazioni dallo Stato Pontificio, che nel 1509 garantì la sua protezione. Il 3 giugno 1516 fu Lorenzo de Medici che, sempre tramite lettera, professò amicizia per i Sammarinesi, che temevano per le loro sorti perché egli aveva occupato militarmente Urbino. Alla sua morte però, nel 1519, tutto tornò come prima, anche se Firenze rimase ancora padrona di Maiolo e San Leo fino al 1527.
Politicamente i tempi rimasero assai pericolosi ed in costante evoluzione anche in seguito, perché tutti i signorotti italiani, cercando di approfittare della situazione di forte instabilità esistente nella penisola a causa delle ripetute invasioni che stavano avvenendo per opera di potenze straniere, cercavano di ampliare i propri domini. Il 4 giugno 1543, senza che la cosa fosse stata preannunciata da nulla, Fabiano da Monte, nipote del cardinale Giovanni Maria Ciocchi da Monte, allora governatore di Romagna e futuro papa Giulio III, in combutta col castellano di Rimini e con l'aiuto di 500 fanti e di un contingente di uomini a cavallo, tentò d'invadere la Repubblica. Le due parti dell'esercito che aveva organizzato non riuscirono però a ricongiungersi nel tentativo di accerchiamento del paese, pare per una provvidenziale nebbia che aveva reso problematica la visuale. Il fatto diede l’opportunità ed il tempo ai Sammarinesi di schierare le milizie cittadine e l'avventura fallì.
Nel 1549 vi fu un altro tentativo d'invasione, questa volta da parte di Leonardo (o Lionello) Pio, signore di Verucchio, contro cui inviarono aiuti militari, che si assommarono naturalmente ai militi sammarinesi, il duca Guidobaldo di Urbino e il conte Fabrizio del Bagno, signore di Montebello, timorosi della nascita di una nuova e minacciosa signoria sui loro confini, e desiderosi quindi di mantenere gli equilibri preesistenti. L’avventura di Leonardo Pio, pur rientrando nella logica tipica di molti signori dell’epoca di volersi creare un principato personale o di voler potenziare quello di cui erano già proprietari, può spiegarsi anche con i lunghi e spesso sanguinosi dissidi che da tempi immemorabili esistevano tra Verucchio e San Marino per motivi di confine. E' probabile infatti che in tempi antichi una zona sui confini di Verucchio appartenesse a San Marino, zona che venne poi persa nel corso del tempo per qualche motivo. Con le guerre vinte contro i Malatesta, i Sammarinesi si erano convinti di essersi riappropriati anche dei diritti su queste terre, ma il trattato che li premiava con l’ampliamento del loro territorio in alcune sue parti era ambiguo e la cessione di tali terre di confine non ben specificata, per cui gli abitanti di Verucchio ne contestarono il passaggio di proprietà. Scoppiarono dunque ostilità a volte violente, con battaglie, atti di guerra e morti tra i soldati sammarinesi, in questo periodo tenuti in continuo stato di allerta, e quelli di Verucchio per la definizione dei confini. Il 1541 fu l'anno più velenoso della lunga controversia ed entrambi i contendenti si misero a preparare una vera e propria guerra. Nel 1543 si riuscì a giungere però ad una pace ridefinendo i confini secondo le pretese di Verucchio; in compenso San Marino ottenne vantaggi di natura fiscale nell'estrazione dei prodotti agricoli dai terreni collocati sotto la giurisdizione di Verucchio. Le polemiche tuttavia non si assopirono e le tensioni rimasero ben vive anche in seguito, fino al tentativo d’invasione di cui si è detto, ed anche oltre, ma per fortuna non feroci come negli anni precedenti. Come conseguenza di questo ulteriore tentativo fallito, nel 1549 vennero stipulati nuovi patti di protezione con Urbino, e nel Consiglio del 10 novembre di quell’anno si stabilì il rinforzo delle mura difensive. Alla fine del secolo vennero poi varate limitazioni all'ingresso di stranieri in territorio, e norme più rigorose per ottenere la cittadinanza sammarinese.
Probabilmente fu tutta questa agitazione ai confini e le minacce dei tempi, nonché le velleità di un personaggio aggressivo come Lionello Pio, che indussero i Sammarinesi ad attuare altre riforme anche nel loro sistema militare, pur lasciandolo sempre riservato per lo più ai cittadini maschi della Repubblica. Da un documento molto particolareggiato che ci è rimasto, datato 4 giugno 1543, risulta che in quel momento l’insieme delle milizie era composto da 661 uomini. Tra tutti i militi vennero selezionati 250 uomini particolarmente prestanti ed abili nell’uso delle armi, scelta che venne compiuta da una figura nuova per le milizie, o almeno mai rintracciata nei documenti precedenti: il “Maestro de l’arme”, ovvero uno specialista delle armi. In pratica questo manipolo di militi era una sorta di corpo d’elite che aveva come compito prioritario la cosiddetta “guardia principale”, ovvero la vigilanza attenta e meticolosa del paese e del territorio. Questi militi scelti vennero divisi in 10 squadre, che in certe occasioni potevano divenire 5 riunendosi a due a due, agli ordini ognuna di un capo e di un suo vice chiamato “compagno”. Ogni squadra aveva un numero progressivo e di ciascuna facevano parte anche tre soldati mercenari. Gli altri uomini vennero divisi in 10 cerne, adibite sempre agli antichi compiti di guardia e sentinella, anche se erano mansioni più facili e generiche di quelle riservate ai soldati più abili. Le squadre di militi scelti avevano l’obbligo di fare a turno anche la guardia nottetempo. Partendo dalla numero 1 e giungendo sera dopo sera alla numero 10, ogni squadra aveva il dovere, quando era il suo turno, di ritrovarsi in piazza prima della botta de hora 23, ovvero prima che venisse segnalato l’inizio della ventitreesima ora della giornata, che corrispondeva all’ultima ora di luce. In caso di necessità e dietro un segnale di avviso prestabilito, le squadre dovevano presentarsi non singolarmente, ma accoppiate (la 1 con la 2, la 3 con la 4 e così via). Il turno di guardia durava tutta la notte e terminava all’alba, dopodichè la squadra doveva presentarsi nuovamente compatta prima di sciogliersi.
Accanto alla squadra di militi scelti ed esperti, operavano anche le cerne composte dai militi che non erano stati selezionati tra i 250: costoro venivano controllati e guidati nei loro compiti dalla squadra di fanti scelti. Per muoversi di notte, o eccezionalmente per uscire o entrare dalle porte del paese, che venivano chiuse con le tenebre e riaperte solo con la luce del giorno (le chiavi delle porte erano custodite dal capo della squadra di militi scelti), veniva stabilita una parola d’ordine segreta che cambiava ogni giorno. Gli uomini di sentinella dovevano stare attenti a percepire ogni rumore sospetto ed inusuale, per dare eventualmente l’allarme battendo un tamburo ed accendendo alcune torce predisposte alla rocca per segnalare il pericolo. Il tamburo veniva pure utilizzato per avvisare il paese che era iniziata la guardia e la ronda notturna, e per battere la albanata, ovvero l’avviso di fine della guardia quando cominciava ad albeggiare. Prima di sciogliere le righe vi era un altro compito da espletare da parte del capo squadra: doveva inviare una pattuglia di tre o quattro militi all’esterno delle varie porte del paese per verificare che non vi fossero malintenzionati pronti ad agguati o attacchi.
Con la luce solare non terminava comunque la vigilanza sulla comunità. Infatti tutti i militi che, pur essendo in armi dentro il paese come riserve in caso di bisogno, non fossero intervenuti in azioni di alcun genere, venivano divisi in tre gruppi ed inviati a presidiare le tre porte principali d’ingresso al paese: la porta del locho, ovvero quella che oggi chiamiamo la porta del paese, la porta della ripa e la cosiddetta porta nova, una porta che oggi non c’è più perché è stata incorporata nel teatro Titano. Soprattutto di mercoledì, giorno di mercato e quindi di maggior afflusso di stranieri in territorio, ai militi era raccomandata estrema vigilanza. Le chiavi delle porte venivano anche di giorno custodite dai capisquadra dei plotoni in servizio.
Le milizie erano armate ovviamente, ed anche la storia delle loro armi merita di essere velocemente narrata. Quando il comune non aveva ancora un’organizzazione dettagliata, è lecito presupporre che gli uomini si armassero individualmente con ciò che si potevano permettere, in particolare con forconi e strumenti agricoli di uso quotidiano. Con il consolidarsi del comune, invece, prese piede l’idea di creare e mantenere un’armeria ben organizzata, fatto che viene documentato dagli statuti del XIV secolo. Infatti nella norma aggiuntiva promulgata il 7 febbraio del 1339 si specifica che i Reggenti dovevano preoccuparsi, prima della fine del loro mandato (anche all’epoca semestrale) di far acquistare alla comunità una robusta balestra pienamente funzionante, ovvero dotata di tutto il necessario per essere subito efficiente. Chi non lo avesse fatto avrebbe perso il compenso che gli spettava per il servizio reso nel semestre, cifra che poi sarebbe servita proprio per acquistare la balestra. Pur nella sua imprecisione, la norma permette di intuire che dovevano essere due le balestre che ogni anno il comune acquistava. Da un documento del 1406 si intuisce che la pubblica armeria doveva avere in quel momento un minimo di 75 balestre da fornire ai militi preposti a far la guardia durante il mercato, numero che non sappiamo se fosse solo parziale rispetto alle balestre realmente possedute. Accanto alle balestre, sicuramente il comune disponeva di parecchie “rotelle”, ovvero scudi che servivano, come già si è detto, sempre come armi di difesa. Da un altro documento privo di data, ma che ritenuto della fine del XIV secolo, si ricava che la pubblica armeria poteva mettere a disposizione dei militi, oltre a balestre e rotelle, anche spade, elmi, lance, qualche arco ed altre armi ad asta, non in grande quantità, a parte le spade che risultano essere più di ottanta, ma in numero tale da dare ad ogni milite uno strumento di difesa, che forse veniva integrato sempre da altri strumenti ed armi che i singoli portavano con sé al momento dell’adunata. In questo documento appaiono per la prima volta anche un paio di armi da fuoco: una bombarda ed uno schioppetto, armi private messe in quell’occasione a disposizione da due cittadini delle milizie. Un altro documento ancora della seconda metà del Quattrocento c’informa che ormai le armi da fuoco avevano cominciato a prendere piede pure tra le milizie sammarinesi. Infatti accanto a balestre ed armi non a fuoco, i soldati risultano avere a disposizione 68 archibugi (ma la maggior parte era di proprietà non comunitaria), 41 schioppetti, 6 schioppi.
Con gli statuti del Seicento San Marino sentirà l’esigenza di ammodernare la sua armeria, per cui l’obbligo di acquistare balestre di cui si è detto si tramuterà in obbligo di acquistare archibugi. Da altri documenti successivi si evince che la Repubblica via via continuò a dotarsi di armi a fuoco. Vi fu, naturalmente, il contemporaneo graduale abbandono delle balestre e delle armi usate dalle milizie più antiche. Con lo sviluppo delle armi da fuoco, poi, vi fu l’evolversi all’interno delle milizie di un gruppo scelto di uomini con funzioni di artiglieri, ovvero di militi capaci e specializzati nel manovrare e far funzionare le artiglierie in dotazione. Non era un corpo distaccato, ma soltanto un gruppo di militi con abilità in più rispetto agli altri, utilizzati quindi per questa loro perizia. A metà Cinquecento gli uomini assegnati all’artiglieria, pesante o leggera che fosse, risultano essere complessivamente 87, di cui 83 addetti ai pezzi di cui si disponeva all’epoca e quattro con funzioni di assistenza e approvvigionamento. Questi soldati non erano esentati dai servizi di guardia, cioè erano militi a tutti gli effetti. Venivano esentati solamente nel caso dovessero predisporre e mettere in funzione l’artiglieria.
La riforma del 1543 non ebbe vita lunga, ma alcune novità introdotte, come l’utilizzo delle “lance spezzate”, cioè di soldati professionisti, la suddivisione in squadre e l’istituzione di un comando generale caratterizzarono anche in seguito le milizie sammarinesi. Tuttavia l’epoca delle cerne e dei cernoni si concluse proprio con la riforma del ’43. Purtroppo per gli anni successivi occorre lamentare una forte carenza di documentazione, fatto che non ci permette di capire adeguatamente la composizione e l’operato delle milizie dopo la riforma di metà ‘500, anche se è ipotizzabile che l’attività militare da sbrigare non dovette essere molto diversa da quella usuale dei secoli passati, così come i numeri dei militi non dovettero subire grosse variazioni, perché fino all’Ottocento la popolazione sammarinese rimarrà abbastanza statica come numero demografico, subendo solo lievi variazioni legate ai periodi più o meno prosperi. Ci è pervenuto un elenco del 1547, di tutti i fanti sammarinesi e dei raggruppamenti di cui facevano parte, da cui risulta che le squadre erano in tutto dieci, composte mediamente da 20/23 uomini, ognuna comandata da due capi squadra. Oltre a questi uomini vi era un distaccamento di 37 militi destinati a presidiare Serravalle, comandati da un certo “Fator” e da Ceccho di Milano, probabilmente un soldato di professione, e qualche altro distaccamento destinato a presidiare Montegiardino e Faetano. Complessivamente gli uomini che componevano all’epoca le milizie risultano essere quindi da tale documentazione ancora circa 300. Da altri scarni documenti di questi anni si può desumere che le milizie sammarinesi disponevano di un reparto, senz’altro molto circoscritto, di artiglieri, e, novità più importante, che era stata istituita, o comunque era in fase d’istituzione, la figura del “Capitano delle Milizie”, un comandante supremo, cioè, sottoposto alla sola Reggenza, che andava a sostituire i vari capi delle milizie precedenti, anche se in documentazione del 1565 questi capi militari risultano ancora esservi.
Nella seconda metà del Cinquecento, comunque, varie volte nel Consiglio dei LX emerse la volontà di riformare e migliorare ulteriormente le milizie per timore di nuove aggressioni da parte degli Stati confinanti, e la creazione della figura del “Capitano della Fanteria”, ovvero di un unico comandante supremo, può considerarsi una delle principali innovazioni del periodo.
Inoltre in quegli anni venne fatta una precisa differenziazione tra i militi preposti alla “guardia”, ovvero al pattugliamento serale e notturno, svolto da parte di otto uomini armati nei momenti di minor pericolo, o quando i timori di insidie erano maggiori da venti, che all’occorrenza venivano aiutati da altri 40 o 50 uomini, che si possono considerare guardie di riserva, e i militi di “ordinanza”, ovvero gli uomini non preposti a compiti polizieschi, ma solo militari. D’altronde non vi era seduta consigliare in cui non si parlasse a lungo della guardia che le squadre di militi dovevano svolgere. Intorno a metà secolo vennero elette anche commissioni “sopra la provisione del la Guardia Guerra et Governo pertinente alla Guerra et sospetti” preposte cioè a vigilare attentamente nei momenti di possibile minaccia. In alcuni Consigli dell’epoca ci si lamenta che la guardia non era sempre svolta nella maniera migliore e per questo più volte vennero emanati bandi e norme per ottenere dai soldati il massimo impegno possibile. Nel 1581 venne assunto come capitano supremo delle milizie Franceschino Marioni da Gubbio, il quale si mise all’opera per migliorare il sistema militare sammarinese e soprattutto il servizio di guardia. Dieci anni dopo la carica di capitano unico venne affidata al sammarinese Pier Marino Cionino “con autorità di creare con li S.Ri Cap.ni l’altri officiali di d.a militia”. Uno di questi ufficiali nominato nel 1594 fu Vincenzo Mucceli, a cui vennero assegnati “dieci soldati che debbino ogni notte continuamente scorrere dietro alla muraglia et parimenti il giorno de mercore a far guardia alle porte et parimenti il giorno delle fiere”.
Del 1596 ci è giunto un importante documento, un ruolo delle milizie elaborato proprio da Cionino, da cui sappiamo che esistevano altri funzionari militari mai prima rilevati, forse istituiti da non molto: il cappellano, il luogotenente, il depositario, il cancelliere, i tamburi, i sergenti, tutte figure funzionali ad una migliore organizzazione sia burocratica ed amministrativa, che prettamente militare. Complessivamente alla fine del secolo in questione le milizie cittadine risultano composte da 1 comandante generale, 8 ufficiali, 2 tamburi, 22 lance spezzate, 23 caporali e 539 uomini iscritti nei ruoli. Le “lance spezzate” godevano ancora di una posizione importante nelle milizie, ma erano state ridotte al numero di 22; i militi erano ordinariamente divisi in squadre di una ventina di uomini circa, che venivano dislocate fra 19 località del territorio. Ogni squadra era comandata da un caporale ed in alcune località, come Città, dove stazionavano due squadre di 20 e 26 uomini più le 22 “lance spezzate”, o in Borgo, dove vi erano 45 uomini, sostavano più squadre. Ovviamente vi era il bisogno di presidiare soprattutto i luoghi più delicati o pericolosi della Repubblica: non a caso a Serravalle erano dislocate ben tre squadre, per complessivi 80 militi circa, e a Faetano due squadre, con circa una cinquantina di militi, a testimonianza che i pericoli maggiori si temevano da quelle zone di confine. Inoltre è chiaro che la difesa del territorio veniva ormai concepita con logica più globale, e non riservata prevalentemente alla cosiddetta “Terra”, cioè alla zona più centrale della Repubblica, come era stato nei secoli precedenti. Sappiamo che dopo Cionino fu eletto capitano supremo Gio. Andrea Belluzzi, nel 1614, e Marchionne Maggi Belluzzi nel 1622.
Con gli statuti editi nel 1600 si tentò finalmente di dare una rigorosa codificazione al sistema militare sammarinese. La lunga rubrica XXXVII del Libro I è interamente incentrata sul capitano delle milizie, figura che con questi statuti viene ufficializzata, e le milizie stesse. Vengono dettagliati gli obblighi del capitano e dei soldati, con relative pene per le mancanze. (vedi CD) Accanto a questa rubrica, possiamo brevemente riassumerne un’altra legata al discorso che si sta af-frontando, ovvero la rubrica numero LIII, sempre del Libro I, che stabiliva i compiti dei prefetti dell’armeria pubblica. Costoro dovevano essere eletti ogni anno dal Consiglio e avevano come compito quello di accudire con la massima diligenza l’armeria pubblica e di far esplodere qualcuno dei “maggiori istrumenti guerreschi” a Natale, a Pasqua ed in altre festività stabilite “in segno di al-legrezza”. Ovviamente erano coloro che distribuivano le armi ai militi nei momenti opportuni. Un’altra figura militare di cui abbiamo traccia nella rubrica XLV di questi statuti è il castellano della rocca, che tra i diversi compiti da sbrigare aveva anche quello di “invigilare e far la guardia e suonare la campana per svegliare le guardie nella Terra, secondo il costume antico sempre fin qui osservato”. La vigilanza doveva essere continua; addirittura bastava che notasse “qualche persona a cavallo o a piedi eccedente il numero di due” per essere obbligato a dare l’allarme battendo la campana a martello. Compiti analoghi li aveva anche il castellano della rocca di Serravalle (rubrica XLVII).
Gli statuti del ‘600 erano stati elaborati a conclusione di un secolo molto problematico per San Marino che, come si è visto, aveva subito vari tentativi d’invasione ed era quindi stato indotto ad investire nelle milizie e nell’armamento parecchie energie e denaro. Le varie riforme che si sono analizzate furono senz’altro il frutto principale della turbolenza dei tempi, e probabilmente vennero stimolate dal desiderio di avere la maggiore efficienza con il minor costo possibile, perché, come sempre, San Marino non poteva permettersi sperperi e spese eccessive neppure per difendersi. Le norme di tali statuti tengono ovviamente conto di tale realtà storica e sociale, ma nel secolo successivo le cose cambiarono notevolmente, ed anche l’organizzazione militare ed il bisogno stesso di mantenere perennemente allerta squadre di militari sammarinesi mutarono in base a tale nuovo quadro storico. Il Seicento per la penisola italiana fu infatti sempre periodo di guerra e di costanti movimenti di truppe, per cui anche San Marino ogni tanto temette di dover far fronte a qualche problema di natura bellica. All’interno del Consiglio in più occasioni si deliberò di rafforzare ulteriormente le mura e le porte d’ingresso del paese, che venivano regolarmente chiuse al calar del sole, e di prestare particolare attenzione ad eventuali movimenti sospetti e soprattutto nottetempo, quando il paese poteva essere più vulnerabile non solo per attacchi di natura militare, ma anche da parte di bande organizzate di malviventi che all’epoca erano minaccia reale ed estremamente pericolosa.
Vi sono altre tracce documentali che testimoniano come vari Sammarinesi abbiano fatto parte, in qualità di soldati, delle truppe pontificie o di altri eserciti. Pare anche che qualcuno abbia combattu-to contro i turchi, che in questo periodo premevano per invadere l’Europa occidentale. Tuttavia, a parte questi episodi e qualche altro timore di indole militare, la guerra non coinvolse la piccola Repubblica, che nel Seicento non subì alcun tentativo d’invasione, com’era invece accaduto nel secolo precedente. Questo stato di maggiore tranquillità incise sulle sue milizie cittadine che, proprio perché cittadine, erano composte da uomini che gli addestramenti, le adunate, le guerre le facevano per necessità e dovere, non certo per passione. Tra l’altro anche il quadro politico nel corso del secolo mutò. Infatti vi fu l’estinzione della dinastia dei duchi d’Urbino, che tanto peso avevano avuto nella sopravvivenza e nella formazione dell’autonomia di San Marino. Già nel 1603 il duca, non avendo eredi, aveva scritto ai Sammarinesi per comunicare che egli stava facendo passi per raccomandare la Repubblica al papa affinché la prendesse sotto la sua protezione, senza alterarne però la sovranità. Infatti, in caso d’estinzione del suo casato, il ducato di Urbino sarebbe dovuto passare sotto il controllo della Santa Sede, e San Marino non avrebbe più potuto godere della protezione che fin lì lo aveva preservato. Nell’aprile del 1603 papa Clemente VIII accettava la proposta di divenire protettore della Repubblica anche a nome dei successori, gratificandola inoltre di alcuni benefici, soprattutto di natura economica, non richiesti, purché i Sammarinesi si dimostrassero sempre “riverenti, devoti, fedeli”. Questo atto, che verrà poi riconfermato da Urbano VIII nel 1627, si dimostrerà fondamentale per garantire i futuri rapporti tra San Marino e Santa Sede, ma darà adito anche a pericolose ambiguità interpretative legate al concetto di protezione, perché Roma non considererà mai la Repubblica completamente indipendente, come lei invece si reputava, ma solo autonoma per sua concessione e privilegio, quindi soggetta ad essere vigilata in maniera molto stretta. Nel 1605 il problema della devoluzione del ducato parve risolversi grazie alla nascita, inaspettata ormai, di Federico Ubaldo, il tanto bramato erede del duca Francesco Maria Della Rovere. Costui, tuttavia, morì presto, nel 1623. Nel 1631 si spense anche suo padre, per cui San Marino dovette effettivamente abbandonare la secolare protezione degli amici urbinati, che così bene li aveva garantiti, per affidarsi a Roma.
I Sammarinesi si trovarono dunque interamente circondati dallo Stato Pontificio con cui erano stati intelligentemente sottoscritti per tempo patti di amicizia: per tale motivo non dovettero preoccuparsi più di tanto dei pericoli che fino a quel momento potevano provenirgli soprattutto dalle zone che prima erano state dominio dei Malatesta, poi della stessa Roma. Questa diversa situazione politica fece sì che San Marino si rilassasse militarmente nel corso del secolo, senza comunque abbandonare del tutto la vigilanza sul territorio. Il 28 giugno 1643, per fare un esempio, il Consiglio, timoroso di possibili attacchi militari, vista la situazione di guerra in cui si trovavano le terre confinanti con la Repubblica, stabilì una maggiore guardia da parte dei militi alle porte del paese, così come ingiunse a tutti i cittadini di armarsi di moschetti per fronteggiare eventuali pericoli. Tuttavia, a parte sporadici episodi come quello a cui si è accennato, dalla scarsa documentazione che ci è pervenuta relativa ai problemi militari dell’epoca si può ricavare che San Marino in questo secolo fu molto meno meticoloso nella sua organizzazione militare rispetto ai secoli precedenti, anche se continuò a mantenere in vita le sue milizie con le antiche funzioni di guardia e prevenzione da eventuali attacchi, e poliziesche durante i mercati e negli altri momenti di maggior bisogno.
D’altra parte è anche logico che in tempi di pace duratura la cittadinanza vedesse il servizio militare come un disturbo delle sue faccende quotidiane, quindi tendesse a fare pressioni sulle autorità per evitare la continuità di un impegno ormai poco necessario e perciò poco sentito e accettato. Ciò non toglie, comunque, che il servizio militare cittadino, pur in maniera meno attiva, continuasse a funzionare ugualmente, soprattutto perché San Marino versava sempre in condizioni economiche precarie e ai limiti della semplice sopravvivenza, per cui non aveva possibilità di assumere personale militare professionistico in numero tale da accudire alla Repubblica al posto dei suoi residenti. Abbiamo testimonianze dell’attività della milizia durante le cerimonie, o quando sfilavano in parata in onore di qualche importante personaggio in visita, come accadde nel 1622 quando in paese arrivò il cardinale Orsini, o nel 1631 per il cardinale Spada. Possediamo anche testimonianze, però, che ci permettono di capire che per i più l’impegno militare in quel momento storico era proprio un peso, tanto che nella seduta consigliare del 17 aprile 1611 si dice testualmente che “non si trovavano uomini che volessero vegliare la notte e guardare le porte li giorni di mercato”. Il modesto contributo in denaro che veniva dato alle milizie era ricavato da una tassa che si faceva pagare “per uscio”, da cui erano esenti solo coloro che non possedevano casa. Pur con meno entusiasmo, anche nel ‘600, comunque, continuò la solita guardia da parte delle milizie nel territorio, nei mercati ed alle porte di Città e Borgo quando vi erano presunti pericoli legati a presenze nel circondario di bande o individui indesiderati, come potevano essere anche gli zingari, o in momenti in cui vi erano epidemie di peste. Un momento particolarmente critico fu quello in cui morì il Duca di Urbino: subito vennero attivate squadre militari di vigilanza per evitare sorprese. Per il secolo in questione è possibile citare un altro ruolo del 1° gennaio 1692, intitolato “Lista e Ruolo di Soldati che hanno ottenuta la licenza di portare la pistola ad uso di Romagna per tutto il territorio della Repubblica di San Marino”, da cui si evince che all’epoca San Marino poteva annoverare ancora tra i suoi militi circa 220 uomini, utilizzati come sempre per i servizi di guardia e pattugliamento su tutto il territorio, in particolare nei Castelli più a rischio.
Il Settecento non ebbe le stesse tranquille caratteristiche del secolo precedente, dimostrandosi anzi età particolarmente travagliata, con un’invasione consumata da parte del cardinale Giulio Alberoni tra il 1739 e il 1740, ed altri problemi nella sua seconda metà di cui si parlerà. Ovviamente tali fatti ebbero ripercussioni dirette sulla vita militare locale che, pur allentata per i motivi detti, aveva comunque conservato tradizione, cultura e metodologie messe a punto nel corso del tempo. La vicenda legata all’Alberoni è ben nota: il cardinale, che era un alto funzionario dello Stato Pontificio con ufficio a Ravenna, approfittando di una situazione particolare che si era venuta a determinare all’interno della Repubblica, il 17 ottobre 1739 vi entrò pacificamente con alcuni suoi accompagnatori; poi subdolamente fece venire da Rimini e Verucchio qualche centinaio di soldati pontifici che, ai suoi ordini, occuparono militarmente il territorio sammarinese con l’intenzione di soggiogarlo per conto di Roma. Il giorno 18 la Repubblica era già completamente nelle mani delle truppe del papa. Per qualche mese essa fu tenuta sotto stretto controllo e la sua indipendenza pareva proprio terminata per sempre. Nei mesi iniziali del 1740, invece, il papa decise di porre termine all’invasione restituendo il 5 febbraio la sovranità alla Repubblica.
Il grave episodio, avvenuto in pratica senza colpo sparare, fece comprendere alle autorità sammarinesi che San Marino non poteva permettersi rilassamenti militari di alcun genere, anche se le cose apparentemente erano calme, perché le insidie alla sua libertà ed alla sua esistenza autonoma erano sempre presenti. Nel marzo del 1740, appena conclusosi l’episodio alberoniano, i Reggenti Marino Enea Bonelli ed Alfonso Giangi proposero dunque al Consiglio di creare un nuovo corpo militare, composto da 12 uomini scelti all’interno della milizia per la loro fedeltà e rettitudine, col compito di stare a guardia del Palazzo Pubblico durante le riunioni del Consiglio. Qualche mese dopo, il 15 gennaio 1741, il governo sammarinese approvò un regolamento che disciplinava il nuovo manipolo militare: nasceva così ufficialmente la Guardia del Principe, ovvero l’attuale Guardia Nobile, che all’epoca si chiamava in tale maniera perché il Consiglio si definiva Principe e Sovrano. I militi della Guardia del Principe godevano di qualche lieve privilegio e avevano licenza di porto d’armi per tutto il territorio eccetto che nei luoghi sacri, durante le feste ed alla presenza di alcune autorità. Nel marzo del 1741 il Consiglio provvide a dettagliare ulteriormente l’organizzazione del nuovo corpo militare.
Qualche anno dopo venne fondato un altro corpo militare, sempre ricavandolo dalle milizie tramite un’altra scelta di una dozzina di uomini: la “Squadra di Soccorso”, ovvero l’attuale Guardia di Rocca. Nella seduta consigliare del 28 luglio 1754 fu stabilito che il castellano della rocca dovesse nominare un ufficiale subalterno in grado di sostituirlo in caso di assenza e coadiuvarlo nel comando di una squadra di militi, appunto la costituenda squadra di soccorso, che risulta ben equipaggiata con uniformi ed armi fin dalla sua costituzione, e che, almeno stando al suo nome originario, doveva essere una squadra ausiliaria di pronto intervento in caso di necessità. La nascita di questi due nuovi corpi militari fa capire che i Sammarinesi desideravano avere sempre pronte alcune squadre di soldati in caso di pericoli come quello corso durante l’episodio del cardinale Alberoni. Lascia però anche intendere che il raduno delle milizie, per quanto ben organizzato grazie a secoli di esperienza, richiedeva tempi tali da essere troppo macchinoso in caso di invasione repentina ed inaspettata come quella consumata dall’Alberoni.
Nonostante la nascita dei due nuovi corpi militari, comunque, le milizie cittadine continuarono ad adunarsi periodicamente e a ottemperare alle loro tradizionali mansioni di guardia e pattugliamento, così come all’occorrenza seguitavano a svolgere mansioni poliziesche. Uno di questi episodi, che merita di essere raccontato, avvenne nel 1737, ed è uno degli antefatti dell’invasione del cardinale Alberoni. Ci viene narrato da Carlo Malagola nel suo volume “Il cardinale Alberoni e la Repubblica di San Marino”. Si voleva arrestare Marino Belzoppi del Borgo perché ritenuto colpevole di aver congiurato contro il governo sammarinese. A tale scopo erano stati provvisoriamente assunti alcuni “sbirri”, come venivano chiamati all’epoca i poliziotti professionisti, che agli ordini del bargello di cui disponeva San Marino dovevano arrestare il ricercato, che era appartenente a famiglia potente e disponeva di alcuni “bravi”, una sorta di guardia del corpo privata dell’epoca, a sua difesa. Un giorno fu teso un agguato a Belzoppi, e gli vennero esplosi contro alcuni colpi di archibugio che lo ferirono in varie parti del corpo senza però ucciderlo. Egli riuscì a barricarsi in casa da dove i suoi bravi iniziarono una battaglia a colpi di archibugiate con gli sbirri. Il violento scontro in atto indusse a suonare le campane per far accorrere i soldati delle milizie cittadine. Inizialmente nessuno si mosse (e questo lascia intuire quanto si fossero rilassati i costumi militari dei Sammarinesi) eccetto i principali ufficiali delle milizie stesse. Il loro esempio incoraggiò altri soldati ad accorrere, così venne bloccata tutta la zona attorno alla casa di Belzoppi, dove ancora infuriava la lotta a base di archibugiate. Per prendere il ricercato gli sbirri con i soldati cominciarono praticamente a demolire la casa dov’era rifugiato. Questo indusse Belzoppi insieme a Salgaredo, il suo bravo più fedele, a fuggire attraverso una via segreta che passava per la cantina della casa e a rifugiarsi nella vicina chiesa di Sant’Antimo, luogo immune in cui i soldati non potevano entrare senza il permesso del vescovo. Aveva tentato la fuga anche un altro bravo, un certo Mazzotti di Sant’Arcangelo, ma era stato colpito a morte da un’archibugiata. I soldati circondarono la chiesa; nel frattempo venne inviato un messo al vescovo per ottenere il permesso di catturare i ricercati all’interno della chiesa. Dopo due giorni in cui il Borgo continuò ad echeggiare di schioppettate il permesso arrivò, così i soldati con gli sbirri entrarono in chiesa ed arrestarono Belzoppi. Stranamente il vescovo non volle dare il permesso anche per Salgaredo, per cui egli rimase all’interno della chiesa presidiata e circondata dai soldati che ebbero l’ordine di prenderlo vivo o morto in caso ne fosse uscito. Questo episodio lascia chiaramente comprendere che anche nel Settecento le milizie cittadine mantenevano ancora una loro efficienza ed una loro precisa funzione all’interno della società sammarinese, del tutto simile a quella avuta nei secoli precedenti, anche se non sappiamo con precisione per carenza d’informazioni in proposito quale organizzazione fosse sopravvissuta rispetto a quella meticolosa che abbiamo visto soprattutto nel XVI secolo.
Sulle funzioni poliziesche della milizia abbiamo parecchie altre testimonianze anche per gli anni a venire, segno certo che questa ormai, più che la difesa delle mura o l’allerta per eventuali invasioni, era il suo compito principale. Un altro episodio interessante in cui soldati della milizia vennero utilizzati con funzioni di polizia, questa volta accanto ad un distaccamento di 30 uomini inviati dallo Stato Pontificio, avvenne nel 1786. Infatti in Borgo si era da tempo rifugiata una banda di malviventi, capeggiata da un certo Tommaso Rinaldini (detto Mason dla Blona), che puntualmente faceva scorrerie sul territorio pontificio per rubare e depredare, rintanandosi in seguito ogni volta in Repubblica dove i soldati papalini non potevano entrare, e dove le locali autorità erano impotenti a risolvere il problema con le sole forze militari e poliziesche di cui la Repubblica poteva disporre. Nel giugno del 1785 il cardinal Valenti Gonzaga, Legato di Romagna, aveva chiesto ufficialmente ai Reggenti di provvedere ad espellere tale banda, ma l’impresa non si dimostrò facile perché la Re-pubblica in quel momento non disponeva di mezzi in grado di impaurire una banda ben organizzata e decisa come quella del Rinaldini. Nel 1786, dunque, si decise di consentire lo stazionamento temporaneo di un presidio pontificio di trenta soldati in Borgo, fatto che permise, nel giro di pochi mesi, di debellare la banda di malviventi e di espellerla dal territorio. Arrivati i soldati del Vaticano, San Marino affiancò loro un suo manipolo di trenta militi scelti, agli ordini di Filippo Belluzzi, mettendo nel contempo altri uomini ancora a presidiare le principali porte di Città, per evitare che la banda del Rinaldini potesse rifugiarsi nella zona più fortificata ed inespugnabile del territorio.




L’epoca contemporanea




Dalla scarsa documentazione che ci è pervenuta per l’epoca che stiamo esaminando risulta sempre che le milizie cittadine continuavano a venire adunate periodicamente come in passato, senz’altro per svolgere mansioni analoghe a quelle di sempre, anche se è lecito pensare che la loro azione fosse meno continua di una volta, perché altrimenti non si spiegherebbe l’esigenza di ricorrere all’ausilio di sbirri prezzolati o soldati di Roma nei momenti di maggiore trambusto. Sappiamo da un ruolo del 1788 che ci è pervenuto che in quell’anno le milizie sammarinesi erano composte da 449 uomini agli ordini di un comandante (il nobile Raffaele Gozi), un tenente (il nobile Giacomo Begni), un alfiere (il nobile Marino Leonardelli), 4 sergenti, di cui uno definito dei moschettieri, 23 caporali, 23 sotto caporali. Inoltre le milizie disponevano in quel momento di un cassiere, un segretario, un furiere, un sotto furiere, un tamburino, un paggio del comandante, un avvisatore dei sergenti (che aveva la funzione di notificare ai militi il momento dell’adunata), un avvisatore delle lance spezzate, che risultano essere otto, due avvisatori generali. Quindi una certa organizzazione, addirittura aggiornata rispetto al passato da funzionari nuovi, come il paggio del comandante, che è figura legata alla cultura nobiliare che a San Marino prese piede soprattutto nel corso del Settecento, rimaneva in vita, probabilmente per far fronte ad eventuali emergenze, e rimarrà attiva con le stesse funzioni anche nel secolo successivo. Tuttavia vedremo che sempre più la Repubblica entrerà nella logica di assumere e mantenere in servizio gendarmi di professione, senz’altro perché diventerà via via più difficile pretendere dai suoi cittadini servizi militari complessi e prolungati.
Altre tracce dell’attività delle milizie le ritroviamo negli ultimi anni del secolo, quando San Marino, come tutta l’Europa, venne investito dal ciclone Napoleone. I contatti con i Francesi avvennero nei primi mesi del 1797. Furono per fortuna rapporti amichevoli e rispettosi quelli voluti da Napoleone verso San Marino, tuttavia la cultura illuminista importata dalle truppe del giovane generale stimolò un gruppo di giovani sammarinesi a contestare il governo locale e a pretendere varie riforme legate alle ideologie dell’epoca, ma anche al desiderio di un ritorno alla tradizione repubblicana di San Marino, che si era attenuata con l’introduzione della nobiltà e lo sviluppo di una gestione oligarchica del paese da parte delle famiglie più influenti nel corso dei secoli XVII e XVIII. Le contestazioni di questi giovani “giacobini”, come verranno in seguito definiti, scoppiarono tra i mesi di aprile e maggio del ’97, e durante l’estate s’infiammarono sempre più arrivando ad assumere toni perentori e minacciosi verso i governanti della Repubblica e lo stesso Consiglio. Addirittura questi giovani, convinti di poter portare con la loro azione un ordine nuovo a San Marino, arrivarono a strapazzare nella fiera di luglio un milite che era di pattuglia in Borgo, mansione che veniva ancora regolarmente svolta come nei secoli addietro, perché secondo loro non svolgeva il suo compito al meglio. La spavalderia di questo gruppo di contestatori indusse ad un certo punto i governanti a reagire con l’arresto dei capi della contestazione, avvenuta per opera dei locali militi, sempre comandati da Raffaele Gozi, nel mese di agosto, e la creazione di una Guardia Civica in data 5 settembre 1797, formata da soldati scelti delle stesse milizie cittadine, per garantire la sicurezza pubblica in Città e Borgo, e forse perché in quei giorni circolava insistente la voce che stesse per avvenire un assalto alla prigione per liberare chi era stato catturato. La Guardia Civica venne comunque sciolta da lì a breve, il 18 agosto 1799, quando tutta la vicenda “giacobina” si era ormai spenta e le cose erano tornate alla normalità di sempre, ma sarà ripristinata temporaneamente cinquant’anni dopo, quando la Repubblica si ritroverà nuovamente in un periodo di forti agitazioni interne, ma di questo si riparlerà fra non molto.
Per quanto concerne l’Ottocento, si possono fornire altre notizie sulle milizie. Nel 1808 il coman-dante Raffaele Gozi, che abbiamo già incontrato in precedenza, chiese ed ottenne di poter rinunciare alla sua carica dopo 25 anni di onorato servizio. Il Consiglio accettò le dimissioni fornendogli anche un premio in denaro come buona uscita, ma lo si pregò di attendere la nomina di un successore. Non fu facile tuttavia trovare un degno sostituto disposto ad assumersi tale gravoso incarico, così la nomina tardò ad arrivare fino al Consiglio del 14 agosto 1813, quando venne incaricato come nuovo comandante generale Camillo Bonelli, che un mese dopo volle come suo aiutante maggiore Lorenzo Gozi. L’organizzazione delle milizie del periodo la conosciamo grazie ad un ruolo datato 1814 che ci è giunto e che ci permette di capire che nei giorni compresi tra il 16 e il 20 agosto di quell’anno vennero tenuti dei “mostrini”, ovvero delle adunate di tutta la milizia per un controllo generale. Oltre al comandante e al suo aiutante maggiore, i soldati avevano ai loro vertici un capitano, un tenente, un sottotenente, un alfiere e altre figure simili a quelle che abbiamo già visto con il ruolo del 1788. A volte venivano introdotti piccoli cambiamenti nelle figure a capo delle milizie, cambiamenti legati alla cultura dei tempi o ad esigenze contingenti, tuttavia la loro struttura generale anche in questa prima fase dell’Ottocento rispecchiava quella già vista. Le milizie erano formate invece da cinque squadre di “moschettieri”, probabilmente uomini dotati di moschetto, ovvero di fucili dell’epoca, composte mediamente da una ventina di uomini, che venivano dislocate nei Castelli di Città, Serravalle, Faetano, Montegiardino e Domagnano, per un totale di 110 uomini. Accanto a tali soldati operavano 22 squadre di fanteria per complessivi 331 uomini.
Degli anni seguenti ci sono giunti altri ruoli che ci permettono di capire che l’organizzazione delle milizie in questo periodo non venne a subire variazioni degne di rilievo. Da un ruolo del 1816, infatti, risultano esservi sei squadre di moschettieri, per un complessivo di 93 militi, e 19 squadre di fanteria, per un totale di 270 uomini circa. Nel 1819 sappiamo che vi erano sempre sei squadre di moschettieri, per un totale di 107 uomini, e 19 squadre di fanti, con un numero simile a quello di tre anni prima. Gli stessi numeri, con qualche lieve differenza (108 moschettieri, 240 fanti) ci vengono confermati anche da un ruolo del 1820, da cui si capisce che le milizie sammarinesi venivano in certe occasioni ancora dislocate su tutto il territorio, come già si è visto, con una concentrazione particolare a Serravalle, ovvero sul confine con il riminese, dove stazionavano ben quattro squadre di fanti ed una di moschettieri, per un totale di 64 uomini più qualche graduato (caporali e sottocaporali) che li comandava. Nel ruolo del 1821 registriamo qualche mutamento rispetto a quelli precedenti: infatti ora vi sono 4 squadre di moschettieri, 2 di granatieri (di Montegiardino e Domagnano), tipo di militi così definiti per la prima volta, e le solite 19 squadre di fanti che annoveravano nelle loro fila 248 uomini. Nel ruolo del 1822 però i granatieri non sono più menzionati, perché si torna alla usuale definizione di moschettieri per tutte le sei squadre, mentre continuano ad essere sempre 19 le squadre di fanti, comprensive di 266 militi.
Può apparire strano che per lunghi anni non vi siano documenti che ci indichino con precisione numeri ed attività delle milizie, ed improvvisamente, come per gli anni appena menzionati, si trovino invece parecchi ruoli piuttosto dettagliati. Sicuramente questo può dipendere da vari fattori, tuttavia teniamo conto che gli anni in esame furono piuttosto turbolenti per San Marino a causa dei moti risorgimentali che cominciavano a infiammare la penisola italiana e il circondario sammarinese, e per l’utilizzo che veniva fatto del suo territorio da parte di chi fuggiva dal fallimento di tali moti cercando di salvare la pelle nascondendosi in un paese considerato più sicuro di altri. Abbiamo già visto che la milizia ebbe più o meno vigore attraverso i secoli, pur rimanendo sempre viva, in base ai maggiori o minori pericoli che correva la Repubblica di San Marino a causa di quanto le succedeva attorno, per cui la più cospicua documentazione che dobbiamo registrare in questo periodo può dipendere proprio da una più rilevante attività delle squadre di soldati.
E’ da tener presente, tuttavia, che, cambiando comandante generale, possono essere cambiate im-provvisamente anche attività, metodologie ed entusiasmi relativi alle milizie. D’altra parte alcuni indizi ricavati dai verbali del Consiglio dell’epoca possono lasciare intuire che il comandante Bonelli sentiva con grande slancio e partecipazione il suo ruolo e i doveri che aveva verso i soldati. Nel Consiglio del 18 settembre 1813, per citare uno di questi casi, Bonelli contrastò una decisione della Reggenza, che aveva stabilito di recarsi in una casa del Borgo per assistere alla fiera accompagnata dalla Guardia del Principe, affermando che la vigilanza durante mercati e fiere spettava alle milizie, ed offrendo un picchetto di soldati “con divise e tutt’altro occorrente” a vantaggio della Reggenza. Il Consiglio decise però che tale compito fosse proprio della Guardia del Principe e tacitò le contestazioni del Bonelli.
Qualche anno dopo, inoltre, Bonelli si scontrò nuovamente con il comandante della Guardia del Principe Luigi Giannini. Recita il verbale della seduta consigliare del 4 giugno 1816: “ L’EE LL. esposero al Generale Consiglio la controversia insorta tra il Sig. Commandante della Milizia e quel-lo della Guardia del Principe per ragione che i Soldati della prima volevano aver luogo nelle Pub-bliche Funzioni di Chiesa, al chè opponevansi il Sig. Commandante della Guardia. E benché fossero chiesti due sentimenti ad un Generale della Corte d’Austria e ad altro Generale della Corte di Napoli, i voti de’ quali furono letti nella Generale Adunanza, pure per non essere questi conformi, non poterono comporsi le Parti”. Ovviamente venne presa una risoluzione: “Il General Consiglio mostrò grave rincrescimento di tale controversia, e doppo varij arringhi esternò il desiderio suo che l’affare venisse conciliato dalla prudenza dei due rispettabili Commandanti dell’uno e dell’altro Corpo colla mediazione di una Deputazione seguita mediante le infrascritte Nomine”. In realtà la diatriba tra i due comandanti andò avanti ancora a lungo: infatti solo nel Consiglio del 19 luglio 1918 si evidenziò che erano state “sopite tutte le differenze insorte tra gli Ufficiali tanto nella Guardia del Principe che nella Milizia con reciproca soddisfazione”.
Per gli anni successivi ci è giunto un ruolo datato 1831 su cui merita soffermarsi un po’ di più perché ci fa comprendere che era avvenuto qualche mutamento nelle milizie cittadine. Innanzitutto era cambiato il comandante, ora il nobile Giuliano Malpeli, nominato nel Consiglio del 15 marzo 1831, ed erano cambiati molti uomini dello stato maggiore dietro richiesta dello stesso Malpeli, perché fino alla seconda metà dell’Ottocento la nomina di nuovi ufficiali avvenne su indicazione del solo comandante. Inoltre nel ruolo si parla ormai solo di fucilieri e granatieri, venendo a scomparire così le denominazioni di moschettieri e fanti con cui erano qualificati in precedenza i militi. Non si sa con precisione quali differenze sussistessero tra granatieri e fucilieri. Forse era solo una differenziazione legata all’esperienza dei militi riuniti in squadre più o meno abili, con le più esperte preposte al presidio dei Castelli più importanti, e le meno esperte negli altri, o forse la diversità di denominazione dipendeva dagli armamenti in adozione. In effetti le squadre di granatieri, che furono a loro volte suddivise in granatieri di Città, di Borgo e di campagna, vennero distribuite in Città, Piagge, Serravalle, Faetano, Montegiardino e Domagnano, ovvero nelle zone considerate più a rischio, mentre alle 19 squadre di fucilieri vennero riservati gli altri Castelli, anche se diverse andarono ad affiancare i granatieri nelle località suddette. Serravalle, per fare un esempio, ovvero il Castello che veniva ritenuto il più bisognoso di salvaguardia, visto che il confine col riminese era considerato sempre quello più a rischio, aveva a sua difesa 18 granatieri più quattro squadre di fucilieri per un complessivo di 70 militi. Faetano, altro Castello di confine, era vigilato da 20 granatieri più due squadre di fucilieri con 39 uomini.
E’ ovvio che tale distribuzione dipendeva dai nuovi pericoli cui la Repubblica era soggetta, non tan-to per una eventuale invasione da parte di qualche Stato estero, quanto per i problemi che aveva con i fuoriusciti politici, che si rifugiavano in continuazione all’interno dei suoi confini, e le bande di malviventi, che scorazzavano ancora per il territorio pontificio utilizzando a volte il suolo sammarinese da nascondiglio come già aveva fatto Mason dla Blona. Nel Consiglio del 16 settembre 1831 si parlò di volere utilizzare alcune squadre di militi contro ladri e malviventi che infestavano il territorio sammarinese in numero maggiore che in passato. Venne per questo presentato un progetto per ridurre ad uno solo gli “esecutori”, che erano funzionari al servizio del tribunale, e utilizzare i soldi risparmiati per “rendere attive alcune Squadre di soldati, che veglino alla comune sicurezza”. Evidentemente si voleva dare un rimborso ai militi per i loro servizi straordinari, per cui occorreva rimediare un po’ di denaro. Non sappiamo se effettivamente venne licenziato qualcuno per rimediare i soldi in questione, tuttavia nel Consiglio del 9 febbraio 1832 fu decretato “un annuo fisso assegnamento pel servigio che in varie circostanze richiedesi dalla Milizia”, ovvero 90 scudi che, pur non essendo cifra alta, era sufficiente a riconoscere in qualche modo la fatica degli uomini che si sarebbero prestati ai servizi richiesti. Vedremo fra breve che nel 1836 si entrerà nella logica di assumere alcuni gendarmi professionisti e di ridurre i soldi dati alle milizie per i servizi di natura poliziesca.
Altro fatto che si può citare, perché sempre legato al discorso che si sta svolgendo, è l’assunzione provvisoria, per motivi di convenienza, della carica di castellano, ovvero di custode della rocca, da parte del comandante delle milizie sancita dal Consiglio del 6 maggio 1832, funzione che, come si ricorderà, lo statuto del Seicento aveva resa autonoma da qualunque altra carica. Nel novembre del 1834, tuttavia, tale mansione verrà nuovamente assegnata ad un funzionario specifico. Grazie a questa sua nuova carica, l’anno seguente il comandante delle milizie organizzò la ristrutturazione della prigione fatiscente e malsana presente all’interno della rocca perché il Consiglio era giunto alla deliberazione che non bisognava considerare “le Carceri siccome luogo di supplicio, ma solo di custodia dei rei”.
Sempre per parlare di altri fatti relativi alla milizia accaduti in questo periodo, si può dire che il 28 agosto del 1831 ebbe formale nascita la banda militare, composta in quel momento da 20 musicisti, tramite l’incorporamento nelle milizie di una banda musicale che già esisteva. Purtroppo poco si sa dell’attività della banda nei suoi primi anni di vita, attività che dovette essere sporadica e soggetta a scarse regole. Infatti il 6 giugno 1843 il Consiglio tornò a decretare che la banda dovesse essere uni-ta al corpo delle milizie, come se tale accorpamento non fosse mai avvenuto o se ne fosse persa memoria. Un mese dopo venne ufficializzato il primo regolamento della banda, in cui si stabiliva che dovesse essere soggetta al comando generale delle milizie, e venivano fissati gli obblighi milita-ri cui doveva sottostare, le feste nazionali in cui doveva fornire la sua opera e altre norme ancora. Nel 1879 tale regolamento venne rielaborato, ma senza stravolgere la logica della normativa prece-dente, e sempre ribadendo l’aspetto militare della banda stessa.
Col successivo ruolo che ci è pervenuto, datato 1833, ci vengono per la prima volta fornite informa-zioni e curiosità sui singoli militi. All’epoca vi erano nove squadre di granatieri, per un complessivo di 159 militi, e sempre 19 squadre di fucilieri, con un totale di 344 uomini. I granatieri erano composti prevalentemente da possidenti e benestanti, mentre pochi erano i contadini. Questi invece diventavano la maggioranza tra i fucilieri. Molti erano inoltre i volontari che avevano aderito alle milizie spontaneamente senza esservi stati iscritti d’autorità. La maggioranza dei militi aveva un’età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma vi erano anche sedicenni ed ultra sessantenni.
Nel ruolo successivo che ci è rimasto, del 1834, vengono elencate ancora nove squadre di granatieri, suddivise sempre per Castelli come già si è visto, e 19 squadre di fucilieri. Col ruolo del 1836 il comandante Malpeli suggeriva di nominare un capitano, un tenente ed un sotto tenente per la compagnia dei fucilieri, in quanto riteneva ormai inadeguato mantenere tale compagnia agli ordini di un semplice sergente maggiore coadiuvato da altri 4 sergenti semplici. Il suggerimento venne accolto e l’innovazione fu applicata. Anche i granatieri, che comprendevano in quel momento 168 uomini, subirono una trasformazione nel comando. Infatti in precedenza le loro nove squadre erano comandate da un sergente con caporali e sotto caporali. Invece nel 1836 troviamo ai vertici di tali squadre militari 4 sergenti, ognuno dei quali comandava alcune squadre raggruppate. Appare in questo ruolo anche la figura del furiere.
Una legge sulla caccia promulgata il 28 agosto 1836 ci permette di comprendere che le milizie svolgevano ancora importanti compiti di polizia. Infatti l’articolo 10 di tale legge recita: “La forza pubblica, e specialmente le Squadre di Campagna sono incaricate della più esatta vigilanza per sorprendere i Forestieri ed arrestarli quando siano trovati a cacciare senza l’opportuna patente, od in tempi proibiti, e conseguiranno la metà della multa inflitta in Scudi dieci”.
Nel 1841 si provvide a fornire le milizie di un nuovo quartiere presso la Parva Domus, spostandolo da palazzo Mercuri, sede precedente. Di questo periodo possediamo varie informazioni sui corpi militari sammarinesi che ci vengono fornite da un amico ed estimatore aretino della Repubblica, Oreste Brizi, all’interno di un suo opuscolo del 1842 intitolato “Quadro storico – statistico della serenissima Repubblica di S. Marino”. Egli ci dice che all’epoca le milizie cittadine erano composte da circa 800 uomini, tra cui alcune compagnie, i “Granatieri” ed i “Cacciatori”, dotate di “uniforme turchino con rovesce bianche”; le squadre venivano distribuite su tutto il territorio. “Queste compagnie accudiscono a tutto – c’informa Brizi -, e i loro distaccamenti prestano servizio nelle feste e fiere, nei mercati e teatri, disimpegnando anco le funzioni di polizia, specialmente per ciò che riguarda gli straordinari giri notturni, le straordinarie perlustrazioni campestri, e il prestar man forte ai due Messi incaricati delle basse funzioni, e ai due Militi di Polizia che hanno l’uniforme di color grigio-ferro con filettatura rossa, che servono come di ordinanze ai Capitani Reggenti, e che in alcune particolari circostanze invigilano al buon ordine. Il corpo più numeroso e non montato è quello dei Fucilieri (o Riserva) disseminati per le campagne, ogni membro del quale deve avere in proprietà uno schioppo, delle munizioni e una coccarda, e oltre a questi in caso di bisogno ciascun cittadino capace di portare le armi è militare. Resta ora a dirsi che la milizia Sammarinese è sedentaria, che le Guardie della Reggenza e della rocca, i Granatieri e Cacciatori sono equipaggiati ed armati a spese della Repubblica, che il loro vestiario uniforme e l’armamento stanno in deposito nei rispettivi quartieri o magazzini, che son retribuiti a titolo d’indennità quando vengono chiamati ad un servizio qualunque, che godono di varj privilegi ed esenzioni, che hanno degli esercizj periodici e cinque parate annue ordinarie, di cui due sole con emolumento, e che la loro montatura è di modello francese, e il comando in lingua francese. E’ finalmente da sapersi che né in San Marino né in veruna parte del suo territorio esiste un servizio militare giornaliero, perché non ve n’è d’uopo; che per la sorveglianza quotidiana di polizia è stata istituita una brigata di gendarmeria composta da Toscani, e che nel giorno di San Marino (3 settembre) ha luogo il tiro al bersaglio, ove ognuno può trarre un colpo di fucile, col premio di quattro scudi a chi mette la palla nel centro di esso bersaglio; e che parecchi esteri sono aggregati alle Milizie Sammarinesi in qualità di ufficiali onorarj, o in ricompensa di cose operate a pro della Repubblica, o per meriti personali”.
Riguardo a quest’ultima informazione, si può dire che in quel periodo, ma anche precedentemente così come in seguito, San Marino era solito insignire personalità importanti o amici della Repubblica con titoli onorifici militari, all’epoca molto ambiti, come ricompensa per i servigi resi al paese, o semplicemente in segno di riconoscenza ed amicizia. Lo stesso Brizi, che era ufficiale del Granducato di Toscana, era anche capitano onorario, poi divenuto colonnello, delle milizie sammarinesi. Egli si preoccupò a lungo di fornire suggerimenti per migliorare le squadre militari stesse, venendo ad un certo punto nominato dal Consiglio “consultore militare” della Repubblica. Brizi inviò vari progetti per perfezionare le milizie cittadine di San Marino. Il primo fu del 6 dicembre 1849 in cui dava suggerimenti per razionalizzare al meglio lo stato maggiore e le milizie stesse, nonché sul loro armamento e vestiario, ma già in precedenza Brizi aveva inviato una serie di lettere piene di consigli. Un altro progetto di riforma, denominato “Osservazioni e proposizioni riguardanti le milizie sammarinesi”, Brizi lo elaborò nel 1860; anche in questo forniva molti ammaestramenti a vantaggio dei corpi militari della Repubblica. Per esempio, egli si dichiarava assolutamente contrario all’arruolamento di giovani al di sotto dei vent’anni, così come all’utilizzo di militi con più di cinquant’anni. Proponeva poi di chiamare “battaglione dei fucilieri” la milizia, nome che gli sembrava troppo generico, e di semplificarla nella sua organizzazione. Brizi forniva inoltre molti altri suggerimenti, che in parte verranno in seguito anche adottati.
D’altra parte questi furono anni in cui le milizie cittadine vennero tenute sotto costante pressione. Infatti le molteplici turbolenze del periodo, legate alle sommosse risorgimentali che ogni tanto scoppiavano attorno ai confini, con conseguente uso del territorio sammarinese come rifugio dove nascondersi da parte dei rivoltosi, indussero più volte il governo a spronare il mantenimento in allarme di varie squadre militari. Nel verbale della seduta consigliare del 29 maggio 1842, per fare un esempio, si legge: “L’Ecc.ma Reggenza rese informato il Generale Consiglio di aver dovuto prendere delle energiche misure contro alcuni Esteri qui rifugiati, la cattiva condotta de’ quali avea dato motivo che fossero portati più volte reclami al Governo contro di loro, ed avere perciò fatta eseguire l’espulsione di tre de’ rifugiati stessi, e tenuto per varij giorni in attività alcune Squadre della Milizia tanto per assicurare l’esecuzione delle prese disposizioni, quanto per impedire che non fosse in questa circostanza punto turbata la tranquillità e sicurezza pubblica.” In quel momento all’interno dei confini sammarinesi avevano trovato asilo circa sessanta rifugiati, per cui il problema cominciava ad essere particolarmente sentito a causa del pericolo che questi individui potevano rappresentare, e per le pressioni che per la loro riconsegna Stato Pontificio e Granducato di Toscana periodicamente esercitavano sulle autorità sammarinesi per farli arrestare.
Proprio per la problematicità dei tempi e per la difficoltà di mantenere in continuo stato d’allarme squadre militari, sempre perché le milizie erano formate da semplici cittadini, nel febbraio dello stesso anno venne deciso di creare una forza di polizia composta da cinque gendarmi professionisti, aumentati a sei qualche mese dopo, che vennero assunti in Toscana. Per essere precisi, occorre dire che già il 15 marzo 1836 era stato elaborato un primo regolamento per istituire alcuni poliziotti professionisti regolarmente stipendiati. Costoro dovevano essere due con divise proprie e dovevano rispondere direttamente alla Reggenza perché non inquadrati nelle milizie cittadine, quindi non sottoposti al comandante delle stesse. Il progetto era nato dietro istanza presentata nel Consiglio del 4 gennaio di quell’anno ed aveva anche precisi scopi di risparmio, perché in precedenza il mantenimento in servizio di tre “sbirri” era costato 216 scudi, mentre ora il costo totale previsto non avrebbe superato i 178,30 scudi. Presumibilmente vi furono problemi a dare piena esecuzione a questo progetto, perché nel 1842 si formalizzò un altro regolamento per l’istituzione del “Corpo dei Gendarmi della Repubblica di San Marino”. Negli anni seguenti, fino a quando la Repubblica ebbe i soldi per mantenere alle sue dipendenze questi uomini, i nuovi gendarmi alleggerirono in parte le milizie di alcuni compiti di natura poliziesca, collaborando frequentemente con le stesse a vantaggio della Repubblica. Sempre da informazioni ricavate dai verbali del Consiglio, per fare un altro esempio, sappiamo che in qualche occasione i gendarmi si prestarono anche a fornire addestramenti ad alcuni militi, e che nel 1847 pattuglie della milizia cittadina operavano e vigilavano sia di giorno che di notte lungo tutto il territorio al fianco dei poliziotti professionisti.
Il problema in cui si dibatteva costantemente la Repubblica in passato era comunque la continua ca-renza di denaro, per cui anche il corpo dei gendarmi fu mantenuto nel numero di sei finché si riuscì a rimediare il denaro per stipendiarli, precisamente fino al maggio del 1848, quando in Consiglio si decise di ridurre tale numero a tre proprio per esigenze di risparmio. Qualche mese dopo, tuttavia, solo un gendarme risulta ancora al servizio di San Marino, segno che non vi era possibilità di mantenere in attività altri uomini. Tale difficoltà indurrà il governo ad affiancare a quest’unico poli-ziotto rimasto due uomini presi dalle milizie cittadine con stipendio di 15 baiocchi giornalieri, e a ripristinare la Guardia Civica, che già abbiamo visto in funzione cinquant’anni prima, delegando al comando della milizia la sua organizzazione. Tuttavia anche questa soluzione non diede buoni frut-ti, tanto che nel 1850 si tornò a ribadire che assumere altri gendarmi era una “necessità assoluta”.
La questione dell’ordine pubblico e della vigilanza sul territorio in questi anni era dunque molto sentita ed anche molto preoccupante, visto che non vi erano soldi sufficienti a mantenere in armi un gruppo di professionisti capaci di garantire la tranquillità dei Sammarinesi. Dopo il passaggio delle truppe garibaldine alla fine di luglio del 1849 e il loro scioglimento proprio a San Marino, le grane e le agitazioni relative all’ordine pubblico aumentarono notevolmente per la permanenza a lungo nella Repubblica di parecchi uomini di Garibaldi, e per il fascino esercitato da questi ribelli sulla gioventù locale, che comincerà sempre più a contestare i governanti e a chiedere migliorie sociali determinando ricorrenti stati di trambusto. Proprio per la grave situazione interna determinatasi, il 7 ottobre 1849 venne eletto al posto dell’anziano Giovanni Benedetto Belluzzi un nuovo comandante delle milizie, Filippo Belluzzi, che subito si premurò di far nominare una commissione per riformarle. L’elaborazione del progetto di riforma fu laboriosa: infatti solo il 26 ottobre 1851 fu presentato in Consiglio un “Progetto di Regolamento per una nuova Organizzazione del Corpo delle Milizie” allo scopo “di tenere pronta a disposizione del Governo una Forza attiva indispensabile al mantenimento dell’ordine pubblico, e di regolare un servigio da prestarsi gratuitamente dalle stesse Milizie Cittadine nell’attuale deficienza de’ mezzi per assoldare un competente numero di nuovi Gendarmi” come si legge direttamente nel verbale di quella seduta consigliare. “Letto il Regolamento - prosegue - esso resta approvato in ogni sua parte, e ne viene ordinata la pubblicazione, e onde nulla si opponga a che sia mandato pienamente ad effetto, si dichiara sciolta l’antica formazione del Corpo delle Milizie compresavi l’ufficialità, ferma restante la carica di Comandante Generale nella persona del Nob. S. D. Filippo Belluzzi. Ad esso poi fino all’attuazione del nominato Progetto è data ogni facoltà di ordinare il servigio che può bisognare al Governo, e di scegliere i Soggetti che dovranno prestarlo”.
Negli anni successivi si ristrutturarono dunque le milizie cittadine, ma nel frattempo ci si preoccupò di assumere altri due gendarmi, probabilmente rendendosi conto che militari non professionisti, pur potendo senz’altro fornire un importante aiuto per il mantenimento dell’ordine pubblico, non sarebbero bastati a garantire la tranquillità dei cittadini in momenti tanto inquieti. Le milizie vennero riorganizzate tra il 1852 e il 1853 ricreando lo stato maggiore in parte tramite nomina consigliare dei comandanti supremi della milizia stessa (comandante superiore, colonnello capo, tenente-segretario del comandante), in parte tramite elezione - questa è la vera novità del periodo - degli altri graduati. In pratica tutti i militi in un certo giorno tramite scheda votavano tre nominativi per eleggere tenenti, sotto tenenti, sergente maggiore e furiere. In altra occasione, invece, nominativamente e a voce alta venivano eletti sergenti e caporali. Accanto a queste innovazioni ne vennero introdotte altre, come la suddivisione dell’intero territorio sammarinese in quattro “circondari”. Il primo circondario, comprendente Città, Piagge, Borgo, Acquaviva, Fiorentino fino a Chiesanuova, era sottoposto al controllo di cinque compagnie di militi formate da 42 squadre di 19 uomini ciascuna. Il secondo circondario (Domagnano, Serravalle, Falciano, ecc.) veniva vigilato da due compagnie, ovvero 18 squadre che annoveravano un totale di 262 militi. Il terzo circondario (Monte Lupo e Faetano) era presidiato da una compagnia, ovvero 156 uomini. Il quarto circondario (Montegiardino e zone limitrofe) era affidato ad una compagnia per un totale di 140 uomini. Il totale dei militi conteggiati nei ruoli di questi anni ammonta a 1365 uomini. In pratica ogni circondario era articolato in compagnie, ogni compagnia in squadre, e non vi era più suddivisione secondo i nomi di granatieri o fucilieri com’era nei ruoli precedenti.
Le milizie sammarinesi vennero messe subito alla prova nella loro nuova organizzazione perché il 14 luglio 1853, ricorrenza della Rivoluzione Francese, fu ucciso in un agguato da alcuni giovani mazziniani del Borgo, in combutta con alcuni rifugiati in territorio, il segretario generale della Repubblica Giambattista Bonelli. Nei mesi successivi avvennero poi altri due omicidi (l’avvocato Gaetano Angeli ed il dottor Annibale Lazzarini) in qualche maniera legati al primo, per cui il paese venne messo in stato d’assedio, e le squadre militari furono dislocate lungo tutto il territorio per garantire l’ordine pubblico. Venne nominato come “Capo Straordinario” del corpo armato che si era organizzato e di tutte le milizie, la cui organizzazione precedente venne temporaneamente sospesa provocando grave risentimento in Filippo Belluzzi, il nobile Giovanni Benedetto Belluzzi, con “piena facoltà di valersi si degli Ufficiali come dei Soldati in quel modo Egli crederà più conveniente al Pubblico Servizio”. Successivamente la carica di comandante supremo delle milizie verrà affidata al nuovo Reggente Giambattista Braschi, che comunque la terrà solo per i sei mesi del suo incarico. Una delle uscite principali dei bilanci statali del periodo fu proprio causata dal mantenimento in stato di allerta di molti militi, che evidentemente provocavano costi notevoli, nonostante teoricamente avessero l’obbligo del servizio gratuito. D’altronde vedremo fra breve da un documento dell’epoca che in realtà un qualche compenso in denaro veniva loro fornito. A testimonianza di quanto detto, si può citare che nella seduta consigliare dell’8 agosto 1853, a meno di un mese dall’omicidio di Bonelli, la Reggenza dichiarò che “per impedire un intervento Estero, e per eseguire l’espulsione di Persone, le quali si sospettava che potessero turbare la pubblica quiete, si è stati costretti a raccogliere una forza abbastanza considerabile la quale ha depauperato il Pubblico Errario”. I Reggenti inoltre affermarono che il momento più pericoloso pareva passato e che il numero dei militari in stato di allerta poteva essere ridotto; “mille riflessi però esigono, che un certo numero di Armati sia anche in seguito conservato”. Il Consiglio appoggiò la richiesta della Reggenza contraendo un debito di mille scudi per far fronte alle gravi emergenze che vi erano.
D’altra parte la milizia in questo periodo la vediamo concretamente in azione lungo tutto il suolo sammarinese con pattugliamenti, posti di controllo e perquisizioni sistematiche nelle case di chi era sospettato di essere coinvolto nel grave fatto di sangue. Tra l’altro fu proprio una squadra di 7 militi cittadini, ai comandi del sergente maggiore Francesco Ceccoli, ad arrestare il 17 luglio a Fiorentino Marino Giovannarini, uno dei presunti autori dell’omicidio, e a tradurlo in carcere. Di questo travagliato momento possediamo parecchia documentazione, tra cui svariati rapporti che venivano forniti alla Reggenza dopo qualche azione da parte di pattuglie delle milizie. Vediamone a titolo di esempio uno:

RAPPORTO ALLE E.E. REGGENZA, E ALLA GIUNTA STRAORDINARIA DI GOVERNO DELLA NOTTATA DAL 24 AL 25 LUGLIO 1853

Alle ore 2 di notte nella decorsa sera è partita dal Quartiere la la Pattuglia comandata dal Caple Guidi Marino, e composta dei Comuni: Rastelli Giuseppe, Gasperoni Bernardo, Gasperoni Giovanni, Riccardi Giuseppe, Ugolini Domenico, Malpeli Alessandro, Moretti Giuseppe la quale fatto il giro di tutti i Corpi di Guardia non ha trovato niente di nuovo, ed a forma degli ordini dati dal sott.° il Caple Guidi ha piazzato una sentinella straordinaria che da Ribiscino conduce sulla via, e dalla parte opposta del Borgo due sentinelle permanenti sotto il Gengone, e due alla fine del Greppo onde chiudere così ogni ingresso, e fuggita a qualunque persona del Borgo; quindi il restante della Pattuglia ha mosso per la perlustrazione interna del Borgo, e non è rientrata detta Pattuglia che alle ore 4 avendo reso conto di aver sempre trovato la guardia in vigilanza e non aver avuto da rimarcare niente in contrario al buon ordine, detta Pattuglia è stata costantemente accompagnata dal Brigadiere Paoli. Alle ore 4 e un quarto è partita la seconda Pattuglia comandata dal Caple Guidi Giuliano, Com Francesco Moretti, Zannotti Agostino, Zannotti Giovanni, Zannotti Giuliano, Zannotti Andrea, Zannotti Gio. Maria, Mularoni Marino e unitamente al Brigadiere Paoli, ed al sottoscritto che ne ha preso il comando dopo aver piazzato in Catena tutti gli Uomini della guardia esterna, e circondato strettamente il Borgo si sono principiate le perquisizioni a forma degli ordini abbassati dalla Superiorità. La prima perquisizione ha avuto luogo in Casa Moracci ove non si è rinvenuto niente di quanto veniva ingiunto essere da osservarsi. Abbiamo trovato nel letto il Domeniconi ivi dimorante, e domandato alla padrona di Casa, ed al medesimo se vi erano altri forestieri hanno risposto che vi era un tal Zeffiro della Pasqua, ma che era partito la sera stessa prima di un'ora di notte, e interrogati ove esso potesse essersi inviato hanno risposto non saperlo perché avea tenuto su ciò il silenzio; dopo essere stata dal Paoli scrupolosamente esaminata la Casa, e la Casse, e cassetti non si è trovato altro che una lettera di famigliari diretta a detto Zeffiro, quale non conteneva niente di interessante. Quindi essendo state prese anticipatamente le necessarie disposizioni ci siamo portati alla Casa di Zani ove pure dopo tutte le indagini non si è ritrovato niente a meno che qualche oggetto di biancheria, e calzature appartenute (a quanto dice il Zani stesso) a Giannucoli, e Cucchi, i quali uno (…? parola incomprensibile) il primo erano partiti dalla scorsa sera, e il Cucchi da diversi giorni dicendomi inoltre il Zani che la (…?) avanzava circa Venti paoli per cui intendeva rivalersi con la roba qualora non gli fosse stata mantenuta la promessa di mandargli il suo avere. Siamo in seguito passati dal Zonzini, e ivi abbiamo rinvenuto estranei alla Casa la Ploja, Tommaso Mattei, e Vincenzo Benedettini, e domandato se vi erano altre persone ci è stato risposto negativamente onde incominciata la perquisizione dopo avere osservato in tutti i luoghi che si possa supporre seguire di ricettacolo non si è rinvenuto niente neppure in una soffitta ne' in un vano che è stato levato due mattoni a esaminarsi. Tutte queste operazioni hanno portato a star fuori la pattuglia fino alle 2 e tre quarti, ora in cui è partita la 3a Pattuglia comandata dal Caple Mularoni Giuseppe, Com. Giardi Agostino, Giardi Giuseppe, Giovagnoli Giuseppe, Moroni Paolo, Costa Giuseppe la quale ha perlustrato il Paese fino alle 3 e mezza non avendo reso conto di aver trovato niente di nuovo. La Guardia sotto i Muri ha reso conto che è passata una Pattuglia diretta in viaggio con un defunto. Alle ore 7 è giunto un distaccamento composto da un Ufficiale e 26 Comuni. Il Cutignola non si è peranco veduto, e così ho rilevato dal Brigadiere.
Il Distaccamento di Faetano non ha ancora avuto la muta e si lagnano (…?) che venga destinato con precisione chi deve pagare i Soldati perché è un danno, e si fanno dei malcontenti se non si pagano quando arrivano almeno in parte, e qui invece si và fino a Mezzo giorno senza sapere chi paga; e senza che vi siano fondi; spero che la Superiorità vorrà anche sù questo punto dare ordini precisi.
Dal Quart. del Borgo 25 Luglio 1853
Il Com il Serv Straord
Pellegrini

Dopo il 1854 le acque un po’ si calmarono e la situazione interna a San Marino non ebbe più disor-dini simili a quelli del 1853 – 1854. Tuttavia in questi anni di guerre di indipendenza, di battaglie e di sconvolgimenti quotidiani lungo tutta la penisola italiana non era possibile abbassare mai la guardia, per cui il bisogno di un corpo militare efficiente e pronto ad essere utilizzato, soprattutto con funzioni poliziesche, rimase prioritario per San Marino. I militi non erano esenti da pericoli durante le loro attività. Nel 1857, per citare un caso tragico, accadde una grave disgrazia: un milite in pattugliamento notturno, Cristoforo Filippucci, rimase per fatalità ucciso durante il servizio. Il Consiglio decise di fornire un emolumento alla vedova proprio perché il marito era un “Cittadino morto in servizio della Patria”.
Tra le curiosità del periodo degne di essere menzionate vi fu anche la seguente nuova formula di giuramento promulgata nel 1854:

“Io lo giuro nel nome di Dio, e sopra i santi evangeli di conservare l’ordine, e la pubblica tranquillità, di assicurare l’obbedienza alle leggi, e al Generale Comandante Superiore di queste Milizie, di osservare e di tenere per mio assoluto e legittimo principe il solo Generale Consiglio dei Sessanta, difenderlo con tutte le mie forze e con esso l’indipendenza, e la libertà della Patria; di non conoscere, e di non avere altri colori che i due soltanto della bandiera della nostra Repubblica. Se operassi contro il presente mio giuramento, ed offendessi nel mio servizio la disciplina, e la sua subordinazione militare, non dovrò essere ubbidito dai miei subalterni, ed ogni mia operazione sarà nulla, e di niun effetto. Così facendo Iddio mi aiuti, e mi premi, altrimenti mi abbandono, e mi punisca.”

Nel periodo le milizie cittadine subirono altre innovazioni legate soprattutto all’attivismo del loro nuovo comandante, Marco Tassini, nominato nel Consiglio del 23 ottobre 1856, che prima riuscì ad avere un aumento a 150 scudi annui del contributo in denaro che lo Stato forniva, motivandolo con l’impossibilità di andare avanti solo con i soldi fin lì riconosciuti, ovvero 105 scudi, poi si diede da fare per redigere e pubblicare il nuovo “Regolamento sulle Milizie Cittadine della Repubblica di Sammarino”, approvato ufficialmente dal Consiglio del 16 marzo 1858. Con tale lungo regolamento, composto da ben 52 articoli, si specificava che le milizie cittadine dovevano mantenere l’ordine e la tranquillità pubblica, assicurare l’obbedienza alle leggi, l’integrità del territorio, l’indipendenza della Repubblica, difendere il Consiglio ed i consiglieri. Esse erano formate da tutti i cittadini e residenti in territorio da almeno sei anni che non fossero inquisiti, tranne i Reggenti, i giudici, i medici e pochi altri funzionari, nonché gli oziosi ed i vagabondi. Le famiglie possidenti impossibilitate a fornire uomini idonei al servizio militare dovevano pagare una tassa mensile. Il regolamento sanciva ufficialmente la divisione del territorio in quattro circondari e la conseguente suddivisione delle milizie stesse in base a tali circondari. Specificava inoltre che il servizio delle stesse potesse essere ordinario e straordinario. Il regolamento del ’58 rimase in vigore pochi anni: infatti nel 1866 si decise di modificarlo in alcune sue parti perché riconosciuto “difettoso”, e l’anno successivo la nuova edizione venne promulgata. (vedi CD) In base a questo regolamento il territorio veniva sempre diviso in quattro circondari, e le compagnie militari erano otto, ognuna composta da otto squadre di otto uomini ciascuna. Nel primo circondario, comprendente i castelli di Città, Borgo, Chiesanuova e Acquaviva, agivano quattro compagnie. Nel secondo (Domagnano – Serravalle) due compagnie. Nel terzo (Fiorentino e zone limitrofe) una compagnia, così come nel quarto (Faetano e dintorni).


Accanto a queste innovazioni avvenute nella seconda metà dell’Ottocento, accaddero altri fatti degni di essere ricordati: nei primi anni ’60 la situazione intorno ai confini sammarinesi restò in subbuglio, ed i Sammarinesi dovettero rimanere ancora in stato di allerta per i pericoli che la Repubblica poteva correre sempre a causa di chi vi si rifugiava o nascondeva. Per citare qualche esempio interessante, nell’agosto del 1861 vennero premiati con una medaglia due militi perché durante il mercato del giorno 24 avevano arrestato un disertore correndo anche qualche pericolo personale. Nel novembre dello stesso anno la Reggenza ordinò di effettuare una perlustrazione per tutto il territorio “obbligando i militi gratuitamente, e senza lasciare luogo alcuno inosservato”. Tale ricognizione avvenne il 9 dicembre sia di giorno che di notte provocando malumore in qualche cittadino ed invettive verso i militi. Un prete, padre Mariano Anfossi, li etichettò addirittura come assassini e per questo venne denunciato al Consiglio, così come gli altri che avevano dimostrato scarsa collaborazione.Nell’agosto del ’62 altri due militi (Giovanni Bindi e Ippolito Ceccoli) si resero degni di encomio per un arresto effettuato, e per questo ricevettero anch’essi una medaglia.
Per fortuna negli anni seguenti, dopo l’unificazione dell’Italia sotto i Savoia, le acque si calmarono ed i militi non vennero più chiamati con frequenza ad impegni particolarmente gravosi. Tuttavia qualche periodo di crisi e di maggiore attività militare si ebbe ancora, come nel 1872, quando continuava il problema dei rifugiati in territorio da tener sotto controllo. Il milite Giuseppe Giacomini in quell’anno venne decorato dal Consiglio per aver dato “un evidente segno di non comune coraggio nelle fazioni Militari attivate in questo Borgo Maggiore per la repressione dei Forestieri”.


Nel 1872 vi furono ulteriori integrazioni e modifiche al regolamento delle milizie chieste esplicitamente da tre ufficiali nella seduta consigliare del 22 agosto che lamentarono la mancanza di “una regolare organizzazione nel Corpo di queste Milizie”, domandando “che vengano presi quei provvedimenti che sono necessari ad un generale riordinamento del corpo suddetto”. Nell’occasione il comandante superiore Gaetano Belluzzi si dimise dichiarandosi inidoneo a seguire tale organizzazione, e venne nominato al suo posto Palamede Malpeli, che già era stato il principale artefice delle riforme regolamentari attuate nel ’66. All’epoca i corpi militari sammarinesi erano composti da due squadre scelte dotate di uniformi (fucilieri e guardia di rocca), impegnate ad intervenire alle parate militari del 3 settembre, festa di San Marino, e del 5 febbraio, festa di Sant’Agata, oltre alla guardia del principe ed alla gendarmeria, che facevano sempre parte delle milizie stesse. I fucilieri erano composti da 9 squadre; otto di queste assistevano alle parate, ed una a turno era di supplenza per le eventuali assenze. Questa compagnia aveva anche l’obbligo di prestare servizio durante le fiere che si svolgevano in Borgo in sette ricorrenze annuali, attività che veniva retribuita. Il servizio dei militi uniformati poteva essere ordinario o straordinario. Il primo era gratuito e non poteva durare più di 24 ore; se durava di più veniva pagato. Il servizio straordinario non aveva limiti di tempo ed era sempre retribuito. I militi erano come in antico chiamati alla “puntatura”, ovvero all’appello ad una certa ora; le loro armi dovevano essere sempre in efficienza e pulite interamente e con meticolosità almeno una volta all’anno. In questo periodo risulta esservi anche la figura del “buffettiere”, ossia il milite destinato a pulire e mantener lustre buffetterie, cuoiami e parti in ottone o metallo, così come vi era il “quartigliere”, cioè il milite che teneva presso sé le chiavi del quartiere, ed era responsabile della conservazione e regolare tenuta di tutti gli oggetti esistenti nel medesimo, oggetti descritti e registrati in apposito inventario. Come in passato, il capo posto della guardia montante distribuiva i compiti, i picchetti, le sentinelle. Ovviamente erano previste pene per i trasgressori delle varie norme. L’eventuale segnale di massimo allarme era dato come in passato dai rintocchi di una campana: quando ciò avveniva, tutti gli iscritti ai ruoli di ogni arma erano tenuti ad accorrere al quartiere anche con le loro armi personali, e a mettersi a disposizione del maggiore in grado. Regolamentati appaiono pure i compiti dei militi, i doveri delle sentinelle, le funzioni ordinarie (servizio di piazza, denominato "di pattuglia", con principale funzione di ordine pubblico interno; servizio d'ordine "dei Teatri" e dei pubblici spettacoli; servizio "di Piazza d'armi" in funzione della partecipazione degli uomini alle parate, riviste o, come si diceva all'epoca, "passeggiate militari". Il servizio di ricognizione prevedeva, invece, il pattugliamento delle campagne e quello da svolgersi nei vari corpi di guardia o distaccamenti. L'uno o l'altro tipo di servizio comportava necessariamente l'uso di una parola d'ordine. La sicurezza notturna era assicurata da un servizio "di ronda", chiamato “di ispezione" se si doveva svolgere anche durante il corso della giornata. La guardia della Rocca, la custodia dei detenuti nonché “il disimpegno di tutti quelli altri servizii che si compiono in uniforme nella Rocca, nella Fratta ed alle Porte della Città” competeva alla squadra uniformata della Guardia di Rocca. Compito ulteriore della milizia era quello di fornire le sentinelle alla porta esterna del Palazzo della Reggenza e quello di far sparare “i Mortari” per l'alzabandiera (un colpo doppio) al primo di Aprile, al primo di Ottobre, per S. Barbara e per il Sabato Santo (undici colpi), per S. Marino, S. Agata ed il Corpus Domini (21 colpi). Doveva infine far servizio al tradizionale tiro al bersaglio il 3 settembre.
Particolarmente interessanti, poi, le annotazioni sulla montura e distintivi dei vari Corpi. La divisa dei soldati, dei caporali e dei sottufficiali era così descritta: “pantaloni e tunica di panno turchino celeste con doppia bottoniera sul petto, alquanto divergente in alto, il gonnellino scendente a metà della coscia: colletto, paramani a punta, finte tasche, filettatura e banda lungo la cucitura esterna dei pantaloni, in panno bianco; goletta, spalline e dragona tonda di lana rossa; cinturone di cuoio bianco con sciabola, portabaionetta e gibernino di cuoio nero. Keppy, o caschetto, basso, nero, ornato al bordo superiore d'un gallone di lana rossa e con coccarda, granata e pomello di metallo”. I tamburini invece delle spalline portavano delle lunette di lana bianco celeste ed un galloncino dello stesso colore intorno al colletto ed ai paramani. Per gli ufficiali subalterni ed i capitani la descrizione era la seguente: "Tunica come sopra, con due granatine ricamate in oro su fondo rosso sovrapposte alle mostre del colletto; pantaloni come sopra con doppia banda parallela alla cucitura esterna: spalline con placca dorata e a vermiglietta d'oro, e dragona relativa: centurone di gallone d'oro tramezzato con due filetti di seta rossa, e montato su pelle rossa con placca dorata portante lo stemma della repubblica in metallo bianco rilevato: sciabola d'ordinanza con guardia d'acciaio; e caschetto o Keppy relativo al grado e secondo il modello adottato dal Comando Superiore". Per gli ufficiali superiori era prevista la medesima foggia di tunica, paramani e finte tasche coperti da un gallone d'oro e due granatine ricamate in argento su fondo rosso alle mostre del colletto. I pantaloni avevano una spighetta d'oro lungo la cucitura esterna in mezzo alle due bande bianche; le spalline con placca dorata a vermiglietta d'oro brillantato e dragona in conformità. Cinturone di gallone d'oro frammezzato con un solo filetto di divisione di seta rossa. Il copricapo era analogo a quello dei sottufficiali (caschetto). Il Generale aveva la tunica ricamata in oro al colletto, ai paramani ed alle finte tasche. i pantaloni con filetto bianco lungo la cucitura esterna e due galloncini d'oro paralleli al filetto; ghiglie di cordone d'oro, cappello appuntato, gallonato e bordato di piume nere; cinturone ed accessori in metallo dorato. I gradi di colonnello, tenente colonnello e di maggiore, di capitano, luogotenente e sottotenente si caratterizzavano inoltre "con un cifrone di spighetta d'oro doppio o semplice rappresentante tre, due o una foglia ovale sull'antibraccio sopra i paramani" e si distinguevano dalle spalline e dal caschetto. Diversi i colori delle mostreggiature degli ufficiali addetti allo stato maggiore: verde per il Genio, nero per la Curia, cremisi per la Sanità, argento e lira ricamata per il Concerto i cui ufficiali portavano il pennacchio bianco. Pennacchio bianco a piangente distingueva il cappello della tenuta di alta gala degli ufficiali e degli ufficiali di Stato Maggiore. Gli ufficiali in tenuta di gala ed in attualità di servizio portavano anche la sciarpa (fascia) a liste bianche e celesti annodata sul fianco sinistro. Era prevista una bassa tenuta, meno ricca d'orpelli.
Il regolamento prevedeva una ferma di sei anni, e dava grande rilievo al principio della necessità dell'uso della forza per la difesa della Repubblica e delle sue Leggi. Molteplici articoli erano dedicati ai doveri dei soldati e dei loro superiori: fedeltà, subordinazione, obbedienza, rispetto, specchiata moralità, rettitudine, correttezza, imparzialità, giustizia pronta e proporzionata agli eventi. Era previsto l'uso del “Voi” nel rivolgersi ai militi ed esclusa ogni familiarità e confidenza durante il servizio fra ufficiali e sottoposti. Nel regolamento viene usato per la prima volta il termine “plotone”, che era un’unità operativa, composta da due squadre di otto uomini l'una, ed è prevista la figura del caporale di muta, ossia del solo graduato incaricato di rilevare le sentinelle dal loro posto di guardia. Regolamentata ampiamente ogni minuta violazione, con tanto di relative pene, con particolare riguardo all’infrazione commessa dalla sentinella addormentata, evidentemente rischio ricorrente lungo tutta la storia militare sammarinese. Con il regolamento di disciplina militare adottato nel 1872 nacque la denominazione di “milizia uniformata”. Essa era costituita dagli iscritti negli usuali ruoli generali, più nove squadre di militi ed una squadra di Guardie di Rocca.
Nonostante le nuove norme in uso, questi furono comunque anni di generale crisi della milizia, tanto che nel 1873 gli ufficiali delle stesse si dimisero in blocco constatando che molti militi si disinteressavano dei loro obblighi militari ed avevano addirittura rinunciato all’uniforme. Il Consiglio in data 16 marzo discusse se sciogliere del tutto le milizie cittadine o no. Alla fine deliberò di affidare a Malpeli l’incarico di fare il possibile per “impedire la dissoluzione della detta Compagnia”. La prima cosa che egli fece fu chiedere al Consiglio una somma di 150 lire per restaurare le uniformi giudicate “attualmente quasi inservibili”, cifra che ottenne senza problemi. In seguito ricevette un altro assegno straordinario di 270 lire per ristrutturare il soffitto del quartiere delle milizie che rischiava di crollare.
Nell’aprile del ’74 accadde un grave incidente con l’Italia, che cinse i confini della Repubblica con un cordone militare accusandola di scarsa collaborazione nell’espulsione dei ricercati da parte della polizia italiana e che ovviamente accelerò la riorganizzazione delle milizie, con un altro stanziamento straordinario di 200 lire, e l’acquisto di 500 berretti da affidare ai soldati.









Ancor più vi furono problemi durante la grave crisi del 1874, quando l’Italia pretendeva assolutamente che il territorio sammarinese fosse liberato dai rifugiati che in quel momento vi erano. Proprio a causa di questa pretesa aveva bloccato i confini della Repubblica esigendo inoltre che San Marino assumesse altri cinque o sei gendarmi per rinforzare i suoi sistemi di controllo e di repressione, e aprisse un consolato italiano al suo interno. Il documento che si riporta, firmato dal nuovo comandante Palamede Malpeli, che aveva riorganizzato le milizie, innovazione che avveniva quasi sempre coi vari avvicendamenti di comandanti supremi, testimonia che anche all’epoca i militi fornirono un importante contributo per affrontare la spiacevole questione.

“Comando Superiore delle Milizie della Repubblica di S. Marino, li 15 Maggio 1874

Eccellenze
Appena ricevuto il Dispaccio delle EE.VV. dell'11 corrente alle ore 11.30 pom. immediatamente abbassai gli ordini opportuni alla 1a 2a 5a 7a Compagnia di questa legione di portarsi ai Quartieri e rilasciai gli ordini d'arresto di tutti i 59 Individui descritti nell'elenco unito al suddetto loro ossequiato Dispaccio.
Se non che, constandomi (come dirò in appresso) che la maggior parte dei medesimi non era né po-teva essere nel nostro Territorio, detti gli ordini più precisi alla 1a e 2a compagnia per l'arresto di quelli di cui si conosceva la dimora, ed ingiunsi alla 5a e alla 7a di praticare in diversi luoghi so-spetti delle ricerche e delle perquisizioni per scuoprire se veramente vi fossero altri inquisiti, diser-tori o refrattari di leva latitanti.
Mentre però questo secondo tentativo non ebbe alcun favorevole risultato, gli arresti ordinati alle due prime Compagnie furono puntualmente eseguiti e la mattina del 12. alle 6 antim. erano tutti consegnati in queste pubbliche Carceri, ed affidati alla vigilanza della Compagnia di Rocca unita-mente al disertore Casadei Giovanni arrestato nei giorni precedenti.
Gli arrestati sono - 1 - Ugolini Luigi detto Stadera, 2 - Crudi Antonio di Giovanni, 3 - Guerra Antonio, 4 - Trifoni Pietro di Pietro, 5 - Giancecchi Gio.Battista fu Bartolomeo, 6 - Giancecchi Melchiorre di Tommaso, 7 - Nanni Domenico di Antonio, 8 - Pazzini Filippo di Sebastiano, 9 - Cesarini Girolamo di Pietro, 10 - Cesarini Adamo id., 11 - Cesarini Giacinto o Enrico id., 12 - Rossi Pietro di Fossombrone, 13 - Roberti Filomena detto Calandrina, 14 - Giorgetti Giovanni
Credo per mio debito di riferire alla EE. VV. il resultato delle ricerche fatte sugli altri 48 individui di cui non si è potuto eseguire l'arresto. Il Carpignoli Stefano e il Giulianelli Luigi sono assenti dal nostro territorio. L'uno ha famiglia alle Capanne e trovavasi a Monte Cerignone dai parenti: ma il padre disse alla nostra forza che appena tornato si costituirà da se; l'altro è cittadino originario di questa Repubblica e trovasi attualmente a lavorare nella Maremma.
Il Masi Guglielmo di Perticara dimorava in Borgo, ma saranno circa due mesi che è partito: ed è voce abbastanza fondata che attualmente si trovi in Toscana.
Il Cannoni Eracliano non è mai comparso in Repubblica almeno sotto questo nome. Pare però che un Eracliano Costanzi da un 14 mesi a questa parte siasi fermato qualche giorno nel nostro Terri-torio. Ma se ne sarebbe tosto partito alla volta dell'America, ove sarebbe attualmente Custode di un carcere a Buenos Ayres.
Il Gaspari Secondo fu visto molti mesi addietro a Monte Giardino, ma (come tempo fa ebbi l'onore di riferire all'EE.VV.) è fama sicura che siasi costituito da qualche tempo a Forlì, per cui mi fa somma meraviglia di vederlo requisito dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Bolo-gna.
Il Bernardi Federico, il Mengozzi Pietro, il Masani Edoardo, l'Angeli Cristoforo non si sono visti mai in Repubblica. Lo stesso si può dire dei Renitenti di leva Parenti, Pazzaglia, Tosi, Carlini, Francia, Baldacci, Felici, Lazzaretti, Tichi, Ciacci Eugenio, Nicolini, Baldacci Luigi, Antonini, A-stolfi, Bronzetti, Ciacci Giuseppe, Giovagnoli, Barbieri, Rossi, Cenci, Antonini, Zangoli, Albini, Ghirardelli, Ugolini non che dei disertori Emmanuelli e Sanoni. Esistono in Repubblica alcune fa-miglie con alcuni dei sudd. Cognomi, ma non combina su di nessun individuo il nome, la paternità e l'età. Mi si fa credere poi che alcuni di essi sian morti da qualche tempo nella Maremma.
Il Severi Pietro venne in questo Borgo nel 7bre del 1871, e se ne partì li 18 Novembre successivo. Il Masi Angelo fu inutilmente ricercato come le EE.VV. ben sanno.
Il Castagnoli Sante fu girovago fra i due Stati sui confini di Serravalle, e ricercato dalla nostra Po-lizia, riparò all'Estero da più di un Anno a questa parte. Dicesi che se ne partisse in compagnia del Costanzi.
Il Fantini Agostino ha dimorato qualche tempo presso la famiglia Cesarini, ove ha la sorella: ma un testimonio oculare mi ha assicurato di averlo veduto negli scorsi giorni in una casa fuori dei no-stri confini.
Il Ridolfi Crescentino è morto e se ne potrà aver la fede dal Municipio di Monte Grimano. Il Nanni Domenico (forse Andrea) fratello dell'arrestato è ora servo alla Dogana di Verucchio. Il Bianchi Luigi non è qui. Il nostro Bianchi Luigi fu già arrestato all'Albereto, ed essendosi riconosciuto che non vi era l'identità personale, fu rilasciato in libertà. Il Zangoli Giuseppe pure non è in Repubbli-ca, ma in una località del Verucchiese detta Gualdo presso un tal Domenico Ghiotti. Il Celli Ago-stino era quegli che alcune settimane fa era energicamente inseguito dalle nostre forze a Pennaros-sa e a Canepa, e che dovette lasciare la Repubblica. E che ciò sia vero un testimonio oculare lo ha visto alcuni giorni in quel di S. Leo sulla possessione di un tal Sabattini di Secchiano "la Cella" a cavar piloni. Terminerò poi questo mio rapporto col far noto all'EE.VV. che anche altre perquisi-zioni parziali non ebbero alcun effetto. Egual risultato negativo ebbe una perquisizione fatta su va-sta scala nella giornata di oggi dietro alcune voci corse che nelle località dette i Lagucci, Rancione e Piandavello si eran visti degli individui con facce proibite: ma forse erano esploratori! All'alba del giorno fu fatto improvvisamente occupare da quattro Squadre della IV Compagnia la strada posta sulle alture da Domagnano a Montelupo, mentre la V Compagnia occupava da un lato un semicerchio che aveva per corda la suddetta strada, e dall'altro cinque Squadre della I Compagnia e quattro Squadre della II descrivevano un egual semicerchio includendo Piandavello. Quattro Squadre poi della VI Compagnia colla nostra Gendarmeria hanno perquisito minutamente tutte le Case, i Capanni e i Burroni racchiusi nel terreno circondato.
Essendomi così assicurato con tutta la diligenza di cui sono capace, e con tutto lo zelo da cui sono animato, che nella nostra Repubblica non vi sono né inquisiti, né disertori, né renitenti di leva, ho creduto di desister per ora da ulteriori perquisizioni, fino a che qualche sicuro indizio non consigli di riprendere le operazioni, il che però non credo possibile.
Dopo ciò non mi resta che rinnovare alle EE.VV. gli atti della mia profonda devozione.
Gle P. Malpeli”

Dopo che lo spiacevole incidente terminò, il Consiglio provvide a premiare tutti coloro che avevano cooperato per la sua risoluzione, tra cui lo stesso Malpeli che “assumendo sopra di se il peso e la responsabilità dell’azione governativa nell’Interno, dopo aver riorganizzata la milizia con meravigliosa prontezza, ha dato luminosa prova di zelo e di attività (…) al che poi ha contribuito principalmente l’unione, la concordia, e la disciplina dell’intera Legione delle milizie che si è prestata con tutto l’interessamento all’esecuzione degli Ordini che le venivano abbassati”.
Gli anni seguenti non registrarono problemi legati all’ordine pubblico e, come sempre era successo quando la situazione rimaneva serena per un certo tempo, le milizie non ebbero particolari sollecitazioni a stare in allerta, divenendo quindi sempre meno uno strumento militare. Infatti il territorio ormai era circondato da un unico Stato che aveva riconosciuto ufficialmente la sovranità della Repubblica, perciò questa non correva più i pericoli d’invasione dei secoli addietro. Inoltre San Marino aveva dovuto assumere alcuni gendarmi professionisti per convincere l’Italia a togliere il blocco dei suoi confini, per cui anche come strumento di repressione poliziesca la milizia venne ormai utilizzata poco. Il Novecento fu dunque il secolo in cui la milizia cittadina si trasformò gradualmente da esercito di tutti i maschi sammarinesi, com’era stato praticamente fin dall’epoca comunale, a squadra di volontari da impiegare durante le cerimonie, le feste o qualche attività particolare, anche se l’obbligo per i cittadini di diventare all’occorrenza militi non decadrà neppure in questo secolo. Agli inizi del Novecento le milizie erano ancora suddivise in nove compagnie distribuite in tutti i Castelli della Repubblica. Come previsto dal regolamento del 1867, erano comandate da un Congresso Militare, composto da una serie di graduati, sotto la presidenza di un Comandante Superiore. Dalla scarna documentazione che ci è pervenuta dagli inizi del secolo, tuttavia, sembra che il Congresso Militare abbia alternato anni di attività più intensa ad anni più tranquilli in cui ovviamente i soldati sammarinesi vennero adunati raramente. D’altra parte si è già più volte detto che l’attivismo delle milizie cittadine è sempre stato proporzionale alla problematicità dei tempi, ed i primi decenni del secolo non furono tanto critici da necessitare di un sistema di vigilanza o d’impegno militare particolarmente intensi. Abbiamo notizia che nel 1904 le divise della milizia vennero modificate seguendo le indicazioni di Quinto Cenni di Milano, maggiore specialista dell’epoca di tenute militari, ma per gli anni seguenti sappiamo poco, segno che la milizia non ebbe impegni particolari al di là di quelli soliti legati alla partecipazione alle cerimonie o alle parate. D’altra parte nel marzo del 1921 Onofrio Fattori, all’epoca loro comandante superiore, fa annotare nel libro dei verbali del congresso militare il desiderio di “far rivivere” l’istituzione delle milizie, facendoci capire proprio che negli anni precedenti il corpo dei soldati sammarinesi non aveva goduto di chissà quale vita ed energia.
Le milizie vennero invece riordinate e vivificate proprio a partire da quell’anno, perché la situazione di relativa tranquillità del periodo precedente venne a meno per gli scontri politici ormai quotidiani tra “rossi” e “neri”, nonché per la minaccia sempre più probabile di una spedizione fascista in territorio sammarinese per dare una lezione ai locali membri dei partiti di sinistra, e per catturare i tanti profughi italiani di tendenza comunista e socialista che anche all’epoca vi erano rifugiati. Il 23 maggio 1921 due camion di fascisti penetrarono all’interno dei confini, ma non provocarono problemi andandosene dopo breve. Tuttavia la situazione era in fermento, tanto che Fattori pochi giorni dopo, in data 26, ordinò di tenere in servizio permanente una compagnia di militi per prevenire altre spedizioni fasciste, in attesa che il governo provvedesse alla costituzione di un adeguato corpo di gendarmi che, evidentemente, nei tranquilli anni precedenti avevano subito un calo numerico ed un rilassamento come le milizie. L’arruolamento di una trentina di carabinieri professionisti italiani venne ufficializzato il 1° giugno del ’21; costoro permarranno al servizio della Repubblica fino al 1936. Tale presenza, naturalmente, permise di non dover fare più grande affidamento sulle milizie cittadine per salvaguardare l’ordine pubblico.
Infatti per gli anni successivi non c’è tanto da annoverare. Nell’agosto del 1928 una rappresentanza delle milizie, con alcuni ufficiali promossi di grado per l’occasione, partecipò alla mostra dei costumi militari di Venezia. Una qualche attività poliziesca delle milizie venne ripristinata invece nel 1933, quando il governo fascista temette un fantomatico complotto contro il governo perpetrato da “un’orda di briganti, assoldati dai fuoriusciti sammarinesi”, come recita l’organo del partito fascista “Il Popolo Sammarinese” del 25 giugno 1933, che volevano attentare alla vita dei Reggenti, fare una “strage di Autorità, funzionari e cittadini”, e una “depredazione di beni pubblici e privati”. In realtà la situazione non era così drammatica come queste poche righe del periodico fascista lasciano intuire, tuttavia vi fu abbastanza preoccupazione in paese per distaccare alcune squadre di militi a prestare servizio di pubblica sicurezza in aiuto ai carabinieri. Questi furono però anni di scarsa organizzazione delle milizie. Infatti dai documenti dell’epoca risulta evidente che si faceva fatica a riunire il Congresso Superiore delle Milizie per ricorrente assenza del numero legale, tanto che fin dal 1935 il Comandante Superiore aveva inoltrato le sue dimissioni per stimolare la risoluzione del problema che lasciava praticamente le milizie senza un organo direttivo. Per questo il 18 aprile 1940 era stato istituito un “Consiglio di Credenza” più ristretto in grado di gestire con meno problemi i militari sammarinesi, organo che per anni sostituì di fatto il Congresso Superiore.
Quando nel luglio del 1943 cadde il fascismo anche a San Marino, la situazione legata all’ordine pubblico tornò a farsi preoccupante, perciò squadre di militi vennero riorganizzate in tutta fretta per farvi fronte e per aiutare i pochi carabinieri che la Repubblica aveva in quel momento. Queste squadre operavano a turni, ed erano preposte soprattutto al controllo delle zone di confine. Il loro lavoro era particolarmente gravoso, perciò nel giugno del 1944 si decise di arruolare un gruppo di giovani, fra i 18 e i 30 anni di età, con funzioni di milizia confinaria in aiuto ai militi che già stavano svolgendo tale incombenza dall’anno precedente. I mesi successivi furono particolarmente problematici per la Repubblica, per cui le squadre di militi vennero tenute costantemente sotto pressione per far fronte alle tante situazioni d’incertezza che si determinavano quasi ogni giorno. Nel mese di agosto venne ricostituito il congresso militare sostituendo alcuni suoi vecchi membri fascisti con altri. Uno dei primi atti compiuti dal nuovo congresso fu la creazione di un corpo di pompieri, sottoposto sempre al regolamento del 1867, che era ancora quello a cui sottostavano le milizie, e la nomina di una guardia civica ausiliaria che doveva prestare servizio militare nelle varie parrocchie sammarinesi. Per fortuna il periodo di crisi della Repubblica legato al passaggio del fronte durò poco: infatti nell’ottobre del ’44 avvenne la smobilitazione della milizia confinaria e rimase attiva solo una squadra di militi con le mansioni di guardia al palazzo pubblico, recupero di eventuali armi o materiale bellico abbandonato e svolgimento di altri servizi legati all’ordine pubblico.
Naturalmente, com’è sempre accaduto a San Marino, col venir meno delle tensioni e dei pericoli, negli anni seguenti la milizia venne ancora una volta ad assumere ruoli legati soltanto alla pace, alle cerimonie della Repubblica, alle parate, ecc. Per la seconda metà del Novecento, dunque, non si hanno notizie od informazioni particolari da fornire. Una qualche riorganizzazione delle milizie ebbe luogo nel 1960, quando venne ristrutturato il Congresso Militare, sempre basandosi sulle disposizioni del regolamento delle milizie del 1867, e quando venne aumentato a 83 uomini il numero della milizia uniformata, a cui vennero dati in dotazione fucili nuovi e riformate in alcuni particolari le uniformi, che verranno ulteriormente modificate nei primi anni ’80. Fu creato nella stessa occasione un gruppo scelto di 30 militi da affiancare alla gendarmeria in momenti di eventuale necessità.
Il 26 gennaio 1990 fu promulgato come legge n° 15 un nuovo “Regolamento organico e di Disciplina dei Corpi Militari” che, riprendendo in larga parte la logica secolare a cui erano sempre stati sottoposti i corpi militari sammarinesi, andava ad aggiornare la normativa per i vari gruppi militari di cui San Marino disponeva. Interessante rilevare che anche in questa legge è ancora mantenuta l’obbligatorietà al servizio militare per tutti i cittadini compresi tra i 16 ed i 60 anni (quindi ora anche delle donne), eccetto i membri del governo, i magistrati, gli ecclesiastici, coloro che erano indispensabili alla burocrazia ed ai servizi essenziali, chi era impedito per problemi fisici. La mobilitazione generale è ordinata dal Consiglio, dalla Reggenza in caso di urgenza, o dal comandante superiore previo parere del Deputato alle milizie, che dal 1945 è quello preposto agli affari esteri. (Vedi CD)


Nel 1881 venne creato un preciso regolamento per la custodia delle nuove uniformi della milizia. Vi si diceva che il quartigliere, ovvero l’addetto al quartiere delle milizie, doveva prestare la sua opera nelle 24 ore successive a ciascun servizio delle milizie cittadine, spazzolando tutte le divise, verificando la loro integrità, riparando eventuali loro danni. Del duo operato avrebbe risposto al furiere, subendo una multa, ovvero una trattenuta sullo stipendio, se non lo avesse svolto a norma.
Nel 1882 il regolamento di disciplina militare della compagnia degli uniformati venne integrato da alcune aggiunte che fornivano una struttura leggermente diversa alle stesse. Infatti la compagnia veniva organizzata in quattro plotoni, composti complessivamente da 72 uomini più quattro sergenti, uno per plotone, un furiere, un capitano, un tenente ed un sottotenente. Questi militi avevano compiti legati alle parate ed alle cerimonie civili e religiose, ma potevano essere utilizzati per l’ordine pubblico e in aiuto ai gendarmi che, in anni di tranquillità, e sempre con l’obbiettivo di non pesare troppo sulle casse statali, mai troppo colme, la Repubblica manteneva in numero esiguo. Quando i militi dovevano coadiuvare i gendarmi, avevano l’obbligo di indossare la divisa. Ma erano specificati anche altri servizi cui erano tenuti, come quello di teatro, che veniva prestato per tutelare l’ordine pubblico durante le feste da ballo o lo svolgimento di commedie, o quello legato alla condotta dei sali e tabacchi, che come generi di monopolio venivano distribuiti direttamente dallo Stato e necessitavano della tutela di personale militare, o l’antico servizio che veniva prestato durante le fiere. Per ognuno di questi uffici i militi ricevevano un compenso prestabilito, che poteva essere maggiorato se il servizio stesso si fosse protratto per molte ore. Agli ufficiali veniva riconosciuta invece una indennità annua a titolo di mantenimento della divisa, e per la pulizia delle armi ed accessori.
Da un ruolo di questi stessi anni sappiamo che la milizia era composta all’epoca da 28 ufficiali, 57 sottufficiali, 9 furieri, 226 graduati, 920 militi più 79 guardie di rocca, per un complessivo di 1319 uomini. Ovviamente la maggioranza di questi uomini non disponeva di uniforme, ma erano, diciamo così, tutti i militi virtuali della Repubblica, quelli che dovevano rendersi pienamente disponibili in caso di necessità. Gli uniformati erano invece una sessantina, senza contare in questo numero gli ufficiali, le guardie di rocca e la banda. La divisa, stando ad una descrizione del 1927 che ci è pervenuta, era costituita da tunica e pantaloni di panno blu filettato di bianco, con giubba simile a quella della fanteria italiana, con keppy e stemma di ottone e coccarda bianca e celeste e pappina rossa per i soldati, oro e metallo dorato, come le spalline, per gli ufficiali. Inoltre costoro avevano il paramani della giubba in panno bianco e dello stesso colore era anche il bavero con granate d’oro ai due estremi, bande bianche ai calzoni, sciarpa e liste bianche e celesti. La divisa in quel momento aveva però subito una qualche modifica in quanto i distintivi erano in argento e il keppy era stato sostituito da un berretto.

 

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