Storia
della Milizia Sammarinese
L’epoca medievale
Il monte Titano ed il suo circondario sono stati
sicuramente frequentati ed abitati fin dalla preistoria, tuttavia la
comunità da cui prese in seguito vita la Repubblica di San Marino
iniziò a formarsi in periodo alto medievale, ovvero tra la caduta
dell’impero romano e il Mille. Purtroppo di questo lungo periodo
conosciamo poco o nulla per carenza di fonti documentali. Sappiamo
tuttavia, da un unico documento che ci è pervenuto, che nel 511 d.C.
sul monte c’era un monastero; sappiamo inoltre che la comunità che
si venne formando sul Titano, forse proprio grazie e attorno al
monastero, si dedicò ad un personaggio mitico venuto da Arbe, San
Marino appunto, su cui ricaviamo notizie da una leggenda scritta
intorno al X secolo; sappiamo infine da rari documenti successivi
che la comunità sammarinese ad un certo punto si dotò di un castello
e di una pieve, probabilmente intorno al X o XI secolo,
infrastrutture che lasciano supporre che attorno al Mille sul monte
Titano vi fosse già un gruppo di abitanti riuniti in un piccolo
villaggio, e desiderosi di difendersi adeguatamente dalle insidie e
dai tanti pericoli del tempo.
E’ probabile, ma anche questa è solo un’ipotesi non suffragata da
documenti, che fin dall’inizio della loro storia gli abitanti del
Titano si siano costituiti in comunità soprattutto per motivi di
difesa, di aiuto reciproco e di sopravvivenza. L’asperità del monte,
infatti, può far pensare che vi si sia rifugiata gente desiderosa di
nascondersi, forse in fuga dal crollo dell’impero romano e dalle
invasioni barbariche, pronta a difendersi all’occorrenza
approfittando dell’inospitalità e difficoltà ambientali offerte dal
luogo che li ospitava. Se così fosse, i Sammarinesi fin dall’inizio
della loro evoluzione storica si sono industriati ad essere
all’occorrenza militi e difensori della loro vita e della loro
terra, condizione che può aver senz’altro accentuato la volontà
d’indipendenza e di libertà dagli altri, nonché il senso di
appartenenza ad una comunità diversa e non soggetta ad alcuno, e una
forte diffidenza verso il mondo esterno.
Queste caratteristiche, che si legarono sempre più a concetti forti
come libertà e autonomia, nonché la paura di quanto veniva
considerato estraneo e alieno alla realtà locale, sono ben
rintracciabili nei documenti e nella mentalità sammarinese fino ad
epoche assai vicine alla nostra. D’altra parte, accanto ai luoghi di
culto, tanto importanti per la mentalità e la cultura dell’epoca,
subito ci si preoccupò di munire il monte di fortilizi adatti alla
difesa della comunità. Infatti il centro abitato medioevale si è
consolidato attorno alla prima torre, ovvero la Guaita, la cui cinta
muraria si è gradualmente allargata e sempre più fortificata in
seguito man mano che sono aumentati i residenti, tanto che si
costruirono in tempi diversi tre gironi murari. Questo potenziamento
del sistema difensivo di San Marino avvenne dopo il Mille e
soprattutto durante il periodo comunale, momento storico in cui la
comunità si diede un’organizzazione sociale migliore e più
articolata, creando anche un sistema militare cittadino di
autodifesa che dobbiamo ipotizzare più strutturato e meno lasciato
alla libera iniziativa dei singoli Sammarinesi di quanto non fosse
l’organizzazione militare precedente a questo periodo.
Le prime tracce comunali a San Marino si hanno a partire dal 1243
quando ai suoi vertici operavano due Consoli (Filippo da Sterpeto e
Oddone di Scarito), che sono testimonianza di un processo di
autogoverno ormai avviato. La fine del 1200 fu il periodo in cui
vennero redatti gli statuti del comune, i primi che ci sono giunti,
anche se in parte incompleti. Nel '300 San Marino proseguì nella sua
lenta lotta per affrancarsi dai poteri politici che fino ad allora
lo avevano vincolato, partecipando alle battaglie che coinvolgevano
la sua zona geografica, stringendo alleanze con chi lo poteva
aiutare, in particolare i conti di Urbino, continuando ad ampliare
gradualmente il suo territorio tramite acquisti di zone e castelli
limitrofi, o per sottomissione spontanea.
Tra i documenti che ci sono pervenuti di questo periodo storico, ve
n’è uno interessante per il presente studio, una pace datata 16
settembre 1320 tra Benvenuto vescovo del Montefeltro e i
Sammarinesi, che fa capire come negli anni precedenti fossero
avvenute aspre battaglie tra questi due contendenti, e come San
Marino fosse riuscito a conquistare militarmente diverse terre
vescovili. Un’altra pace tra Malatesta e Titano del 2 ottobre del
1322, piuttosto vantaggiosa per i Sammarinesi, ci permette di capire
che Rimini non era riuscita a sconfiggerli, e che si era dunque
dovuta decidere a sottoscrivere un trattato per mantenere buoni
rapporti con vicini all’epoca agguerriti e temibili. Alle origini
della sua dimensione di terra indipendente ed autonoma, dunque, San
Marino dovette affrontare battaglie e scontri armati per affermarsi:
ovviamente lo poté fare perchè era militarmente attrezzata ed aveva
un’organizzazione tale da riuscire a tenere testa o anche ad essere
superiore ai suoi contendenti.
D’altra parte fin dai primi statuti locali si comprende che una
delle preoccupazioni prioritarie dei Sammarinesi fu proprio la
difesa militare della propria terra sia con la creazione di
fortificazioni sempre più possenti, sia con l’organizzazione di una
milizia cittadina in grado di presidiare il paese. Tale opera
difensiva caratterizzò in particolare i secoli XIII – XVI, ma già
nel 1371 il cardinale Anglico nel descrivere il comune di San Marino
annotò che era posto collocato sopra una vetta dove vi erano tre
“Rocche fortissime” custodite direttamente dagli uomini del comune
stesso. Le torri infatti erano custodite da uomini armati: non
soldati di professione, che il comune non si poteva economicamente
permettere, ma da cittadini che, smessi gli abiti usuali di
contadino, bottegaio, artigiano, prestavano la loro opera a
vantaggio della comunità.
Nei documenti di archivio vi sono sporadiche tracce che ci dicono
che San Marino qualche volta si servì anche di soldati mercenari,
come nel 1338, quando vennero assoldati sei mercenari per la
custodia della prima e della seconda torre, o nel 1441, quando il
conte del Montefeltro spediva un suo uomo a capo di una compagnia di
soldati, o nel 1509, quando il Cancelliere di Montefeltro suggeriva
di assoldare 50 fanti forestieri per guardia e di tenere 50 militi
sammarinesi in ordine, pronti alla difesa, perché vi erano timori di
un attacco di Venezia che aveva appena conquistato Rimini. Così come
è ben noto l’aiuto fornito all’occorrenza all’amico e protettore di
San Marino, il duca di Urbino, che non esitava a sua volta a
contraccambiare inviando suoi soldati in soccorso in caso di
pericolo, insieme a consiglieri, architetti o professionisti della
guerra. Tuttavia usualmente la difesa del Titano e del territorio
sammarinese dipendeva esclusivamente dai suoi residenti che, armati
come era possibile, e con un minimo di addestramento, sono da sempre
stati i veri militi della Repubblica di San Marino.
Negli statuti del 1320 vi è la testimonianza che i Sammarinesi
provvedevano da soli ad organizzarsi in milizie cittadine per
difendere il loro paese. D’altra parte il XIV fu il secolo in cui il
comune di San Marino riuscì ad acquistare sempre maggiori autonomie,
liberandosi dal dominio del vescovo del Montefeltro che, nei secoli
precedenti, era stato colui che, in nome di Roma, aveva detenuto il
potere politico sui Sammarinesi e la loro zona. E’ piuttosto ovvio,
dunque, che nei primi statuti sammarinesi giuntici, ovvero quelli
redatti tra le fine del Duecento e gli inizi del secolo successivo,
ancora molto legati alla figura e al dominio del vescovo, non si
parli di milizie. Probabilmente anche in precedenza i Sammarinesi
provvedevano all’autodifesa in qualche modo, visto che si era già
sviluppato un sistema di fortificazioni; tuttavia, secondo logica,
l’evoluzione e l’organizzazione delle milizie dovette andare di pari
passo con lo sviluppo del comune e di quella coscienza sociale che è
risultata fondamentale per l’evoluzione di una coscienza statale, e
per la nascita del concetto di Repubblica di San Marino, concetto
che non a caso si evolve dal XV secolo in avanti. In definitiva si
può senz’altro ritenere che la strutturazione delle milizie
cittadine sammarinesi sia un chiaro segno della volontà autonomista
e comunitaria (poi statale) dei Sammarinesi, alla pari di altri
segni analoghi, come l’elaborazione e continua rielaborazione degli
statuti, e l’accrescimento del territorio.
Nei tempi più antichi il servizio delle milizie era in genere legato
soprattutto alle cosiddette custodiae, ovvero la guardia costante
del territorio per controllare chi vi entrava e chi vi circolava, in
particolare durante momenti di turbolenza nel circondario, o di
grande afflusso di gente, come poteva essere durante i mercati
settimanali che si tenevano ogni mercoledì in Borgo, o le fiere
annuali, capaci di attirare tanta gente a San Marino per la sua
collocazione strategica tra mare ed entroterra, quindi in un luogo
dove potevano affluire merci di ogni genere e provenienza. A tale
servizio si dedicavano tutti i maschi, che erano però divisi in
truppe scelte più attive ed impegnate, chiamate cernae, e truppe di
riserva, chiamate dupli, composte appunto da soldati ausiliari che
servivano in genere ad integrare chi era assente, svolgendo in
pratica il ruolo di militi supplenti facilmente reperibili. Gli uni
e gli altri venivano iscritti in appositi ruoli, e accorrevano ogni
volta che veniva dato l’allarme ad batocchium tramite la campana
grande. Chi non lo faceva veniva multato, tranne coloro che avessero
impedimenti reali ed insuperabili, così come veniva punito chi non
avesse fatto bene la guardia.
Se queste prime norme statutarie che ci sono giunte documentano la
volontà del comune di proteggersi tramite la strutturazione di una
difesa efficiente, testimoniano altresì una buona dose ancora di
inesperienza e di relativa approssimazione, perché in un’altra norma
degli stessi statuti si esplicita chiaramente che i Reggenti
potevano decidere sia di giorno che di notte chi fosse tenuto a
svolgere le attività militari in questione, lasciando intendere, in
definitiva, che l’organizzazione era ancora poco capillare,
senz’altro meno di quanto si possa ipotizzare grazie ad altre norme
dello stesso statuto, e priva di quegli automatismi che acquisirà
invece nel corso dei tempi successivi.
E’ presumibile, dunque, che la creazione dei ruoli di cui si è detto
e l’organizzazione delle milizie in genere si sia avviata con le
norme statutarie del 1320, ma abbia poi richiesto tempi più lunghi
per la messa in opera sistematica e rigorosa. E’ facile pensare che
anche prima di tale data esistessero regole e consuetudini con cui
gestire la milizia cittadina, ma non ci sono giunti documenti in
grado di attestarcelo con sicurezza. Comunque è impossibile che San
Marino si fosse dotato di rocche e fortificazioni senza prevedere un
sistema di militi in grado di presidiare la comunità o quantomeno di
accorrere in caso di attacco o bisogno.
Le milizie erano composte da uomini tenuti a prestare la loro opera
gratuitamente. Fin dal XIV secolo vi sono tracce anche di qualche
milite prezzolato al loro interno, ma in genere non erano mercenari
di professione, bensì militi locali che per la gravosità dell’opera
prestata ricevevano un compenso dalla comunità. Sempre per il XIV
secolo sappiamo di sei militi, definiti stipendiarii proprio perché
ricevevano uno stipendio per la loro opera, preposti alla
sorveglianza della seconda e della terza torre. Non dovevano
possedere doti particolari; dovevano però essere buoni, idonei ed
amanti del buono, retto, pacifico e tranquillo stato di tutto il
Comune e degli uomini di San Marino.
Gli stipendiarii erano tenuti a custodire e salvaguardare in ogni
modo possibile le due torri, dove dovevano dimorare in continuazione
senza mai allontanarsene salvo che con il permesso esplicito dei
Reggenti. Le norme statutarie che ci forniscono queste informazioni
ci permettono di comprendere come il sistema difensivo non fosse
basato su un servizio continuativo dei militi, se si eccettuano quei
pochi che, facendolo a tempo pieno, ricevevano un salario, ma fosse
occasionale, cioè prestato solo in caso di necessità o di
addestramento.
Di questa epoca remota ci sono giunti alcuni documenti che
permettono di capire abbastanza bene l’organizzazione delle milizie
sammarinesi, che nel corso di tali secoli particolarmente
problematici e pericolosi per la Repubblica venne via via
affinandosi diventando sempre più meticolosa. Infatti fin dai primi
anni del Trecento le autorità locali compilavano un apposito
registro, denominato libro cernarum, ovvero registro di chi veniva
scelto, in cui erano scrupolosamente annotati tutti i nomi dei
maschi compresi tra i 14 e i 60 anni di età, ritenuti abili e quindi
obbligati a prestare servizio militare, residenti in territorio. Un
funzionario era preposto a mantenere costantemente aggiornato tale
registro. All’occorrenza gli uomini idonei, in genere a turno, erano
destinati a svolgere i due principali servizi che la milizia
dell’epoca prestava in tempi normali, cioè quando non si era in
guerra: la custodiam, ovvero servizio di sentinella e di guardia, e
la cernam, ossia servizio di pattugliamento.
Grazie a documentazione del 1365 è possibile capire che all’epoca
veniva tenuto anche un altro registro (libro custodiarum) in cui
erano scrupolosamente indicati i nomi dei militi destinati di volta
in volta ad essere di vedetta (guaitam), o di guardia (custodiam)
lungo le mura. In pratica, grazie a questi accurati elenchi,
possiamo comprendere che nulla era lasciato al caso: chi doveva
prestare servizio lo sapeva per tempo, conoscendo pure a quale
servizio era comandato, perché molto probabilmente gli elenchi
redatti con i nominativi di coloro che dovevano essere in servizio,
e le mansioni che dovevano svolgere, venivano affissi in pubblico,
diventando facilmente consultabili da tutti, o forse già all’epoca
vi era qualcuno preposto ad avvisare i singoli uomini dei loro
impegni militari, come succederà nei secoli successivi. Chi invece
gestiva l’insieme dei militi aveva un quadro preciso di coloro che
erano tenuti a fornire prestazioni militari a vantaggio del comune,
e di quale servizio dovessero fornire.
Tra l’altro l’organizzazione era più minuziosa ancora, perché tutti
i nominativi registrati erano divisi in manipoli di 10/12 uomini,
chiamati cerne. Ogni cerna aveva un proprio numero e un capitano,
cosicché un milite sapeva sempre in quale cerna doversi adunare, e a
quale superiore dover rispondere. Le cerne erano dunque strumenti
agili, mobili, facilmente radunabili e gestibili, e permettevano di
avere in un istante sott’occhio l’intera situazione della milizia in
generale e di ogni singolo milite in particolare. Infatti accanto ai
singoli nomi dei militi venivano annotati vari simboli specifici,
detti punctationes, che indicavano a chi gestiva l’organizzazione
militare i servizi resi o da rendere da quel particolare membro
della milizia cittadina. Questo ovviamente permetteva una certa
equità tra tutti i militi, e faceva sì che ognuno contribuisse alla
pari degli altri ai servizi da prestare, o, in caso contrario,
subisse la pena prevista. Lo stesso sistema veniva utilizzato anche
con i dupli, ovvero i militi di riserva, sempre per garantire
l’equità tra tutti. E’ probabile, tuttavia, che questa
organizzazione che prevedeva una decina di uomini per ogni cerna
abbia preso vita nella maniera detta solo a partire dagli inizi del
Quattrocento, mentre in precedenza alcune sporadiche informazioni
pervenuteci ci fanno intuire che le cerne dovevano essere più
numerose (17 – 20 militi), e gestite con meno puntiglio, anche se in
merito abbiamo solo deduzioni e non certezze per la scarsa
documentazione che ci è giunta da quei lontani secoli.
Tutti i militi, dunque, erano garantiti da una certa equità di
trattamento; anche i pochi letterati del paese dovevano offrire il
loro apporto alle milizie senza godere di particolari privilegi. Nel
1392, per esempio, venne multato il notaio Ser Giovanni di Bono per
non aver fatto la guardia nottetempo.
Il servizio, come già si è detto, non prevedeva per la maggior parte
dei militi alcun compenso, ma a volte venivano assunti per qualche
tempo militari esperti e di mestiere provenienti da fuori territorio
che percepivano invece un salario, come Ser Agnolo da Frontino, che
nel 1457 ricevette in paga cinque soldi e dieci danari per il suo
impegno a favore della comunità. Anche nel 1480 venne dato un
compenso in denaro a sei gruppi di uomini tenuti a far la guardia
hognie notte bene e diligentemente, forse perché tale servizio era
particolarmente gravoso e non ben accetto ai militi. Comunque è
certo che il comune non poteva permettersi economicamente di
compensare le centinaia di uomini tenuti al servizio militare, per
cui quelle indicate rimangono eccezioni abbastanza contingenti in un
quadro di obbligatorietà gratuita.
D’altronde fino a tempi abbastanza vicini a noi i Sammarinesi erano
stati costantemente abituati a fornire la loro opera gratuitamente a
vantaggio della comunità. Per fare qualche esempio, si può dire che
quando franavano o comunque si deturpavano le strade, erano coloro
che abitavano nei loro pressi che dovevano riassettarle
gratuitamente. Per secoli, inoltre, vi fu l’obbligo di donare alla
comunità alcune giornate lavorative non retribuite per la
costruzione o ristrutturazione delle infrastrutture pubbliche. Chi
si rifiutava doveva pagare la giornata lavorativa a qualcun altro
che lavorasse al suo posto. Vi era, insomma, una mentalità
comunitaria ben marcata su cui le autorità facevano gran conto per
far fronte ai bisogni del comune, senza dover sborsare denaro di cui
in genere non si disponeva, mentalità che è facilmente
rintracciabile fino alla prima metà del XIX secolo. Le entrate dello
Stato, infatti, basate esclusivamente su alcune tasse indirette
applicate a beni di largo consumo, e su qualche altro modesto
balzello ancora, erano talmente misere da non consentire forti spese
in nessun settore, nemmeno per la protezione militare. Da qui
l’esigenza di un’organizzazione attenta delle milizie cittadine che
in qualche maniera doveva servire a compensare la non
professionalità dei militi che le componevano.
I servizi cui erano preposti i soldati dei secoli che stiamo
esaminando erano quelli legati al pattugliamento quotidiano, detto
cernas grossas, che impegnava una cerna prescelta a giri di
sorveglianza dall’alba al tramonto nei luoghi considerati
particolarmente a rischio, e ad uno notturno, chiamato cernas parvas.
L’altro servizio quotidiano e notturno che veniva svolto era quello
più statico di custodia alle porte d’ingresso del paese, alle mura,
in piazza, nella rocca e nei luoghi maggiormente elevati o
strategici del paese.
Ovviamente vi erano sempre attività di sorveglianza costante anche
nei confronti dei mercati settimanali e delle fiere, per il grande
afflusso di gente proveniente da tutte le parti, o in occasione di
feste e manifestazioni religiose particolarmente importanti. In
queste situazioni i militi erano armati di tutto punto per evitare
tumulti e disordini facili a scoppiare per la rudezza dei tempi e
delle persone. Vi sono testimonianze, però, che ci fanno comprendere
che le cerne potevano essere utilizzate anche per pulire le strade
ed i luoghi preposti ad ospitare gli eventi in questione, sempre per
quello spirito comunitario di cui si è detto, ma anche perché fino
alla fine dell’Ottocento San Marino non potrà disporre di spazzini
pubblici.
Per quanto concerne l’armamento dei militi in questi secoli in cui
ancora non esistevano armi da fuoco, si sa che il comune sammarinese
disponeva di una discreta armeria che veniva ampliata frequentemente
con l’acquisto di armi nuove. Infatti una norma statutaria del 1339
prevedeva che ogni Reggenza dovesse far acquistare a spese del
comune una balestra per arricchire almeno due volte l’anno, con
un’arma per l’epoca importante e costosa, la pubblica armeria.
Inoltre i militi disponevano anche di “rotelle”, una sorta di scudi
metallici circolari con la stessa funzione che hanno oggi gli scudi
utilizzati dalla polizia in caso di repressione di baraonde.
Probabilmente allora come oggi i militi disponevano di manganelli
(forse rudi bastoni) o di altri strumenti contundenti con cui agire
in caso di bisogno, protetti naturalmente dalle loro “rotelle”. Da
alcuni documenti dell’inizio del ‘400 che ci sono pervenuti appare
chiaro che all’epoca ben 70/75 militi armati di balestra erano in
servizio presso il mercato settimanale per prevenire problemi, tutti
dotati di rotelle.
I militi comunque dovevano spesso provvedere da sé al proprio
armamento, perché durante le adunate o i momenti di pericolo avevano
l’obbligo di mettere a disposizione della comunità le loro armi
private e, per chi non possedeva altro, gli strumenti di lavoro che
potevano essere usati come armi (forconi, accette, ecc.) Chi non
adempiva ai suoi obblighi militari veniva multato o, in caso di
disubbidienza particolarmente grave, imprigionato per qualche
giorno. Un’infrazione piuttosto ricorrente era legata al sonno in
cui molti militi piombavano durante il loro servizio di
sorveglianza. D’altronde occorre tener presente che costoro erano
uomini impegnati durante il giorno in altri mestieri, in genere
assai duri e difficoltosi, per cui il sonno era una conseguenza
inevitabile della stanchezza accumulata.
Altri documenti che ci sono giunti ci permettono di ipotizzare il
numero degli uomini che componevano la milizia in questi lontani
secoli, anche se, essendo deduzioni, il calcolo può non essere
precisissimo. Nel 1406, comunque, San Marino poteva disporre di
circa 220 militi, numero che aumentò in seguito fino a raggiungere i
323 uomini nel 1413. Conosciamo inoltre la dislocazione delle cerne,
raggruppate in genere per tre, lungo il paese e in Borgo, ovvero a
difesa del cuore del comune sammarinese. In un altro documento,
datato 1421, le cerne risultano essere 38 con altrettanti capitani,
segno che il numero dei militi era aumentato ancora, arrivando
probabilmente alla cifra di 400 uomini circa disponibili al
servizio.
Da una curiosa testimonianza dell’epoca, una lettera di Oddantonio
da Montefeltro del 1440, possiamo comprendere che l’efficienza delle
milizie cittadine fosse a volte resa vana dallo scarso entusiasmo
che i militi dimostravano nell’espletamento del loro ruolo. Infatti
egli si lamenta che troppi uomini partecipavano mal volentieri alle
adunate, e che tale atteggiamento poteva essere pericoloso per la
Repubblica. (vedi CD) E’ ovvio che le critiche di Oddantonio si
dovevano al fatto che il servizio militare era in genere un grosso
peso, soprattutto in tempi minacciosi e di servizio prolungato, per
chi di giorno aveva altri impegni. D’altra parte gli anni in
questione furono tempi molto tempestosi per la penisola italiana e
per San Marino, per cui i militi sammarinesi dovettero essere tenuti
particolarmente sotto pressione. Soprattutto la prima metà del XV
secolo fu epoca di ampi e frequenti scontri tra signori e principi
desiderosi di ampliare domini territoriali e potere personale.
Venezia, Firenze, Milano, Roma e le altre realtà sociali che
formavano il variegato mondo politico dell’Italia dell’epoca erano
in perenne stato di agitazione tra loro, con continue guerre e
battaglie, ed uno stato di subbuglio generale a cui si mise
temporaneamente fine solo nel 1454 con la pace di Lodi. Ovviamente
anche la zona di San Marino venne coinvolta più volte dalle
agitazioni di cui si è detto, in particolare dalla volontà
espansionistica di papa Pio II, desideroso di riprendersi terre che
erano state in precedenza dello Stato Pontificio, ma che in seguito
erano cadute sotto la signoria dei Malatesta di Rimini.
Tramite richiesta ufficiale, nel 1461 Roma domandò la collaborazione
militare anche di San Marino nella guerra che stava conducendo, ben
sapendo che la piccola Repubblica da secoli era in dissidio coi
Malatesta. Vi furono però tra i Sammarinesi forti resistenze ad
intraprendere un'avventura simile, considerata troppo dispendiosa e
pericolosa. Per tale motivo inizialmente San Marino si limitò a
prestare qualche scarno aiuto e un marginale appoggio,
particolarmente alle armate di Federico d'Urbino, alleato anch’egli
del papa, senza entrare direttamente in battaglia. Alla fine del
mese di settembre del 1462, però, le truppe papaline riuscirono a
porre sotto assedio la città di Rimini, dove Sigismondo aveva fatto
ritirare l'intero suo esercito. La resistenza che il Malatesta
riuscì ad opporre fu tanto caparbia da rendere vani tutti i
tentativi di conquistare la città, per cui il papa tornò ad
insistere con decisione col governo sammarinese affinché si
decidesse ad entrare concretamente in guerra al suo fianco. A questo
punto i Sammarinesi non se la sentirono più di tergiversare, e si
decisero ad appoggiare direttamente le operazioni militari inviando
loro militi in appoggio alle operazioni militari in corso, dopo aver
sottoscritto il 21 settembre con la Santa Sede il trattato di
Fossombrone con cui s’impegnavano “di dichiarar guerra ai Malatesti
e ai loro fautori ad ogni richiesta del Cardinal d Teano, di
ricettare le genti ecclesiastiche e dei collegati, di fornire ad
esse vettovaglie e aiuti secondo le proprie forze”. Come compenso
per i servizi resi, sarebbero stati ceduti alla Repubblica i
Castelli di Montegiardino, Serravalle, Fiorentino, oltre al Castello
di Faetano, che si era già consegnato spontaneamente, più qualche
altro beneficio di natura fiscale.
Nel mese di ottobre la guerra divampò più che mai: le truppe del
papa riuscirono a conquistare la maggior parte dei domini di
Sigismondo. Nel primi mesi del 1463 il conflitto conobbe un periodo
di tregua per colpa dell'inclemenza del tempo. Venezia approfittò di
questa pausa per cercare d'intavolare trattative di pace fra i
contendenti, così da impedire ulteriori avanzamenti dell’esercito di
Roma, senza però riuscirvi. La guerra quindi riprese: nel marzo del
1463 Federico di Urbino avvisò di stare all'erta perché da lì a poco
si sarebbero scatenati altri scontri armati, e sarebbe occorso di
nuovo il loro aiuto, come in effetti accadde. Il conflitto proseguì
per tutta la primavera e l'estate successiva, con violenti scontri,
lunghissimi assedi alle città ancora in mano a Sigismondo, in
particolare a Fano, e diverse battaglie navali. Solo tra la fine di
ottobre e gli inizi del mese successivo il Malatesta si rassegnò a
giungere ad un trattato di pace, visto che ormai non aveva più la
possibilità di risollevare le sorti della guerra a suo favore. Le
condizioni a cui dovette sottostare furono durissime: gli vennero
tolte tutte le terre di cui era signore ad eccezione della città di
Rimini e di qualche lembo di terra del suo circondario. Per l’aiuto
militare fornito San Marino ricevette i Castelli promessi, che erano
già stati conquistati prima della fine della guerra.
I militi sammarinesi avevano dunque fornito un valido aiuto alle
armate del papa e a quelle di Federico di Urbino, di cui possediamo
varie lettere in cui chiedeva proprio l’invio di fanti sammarinesi,
in soccorso alle sue truppe. A causa dei tempi e delle guerre in
atto, il numero dei militi ebbe forti fluttuazioni nel periodo,
tanto che un documento del 1441 elenca solo 29 cerne con 29
comandanti, facendo presupporre che in quell’anno i militi
sammarinesi avessero subito un sensibile calo numerico. Un altro
documento del 1498 elenca invece 32 cerne, per cui è possibile
supporre che nel corso del secolo in questione, pur con variazioni
legate senz’altro anche alle emigrazioni periodiche cui dovevano
assoggettarsi in periodo invernale i maschi sammarinesi per motivi
di lavoro, la milizia locale mediamente si aggirava ancora intorno
ai 300 uomini, forza non da poco se si valuta che all’epoca la
popolazione complessiva sul territorio era di circa 2.000/2.500
residenti. Nella seconda metà del XV secolo l’organizzazione delle
milizie iniziò gradualmente a cambiare, perché nella documentazione
che ci è pervenuta sempre più si parla di cernones, ovvero cernoni,
che erano plotoni composti da diverse cerne riunite insieme. Pare
che questi gruppi di militi, in genere formati in questo periodo da
una cinquantina di uomini comandati dai capitani più esperti tra
quelli che erano a capo delle singole cerne, venissero utilizzati in
particolare quando c’erano pericoli reali o minacce di guerra. Ogni
cernone era preposto al controllo di una certa zona (porta, rocca,
piazza, ecc.) del paese, quindi anche in questo caso i singoli
militi, quando dovevano accorrere ad un certo rintocco di campana
(che era il segnale di adunata, diverso in base al motivo
dell’adunata e a chi si doveva adunare), sapevano con precisione in
quale cernone ritrovarsi, dove, ed agli ordini di chi.
Dopo il 1463 temporaneamente le turbolenze legate alla guerra
terminarono, e San Marino poté tornare alla sua vita di sempre, pur
disponendo ora di parecchi militi più preparati ed esperti. Non a
caso uno dei mestieri a cui diversi Sammarinesi si dedicarono in
questi secoli fu proprio quello del soldato mercenario. Questo
periodo storico fu comunque per la Repubblica quello più turbolento
da un punto di vista bellico, in cui le milizie sammarinesi vennero
messe costantemente a dura prova, perché anche nel secolo successivo
San Marino ebbe notevoli preoccupazioni di indole militare. Infatti
furono vari i tentativi di invadere ed occupare il suo suolo, fatto
che mantenne in perenne stato di allarme il sistema difensivo che si
era saputo approntare e perfezionare nel corso dei secoli
precedenti.
L’epoca moderna
Il primo grave problema che San Marino dovette affrontare proprio
agli inizi del 1500 fu l’invasione attuata da Cesare Borgia che,
aiutato dal padre, papa Alessandro VI, e anche dal re di Francia,
voleva crearsi un suo principato nel centro Italia. Tra il 1499 ed
il 1501 egli conquistò Imola, Forlì, Pesaro, Cesena, Rimini e
Faenza, venendo nominato Duca di Romagna nel maggio del 1501. Questa
rapida espansione lo portò ad un certo punto in contatto anche con
San Marino, che invase e mantenne sotto il suo dominio tra il 1502 e
l’anno successivo. Purtroppo nulla si sa con precisione di come
Borgia sia riuscito a conquistare la piccola Repubblica, se per
opera di qualche inganno o attraverso cruenti ed impari scontri
armati. Comunque è presumibile che le milizie sammarinesi siano
state impegnate nella difesa del territorio e nel contrastare
l’invasione, dovendo soccombere alla maggior potenza dell’esercito
nemico. Il suo potere venne meno quando nell’agosto del 1503 morì il
papa, suo grande protettore, fatto che provocò l'immediata
sollevazione di tutte le terre che aveva sottomesso e il ritorno per
San Marino alla sua autonomia precedente.
La tragica esperienza e la paura legata all’occupazione del Borgia
dovette stimolare le autorità sammarinesi a potenziare e riformare
il sistema militare locale. Infatti grazie ad alcuni documenti
databili alle prime decadi del 1500 sappiamo che il numero dei
militi che componevano i cernoni era stato aumentato notevolmente:
infatti nel 1522 questi erano 6, mentre saranno 8 nel 1528, composti
da più di novanta uomini ciascuno, per un complessivo di 733 militi,
numero comunque particolarmente elevato che non si ripeterà più nei
documenti successivi in cui il numero dei militi non supererà mai i
660. Sappiamo inoltre che il territorio venne suddiviso in una
ventina di località presidiate ciascuna da una squadra di militi più
o meno ampia. Queste località formavano una sorta di cerchia
difensiva a protezione del cuore della Repubblica, ovvero il monte
Titano. Per tale motivo vennero dislocati manipoli di militi a San
Giovanni, Cailungo, Valdragone, Acquaviva, Teglio ecc. Le squadre
più consistenti e meglio armate erano in Città (68 uomini), Borgo
(34), Domagnano (28), Cailungo (29), ma vi erano gruppi di uomini di
poco inferiore come numero a Serravalle, Faetano e sulle vie di
comunicazione principali col riminese. Più sguarniti risultano
essere i confini verso Urbino, naturalmente perché non vi erano
grossi timori che potessero arrivare attacchi o pericoli da quella
parte. I militi dislocati nel centro storico presidiavano, come già
si è detto, i suoi punti più nevralgici e a rischio. Da un documento
del 1522 risulta che le zone più protette erano la porta del paese e
le mura che da lì si sviluppavano verso la porta della rupe, ovvero
i punti che sorvegliavano la strada proveniente dal Borgo, che erano
presidiate da tre cernoni armati con schioppetti, archibugi e
spingarde. Un cernone, sempre dotato delle armi di cui si è detto,
stava a guardia invece delle mura che si sviluppavano lungo
l’attuale Stradone. Due altri cernoni armati presidiavano le mura
che chiudevano il centro storico andando dallo Stradone all’arco
della fratta. Infine un gruppo di nove uomini più quattordici
schiopiteri era dislocato sul Pianello a guardia del palazzo
pubblico, ma anche pronto ad accorrere in ausilio agli altri militi
dove poteva servire.
Verso il 1530 l’organizzazione delle milizie sammarinesi iniziò a
modificarsi e ristrutturarsi ancora una volta. Da un documento del
1528, infatti, è possibile ricavare che ormai tutte le milizie erano
subordinate a tre capitani (Samaritano di Andrea Tini, Stanghilinus
Francisci Bellutij, GiohanBatista Bartoli Bellutij), aiutati da
sedici caporali, due cancellarij (cancellieri, ovvero funzionari
preposti a compiti di natura gestionale), un bandirario (colui che
portava la bandiera), un tamborino (tamburino). Agli ordini di
questo stato maggiore sottostavano 326 militi, ora definiti fanti,
14 uomini addetti alle artiglierie pesanti (che sappiamo composte da
1 falconetto, 5 moschetti, 8 spingarde, 1 bombardina), 19 addetti
agli archibugi da cavalletto. Scompare in pratica il concetto di
“cerna” in questo documento. In un altro scritto di qualche anno
dopo che ci è giunto tale nome verrà sostituito con “squadra”.
Altro documento assai interessante di questi anni è una sorta di
regolamento delle milizie, il primo che ci sia pervenuto, datato 24
gennaio 1539, tramite cui ci viene spiegato come all’epoca venivano
chiamati all’adunata i militi. Vi erano tre tipi di segnali cui gli
uomini dovevano obbedire e rispondere se non volevano incorrere in
sanzioni:
1. un suono breve e un suono lungo di campana avvertiva che vi era
un’adunata generale da lì ad otto giorni;
2. tre rintocchi avvisavano che vi era la necessità di un’adunata
generale entro quattro ore;
3. tre rintocchi, due spari ed un fuoco in cima alla rocca
segnalavano un allarme immediato, e tutti i militi dovevano
radunarsi subito nei luoghi precedentemente stabiliti e noti a
ciascuno, altrimenti avrebbero dovuto pagare una multa salata e
subirsi tre giorni di prigionia.
Lo stesso documento è interessante perché ci permette di capire che
in quel momento le milizie sammarinesi si avvalevano della
collaborazione di 30 mercenari, chiamati “lance spezzate”,
probabilmente assunti per aiutare e istruire alle armi ed al
combattimento gli uomini di San Marino in una fase storica
particolarmente turbolenta e di seria minaccia all’incolumità della
Repubblica. Le lance spezzate restarono in territorio sammarinese
per diversi anni. Inoltre pare che già in quell’anno venisse imposta
una sorta di divisa ai militi, o comunque un abbigliamento
caratterizzante, perché nello stesso scritto che ci fornisce tutte
queste informazioni si dice che entro il 15 agosto tutti dovessero
procurarsi le armi ed i panni che li sono stati imposti.
La grande vivacità militare che si registra in questo periodo è
legata ai fatti storici che la Repubblica di San Marino ha dovuto
subire, soprattutto nella prima metà del 1500. Infatti dopo la
caduta di Cesare Borgia, Venezia s’impossessò per qualche anno di
Rimini, e San Marino temette di poter subire guai da un vicino tanto
potente. Per questo organizzò meglio le sue milizie, ma si premurò
anche di chiedere ed ottenere rassicurazioni dallo Stato Pontificio,
che nel 1509 garantì la sua protezione. Il 3 giugno 1516 fu Lorenzo
de Medici che, sempre tramite lettera, professò amicizia per i
Sammarinesi, che temevano per le loro sorti perché egli aveva
occupato militarmente Urbino. Alla sua morte però, nel 1519, tutto
tornò come prima, anche se Firenze rimase ancora padrona di Maiolo e
San Leo fino al 1527.
Politicamente i tempi rimasero assai pericolosi ed in costante
evoluzione anche in seguito, perché tutti i signorotti italiani,
cercando di approfittare della situazione di forte instabilità
esistente nella penisola a causa delle ripetute invasioni che
stavano avvenendo per opera di potenze straniere, cercavano di
ampliare i propri domini. Il 4 giugno 1543, senza che la cosa fosse
stata preannunciata da nulla, Fabiano da Monte, nipote del cardinale
Giovanni Maria Ciocchi da Monte, allora governatore di Romagna e
futuro papa Giulio III, in combutta col castellano di Rimini e con
l'aiuto di 500 fanti e di un contingente di uomini a cavallo, tentò
d'invadere la Repubblica. Le due parti dell'esercito che aveva
organizzato non riuscirono però a ricongiungersi nel tentativo di
accerchiamento del paese, pare per una provvidenziale nebbia che
aveva reso problematica la visuale. Il fatto diede l’opportunità ed
il tempo ai Sammarinesi di schierare le milizie cittadine e
l'avventura fallì.
Nel 1549 vi fu un altro tentativo d'invasione, questa volta da parte
di Leonardo (o Lionello) Pio, signore di Verucchio, contro cui
inviarono aiuti militari, che si assommarono naturalmente ai militi
sammarinesi, il duca Guidobaldo di Urbino e il conte Fabrizio del
Bagno, signore di Montebello, timorosi della nascita di una nuova e
minacciosa signoria sui loro confini, e desiderosi quindi di
mantenere gli equilibri preesistenti. L’avventura di Leonardo Pio,
pur rientrando nella logica tipica di molti signori dell’epoca di
volersi creare un principato personale o di voler potenziare quello
di cui erano già proprietari, può spiegarsi anche con i lunghi e
spesso sanguinosi dissidi che da tempi immemorabili esistevano tra
Verucchio e San Marino per motivi di confine. E' probabile infatti
che in tempi antichi una zona sui confini di Verucchio appartenesse
a San Marino, zona che venne poi persa nel corso del tempo per
qualche motivo. Con le guerre vinte contro i Malatesta, i
Sammarinesi si erano convinti di essersi riappropriati anche dei
diritti su queste terre, ma il trattato che li premiava con
l’ampliamento del loro territorio in alcune sue parti era ambiguo e
la cessione di tali terre di confine non ben specificata, per cui
gli abitanti di Verucchio ne contestarono il passaggio di proprietà.
Scoppiarono dunque ostilità a volte violente, con battaglie, atti di
guerra e morti tra i soldati sammarinesi, in questo periodo tenuti
in continuo stato di allerta, e quelli di Verucchio per la
definizione dei confini. Il 1541 fu l'anno più velenoso della lunga
controversia ed entrambi i contendenti si misero a preparare una
vera e propria guerra. Nel 1543 si riuscì a giungere però ad una
pace ridefinendo i confini secondo le pretese di Verucchio; in
compenso San Marino ottenne vantaggi di natura fiscale
nell'estrazione dei prodotti agricoli dai terreni collocati sotto la
giurisdizione di Verucchio. Le polemiche tuttavia non si assopirono
e le tensioni rimasero ben vive anche in seguito, fino al tentativo
d’invasione di cui si è detto, ed anche oltre, ma per fortuna non
feroci come negli anni precedenti. Come conseguenza di questo
ulteriore tentativo fallito, nel 1549 vennero stipulati nuovi patti
di protezione con Urbino, e nel Consiglio del 10 novembre di quell’anno
si stabilì il rinforzo delle mura difensive. Alla fine del secolo
vennero poi varate limitazioni all'ingresso di stranieri in
territorio, e norme più rigorose per ottenere la cittadinanza
sammarinese.
Probabilmente fu tutta questa agitazione ai confini e le minacce dei
tempi, nonché le velleità di un personaggio aggressivo come Lionello
Pio, che indussero i Sammarinesi ad attuare altre riforme anche nel
loro sistema militare, pur lasciandolo sempre riservato per lo più
ai cittadini maschi della Repubblica. Da un documento molto
particolareggiato che ci è rimasto, datato 4 giugno 1543, risulta
che in quel momento l’insieme delle milizie era composto da 661
uomini. Tra tutti i militi vennero selezionati 250 uomini
particolarmente prestanti ed abili nell’uso delle armi, scelta che
venne compiuta da una figura nuova per le milizie, o almeno mai
rintracciata nei documenti precedenti: il “Maestro de l’arme”,
ovvero uno specialista delle armi. In pratica questo manipolo di
militi era una sorta di corpo d’elite che aveva come compito
prioritario la cosiddetta “guardia principale”, ovvero la vigilanza
attenta e meticolosa del paese e del territorio. Questi militi
scelti vennero divisi in 10 squadre, che in certe occasioni potevano
divenire 5 riunendosi a due a due, agli ordini ognuna di un capo e
di un suo vice chiamato “compagno”. Ogni squadra aveva un numero
progressivo e di ciascuna facevano parte anche tre soldati
mercenari. Gli altri uomini vennero divisi in 10 cerne, adibite
sempre agli antichi compiti di guardia e sentinella, anche se erano
mansioni più facili e generiche di quelle riservate ai soldati più
abili. Le squadre di militi scelti avevano l’obbligo di fare a turno
anche la guardia nottetempo. Partendo dalla numero 1 e giungendo
sera dopo sera alla numero 10, ogni squadra aveva il dovere, quando
era il suo turno, di ritrovarsi in piazza prima della botta de hora
23, ovvero prima che venisse segnalato l’inizio della ventitreesima
ora della giornata, che corrispondeva all’ultima ora di luce. In
caso di necessità e dietro un segnale di avviso prestabilito, le
squadre dovevano presentarsi non singolarmente, ma accoppiate (la 1
con la 2, la 3 con la 4 e così via). Il turno di guardia durava
tutta la notte e terminava all’alba, dopodichè la squadra doveva
presentarsi nuovamente compatta prima di sciogliersi.
Accanto alla squadra di militi scelti ed esperti, operavano anche le
cerne composte dai militi che non erano stati selezionati tra i 250:
costoro venivano controllati e guidati nei loro compiti dalla
squadra di fanti scelti. Per muoversi di notte, o eccezionalmente
per uscire o entrare dalle porte del paese, che venivano chiuse con
le tenebre e riaperte solo con la luce del giorno (le chiavi delle
porte erano custodite dal capo della squadra di militi scelti),
veniva stabilita una parola d’ordine segreta che cambiava ogni
giorno. Gli uomini di sentinella dovevano stare attenti a percepire
ogni rumore sospetto ed inusuale, per dare eventualmente l’allarme
battendo un tamburo ed accendendo alcune torce predisposte alla
rocca per segnalare il pericolo. Il tamburo veniva pure utilizzato
per avvisare il paese che era iniziata la guardia e la ronda
notturna, e per battere la albanata, ovvero l’avviso di fine della
guardia quando cominciava ad albeggiare. Prima di sciogliere le
righe vi era un altro compito da espletare da parte del capo
squadra: doveva inviare una pattuglia di tre o quattro militi
all’esterno delle varie porte del paese per verificare che non vi
fossero malintenzionati pronti ad agguati o attacchi.
Con la luce solare non terminava comunque la vigilanza sulla
comunità. Infatti tutti i militi che, pur essendo in armi dentro il
paese come riserve in caso di bisogno, non fossero intervenuti in
azioni di alcun genere, venivano divisi in tre gruppi ed inviati a
presidiare le tre porte principali d’ingresso al paese: la porta del
locho, ovvero quella che oggi chiamiamo la porta del paese, la porta
della ripa e la cosiddetta porta nova, una porta che oggi non c’è
più perché è stata incorporata nel teatro Titano. Soprattutto di
mercoledì, giorno di mercato e quindi di maggior afflusso di
stranieri in territorio, ai militi era raccomandata estrema
vigilanza. Le chiavi delle porte venivano anche di giorno custodite
dai capisquadra dei plotoni in servizio.
Le milizie erano armate ovviamente, ed anche la storia delle loro
armi merita di essere velocemente narrata. Quando il comune non
aveva ancora un’organizzazione dettagliata, è lecito presupporre che
gli uomini si armassero individualmente con ciò che si potevano
permettere, in particolare con forconi e strumenti agricoli di uso
quotidiano. Con il consolidarsi del comune, invece, prese piede
l’idea di creare e mantenere un’armeria ben organizzata, fatto che
viene documentato dagli statuti del XIV secolo. Infatti nella norma
aggiuntiva promulgata il 7 febbraio del 1339 si specifica che i
Reggenti dovevano preoccuparsi, prima della fine del loro mandato
(anche all’epoca semestrale) di far acquistare alla comunità una
robusta balestra pienamente funzionante, ovvero dotata di tutto il
necessario per essere subito efficiente. Chi non lo avesse fatto
avrebbe perso il compenso che gli spettava per il servizio reso nel
semestre, cifra che poi sarebbe servita proprio per acquistare la
balestra. Pur nella sua imprecisione, la norma permette di intuire
che dovevano essere due le balestre che ogni anno il comune
acquistava. Da un documento del 1406 si intuisce che la pubblica
armeria doveva avere in quel momento un minimo di 75 balestre da
fornire ai militi preposti a far la guardia durante il mercato,
numero che non sappiamo se fosse solo parziale rispetto alle
balestre realmente possedute. Accanto alle balestre, sicuramente il
comune disponeva di parecchie “rotelle”, ovvero scudi che servivano,
come già si è detto, sempre come armi di difesa. Da un altro
documento privo di data, ma che ritenuto della fine del XIV secolo,
si ricava che la pubblica armeria poteva mettere a disposizione dei
militi, oltre a balestre e rotelle, anche spade, elmi, lance,
qualche arco ed altre armi ad asta, non in grande quantità, a parte
le spade che risultano essere più di ottanta, ma in numero tale da
dare ad ogni milite uno strumento di difesa, che forse veniva
integrato sempre da altri strumenti ed armi che i singoli portavano
con sé al momento dell’adunata. In questo documento appaiono per la
prima volta anche un paio di armi da fuoco: una bombarda ed uno
schioppetto, armi private messe in quell’occasione a disposizione da
due cittadini delle milizie. Un altro documento ancora della seconda
metà del Quattrocento c’informa che ormai le armi da fuoco avevano
cominciato a prendere piede pure tra le milizie sammarinesi. Infatti
accanto a balestre ed armi non a fuoco, i soldati risultano avere a
disposizione 68 archibugi (ma la maggior parte era di proprietà non
comunitaria), 41 schioppetti, 6 schioppi.
Con gli statuti del Seicento San Marino sentirà l’esigenza di
ammodernare la sua armeria, per cui l’obbligo di acquistare balestre
di cui si è detto si tramuterà in obbligo di acquistare archibugi.
Da altri documenti successivi si evince che la Repubblica via via
continuò a dotarsi di armi a fuoco. Vi fu, naturalmente, il
contemporaneo graduale abbandono delle balestre e delle armi usate
dalle milizie più antiche. Con lo sviluppo delle armi da fuoco, poi,
vi fu l’evolversi all’interno delle milizie di un gruppo scelto di
uomini con funzioni di artiglieri, ovvero di militi capaci e
specializzati nel manovrare e far funzionare le artiglierie in
dotazione. Non era un corpo distaccato, ma soltanto un gruppo di
militi con abilità in più rispetto agli altri, utilizzati quindi per
questa loro perizia. A metà Cinquecento gli uomini assegnati
all’artiglieria, pesante o leggera che fosse, risultano essere
complessivamente 87, di cui 83 addetti ai pezzi di cui si disponeva
all’epoca e quattro con funzioni di assistenza e approvvigionamento.
Questi soldati non erano esentati dai servizi di guardia, cioè erano
militi a tutti gli effetti. Venivano esentati solamente nel caso
dovessero predisporre e mettere in funzione l’artiglieria.
La riforma del 1543 non ebbe vita lunga, ma alcune novità
introdotte, come l’utilizzo delle “lance spezzate”, cioè di soldati
professionisti, la suddivisione in squadre e l’istituzione di un
comando generale caratterizzarono anche in seguito le milizie
sammarinesi. Tuttavia l’epoca delle cerne e dei cernoni si concluse
proprio con la riforma del ’43. Purtroppo per gli anni successivi
occorre lamentare una forte carenza di documentazione, fatto che non
ci permette di capire adeguatamente la composizione e l’operato
delle milizie dopo la riforma di metà ‘500, anche se è ipotizzabile
che l’attività militare da sbrigare non dovette essere molto diversa
da quella usuale dei secoli passati, così come i numeri dei militi
non dovettero subire grosse variazioni, perché fino all’Ottocento la
popolazione sammarinese rimarrà abbastanza statica come numero
demografico, subendo solo lievi variazioni legate ai periodi più o
meno prosperi. Ci è pervenuto un elenco del 1547, di tutti i fanti
sammarinesi e dei raggruppamenti di cui facevano parte, da cui
risulta che le squadre erano in tutto dieci, composte mediamente da
20/23 uomini, ognuna comandata da due capi squadra. Oltre a questi
uomini vi era un distaccamento di 37 militi destinati a presidiare
Serravalle, comandati da un certo “Fator” e da Ceccho di Milano,
probabilmente un soldato di professione, e qualche altro
distaccamento destinato a presidiare Montegiardino e Faetano.
Complessivamente gli uomini che componevano all’epoca le milizie
risultano essere quindi da tale documentazione ancora circa 300. Da
altri scarni documenti di questi anni si può desumere che le milizie
sammarinesi disponevano di un reparto, senz’altro molto
circoscritto, di artiglieri, e, novità più importante, che era stata
istituita, o comunque era in fase d’istituzione, la figura del
“Capitano delle Milizie”, un comandante supremo, cioè, sottoposto
alla sola Reggenza, che andava a sostituire i vari capi delle
milizie precedenti, anche se in documentazione del 1565 questi capi
militari risultano ancora esservi.
Nella seconda metà del Cinquecento, comunque, varie volte nel
Consiglio dei LX emerse la volontà di riformare e migliorare
ulteriormente le milizie per timore di nuove aggressioni da parte
degli Stati confinanti, e la creazione della figura del “Capitano
della Fanteria”, ovvero di un unico comandante supremo, può
considerarsi una delle principali innovazioni del periodo.
Inoltre in quegli anni venne fatta una precisa differenziazione tra
i militi preposti alla “guardia”, ovvero al pattugliamento serale e
notturno, svolto da parte di otto uomini armati nei momenti di minor
pericolo, o quando i timori di insidie erano maggiori da venti, che
all’occorrenza venivano aiutati da altri 40 o 50 uomini, che si
possono considerare guardie di riserva, e i militi di “ordinanza”,
ovvero gli uomini non preposti a compiti polizieschi, ma solo
militari. D’altronde non vi era seduta consigliare in cui non si
parlasse a lungo della guardia che le squadre di militi dovevano
svolgere. Intorno a metà secolo vennero elette anche commissioni
“sopra la provisione del la Guardia Guerra et Governo pertinente
alla Guerra et sospetti” preposte cioè a vigilare attentamente nei
momenti di possibile minaccia. In alcuni Consigli dell’epoca ci si
lamenta che la guardia non era sempre svolta nella maniera migliore
e per questo più volte vennero emanati bandi e norme per ottenere
dai soldati il massimo impegno possibile. Nel 1581 venne assunto
come capitano supremo delle milizie Franceschino Marioni da Gubbio,
il quale si mise all’opera per migliorare il sistema militare
sammarinese e soprattutto il servizio di guardia. Dieci anni dopo la
carica di capitano unico venne affidata al sammarinese Pier Marino
Cionino “con autorità di creare con li S.Ri Cap.ni l’altri officiali
di d.a militia”. Uno di questi ufficiali nominato nel 1594 fu
Vincenzo Mucceli, a cui vennero assegnati “dieci soldati che debbino
ogni notte continuamente scorrere dietro alla muraglia et parimenti
il giorno de mercore a far guardia alle porte et parimenti il giorno
delle fiere”.
Del 1596 ci è giunto un importante documento, un ruolo delle milizie
elaborato proprio da Cionino, da cui sappiamo che esistevano altri
funzionari militari mai prima rilevati, forse istituiti da non
molto: il cappellano, il luogotenente, il depositario, il
cancelliere, i tamburi, i sergenti, tutte figure funzionali ad una
migliore organizzazione sia burocratica ed amministrativa, che
prettamente militare. Complessivamente alla fine del secolo in
questione le milizie cittadine risultano composte da 1 comandante
generale, 8 ufficiali, 2 tamburi, 22 lance spezzate, 23 caporali e
539 uomini iscritti nei ruoli. Le “lance spezzate” godevano ancora
di una posizione importante nelle milizie, ma erano state ridotte al
numero di 22; i militi erano ordinariamente divisi in squadre di una
ventina di uomini circa, che venivano dislocate fra 19 località del
territorio. Ogni squadra era comandata da un caporale ed in alcune
località, come Città, dove stazionavano due squadre di 20 e 26
uomini più le 22 “lance spezzate”, o in Borgo, dove vi erano 45
uomini, sostavano più squadre. Ovviamente vi era il bisogno di
presidiare soprattutto i luoghi più delicati o pericolosi della
Repubblica: non a caso a Serravalle erano dislocate ben tre squadre,
per complessivi 80 militi circa, e a Faetano due squadre, con circa
una cinquantina di militi, a testimonianza che i pericoli maggiori
si temevano da quelle zone di confine. Inoltre è chiaro che la
difesa del territorio veniva ormai concepita con logica più globale,
e non riservata prevalentemente alla cosiddetta “Terra”, cioè alla
zona più centrale della Repubblica, come era stato nei secoli
precedenti. Sappiamo che dopo Cionino fu eletto capitano supremo
Gio. Andrea Belluzzi, nel 1614, e Marchionne Maggi Belluzzi nel
1622.
Con gli statuti editi nel 1600 si tentò finalmente di dare una
rigorosa codificazione al sistema militare sammarinese. La lunga
rubrica XXXVII del Libro I è interamente incentrata sul capitano
delle milizie, figura che con questi statuti viene ufficializzata, e
le milizie stesse. Vengono dettagliati gli obblighi del capitano e
dei soldati, con relative pene per le mancanze. (vedi CD) Accanto a
questa rubrica, possiamo brevemente riassumerne un’altra legata al
discorso che si sta af-frontando, ovvero la rubrica numero LIII,
sempre del Libro I, che stabiliva i compiti dei prefetti
dell’armeria pubblica. Costoro dovevano essere eletti ogni anno dal
Consiglio e avevano come compito quello di accudire con la massima
diligenza l’armeria pubblica e di far esplodere qualcuno dei
“maggiori istrumenti guerreschi” a Natale, a Pasqua ed in altre
festività stabilite “in segno di al-legrezza”. Ovviamente erano
coloro che distribuivano le armi ai militi nei momenti opportuni.
Un’altra figura militare di cui abbiamo traccia nella rubrica XLV di
questi statuti è il castellano della rocca, che tra i diversi
compiti da sbrigare aveva anche quello di “invigilare e far la
guardia e suonare la campana per svegliare le guardie nella Terra,
secondo il costume antico sempre fin qui osservato”. La vigilanza
doveva essere continua; addirittura bastava che notasse “qualche
persona a cavallo o a piedi eccedente il numero di due” per essere
obbligato a dare l’allarme battendo la campana a martello. Compiti
analoghi li aveva anche il castellano della rocca di Serravalle
(rubrica XLVII).
Gli statuti del ‘600 erano stati elaborati a conclusione di un
secolo molto problematico per San Marino che, come si è visto, aveva
subito vari tentativi d’invasione ed era quindi stato indotto ad
investire nelle milizie e nell’armamento parecchie energie e denaro.
Le varie riforme che si sono analizzate furono senz’altro il frutto
principale della turbolenza dei tempi, e probabilmente vennero
stimolate dal desiderio di avere la maggiore efficienza con il minor
costo possibile, perché, come sempre, San Marino non poteva
permettersi sperperi e spese eccessive neppure per difendersi. Le
norme di tali statuti tengono ovviamente conto di tale realtà
storica e sociale, ma nel secolo successivo le cose cambiarono
notevolmente, ed anche l’organizzazione militare ed il bisogno
stesso di mantenere perennemente allerta squadre di militari
sammarinesi mutarono in base a tale nuovo quadro storico. Il
Seicento per la penisola italiana fu infatti sempre periodo di
guerra e di costanti movimenti di truppe, per cui anche San Marino
ogni tanto temette di dover far fronte a qualche problema di natura
bellica. All’interno del Consiglio in più occasioni si deliberò di
rafforzare ulteriormente le mura e le porte d’ingresso del paese,
che venivano regolarmente chiuse al calar del sole, e di prestare
particolare attenzione ad eventuali movimenti sospetti e soprattutto
nottetempo, quando il paese poteva essere più vulnerabile non solo
per attacchi di natura militare, ma anche da parte di bande
organizzate di malviventi che all’epoca erano minaccia reale ed
estremamente pericolosa.
Vi sono altre tracce documentali che testimoniano come vari
Sammarinesi abbiano fatto parte, in qualità di soldati, delle truppe
pontificie o di altri eserciti. Pare anche che qualcuno abbia
combattu-to contro i turchi, che in questo periodo premevano per
invadere l’Europa occidentale. Tuttavia, a parte questi episodi e
qualche altro timore di indole militare, la guerra non coinvolse la
piccola Repubblica, che nel Seicento non subì alcun tentativo
d’invasione, com’era invece accaduto nel secolo precedente. Questo
stato di maggiore tranquillità incise sulle sue milizie cittadine
che, proprio perché cittadine, erano composte da uomini che gli
addestramenti, le adunate, le guerre le facevano per necessità e
dovere, non certo per passione. Tra l’altro anche il quadro politico
nel corso del secolo mutò. Infatti vi fu l’estinzione della dinastia
dei duchi d’Urbino, che tanto peso avevano avuto nella sopravvivenza
e nella formazione dell’autonomia di San Marino. Già nel 1603 il
duca, non avendo eredi, aveva scritto ai Sammarinesi per comunicare
che egli stava facendo passi per raccomandare la Repubblica al papa
affinché la prendesse sotto la sua protezione, senza alterarne però
la sovranità. Infatti, in caso d’estinzione del suo casato, il
ducato di Urbino sarebbe dovuto passare sotto il controllo della
Santa Sede, e San Marino non avrebbe più potuto godere della
protezione che fin lì lo aveva preservato. Nell’aprile del 1603 papa
Clemente VIII accettava la proposta di divenire protettore della
Repubblica anche a nome dei successori, gratificandola inoltre di
alcuni benefici, soprattutto di natura economica, non richiesti,
purché i Sammarinesi si dimostrassero sempre “riverenti, devoti,
fedeli”. Questo atto, che verrà poi riconfermato da Urbano VIII nel
1627, si dimostrerà fondamentale per garantire i futuri rapporti tra
San Marino e Santa Sede, ma darà adito anche a pericolose ambiguità
interpretative legate al concetto di protezione, perché Roma non
considererà mai la Repubblica completamente indipendente, come lei
invece si reputava, ma solo autonoma per sua concessione e
privilegio, quindi soggetta ad essere vigilata in maniera molto
stretta. Nel 1605 il problema della devoluzione del ducato parve
risolversi grazie alla nascita, inaspettata ormai, di Federico
Ubaldo, il tanto bramato erede del duca Francesco Maria Della
Rovere. Costui, tuttavia, morì presto, nel 1623. Nel 1631 si spense
anche suo padre, per cui San Marino dovette effettivamente
abbandonare la secolare protezione degli amici urbinati, che così
bene li aveva garantiti, per affidarsi a Roma.
I Sammarinesi si trovarono dunque interamente circondati dallo Stato
Pontificio con cui erano stati intelligentemente sottoscritti per
tempo patti di amicizia: per tale motivo non dovettero preoccuparsi
più di tanto dei pericoli che fino a quel momento potevano
provenirgli soprattutto dalle zone che prima erano state dominio dei
Malatesta, poi della stessa Roma. Questa diversa situazione politica
fece sì che San Marino si rilassasse militarmente nel corso del
secolo, senza comunque abbandonare del tutto la vigilanza sul
territorio. Il 28 giugno 1643, per fare un esempio, il Consiglio,
timoroso di possibili attacchi militari, vista la situazione di
guerra in cui si trovavano le terre confinanti con la Repubblica,
stabilì una maggiore guardia da parte dei militi alle porte del
paese, così come ingiunse a tutti i cittadini di armarsi di
moschetti per fronteggiare eventuali pericoli. Tuttavia, a parte
sporadici episodi come quello a cui si è accennato, dalla scarsa
documentazione che ci è pervenuta relativa ai problemi militari
dell’epoca si può ricavare che San Marino in questo secolo fu molto
meno meticoloso nella sua organizzazione militare rispetto ai secoli
precedenti, anche se continuò a mantenere in vita le sue milizie con
le antiche funzioni di guardia e prevenzione da eventuali attacchi,
e poliziesche durante i mercati e negli altri momenti di maggior
bisogno.
D’altra parte è anche logico che in tempi di pace duratura la
cittadinanza vedesse il servizio militare come un disturbo delle sue
faccende quotidiane, quindi tendesse a fare pressioni sulle autorità
per evitare la continuità di un impegno ormai poco necessario e
perciò poco sentito e accettato. Ciò non toglie, comunque, che il
servizio militare cittadino, pur in maniera meno attiva, continuasse
a funzionare ugualmente, soprattutto perché San Marino versava
sempre in condizioni economiche precarie e ai limiti della semplice
sopravvivenza, per cui non aveva possibilità di assumere personale
militare professionistico in numero tale da accudire alla Repubblica
al posto dei suoi residenti. Abbiamo testimonianze dell’attività
della milizia durante le cerimonie, o quando sfilavano in parata in
onore di qualche importante personaggio in visita, come accadde nel
1622 quando in paese arrivò il cardinale Orsini, o nel 1631 per il
cardinale Spada. Possediamo anche testimonianze, però, che ci
permettono di capire che per i più l’impegno militare in quel
momento storico era proprio un peso, tanto che nella seduta
consigliare del 17 aprile 1611 si dice testualmente che “non si
trovavano uomini che volessero vegliare la notte e guardare le porte
li giorni di mercato”. Il modesto contributo in denaro che veniva
dato alle milizie era ricavato da una tassa che si faceva pagare
“per uscio”, da cui erano esenti solo coloro che non possedevano
casa. Pur con meno entusiasmo, anche nel ‘600, comunque, continuò la
solita guardia da parte delle milizie nel territorio, nei mercati ed
alle porte di Città e Borgo quando vi erano presunti pericoli legati
a presenze nel circondario di bande o individui indesiderati, come
potevano essere anche gli zingari, o in momenti in cui vi erano
epidemie di peste. Un momento particolarmente critico fu quello in
cui morì il Duca di Urbino: subito vennero attivate squadre militari
di vigilanza per evitare sorprese. Per il secolo in questione è
possibile citare un altro ruolo del 1° gennaio 1692, intitolato
“Lista e Ruolo di Soldati che hanno ottenuta la licenza di portare
la pistola ad uso di Romagna per tutto il territorio della
Repubblica di San Marino”, da cui si evince che all’epoca San Marino
poteva annoverare ancora tra i suoi militi circa 220 uomini,
utilizzati come sempre per i servizi di guardia e pattugliamento su
tutto il territorio, in particolare nei Castelli più a rischio.
Il Settecento non ebbe le stesse tranquille caratteristiche del
secolo precedente, dimostrandosi anzi età particolarmente
travagliata, con un’invasione consumata da parte del cardinale
Giulio Alberoni tra il 1739 e il 1740, ed altri problemi nella sua
seconda metà di cui si parlerà. Ovviamente tali fatti ebbero
ripercussioni dirette sulla vita militare locale che, pur allentata
per i motivi detti, aveva comunque conservato tradizione, cultura e
metodologie messe a punto nel corso del tempo. La vicenda legata
all’Alberoni è ben nota: il cardinale, che era un alto funzionario
dello Stato Pontificio con ufficio a Ravenna, approfittando di una
situazione particolare che si era venuta a determinare all’interno
della Repubblica, il 17 ottobre 1739 vi entrò pacificamente con
alcuni suoi accompagnatori; poi subdolamente fece venire da Rimini e
Verucchio qualche centinaio di soldati pontifici che, ai suoi
ordini, occuparono militarmente il territorio sammarinese con
l’intenzione di soggiogarlo per conto di Roma. Il giorno 18 la
Repubblica era già completamente nelle mani delle truppe del papa.
Per qualche mese essa fu tenuta sotto stretto controllo e la sua
indipendenza pareva proprio terminata per sempre. Nei mesi iniziali
del 1740, invece, il papa decise di porre termine all’invasione
restituendo il 5 febbraio la sovranità alla Repubblica.
Il grave episodio, avvenuto in pratica senza colpo sparare, fece
comprendere alle autorità sammarinesi che San Marino non poteva
permettersi rilassamenti militari di alcun genere, anche se le cose
apparentemente erano calme, perché le insidie alla sua libertà ed
alla sua esistenza autonoma erano sempre presenti. Nel marzo del
1740, appena conclusosi l’episodio alberoniano, i Reggenti Marino
Enea Bonelli ed Alfonso Giangi proposero dunque al Consiglio di
creare un nuovo corpo militare, composto da 12 uomini scelti
all’interno della milizia per la loro fedeltà e rettitudine, col
compito di stare a guardia del Palazzo Pubblico durante le riunioni
del Consiglio. Qualche mese dopo, il 15 gennaio 1741, il governo
sammarinese approvò un regolamento che disciplinava il nuovo
manipolo militare: nasceva così ufficialmente la Guardia del
Principe, ovvero l’attuale Guardia Nobile, che all’epoca si chiamava
in tale maniera perché il Consiglio si definiva Principe e Sovrano.
I militi della Guardia del Principe godevano di qualche lieve
privilegio e avevano licenza di porto d’armi per tutto il territorio
eccetto che nei luoghi sacri, durante le feste ed alla presenza di
alcune autorità. Nel marzo del 1741 il Consiglio provvide a
dettagliare ulteriormente l’organizzazione del nuovo corpo militare.
Qualche anno dopo venne fondato un altro corpo militare, sempre
ricavandolo dalle milizie tramite un’altra scelta di una dozzina di
uomini: la “Squadra di Soccorso”, ovvero l’attuale Guardia di Rocca.
Nella seduta consigliare del 28 luglio 1754 fu stabilito che il
castellano della rocca dovesse nominare un ufficiale subalterno in
grado di sostituirlo in caso di assenza e coadiuvarlo nel comando di
una squadra di militi, appunto la costituenda squadra di soccorso,
che risulta ben equipaggiata con uniformi ed armi fin dalla sua
costituzione, e che, almeno stando al suo nome originario, doveva
essere una squadra ausiliaria di pronto intervento in caso di
necessità. La nascita di questi due nuovi corpi militari fa capire
che i Sammarinesi desideravano avere sempre pronte alcune squadre di
soldati in caso di pericoli come quello corso durante l’episodio del
cardinale Alberoni. Lascia però anche intendere che il raduno delle
milizie, per quanto ben organizzato grazie a secoli di esperienza,
richiedeva tempi tali da essere troppo macchinoso in caso di
invasione repentina ed inaspettata come quella consumata
dall’Alberoni.
Nonostante la nascita dei due nuovi corpi militari, comunque, le
milizie cittadine continuarono ad adunarsi periodicamente e a
ottemperare alle loro tradizionali mansioni di guardia e
pattugliamento, così come all’occorrenza seguitavano a svolgere
mansioni poliziesche. Uno di questi episodi, che merita di essere
raccontato, avvenne nel 1737, ed è uno degli antefatti
dell’invasione del cardinale Alberoni. Ci viene narrato da Carlo
Malagola nel suo volume “Il cardinale Alberoni e la Repubblica di
San Marino”. Si voleva arrestare Marino Belzoppi del Borgo perché
ritenuto colpevole di aver congiurato contro il governo sammarinese.
A tale scopo erano stati provvisoriamente assunti alcuni “sbirri”,
come venivano chiamati all’epoca i poliziotti professionisti, che
agli ordini del bargello di cui disponeva San Marino dovevano
arrestare il ricercato, che era appartenente a famiglia potente e
disponeva di alcuni “bravi”, una sorta di guardia del corpo privata
dell’epoca, a sua difesa. Un giorno fu teso un agguato a Belzoppi, e
gli vennero esplosi contro alcuni colpi di archibugio che lo
ferirono in varie parti del corpo senza però ucciderlo. Egli riuscì
a barricarsi in casa da dove i suoi bravi iniziarono una battaglia a
colpi di archibugiate con gli sbirri. Il violento scontro in atto
indusse a suonare le campane per far accorrere i soldati delle
milizie cittadine. Inizialmente nessuno si mosse (e questo lascia
intuire quanto si fossero rilassati i costumi militari dei
Sammarinesi) eccetto i principali ufficiali delle milizie stesse. Il
loro esempio incoraggiò altri soldati ad accorrere, così venne
bloccata tutta la zona attorno alla casa di Belzoppi, dove ancora
infuriava la lotta a base di archibugiate. Per prendere il ricercato
gli sbirri con i soldati cominciarono praticamente a demolire la
casa dov’era rifugiato. Questo indusse Belzoppi insieme a Salgaredo,
il suo bravo più fedele, a fuggire attraverso una via segreta che
passava per la cantina della casa e a rifugiarsi nella vicina chiesa
di Sant’Antimo, luogo immune in cui i soldati non potevano entrare
senza il permesso del vescovo. Aveva tentato la fuga anche un altro
bravo, un certo Mazzotti di Sant’Arcangelo, ma era stato colpito a
morte da un’archibugiata. I soldati circondarono la chiesa; nel
frattempo venne inviato un messo al vescovo per ottenere il permesso
di catturare i ricercati all’interno della chiesa. Dopo due giorni
in cui il Borgo continuò ad echeggiare di schioppettate il permesso
arrivò, così i soldati con gli sbirri entrarono in chiesa ed
arrestarono Belzoppi. Stranamente il vescovo non volle dare il
permesso anche per Salgaredo, per cui egli rimase all’interno della
chiesa presidiata e circondata dai soldati che ebbero l’ordine di
prenderlo vivo o morto in caso ne fosse uscito. Questo episodio
lascia chiaramente comprendere che anche nel Settecento le milizie
cittadine mantenevano ancora una loro efficienza ed una loro precisa
funzione all’interno della società sammarinese, del tutto simile a
quella avuta nei secoli precedenti, anche se non sappiamo con
precisione per carenza d’informazioni in proposito quale
organizzazione fosse sopravvissuta rispetto a quella meticolosa che
abbiamo visto soprattutto nel XVI secolo.
Sulle funzioni poliziesche della milizia abbiamo parecchie altre
testimonianze anche per gli anni a venire, segno certo che questa
ormai, più che la difesa delle mura o l’allerta per eventuali
invasioni, era il suo compito principale. Un altro episodio
interessante in cui soldati della milizia vennero utilizzati con
funzioni di polizia, questa volta accanto ad un distaccamento di 30
uomini inviati dallo Stato Pontificio, avvenne nel 1786. Infatti in
Borgo si era da tempo rifugiata una banda di malviventi, capeggiata
da un certo Tommaso Rinaldini (detto Mason dla Blona), che
puntualmente faceva scorrerie sul territorio pontificio per rubare e
depredare, rintanandosi in seguito ogni volta in Repubblica dove i
soldati papalini non potevano entrare, e dove le locali autorità
erano impotenti a risolvere il problema con le sole forze militari e
poliziesche di cui la Repubblica poteva disporre. Nel giugno del
1785 il cardinal Valenti Gonzaga, Legato di Romagna, aveva chiesto
ufficialmente ai Reggenti di provvedere ad espellere tale banda, ma
l’impresa non si dimostrò facile perché la Re-pubblica in quel
momento non disponeva di mezzi in grado di impaurire una banda ben
organizzata e decisa come quella del Rinaldini. Nel 1786, dunque, si
decise di consentire lo stazionamento temporaneo di un presidio
pontificio di trenta soldati in Borgo, fatto che permise, nel giro
di pochi mesi, di debellare la banda di malviventi e di espellerla
dal territorio. Arrivati i soldati del Vaticano, San Marino affiancò
loro un suo manipolo di trenta militi scelti, agli ordini di Filippo
Belluzzi, mettendo nel contempo altri uomini ancora a presidiare le
principali porte di Città, per evitare che la banda del Rinaldini
potesse rifugiarsi nella zona più fortificata ed inespugnabile del
territorio.
L’epoca contemporanea
Dalla scarsa documentazione che ci è pervenuta per l’epoca che
stiamo esaminando risulta sempre che le milizie cittadine
continuavano a venire adunate periodicamente come in passato,
senz’altro per svolgere mansioni analoghe a quelle di sempre, anche
se è lecito pensare che la loro azione fosse meno continua di una
volta, perché altrimenti non si spiegherebbe l’esigenza di ricorrere
all’ausilio di sbirri prezzolati o soldati di Roma nei momenti di
maggiore trambusto. Sappiamo da un ruolo del 1788 che ci è pervenuto
che in quell’anno le milizie sammarinesi erano composte da 449
uomini agli ordini di un comandante (il nobile Raffaele Gozi), un
tenente (il nobile Giacomo Begni), un alfiere (il nobile Marino
Leonardelli), 4 sergenti, di cui uno definito dei moschettieri, 23
caporali, 23 sotto caporali. Inoltre le milizie disponevano in quel
momento di un cassiere, un segretario, un furiere, un sotto furiere,
un tamburino, un paggio del comandante, un avvisatore dei sergenti
(che aveva la funzione di notificare ai militi il momento
dell’adunata), un avvisatore delle lance spezzate, che risultano
essere otto, due avvisatori generali. Quindi una certa
organizzazione, addirittura aggiornata rispetto al passato da
funzionari nuovi, come il paggio del comandante, che è figura legata
alla cultura nobiliare che a San Marino prese piede soprattutto nel
corso del Settecento, rimaneva in vita, probabilmente per far fronte
ad eventuali emergenze, e rimarrà attiva con le stesse funzioni
anche nel secolo successivo. Tuttavia vedremo che sempre più la
Repubblica entrerà nella logica di assumere e mantenere in servizio
gendarmi di professione, senz’altro perché diventerà via via più
difficile pretendere dai suoi cittadini servizi militari complessi e
prolungati.
Altre tracce dell’attività delle milizie le ritroviamo negli ultimi
anni del secolo, quando San Marino, come tutta l’Europa, venne
investito dal ciclone Napoleone. I contatti con i Francesi avvennero
nei primi mesi del 1797. Furono per fortuna rapporti amichevoli e
rispettosi quelli voluti da Napoleone verso San Marino, tuttavia la
cultura illuminista importata dalle truppe del giovane generale
stimolò un gruppo di giovani sammarinesi a contestare il governo
locale e a pretendere varie riforme legate alle ideologie
dell’epoca, ma anche al desiderio di un ritorno alla tradizione
repubblicana di San Marino, che si era attenuata con l’introduzione
della nobiltà e lo sviluppo di una gestione oligarchica del paese da
parte delle famiglie più influenti nel corso dei secoli XVII e XVIII.
Le contestazioni di questi giovani “giacobini”, come verranno in
seguito definiti, scoppiarono tra i mesi di aprile e maggio del ’97,
e durante l’estate s’infiammarono sempre più arrivando ad assumere
toni perentori e minacciosi verso i governanti della Repubblica e lo
stesso Consiglio. Addirittura questi giovani, convinti di poter
portare con la loro azione un ordine nuovo a San Marino, arrivarono
a strapazzare nella fiera di luglio un milite che era di pattuglia
in Borgo, mansione che veniva ancora regolarmente svolta come nei
secoli addietro, perché secondo loro non svolgeva il suo compito al
meglio. La spavalderia di questo gruppo di contestatori indusse ad
un certo punto i governanti a reagire con l’arresto dei capi della
contestazione, avvenuta per opera dei locali militi, sempre
comandati da Raffaele Gozi, nel mese di agosto, e la creazione di
una Guardia Civica in data 5 settembre 1797, formata da soldati
scelti delle stesse milizie cittadine, per garantire la sicurezza
pubblica in Città e Borgo, e forse perché in quei giorni circolava
insistente la voce che stesse per avvenire un assalto alla prigione
per liberare chi era stato catturato. La Guardia Civica venne
comunque sciolta da lì a breve, il 18 agosto 1799, quando tutta la
vicenda “giacobina” si era ormai spenta e le cose erano tornate alla
normalità di sempre, ma sarà ripristinata temporaneamente cinquant’anni
dopo, quando la Repubblica si ritroverà nuovamente in un periodo di
forti agitazioni interne, ma di questo si riparlerà fra non molto.
Per quanto concerne l’Ottocento, si possono fornire altre notizie
sulle milizie. Nel 1808 il coman-dante Raffaele Gozi, che abbiamo
già incontrato in precedenza, chiese ed ottenne di poter rinunciare
alla sua carica dopo 25 anni di onorato servizio. Il Consiglio
accettò le dimissioni fornendogli anche un premio in denaro come
buona uscita, ma lo si pregò di attendere la nomina di un
successore. Non fu facile tuttavia trovare un degno sostituto
disposto ad assumersi tale gravoso incarico, così la nomina tardò ad
arrivare fino al Consiglio del 14 agosto 1813, quando venne
incaricato come nuovo comandante generale Camillo Bonelli, che un
mese dopo volle come suo aiutante maggiore Lorenzo Gozi.
L’organizzazione delle milizie del periodo la conosciamo grazie ad
un ruolo datato 1814 che ci è giunto e che ci permette di capire che
nei giorni compresi tra il 16 e il 20 agosto di quell’anno vennero
tenuti dei “mostrini”, ovvero delle adunate di tutta la milizia per
un controllo generale. Oltre al comandante e al suo aiutante
maggiore, i soldati avevano ai loro vertici un capitano, un tenente,
un sottotenente, un alfiere e altre figure simili a quelle che
abbiamo già visto con il ruolo del 1788. A volte venivano introdotti
piccoli cambiamenti nelle figure a capo delle milizie, cambiamenti
legati alla cultura dei tempi o ad esigenze contingenti, tuttavia la
loro struttura generale anche in questa prima fase dell’Ottocento
rispecchiava quella già vista. Le milizie erano formate invece da
cinque squadre di “moschettieri”, probabilmente uomini dotati di
moschetto, ovvero di fucili dell’epoca, composte mediamente da una
ventina di uomini, che venivano dislocate nei Castelli di Città,
Serravalle, Faetano, Montegiardino e Domagnano, per un totale di 110
uomini. Accanto a tali soldati operavano 22 squadre di fanteria per
complessivi 331 uomini.
Degli anni seguenti ci sono giunti altri ruoli che ci permettono di
capire che l’organizzazione delle milizie in questo periodo non
venne a subire variazioni degne di rilievo. Da un ruolo del 1816,
infatti, risultano esservi sei squadre di moschettieri, per un
complessivo di 93 militi, e 19 squadre di fanteria, per un totale di
270 uomini circa. Nel 1819 sappiamo che vi erano sempre sei squadre
di moschettieri, per un totale di 107 uomini, e 19 squadre di fanti,
con un numero simile a quello di tre anni prima. Gli stessi numeri,
con qualche lieve differenza (108 moschettieri, 240 fanti) ci
vengono confermati anche da un ruolo del 1820, da cui si capisce che
le milizie sammarinesi venivano in certe occasioni ancora dislocate
su tutto il territorio, come già si è visto, con una concentrazione
particolare a Serravalle, ovvero sul confine con il riminese, dove
stazionavano ben quattro squadre di fanti ed una di moschettieri,
per un totale di 64 uomini più qualche graduato (caporali e
sottocaporali) che li comandava. Nel ruolo del 1821 registriamo
qualche mutamento rispetto a quelli precedenti: infatti ora vi sono
4 squadre di moschettieri, 2 di granatieri (di Montegiardino e
Domagnano), tipo di militi così definiti per la prima volta, e le
solite 19 squadre di fanti che annoveravano nelle loro fila 248
uomini. Nel ruolo del 1822 però i granatieri non sono più
menzionati, perché si torna alla usuale definizione di moschettieri
per tutte le sei squadre, mentre continuano ad essere sempre 19 le
squadre di fanti, comprensive di 266 militi.
Può apparire strano che per lunghi anni non vi siano documenti che
ci indichino con precisione numeri ed attività delle milizie, ed
improvvisamente, come per gli anni appena menzionati, si trovino
invece parecchi ruoli piuttosto dettagliati. Sicuramente questo può
dipendere da vari fattori, tuttavia teniamo conto che gli anni in
esame furono piuttosto turbolenti per San Marino a causa dei moti
risorgimentali che cominciavano a infiammare la penisola italiana e
il circondario sammarinese, e per l’utilizzo che veniva fatto del
suo territorio da parte di chi fuggiva dal fallimento di tali moti
cercando di salvare la pelle nascondendosi in un paese considerato
più sicuro di altri. Abbiamo già visto che la milizia ebbe più o
meno vigore attraverso i secoli, pur rimanendo sempre viva, in base
ai maggiori o minori pericoli che correva la Repubblica di San
Marino a causa di quanto le succedeva attorno, per cui la più
cospicua documentazione che dobbiamo registrare in questo periodo
può dipendere proprio da una più rilevante attività delle squadre di
soldati.
E’ da tener presente, tuttavia, che, cambiando comandante generale,
possono essere cambiate im-provvisamente anche attività, metodologie
ed entusiasmi relativi alle milizie. D’altra parte alcuni indizi
ricavati dai verbali del Consiglio dell’epoca possono lasciare
intuire che il comandante Bonelli sentiva con grande slancio e
partecipazione il suo ruolo e i doveri che aveva verso i soldati.
Nel Consiglio del 18 settembre 1813, per citare uno di questi casi,
Bonelli contrastò una decisione della Reggenza, che aveva stabilito
di recarsi in una casa del Borgo per assistere alla fiera
accompagnata dalla Guardia del Principe, affermando che la vigilanza
durante mercati e fiere spettava alle milizie, ed offrendo un
picchetto di soldati “con divise e tutt’altro occorrente” a
vantaggio della Reggenza. Il Consiglio decise però che tale compito
fosse proprio della Guardia del Principe e tacitò le contestazioni
del Bonelli.
Qualche anno dopo, inoltre, Bonelli si scontrò nuovamente con il
comandante della Guardia del Principe Luigi Giannini. Recita il
verbale della seduta consigliare del 4 giugno 1816: “ L’EE LL.
esposero al Generale Consiglio la controversia insorta tra il Sig.
Commandante della Milizia e quel-lo della Guardia del Principe per
ragione che i Soldati della prima volevano aver luogo nelle
Pub-bliche Funzioni di Chiesa, al chè opponevansi il Sig.
Commandante della Guardia. E benché fossero chiesti due sentimenti
ad un Generale della Corte d’Austria e ad altro Generale della Corte
di Napoli, i voti de’ quali furono letti nella Generale Adunanza,
pure per non essere questi conformi, non poterono comporsi le
Parti”. Ovviamente venne presa una risoluzione: “Il General
Consiglio mostrò grave rincrescimento di tale controversia, e doppo
varij arringhi esternò il desiderio suo che l’affare venisse
conciliato dalla prudenza dei due rispettabili Commandanti dell’uno
e dell’altro Corpo colla mediazione di una Deputazione seguita
mediante le infrascritte Nomine”. In realtà la diatriba tra i due
comandanti andò avanti ancora a lungo: infatti solo nel Consiglio
del 19 luglio 1918 si evidenziò che erano state “sopite tutte le
differenze insorte tra gli Ufficiali tanto nella Guardia del
Principe che nella Milizia con reciproca soddisfazione”.
Per gli anni successivi ci è giunto un ruolo datato 1831 su cui
merita soffermarsi un po’ di più perché ci fa comprendere che era
avvenuto qualche mutamento nelle milizie cittadine. Innanzitutto era
cambiato il comandante, ora il nobile Giuliano Malpeli, nominato nel
Consiglio del 15 marzo 1831, ed erano cambiati molti uomini dello
stato maggiore dietro richiesta dello stesso Malpeli, perché fino
alla seconda metà dell’Ottocento la nomina di nuovi ufficiali
avvenne su indicazione del solo comandante. Inoltre nel ruolo si
parla ormai solo di fucilieri e granatieri, venendo a scomparire
così le denominazioni di moschettieri e fanti con cui erano
qualificati in precedenza i militi. Non si sa con precisione quali
differenze sussistessero tra granatieri e fucilieri. Forse era solo
una differenziazione legata all’esperienza dei militi riuniti in
squadre più o meno abili, con le più esperte preposte al presidio
dei Castelli più importanti, e le meno esperte negli altri, o forse
la diversità di denominazione dipendeva dagli armamenti in adozione.
In effetti le squadre di granatieri, che furono a loro volte
suddivise in granatieri di Città, di Borgo e di campagna, vennero
distribuite in Città, Piagge, Serravalle, Faetano, Montegiardino e
Domagnano, ovvero nelle zone considerate più a rischio, mentre alle
19 squadre di fucilieri vennero riservati gli altri Castelli, anche
se diverse andarono ad affiancare i granatieri nelle località
suddette. Serravalle, per fare un esempio, ovvero il Castello che
veniva ritenuto il più bisognoso di salvaguardia, visto che il
confine col riminese era considerato sempre quello più a rischio,
aveva a sua difesa 18 granatieri più quattro squadre di fucilieri
per un complessivo di 70 militi. Faetano, altro Castello di confine,
era vigilato da 20 granatieri più due squadre di fucilieri con 39
uomini.
E’ ovvio che tale distribuzione dipendeva dai nuovi pericoli cui la
Repubblica era soggetta, non tan-to per una eventuale invasione da
parte di qualche Stato estero, quanto per i problemi che aveva con i
fuoriusciti politici, che si rifugiavano in continuazione
all’interno dei suoi confini, e le bande di malviventi, che
scorazzavano ancora per il territorio pontificio utilizzando a volte
il suolo sammarinese da nascondiglio come già aveva fatto Mason dla
Blona. Nel Consiglio del 16 settembre 1831 si parlò di volere
utilizzare alcune squadre di militi contro ladri e malviventi che
infestavano il territorio sammarinese in numero maggiore che in
passato. Venne per questo presentato un progetto per ridurre ad uno
solo gli “esecutori”, che erano funzionari al servizio del
tribunale, e utilizzare i soldi risparmiati per “rendere attive
alcune Squadre di soldati, che veglino alla comune sicurezza”.
Evidentemente si voleva dare un rimborso ai militi per i loro
servizi straordinari, per cui occorreva rimediare un po’ di denaro.
Non sappiamo se effettivamente venne licenziato qualcuno per
rimediare i soldi in questione, tuttavia nel Consiglio del 9
febbraio 1832 fu decretato “un annuo fisso assegnamento pel servigio
che in varie circostanze richiedesi dalla Milizia”, ovvero 90 scudi
che, pur non essendo cifra alta, era sufficiente a riconoscere in
qualche modo la fatica degli uomini che si sarebbero prestati ai
servizi richiesti. Vedremo fra breve che nel 1836 si entrerà nella
logica di assumere alcuni gendarmi professionisti e di ridurre i
soldi dati alle milizie per i servizi di natura poliziesca.
Altro fatto che si può citare, perché sempre legato al discorso che
si sta svolgendo, è l’assunzione provvisoria, per motivi di
convenienza, della carica di castellano, ovvero di custode della
rocca, da parte del comandante delle milizie sancita dal Consiglio
del 6 maggio 1832, funzione che, come si ricorderà, lo statuto del
Seicento aveva resa autonoma da qualunque altra carica. Nel novembre
del 1834, tuttavia, tale mansione verrà nuovamente assegnata ad un
funzionario specifico. Grazie a questa sua nuova carica, l’anno
seguente il comandante delle milizie organizzò la ristrutturazione
della prigione fatiscente e malsana presente all’interno della rocca
perché il Consiglio era giunto alla deliberazione che non bisognava
considerare “le Carceri siccome luogo di supplicio, ma solo di
custodia dei rei”.
Sempre per parlare di altri fatti relativi alla milizia accaduti in
questo periodo, si può dire che il 28 agosto del 1831 ebbe formale
nascita la banda militare, composta in quel momento da 20 musicisti,
tramite l’incorporamento nelle milizie di una banda musicale che già
esisteva. Purtroppo poco si sa dell’attività della banda nei suoi
primi anni di vita, attività che dovette essere sporadica e soggetta
a scarse regole. Infatti il 6 giugno 1843 il Consiglio tornò a
decretare che la banda dovesse essere uni-ta al corpo delle milizie,
come se tale accorpamento non fosse mai avvenuto o se ne fosse persa
memoria. Un mese dopo venne ufficializzato il primo regolamento
della banda, in cui si stabiliva che dovesse essere soggetta al
comando generale delle milizie, e venivano fissati gli obblighi
milita-ri cui doveva sottostare, le feste nazionali in cui doveva
fornire la sua opera e altre norme ancora. Nel 1879 tale regolamento
venne rielaborato, ma senza stravolgere la logica della normativa
prece-dente, e sempre ribadendo l’aspetto militare della banda
stessa.
Col successivo ruolo che ci è pervenuto, datato 1833, ci vengono per
la prima volta fornite informa-zioni e curiosità sui singoli militi.
All’epoca vi erano nove squadre di granatieri, per un complessivo di
159 militi, e sempre 19 squadre di fucilieri, con un totale di 344
uomini. I granatieri erano composti prevalentemente da possidenti e
benestanti, mentre pochi erano i contadini. Questi invece
diventavano la maggioranza tra i fucilieri. Molti erano inoltre i
volontari che avevano aderito alle milizie spontaneamente senza
esservi stati iscritti d’autorità. La maggioranza dei militi aveva
un’età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma vi erano anche sedicenni ed
ultra sessantenni.
Nel ruolo successivo che ci è rimasto, del 1834, vengono elencate
ancora nove squadre di granatieri, suddivise sempre per Castelli
come già si è visto, e 19 squadre di fucilieri. Col ruolo del 1836
il comandante Malpeli suggeriva di nominare un capitano, un tenente
ed un sotto tenente per la compagnia dei fucilieri, in quanto
riteneva ormai inadeguato mantenere tale compagnia agli ordini di un
semplice sergente maggiore coadiuvato da altri 4 sergenti semplici.
Il suggerimento venne accolto e l’innovazione fu applicata. Anche i
granatieri, che comprendevano in quel momento 168 uomini, subirono
una trasformazione nel comando. Infatti in precedenza le loro nove
squadre erano comandate da un sergente con caporali e sotto
caporali. Invece nel 1836 troviamo ai vertici di tali squadre
militari 4 sergenti, ognuno dei quali comandava alcune squadre
raggruppate. Appare in questo ruolo anche la figura del furiere.
Una legge sulla caccia promulgata il 28 agosto 1836 ci permette di
comprendere che le milizie svolgevano ancora importanti compiti di
polizia. Infatti l’articolo 10 di tale legge recita: “La forza
pubblica, e specialmente le Squadre di Campagna sono incaricate
della più esatta vigilanza per sorprendere i Forestieri ed
arrestarli quando siano trovati a cacciare senza l’opportuna
patente, od in tempi proibiti, e conseguiranno la metà della multa
inflitta in Scudi dieci”.
Nel 1841 si provvide a fornire le milizie di un nuovo quartiere
presso la Parva Domus, spostandolo da palazzo Mercuri, sede
precedente. Di questo periodo possediamo varie informazioni sui
corpi militari sammarinesi che ci vengono fornite da un amico ed
estimatore aretino della Repubblica, Oreste Brizi, all’interno di un
suo opuscolo del 1842 intitolato “Quadro storico – statistico della
serenissima Repubblica di S. Marino”. Egli ci dice che all’epoca le
milizie cittadine erano composte da circa 800 uomini, tra cui alcune
compagnie, i “Granatieri” ed i “Cacciatori”, dotate di “uniforme
turchino con rovesce bianche”; le squadre venivano distribuite su
tutto il territorio. “Queste compagnie accudiscono a tutto –
c’informa Brizi -, e i loro distaccamenti prestano servizio nelle
feste e fiere, nei mercati e teatri, disimpegnando anco le funzioni
di polizia, specialmente per ciò che riguarda gli straordinari giri
notturni, le straordinarie perlustrazioni campestri, e il prestar
man forte ai due Messi incaricati delle basse funzioni, e ai due
Militi di Polizia che hanno l’uniforme di color grigio-ferro con
filettatura rossa, che servono come di ordinanze ai Capitani
Reggenti, e che in alcune particolari circostanze invigilano al buon
ordine. Il corpo più numeroso e non montato è quello dei Fucilieri
(o Riserva) disseminati per le campagne, ogni membro del quale deve
avere in proprietà uno schioppo, delle munizioni e una coccarda, e
oltre a questi in caso di bisogno ciascun cittadino capace di
portare le armi è militare. Resta ora a dirsi che la milizia
Sammarinese è sedentaria, che le Guardie della Reggenza e della
rocca, i Granatieri e Cacciatori sono equipaggiati ed armati a spese
della Repubblica, che il loro vestiario uniforme e l’armamento
stanno in deposito nei rispettivi quartieri o magazzini, che son
retribuiti a titolo d’indennità quando vengono chiamati ad un
servizio qualunque, che godono di varj privilegi ed esenzioni, che
hanno degli esercizj periodici e cinque parate annue ordinarie, di
cui due sole con emolumento, e che la loro montatura è di modello
francese, e il comando in lingua francese. E’ finalmente da sapersi
che né in San Marino né in veruna parte del suo territorio esiste un
servizio militare giornaliero, perché non ve n’è d’uopo; che per la
sorveglianza quotidiana di polizia è stata istituita una brigata di
gendarmeria composta da Toscani, e che nel giorno di San Marino (3
settembre) ha luogo il tiro al bersaglio, ove ognuno può trarre un
colpo di fucile, col premio di quattro scudi a chi mette la palla
nel centro di esso bersaglio; e che parecchi esteri sono aggregati
alle Milizie Sammarinesi in qualità di ufficiali onorarj, o in
ricompensa di cose operate a pro della Repubblica, o per meriti
personali”.
Riguardo a quest’ultima informazione, si può dire che in quel
periodo, ma anche precedentemente così come in seguito, San Marino
era solito insignire personalità importanti o amici della Repubblica
con titoli onorifici militari, all’epoca molto ambiti, come
ricompensa per i servigi resi al paese, o semplicemente in segno di
riconoscenza ed amicizia. Lo stesso Brizi, che era ufficiale del
Granducato di Toscana, era anche capitano onorario, poi divenuto
colonnello, delle milizie sammarinesi. Egli si preoccupò a lungo di
fornire suggerimenti per migliorare le squadre militari stesse,
venendo ad un certo punto nominato dal Consiglio “consultore
militare” della Repubblica. Brizi inviò vari progetti per
perfezionare le milizie cittadine di San Marino. Il primo fu del 6
dicembre 1849 in cui dava suggerimenti per razionalizzare al meglio
lo stato maggiore e le milizie stesse, nonché sul loro armamento e
vestiario, ma già in precedenza Brizi aveva inviato una serie di
lettere piene di consigli. Un altro progetto di riforma, denominato
“Osservazioni e proposizioni riguardanti le milizie sammarinesi”,
Brizi lo elaborò nel 1860; anche in questo forniva molti
ammaestramenti a vantaggio dei corpi militari della Repubblica. Per
esempio, egli si dichiarava assolutamente contrario all’arruolamento
di giovani al di sotto dei vent’anni, così come all’utilizzo di
militi con più di cinquant’anni. Proponeva poi di chiamare
“battaglione dei fucilieri” la milizia, nome che gli sembrava troppo
generico, e di semplificarla nella sua organizzazione. Brizi forniva
inoltre molti altri suggerimenti, che in parte verranno in seguito
anche adottati.
D’altra parte questi furono anni in cui le milizie cittadine vennero
tenute sotto costante pressione. Infatti le molteplici turbolenze
del periodo, legate alle sommosse risorgimentali che ogni tanto
scoppiavano attorno ai confini, con conseguente uso del territorio
sammarinese come rifugio dove nascondersi da parte dei rivoltosi,
indussero più volte il governo a spronare il mantenimento in allarme
di varie squadre militari. Nel verbale della seduta consigliare del
29 maggio 1842, per fare un esempio, si legge: “L’Ecc.ma Reggenza
rese informato il Generale Consiglio di aver dovuto prendere delle
energiche misure contro alcuni Esteri qui rifugiati, la cattiva
condotta de’ quali avea dato motivo che fossero portati più volte
reclami al Governo contro di loro, ed avere perciò fatta eseguire
l’espulsione di tre de’ rifugiati stessi, e tenuto per varij giorni
in attività alcune Squadre della Milizia tanto per assicurare
l’esecuzione delle prese disposizioni, quanto per impedire che non
fosse in questa circostanza punto turbata la tranquillità e
sicurezza pubblica.” In quel momento all’interno dei confini
sammarinesi avevano trovato asilo circa sessanta rifugiati, per cui
il problema cominciava ad essere particolarmente sentito a causa del
pericolo che questi individui potevano rappresentare, e per le
pressioni che per la loro riconsegna Stato Pontificio e Granducato
di Toscana periodicamente esercitavano sulle autorità sammarinesi
per farli arrestare.
Proprio per la problematicità dei tempi e per la difficoltà di
mantenere in continuo stato d’allarme squadre militari, sempre
perché le milizie erano formate da semplici cittadini, nel febbraio
dello stesso anno venne deciso di creare una forza di polizia
composta da cinque gendarmi professionisti, aumentati a sei qualche
mese dopo, che vennero assunti in Toscana. Per essere precisi,
occorre dire che già il 15 marzo 1836 era stato elaborato un primo
regolamento per istituire alcuni poliziotti professionisti
regolarmente stipendiati. Costoro dovevano essere due con divise
proprie e dovevano rispondere direttamente alla Reggenza perché non
inquadrati nelle milizie cittadine, quindi non sottoposti al
comandante delle stesse. Il progetto era nato dietro istanza
presentata nel Consiglio del 4 gennaio di quell’anno ed aveva anche
precisi scopi di risparmio, perché in precedenza il mantenimento in
servizio di tre “sbirri” era costato 216 scudi, mentre ora il costo
totale previsto non avrebbe superato i 178,30 scudi. Presumibilmente
vi furono problemi a dare piena esecuzione a questo progetto, perché
nel 1842 si formalizzò un altro regolamento per l’istituzione del
“Corpo dei Gendarmi della Repubblica di San Marino”. Negli anni
seguenti, fino a quando la Repubblica ebbe i soldi per mantenere
alle sue dipendenze questi uomini, i nuovi gendarmi alleggerirono in
parte le milizie di alcuni compiti di natura poliziesca,
collaborando frequentemente con le stesse a vantaggio della
Repubblica. Sempre da informazioni ricavate dai verbali del
Consiglio, per fare un altro esempio, sappiamo che in qualche
occasione i gendarmi si prestarono anche a fornire addestramenti ad
alcuni militi, e che nel 1847 pattuglie della milizia cittadina
operavano e vigilavano sia di giorno che di notte lungo tutto il
territorio al fianco dei poliziotti professionisti.
Il problema in cui si dibatteva costantemente la Repubblica in
passato era comunque la continua ca-renza di denaro, per cui anche
il corpo dei gendarmi fu mantenuto nel numero di sei finché si
riuscì a rimediare il denaro per stipendiarli, precisamente fino al
maggio del 1848, quando in Consiglio si decise di ridurre tale
numero a tre proprio per esigenze di risparmio. Qualche mese dopo,
tuttavia, solo un gendarme risulta ancora al servizio di San Marino,
segno che non vi era possibilità di mantenere in attività altri
uomini. Tale difficoltà indurrà il governo ad affiancare a quest’unico
poli-ziotto rimasto due uomini presi dalle milizie cittadine con
stipendio di 15 baiocchi giornalieri, e a ripristinare la Guardia
Civica, che già abbiamo visto in funzione cinquant’anni prima,
delegando al comando della milizia la sua organizzazione. Tuttavia
anche questa soluzione non diede buoni frut-ti, tanto che nel 1850
si tornò a ribadire che assumere altri gendarmi era una “necessità
assoluta”.
La questione dell’ordine pubblico e della vigilanza sul territorio
in questi anni era dunque molto sentita ed anche molto preoccupante,
visto che non vi erano soldi sufficienti a mantenere in armi un
gruppo di professionisti capaci di garantire la tranquillità dei
Sammarinesi. Dopo il passaggio delle truppe garibaldine alla fine di
luglio del 1849 e il loro scioglimento proprio a San Marino, le
grane e le agitazioni relative all’ordine pubblico aumentarono
notevolmente per la permanenza a lungo nella Repubblica di parecchi
uomini di Garibaldi, e per il fascino esercitato da questi ribelli
sulla gioventù locale, che comincerà sempre più a contestare i
governanti e a chiedere migliorie sociali determinando ricorrenti
stati di trambusto. Proprio per la grave situazione interna
determinatasi, il 7 ottobre 1849 venne eletto al posto dell’anziano
Giovanni Benedetto Belluzzi un nuovo comandante delle milizie,
Filippo Belluzzi, che subito si premurò di far nominare una
commissione per riformarle. L’elaborazione del progetto di riforma
fu laboriosa: infatti solo il 26 ottobre 1851 fu presentato in
Consiglio un “Progetto di Regolamento per una nuova Organizzazione
del Corpo delle Milizie” allo scopo “di tenere pronta a disposizione
del Governo una Forza attiva indispensabile al mantenimento
dell’ordine pubblico, e di regolare un servigio da prestarsi
gratuitamente dalle stesse Milizie Cittadine nell’attuale deficienza
de’ mezzi per assoldare un competente numero di nuovi Gendarmi” come
si legge direttamente nel verbale di quella seduta consigliare.
“Letto il Regolamento - prosegue - esso resta approvato in ogni sua
parte, e ne viene ordinata la pubblicazione, e onde nulla si opponga
a che sia mandato pienamente ad effetto, si dichiara sciolta
l’antica formazione del Corpo delle Milizie compresavi
l’ufficialità, ferma restante la carica di Comandante Generale nella
persona del Nob. S. D. Filippo Belluzzi. Ad esso poi fino
all’attuazione del nominato Progetto è data ogni facoltà di ordinare
il servigio che può bisognare al Governo, e di scegliere i Soggetti
che dovranno prestarlo”.
Negli anni successivi si ristrutturarono dunque le milizie
cittadine, ma nel frattempo ci si preoccupò di assumere altri due
gendarmi, probabilmente rendendosi conto che militari non
professionisti, pur potendo senz’altro fornire un importante aiuto
per il mantenimento dell’ordine pubblico, non sarebbero bastati a
garantire la tranquillità dei cittadini in momenti tanto inquieti.
Le milizie vennero riorganizzate tra il 1852 e il 1853 ricreando lo
stato maggiore in parte tramite nomina consigliare dei comandanti
supremi della milizia stessa (comandante superiore, colonnello capo,
tenente-segretario del comandante), in parte tramite elezione -
questa è la vera novità del periodo - degli altri graduati. In
pratica tutti i militi in un certo giorno tramite scheda votavano
tre nominativi per eleggere tenenti, sotto tenenti, sergente
maggiore e furiere. In altra occasione, invece, nominativamente e a
voce alta venivano eletti sergenti e caporali. Accanto a queste
innovazioni ne vennero introdotte altre, come la suddivisione
dell’intero territorio sammarinese in quattro “circondari”. Il primo
circondario, comprendente Città, Piagge, Borgo, Acquaviva,
Fiorentino fino a Chiesanuova, era sottoposto al controllo di cinque
compagnie di militi formate da 42 squadre di 19 uomini ciascuna. Il
secondo circondario (Domagnano, Serravalle, Falciano, ecc.) veniva
vigilato da due compagnie, ovvero 18 squadre che annoveravano un
totale di 262 militi. Il terzo circondario (Monte Lupo e Faetano)
era presidiato da una compagnia, ovvero 156 uomini. Il quarto
circondario (Montegiardino e zone limitrofe) era affidato ad una
compagnia per un totale di 140 uomini. Il totale dei militi
conteggiati nei ruoli di questi anni ammonta a 1365 uomini. In
pratica ogni circondario era articolato in compagnie, ogni compagnia
in squadre, e non vi era più suddivisione secondo i nomi di
granatieri o fucilieri com’era nei ruoli precedenti.
Le milizie sammarinesi vennero messe subito alla prova nella loro
nuova organizzazione perché il 14 luglio 1853, ricorrenza della
Rivoluzione Francese, fu ucciso in un agguato da alcuni giovani
mazziniani del Borgo, in combutta con alcuni rifugiati in
territorio, il segretario generale della Repubblica Giambattista
Bonelli. Nei mesi successivi avvennero poi altri due omicidi
(l’avvocato Gaetano Angeli ed il dottor Annibale Lazzarini) in
qualche maniera legati al primo, per cui il paese venne messo in
stato d’assedio, e le squadre militari furono dislocate lungo tutto
il territorio per garantire l’ordine pubblico. Venne nominato come
“Capo Straordinario” del corpo armato che si era organizzato e di
tutte le milizie, la cui organizzazione precedente venne
temporaneamente sospesa provocando grave risentimento in Filippo
Belluzzi, il nobile Giovanni Benedetto Belluzzi, con “piena facoltà
di valersi si degli Ufficiali come dei Soldati in quel modo Egli
crederà più conveniente al Pubblico Servizio”. Successivamente la
carica di comandante supremo delle milizie verrà affidata al nuovo
Reggente Giambattista Braschi, che comunque la terrà solo per i sei
mesi del suo incarico. Una delle uscite principali dei bilanci
statali del periodo fu proprio causata dal mantenimento in stato di
allerta di molti militi, che evidentemente provocavano costi
notevoli, nonostante teoricamente avessero l’obbligo del servizio
gratuito. D’altronde vedremo fra breve da un documento dell’epoca
che in realtà un qualche compenso in denaro veniva loro fornito. A
testimonianza di quanto detto, si può citare che nella seduta
consigliare dell’8 agosto 1853, a meno di un mese dall’omicidio di
Bonelli, la Reggenza dichiarò che “per impedire un intervento
Estero, e per eseguire l’espulsione di Persone, le quali si
sospettava che potessero turbare la pubblica quiete, si è stati
costretti a raccogliere una forza abbastanza considerabile la quale
ha depauperato il Pubblico Errario”. I Reggenti inoltre affermarono
che il momento più pericoloso pareva passato e che il numero dei
militari in stato di allerta poteva essere ridotto; “mille riflessi
però esigono, che un certo numero di Armati sia anche in seguito
conservato”. Il Consiglio appoggiò la richiesta della Reggenza
contraendo un debito di mille scudi per far fronte alle gravi
emergenze che vi erano.
D’altra parte la milizia in questo periodo la vediamo concretamente
in azione lungo tutto il suolo sammarinese con pattugliamenti, posti
di controllo e perquisizioni sistematiche nelle case di chi era
sospettato di essere coinvolto nel grave fatto di sangue. Tra
l’altro fu proprio una squadra di 7 militi cittadini, ai comandi del
sergente maggiore Francesco Ceccoli, ad arrestare il 17 luglio a
Fiorentino Marino Giovannarini, uno dei presunti autori
dell’omicidio, e a tradurlo in carcere. Di questo travagliato
momento possediamo parecchia documentazione, tra cui svariati
rapporti che venivano forniti alla Reggenza dopo qualche azione da
parte di pattuglie delle milizie. Vediamone a titolo di esempio uno:
RAPPORTO ALLE E.E. REGGENZA, E ALLA GIUNTA STRAORDINARIA DI GOVERNO
DELLA NOTTATA DAL 24 AL 25 LUGLIO 1853
Alle ore 2 di notte nella decorsa sera è partita dal Quartiere la la
Pattuglia comandata dal Caple Guidi Marino, e composta dei Comuni:
Rastelli Giuseppe, Gasperoni Bernardo, Gasperoni Giovanni, Riccardi
Giuseppe, Ugolini Domenico, Malpeli Alessandro, Moretti Giuseppe la
quale fatto il giro di tutti i Corpi di Guardia non ha trovato
niente di nuovo, ed a forma degli ordini dati dal sott.° il Caple
Guidi ha piazzato una sentinella straordinaria che da Ribiscino
conduce sulla via, e dalla parte opposta del Borgo due sentinelle
permanenti sotto il Gengone, e due alla fine del Greppo onde
chiudere così ogni ingresso, e fuggita a qualunque persona del
Borgo; quindi il restante della Pattuglia ha mosso per la
perlustrazione interna del Borgo, e non è rientrata detta Pattuglia
che alle ore 4 avendo reso conto di aver sempre trovato la guardia
in vigilanza e non aver avuto da rimarcare niente in contrario al
buon ordine, detta Pattuglia è stata costantemente accompagnata dal
Brigadiere Paoli. Alle ore 4 e un quarto è partita la seconda
Pattuglia comandata dal Caple Guidi Giuliano, Com Francesco Moretti,
Zannotti Agostino, Zannotti Giovanni, Zannotti Giuliano, Zannotti
Andrea, Zannotti Gio. Maria, Mularoni Marino e unitamente al
Brigadiere Paoli, ed al sottoscritto che ne ha preso il comando dopo
aver piazzato in Catena tutti gli Uomini della guardia esterna, e
circondato strettamente il Borgo si sono principiate le
perquisizioni a forma degli ordini abbassati dalla Superiorità. La
prima perquisizione ha avuto luogo in Casa Moracci ove non si è
rinvenuto niente di quanto veniva ingiunto essere da osservarsi.
Abbiamo trovato nel letto il Domeniconi ivi dimorante, e domandato
alla padrona di Casa, ed al medesimo se vi erano altri forestieri
hanno risposto che vi era un tal Zeffiro della Pasqua, ma che era
partito la sera stessa prima di un'ora di notte, e interrogati ove
esso potesse essersi inviato hanno risposto non saperlo perché avea
tenuto su ciò il silenzio; dopo essere stata dal Paoli
scrupolosamente esaminata la Casa, e la Casse, e cassetti non si è
trovato altro che una lettera di famigliari diretta a detto Zeffiro,
quale non conteneva niente di interessante. Quindi essendo state
prese anticipatamente le necessarie disposizioni ci siamo portati
alla Casa di Zani ove pure dopo tutte le indagini non si è ritrovato
niente a meno che qualche oggetto di biancheria, e calzature
appartenute (a quanto dice il Zani stesso) a Giannucoli, e Cucchi, i
quali uno (…? parola incomprensibile) il primo erano partiti dalla
scorsa sera, e il Cucchi da diversi giorni dicendomi inoltre il Zani
che la (…?) avanzava circa Venti paoli per cui intendeva rivalersi
con la roba qualora non gli fosse stata mantenuta la promessa di
mandargli il suo avere. Siamo in seguito passati dal Zonzini, e ivi
abbiamo rinvenuto estranei alla Casa la Ploja, Tommaso Mattei, e
Vincenzo Benedettini, e domandato se vi erano altre persone ci è
stato risposto negativamente onde incominciata la perquisizione dopo
avere osservato in tutti i luoghi che si possa supporre seguire di
ricettacolo non si è rinvenuto niente neppure in una soffitta ne' in
un vano che è stato levato due mattoni a esaminarsi. Tutte queste
operazioni hanno portato a star fuori la pattuglia fino alle 2 e tre
quarti, ora in cui è partita la 3a Pattuglia comandata dal Caple
Mularoni Giuseppe, Com. Giardi Agostino, Giardi Giuseppe, Giovagnoli
Giuseppe, Moroni Paolo, Costa Giuseppe la quale ha perlustrato il
Paese fino alle 3 e mezza non avendo reso conto di aver trovato
niente di nuovo. La Guardia sotto i Muri ha reso conto che è passata
una Pattuglia diretta in viaggio con un defunto. Alle ore 7 è giunto
un distaccamento composto da un Ufficiale e 26 Comuni. Il Cutignola
non si è peranco veduto, e così ho rilevato dal Brigadiere.
Il Distaccamento di Faetano non ha ancora avuto la muta e si lagnano
(…?) che venga destinato con precisione chi deve pagare i Soldati
perché è un danno, e si fanno dei malcontenti se non si pagano
quando arrivano almeno in parte, e qui invece si và fino a Mezzo
giorno senza sapere chi paga; e senza che vi siano fondi; spero che
la Superiorità vorrà anche sù questo punto dare ordini precisi.
Dal Quart. del Borgo 25 Luglio 1853
Il Com il Serv Straord
Pellegrini
Dopo il 1854 le acque un po’ si calmarono e la situazione interna a
San Marino non ebbe più disor-dini simili a quelli del 1853 – 1854.
Tuttavia in questi anni di guerre di indipendenza, di battaglie e di
sconvolgimenti quotidiani lungo tutta la penisola italiana non era
possibile abbassare mai la guardia, per cui il bisogno di un corpo
militare efficiente e pronto ad essere utilizzato, soprattutto con
funzioni poliziesche, rimase prioritario per San Marino. I militi
non erano esenti da pericoli durante le loro attività. Nel 1857, per
citare un caso tragico, accadde una grave disgrazia: un milite in
pattugliamento notturno, Cristoforo Filippucci, rimase per fatalità
ucciso durante il servizio. Il Consiglio decise di fornire un
emolumento alla vedova proprio perché il marito era un “Cittadino
morto in servizio della Patria”.
Tra le curiosità del periodo degne di essere menzionate vi fu anche
la seguente nuova formula di giuramento promulgata nel 1854:
“Io lo giuro nel nome di Dio, e sopra i santi evangeli di conservare
l’ordine, e la pubblica tranquillità, di assicurare l’obbedienza
alle leggi, e al Generale Comandante Superiore di queste Milizie, di
osservare e di tenere per mio assoluto e legittimo principe il solo
Generale Consiglio dei Sessanta, difenderlo con tutte le mie forze e
con esso l’indipendenza, e la libertà della Patria; di non
conoscere, e di non avere altri colori che i due soltanto della
bandiera della nostra Repubblica. Se operassi contro il presente mio
giuramento, ed offendessi nel mio servizio la disciplina, e la sua
subordinazione militare, non dovrò essere ubbidito dai miei
subalterni, ed ogni mia operazione sarà nulla, e di niun effetto.
Così facendo Iddio mi aiuti, e mi premi, altrimenti mi abbandono, e
mi punisca.”
Nel periodo le milizie cittadine subirono altre innovazioni legate
soprattutto all’attivismo del loro nuovo comandante, Marco Tassini,
nominato nel Consiglio del 23 ottobre 1856, che prima riuscì ad
avere un aumento a 150 scudi annui del contributo in denaro che lo
Stato forniva, motivandolo con l’impossibilità di andare avanti solo
con i soldi fin lì riconosciuti, ovvero 105 scudi, poi si diede da
fare per redigere e pubblicare il nuovo “Regolamento sulle Milizie
Cittadine della Repubblica di Sammarino”, approvato ufficialmente
dal Consiglio del 16 marzo 1858. Con tale lungo regolamento,
composto da ben 52 articoli, si specificava che le milizie cittadine
dovevano mantenere l’ordine e la tranquillità pubblica, assicurare
l’obbedienza alle leggi, l’integrità del territorio, l’indipendenza
della Repubblica, difendere il Consiglio ed i consiglieri. Esse
erano formate da tutti i cittadini e residenti in territorio da
almeno sei anni che non fossero inquisiti, tranne i Reggenti, i
giudici, i medici e pochi altri funzionari, nonché gli oziosi ed i
vagabondi. Le famiglie possidenti impossibilitate a fornire uomini
idonei al servizio militare dovevano pagare una tassa mensile. Il
regolamento sanciva ufficialmente la divisione del territorio in
quattro circondari e la conseguente suddivisione delle milizie
stesse in base a tali circondari. Specificava inoltre che il
servizio delle stesse potesse essere ordinario e straordinario. Il
regolamento del ’58 rimase in vigore pochi anni: infatti nel 1866 si
decise di modificarlo in alcune sue parti perché riconosciuto
“difettoso”, e l’anno successivo la nuova edizione venne promulgata.
(vedi CD) In base a questo regolamento il territorio veniva sempre
diviso in quattro circondari, e le compagnie militari erano otto,
ognuna composta da otto squadre di otto uomini ciascuna. Nel primo
circondario, comprendente i castelli di Città, Borgo, Chiesanuova e
Acquaviva, agivano quattro compagnie. Nel secondo (Domagnano –
Serravalle) due compagnie. Nel terzo (Fiorentino e zone limitrofe)
una compagnia, così come nel quarto (Faetano e dintorni).
Accanto a queste innovazioni avvenute nella seconda metà
dell’Ottocento, accaddero altri fatti degni di essere ricordati: nei
primi anni ’60 la situazione intorno ai confini sammarinesi restò in
subbuglio, ed i Sammarinesi dovettero rimanere ancora in stato di
allerta per i pericoli che la Repubblica poteva correre sempre a
causa di chi vi si rifugiava o nascondeva. Per citare qualche
esempio interessante, nell’agosto del 1861 vennero premiati con una
medaglia due militi perché durante il mercato del giorno 24 avevano
arrestato un disertore correndo anche qualche pericolo personale.
Nel novembre dello stesso anno la Reggenza ordinò di effettuare una
perlustrazione per tutto il territorio “obbligando i militi
gratuitamente, e senza lasciare luogo alcuno inosservato”. Tale
ricognizione avvenne il 9 dicembre sia di giorno che di notte
provocando malumore in qualche cittadino ed invettive verso i
militi. Un prete, padre Mariano Anfossi, li etichettò addirittura
come assassini e per questo venne denunciato al Consiglio, così come
gli altri che avevano dimostrato scarsa collaborazione.Nell’agosto
del ’62 altri due militi (Giovanni Bindi e Ippolito Ceccoli) si
resero degni di encomio per un arresto effettuato, e per questo
ricevettero anch’essi una medaglia.
Per fortuna negli anni seguenti, dopo l’unificazione dell’Italia
sotto i Savoia, le acque si calmarono ed i militi non vennero più
chiamati con frequenza ad impegni particolarmente gravosi. Tuttavia
qualche periodo di crisi e di maggiore attività militare si ebbe
ancora, come nel 1872, quando continuava il problema dei rifugiati
in territorio da tener sotto controllo. Il milite Giuseppe Giacomini
in quell’anno venne decorato dal Consiglio per aver dato “un
evidente segno di non comune coraggio nelle fazioni Militari
attivate in questo Borgo Maggiore per la repressione dei
Forestieri”.
Nel 1872 vi furono ulteriori integrazioni e modifiche al regolamento
delle milizie chieste esplicitamente da tre ufficiali nella seduta
consigliare del 22 agosto che lamentarono la mancanza di “una
regolare organizzazione nel Corpo di queste Milizie”, domandando
“che vengano presi quei provvedimenti che sono necessari ad un
generale riordinamento del corpo suddetto”. Nell’occasione il
comandante superiore Gaetano Belluzzi si dimise dichiarandosi
inidoneo a seguire tale organizzazione, e venne nominato al suo
posto Palamede Malpeli, che già era stato il principale artefice
delle riforme regolamentari attuate nel ’66. All’epoca i corpi
militari sammarinesi erano composti da due squadre scelte dotate di
uniformi (fucilieri e guardia di rocca), impegnate ad intervenire
alle parate militari del 3 settembre, festa di San Marino, e del 5
febbraio, festa di Sant’Agata, oltre alla guardia del principe ed
alla gendarmeria, che facevano sempre parte delle milizie stesse. I
fucilieri erano composti da 9 squadre; otto di queste assistevano
alle parate, ed una a turno era di supplenza per le eventuali
assenze. Questa compagnia aveva anche l’obbligo di prestare servizio
durante le fiere che si svolgevano in Borgo in sette ricorrenze
annuali, attività che veniva retribuita. Il servizio dei militi
uniformati poteva essere ordinario o straordinario. Il primo era
gratuito e non poteva durare più di 24 ore; se durava di più veniva
pagato. Il servizio straordinario non aveva limiti di tempo ed era
sempre retribuito. I militi erano come in antico chiamati alla “puntatura”,
ovvero all’appello ad una certa ora; le loro armi dovevano essere
sempre in efficienza e pulite interamente e con meticolosità almeno
una volta all’anno. In questo periodo risulta esservi anche la
figura del “buffettiere”, ossia il milite destinato a pulire e
mantener lustre buffetterie, cuoiami e parti in ottone o metallo,
così come vi era il “quartigliere”, cioè il milite che teneva presso
sé le chiavi del quartiere, ed era responsabile della conservazione
e regolare tenuta di tutti gli oggetti esistenti nel medesimo,
oggetti descritti e registrati in apposito inventario. Come in
passato, il capo posto della guardia montante distribuiva i compiti,
i picchetti, le sentinelle. Ovviamente erano previste pene per i
trasgressori delle varie norme. L’eventuale segnale di massimo
allarme era dato come in passato dai rintocchi di una campana:
quando ciò avveniva, tutti gli iscritti ai ruoli di ogni arma erano
tenuti ad accorrere al quartiere anche con le loro armi personali, e
a mettersi a disposizione del maggiore in grado. Regolamentati
appaiono pure i compiti dei militi, i doveri delle sentinelle, le
funzioni ordinarie (servizio di piazza, denominato "di pattuglia",
con principale funzione di ordine pubblico interno; servizio
d'ordine "dei Teatri" e dei pubblici spettacoli; servizio "di Piazza
d'armi" in funzione della partecipazione degli uomini alle parate,
riviste o, come si diceva all'epoca, "passeggiate militari". Il
servizio di ricognizione prevedeva, invece, il pattugliamento delle
campagne e quello da svolgersi nei vari corpi di guardia o
distaccamenti. L'uno o l'altro tipo di servizio comportava
necessariamente l'uso di una parola d'ordine. La sicurezza notturna
era assicurata da un servizio "di ronda", chiamato “di ispezione" se
si doveva svolgere anche durante il corso della giornata. La guardia
della Rocca, la custodia dei detenuti nonché “il disimpegno di tutti
quelli altri servizii che si compiono in uniforme nella Rocca, nella
Fratta ed alle Porte della Città” competeva alla squadra uniformata
della Guardia di Rocca. Compito ulteriore della milizia era quello
di fornire le sentinelle alla porta esterna del Palazzo della
Reggenza e quello di far sparare “i Mortari” per l'alzabandiera (un
colpo doppio) al primo di Aprile, al primo di Ottobre, per S.
Barbara e per il Sabato Santo (undici colpi), per S. Marino, S.
Agata ed il Corpus Domini (21 colpi). Doveva infine far servizio al
tradizionale tiro al bersaglio il 3 settembre.
Particolarmente interessanti, poi, le annotazioni sulla montura e
distintivi dei vari Corpi. La divisa dei soldati, dei caporali e dei
sottufficiali era così descritta: “pantaloni e tunica di panno
turchino celeste con doppia bottoniera sul petto, alquanto
divergente in alto, il gonnellino scendente a metà della coscia:
colletto, paramani a punta, finte tasche, filettatura e banda lungo
la cucitura esterna dei pantaloni, in panno bianco; goletta,
spalline e dragona tonda di lana rossa; cinturone di cuoio bianco
con sciabola, portabaionetta e gibernino di cuoio nero. Keppy, o
caschetto, basso, nero, ornato al bordo superiore d'un gallone di
lana rossa e con coccarda, granata e pomello di metallo”. I
tamburini invece delle spalline portavano delle lunette di lana
bianco celeste ed un galloncino dello stesso colore intorno al
colletto ed ai paramani. Per gli ufficiali subalterni ed i capitani
la descrizione era la seguente: "Tunica come sopra, con due
granatine ricamate in oro su fondo rosso sovrapposte alle mostre del
colletto; pantaloni come sopra con doppia banda parallela alla
cucitura esterna: spalline con placca dorata e a vermiglietta d'oro,
e dragona relativa: centurone di gallone d'oro tramezzato con due
filetti di seta rossa, e montato su pelle rossa con placca dorata
portante lo stemma della repubblica in metallo bianco rilevato:
sciabola d'ordinanza con guardia d'acciaio; e caschetto o Keppy
relativo al grado e secondo il modello adottato dal Comando
Superiore". Per gli ufficiali superiori era prevista la medesima
foggia di tunica, paramani e finte tasche coperti da un gallone
d'oro e due granatine ricamate in argento su fondo rosso alle mostre
del colletto. I pantaloni avevano una spighetta d'oro lungo la
cucitura esterna in mezzo alle due bande bianche; le spalline con
placca dorata a vermiglietta d'oro brillantato e dragona in
conformità. Cinturone di gallone d'oro frammezzato con un solo
filetto di divisione di seta rossa. Il copricapo era analogo a
quello dei sottufficiali (caschetto). Il Generale aveva la tunica
ricamata in oro al colletto, ai paramani ed alle finte tasche. i
pantaloni con filetto bianco lungo la cucitura esterna e due
galloncini d'oro paralleli al filetto; ghiglie di cordone d'oro,
cappello appuntato, gallonato e bordato di piume nere; cinturone ed
accessori in metallo dorato. I gradi di colonnello, tenente
colonnello e di maggiore, di capitano, luogotenente e sottotenente
si caratterizzavano inoltre "con un cifrone di spighetta d'oro
doppio o semplice rappresentante tre, due o una foglia ovale
sull'antibraccio sopra i paramani" e si distinguevano dalle spalline
e dal caschetto. Diversi i colori delle mostreggiature degli
ufficiali addetti allo stato maggiore: verde per il Genio, nero per
la Curia, cremisi per la Sanità, argento e lira ricamata per il
Concerto i cui ufficiali portavano il pennacchio bianco. Pennacchio
bianco a piangente distingueva il cappello della tenuta di alta gala
degli ufficiali e degli ufficiali di Stato Maggiore. Gli ufficiali
in tenuta di gala ed in attualità di servizio portavano anche la
sciarpa (fascia) a liste bianche e celesti annodata sul fianco
sinistro. Era prevista una bassa tenuta, meno ricca d'orpelli.
Il regolamento prevedeva una ferma di sei anni, e dava grande
rilievo al principio della necessità dell'uso della forza per la
difesa della Repubblica e delle sue Leggi. Molteplici articoli erano
dedicati ai doveri dei soldati e dei loro superiori: fedeltà,
subordinazione, obbedienza, rispetto, specchiata moralità,
rettitudine, correttezza, imparzialità, giustizia pronta e
proporzionata agli eventi. Era previsto l'uso del “Voi” nel
rivolgersi ai militi ed esclusa ogni familiarità e confidenza
durante il servizio fra ufficiali e sottoposti. Nel regolamento
viene usato per la prima volta il termine “plotone”, che era
un’unità operativa, composta da due squadre di otto uomini l'una, ed
è prevista la figura del caporale di muta, ossia del solo graduato
incaricato di rilevare le sentinelle dal loro posto di guardia.
Regolamentata ampiamente ogni minuta violazione, con tanto di
relative pene, con particolare riguardo all’infrazione commessa
dalla sentinella addormentata, evidentemente rischio ricorrente
lungo tutta la storia militare sammarinese. Con il regolamento di
disciplina militare adottato nel 1872 nacque la denominazione di
“milizia uniformata”. Essa era costituita dagli iscritti negli
usuali ruoli generali, più nove squadre di militi ed una squadra di
Guardie di Rocca.
Nonostante le nuove norme in uso, questi furono comunque anni di
generale crisi della milizia, tanto che nel 1873 gli ufficiali delle
stesse si dimisero in blocco constatando che molti militi si
disinteressavano dei loro obblighi militari ed avevano addirittura
rinunciato all’uniforme. Il Consiglio in data 16 marzo discusse se
sciogliere del tutto le milizie cittadine o no. Alla fine deliberò
di affidare a Malpeli l’incarico di fare il possibile per “impedire
la dissoluzione della detta Compagnia”. La prima cosa che egli fece
fu chiedere al Consiglio una somma di 150 lire per restaurare le
uniformi giudicate “attualmente quasi inservibili”, cifra che
ottenne senza problemi. In seguito ricevette un altro assegno
straordinario di 270 lire per ristrutturare il soffitto del
quartiere delle milizie che rischiava di crollare.
Nell’aprile del ’74 accadde un grave incidente con l’Italia, che
cinse i confini della Repubblica con un cordone militare accusandola
di scarsa collaborazione nell’espulsione dei ricercati da parte
della polizia italiana e che ovviamente accelerò la riorganizzazione
delle milizie, con un altro stanziamento straordinario di 200 lire,
e l’acquisto di 500 berretti da affidare ai soldati.
Ancor più vi furono problemi durante la grave crisi del 1874, quando
l’Italia pretendeva assolutamente che il territorio sammarinese
fosse liberato dai rifugiati che in quel momento vi erano. Proprio a
causa di questa pretesa aveva bloccato i confini della Repubblica
esigendo inoltre che San Marino assumesse altri cinque o sei
gendarmi per rinforzare i suoi sistemi di controllo e di
repressione, e aprisse un consolato italiano al suo interno. Il
documento che si riporta, firmato dal nuovo comandante Palamede
Malpeli, che aveva riorganizzato le milizie, innovazione che
avveniva quasi sempre coi vari avvicendamenti di comandanti supremi,
testimonia che anche all’epoca i militi fornirono un importante
contributo per affrontare la spiacevole questione.
“Comando Superiore delle Milizie della Repubblica di S. Marino, li
15 Maggio 1874
Eccellenze
Appena ricevuto il Dispaccio delle EE.VV. dell'11 corrente alle ore
11.30 pom. immediatamente abbassai gli ordini opportuni alla 1a 2a
5a 7a Compagnia di questa legione di portarsi ai Quartieri e
rilasciai gli ordini d'arresto di tutti i 59 Individui descritti
nell'elenco unito al suddetto loro ossequiato Dispaccio.
Se non che, constandomi (come dirò in appresso) che la maggior parte
dei medesimi non era né po-teva essere nel nostro Territorio, detti
gli ordini più precisi alla 1a e 2a compagnia per l'arresto di
quelli di cui si conosceva la dimora, ed ingiunsi alla 5a e alla 7a
di praticare in diversi luoghi so-spetti delle ricerche e delle
perquisizioni per scuoprire se veramente vi fossero altri inquisiti,
diser-tori o refrattari di leva latitanti.
Mentre però questo secondo tentativo non ebbe alcun favorevole
risultato, gli arresti ordinati alle due prime Compagnie furono
puntualmente eseguiti e la mattina del 12. alle 6 antim. erano tutti
consegnati in queste pubbliche Carceri, ed affidati alla vigilanza
della Compagnia di Rocca unita-mente al disertore Casadei Giovanni
arrestato nei giorni precedenti.
Gli arrestati sono - 1 - Ugolini Luigi detto Stadera, 2 - Crudi
Antonio di Giovanni, 3 - Guerra Antonio, 4 - Trifoni Pietro di
Pietro, 5 - Giancecchi Gio.Battista fu Bartolomeo, 6 - Giancecchi
Melchiorre di Tommaso, 7 - Nanni Domenico di Antonio, 8 - Pazzini
Filippo di Sebastiano, 9 - Cesarini Girolamo di Pietro, 10 -
Cesarini Adamo id., 11 - Cesarini Giacinto o Enrico id., 12 - Rossi
Pietro di Fossombrone, 13 - Roberti Filomena detto Calandrina, 14 -
Giorgetti Giovanni
Credo per mio debito di riferire alla EE. VV. il resultato delle
ricerche fatte sugli altri 48 individui di cui non si è potuto
eseguire l'arresto. Il Carpignoli Stefano e il Giulianelli Luigi
sono assenti dal nostro territorio. L'uno ha famiglia alle Capanne e
trovavasi a Monte Cerignone dai parenti: ma il padre disse alla
nostra forza che appena tornato si costituirà da se; l'altro è
cittadino originario di questa Repubblica e trovasi attualmente a
lavorare nella Maremma.
Il Masi Guglielmo di Perticara dimorava in Borgo, ma saranno circa
due mesi che è partito: ed è voce abbastanza fondata che attualmente
si trovi in Toscana.
Il Cannoni Eracliano non è mai comparso in Repubblica almeno sotto
questo nome. Pare però che un Eracliano Costanzi da un 14 mesi a
questa parte siasi fermato qualche giorno nel nostro Terri-torio. Ma
se ne sarebbe tosto partito alla volta dell'America, ove sarebbe
attualmente Custode di un carcere a Buenos Ayres.
Il Gaspari Secondo fu visto molti mesi addietro a Monte Giardino, ma
(come tempo fa ebbi l'onore di riferire all'EE.VV.) è fama sicura
che siasi costituito da qualche tempo a Forlì, per cui mi fa somma
meraviglia di vederlo requisito dal Procuratore Generale della Corte
di Appello di Bolo-gna.
Il Bernardi Federico, il Mengozzi Pietro, il Masani Edoardo,
l'Angeli Cristoforo non si sono visti mai in Repubblica. Lo stesso
si può dire dei Renitenti di leva Parenti, Pazzaglia, Tosi, Carlini,
Francia, Baldacci, Felici, Lazzaretti, Tichi, Ciacci Eugenio,
Nicolini, Baldacci Luigi, Antonini, A-stolfi, Bronzetti, Ciacci
Giuseppe, Giovagnoli, Barbieri, Rossi, Cenci, Antonini, Zangoli,
Albini, Ghirardelli, Ugolini non che dei disertori Emmanuelli e
Sanoni. Esistono in Repubblica alcune fa-miglie con alcuni dei sudd.
Cognomi, ma non combina su di nessun individuo il nome, la paternità
e l'età. Mi si fa credere poi che alcuni di essi sian morti da
qualche tempo nella Maremma.
Il Severi Pietro venne in questo Borgo nel 7bre del 1871, e se ne
partì li 18 Novembre successivo. Il Masi Angelo fu inutilmente
ricercato come le EE.VV. ben sanno.
Il Castagnoli Sante fu girovago fra i due Stati sui confini di
Serravalle, e ricercato dalla nostra Po-lizia, riparò all'Estero da
più di un Anno a questa parte. Dicesi che se ne partisse in
compagnia del Costanzi.
Il Fantini Agostino ha dimorato qualche tempo presso la famiglia
Cesarini, ove ha la sorella: ma un testimonio oculare mi ha
assicurato di averlo veduto negli scorsi giorni in una casa fuori
dei no-stri confini.
Il Ridolfi Crescentino è morto e se ne potrà aver la fede dal
Municipio di Monte Grimano. Il Nanni Domenico (forse Andrea)
fratello dell'arrestato è ora servo alla Dogana di Verucchio. Il
Bianchi Luigi non è qui. Il nostro Bianchi Luigi fu già arrestato
all'Albereto, ed essendosi riconosciuto che non vi era l'identità
personale, fu rilasciato in libertà. Il Zangoli Giuseppe pure non è
in Repubbli-ca, ma in una località del Verucchiese detta Gualdo
presso un tal Domenico Ghiotti. Il Celli Ago-stino era quegli che
alcune settimane fa era energicamente inseguito dalle nostre forze a
Pennaros-sa e a Canepa, e che dovette lasciare la Repubblica. E che
ciò sia vero un testimonio oculare lo ha visto alcuni giorni in quel
di S. Leo sulla possessione di un tal Sabattini di Secchiano "la
Cella" a cavar piloni. Terminerò poi questo mio rapporto col far
noto all'EE.VV. che anche altre perquisi-zioni parziali non ebbero
alcun effetto. Egual risultato negativo ebbe una perquisizione fatta
su va-sta scala nella giornata di oggi dietro alcune voci corse che
nelle località dette i Lagucci, Rancione e Piandavello si eran visti
degli individui con facce proibite: ma forse erano esploratori!
All'alba del giorno fu fatto improvvisamente occupare da quattro
Squadre della IV Compagnia la strada posta sulle alture da Domagnano
a Montelupo, mentre la V Compagnia occupava da un lato un
semicerchio che aveva per corda la suddetta strada, e dall'altro
cinque Squadre della I Compagnia e quattro Squadre della II
descrivevano un egual semicerchio includendo Piandavello. Quattro
Squadre poi della VI Compagnia colla nostra Gendarmeria hanno
perquisito minutamente tutte le Case, i Capanni e i Burroni
racchiusi nel terreno circondato.
Essendomi così assicurato con tutta la diligenza di cui sono capace,
e con tutto lo zelo da cui sono animato, che nella nostra Repubblica
non vi sono né inquisiti, né disertori, né renitenti di leva, ho
creduto di desister per ora da ulteriori perquisizioni, fino a che
qualche sicuro indizio non consigli di riprendere le operazioni, il
che però non credo possibile.
Dopo ciò non mi resta che rinnovare alle EE.VV. gli atti della mia
profonda devozione.
Gle P. Malpeli”
Dopo che lo spiacevole incidente terminò, il Consiglio provvide a
premiare tutti coloro che avevano cooperato per la sua risoluzione,
tra cui lo stesso Malpeli che “assumendo sopra di se il peso e la
responsabilità dell’azione governativa nell’Interno, dopo aver
riorganizzata la milizia con meravigliosa prontezza, ha dato
luminosa prova di zelo e di attività (…) al che poi ha contribuito
principalmente l’unione, la concordia, e la disciplina dell’intera
Legione delle milizie che si è prestata con tutto l’interessamento
all’esecuzione degli Ordini che le venivano abbassati”.
Gli anni seguenti non registrarono problemi legati all’ordine
pubblico e, come sempre era successo quando la situazione rimaneva
serena per un certo tempo, le milizie non ebbero particolari
sollecitazioni a stare in allerta, divenendo quindi sempre meno uno
strumento militare. Infatti il territorio ormai era circondato da un
unico Stato che aveva riconosciuto ufficialmente la sovranità della
Repubblica, perciò questa non correva più i pericoli d’invasione dei
secoli addietro. Inoltre San Marino aveva dovuto assumere alcuni
gendarmi professionisti per convincere l’Italia a togliere il blocco
dei suoi confini, per cui anche come strumento di repressione
poliziesca la milizia venne ormai utilizzata poco. Il Novecento fu
dunque il secolo in cui la milizia cittadina si trasformò
gradualmente da esercito di tutti i maschi sammarinesi, com’era
stato praticamente fin dall’epoca comunale, a squadra di volontari
da impiegare durante le cerimonie, le feste o qualche attività
particolare, anche se l’obbligo per i cittadini di diventare
all’occorrenza militi non decadrà neppure in questo secolo. Agli
inizi del Novecento le milizie erano ancora suddivise in nove
compagnie distribuite in tutti i Castelli della Repubblica. Come
previsto dal regolamento del 1867, erano comandate da un Congresso
Militare, composto da una serie di graduati, sotto la presidenza di
un Comandante Superiore. Dalla scarna documentazione che ci è
pervenuta dagli inizi del secolo, tuttavia, sembra che il Congresso
Militare abbia alternato anni di attività più intensa ad anni più
tranquilli in cui ovviamente i soldati sammarinesi vennero adunati
raramente. D’altra parte si è già più volte detto che l’attivismo
delle milizie cittadine è sempre stato proporzionale alla
problematicità dei tempi, ed i primi decenni del secolo non furono
tanto critici da necessitare di un sistema di vigilanza o d’impegno
militare particolarmente intensi. Abbiamo notizia che nel 1904 le
divise della milizia vennero modificate seguendo le indicazioni di
Quinto Cenni di Milano, maggiore specialista dell’epoca di tenute
militari, ma per gli anni seguenti sappiamo poco, segno che la
milizia non ebbe impegni particolari al di là di quelli soliti
legati alla partecipazione alle cerimonie o alle parate. D’altra
parte nel marzo del 1921 Onofrio Fattori, all’epoca loro comandante
superiore, fa annotare nel libro dei verbali del congresso militare
il desiderio di “far rivivere” l’istituzione delle milizie,
facendoci capire proprio che negli anni precedenti il corpo dei
soldati sammarinesi non aveva goduto di chissà quale vita ed
energia.
Le milizie vennero invece riordinate e vivificate proprio a partire
da quell’anno, perché la situazione di relativa tranquillità del
periodo precedente venne a meno per gli scontri politici ormai
quotidiani tra “rossi” e “neri”, nonché per la minaccia sempre più
probabile di una spedizione fascista in territorio sammarinese per
dare una lezione ai locali membri dei partiti di sinistra, e per
catturare i tanti profughi italiani di tendenza comunista e
socialista che anche all’epoca vi erano rifugiati. Il 23 maggio 1921
due camion di fascisti penetrarono all’interno dei confini, ma non
provocarono problemi andandosene dopo breve. Tuttavia la situazione
era in fermento, tanto che Fattori pochi giorni dopo, in data 26,
ordinò di tenere in servizio permanente una compagnia di militi per
prevenire altre spedizioni fasciste, in attesa che il governo
provvedesse alla costituzione di un adeguato corpo di gendarmi che,
evidentemente, nei tranquilli anni precedenti avevano subito un calo
numerico ed un rilassamento come le milizie. L’arruolamento di una
trentina di carabinieri professionisti italiani venne ufficializzato
il 1° giugno del ’21; costoro permarranno al servizio della
Repubblica fino al 1936. Tale presenza, naturalmente, permise di non
dover fare più grande affidamento sulle milizie cittadine per
salvaguardare l’ordine pubblico.
Infatti per gli anni successivi non c’è tanto da annoverare.
Nell’agosto del 1928 una rappresentanza delle milizie, con alcuni
ufficiali promossi di grado per l’occasione, partecipò alla mostra
dei costumi militari di Venezia. Una qualche attività poliziesca
delle milizie venne ripristinata invece nel 1933, quando il governo
fascista temette un fantomatico complotto contro il governo
perpetrato da “un’orda di briganti, assoldati dai fuoriusciti
sammarinesi”, come recita l’organo del partito fascista “Il Popolo
Sammarinese” del 25 giugno 1933, che volevano attentare alla vita
dei Reggenti, fare una “strage di Autorità, funzionari e cittadini”,
e una “depredazione di beni pubblici e privati”. In realtà la
situazione non era così drammatica come queste poche righe del
periodico fascista lasciano intuire, tuttavia vi fu abbastanza
preoccupazione in paese per distaccare alcune squadre di militi a
prestare servizio di pubblica sicurezza in aiuto ai carabinieri.
Questi furono però anni di scarsa organizzazione delle milizie.
Infatti dai documenti dell’epoca risulta evidente che si faceva
fatica a riunire il Congresso Superiore delle Milizie per ricorrente
assenza del numero legale, tanto che fin dal 1935 il Comandante
Superiore aveva inoltrato le sue dimissioni per stimolare la
risoluzione del problema che lasciava praticamente le milizie senza
un organo direttivo. Per questo il 18 aprile 1940 era stato
istituito un “Consiglio di Credenza” più ristretto in grado di
gestire con meno problemi i militari sammarinesi, organo che per
anni sostituì di fatto il Congresso Superiore.
Quando nel luglio del 1943 cadde il fascismo anche a San Marino, la
situazione legata all’ordine pubblico tornò a farsi preoccupante,
perciò squadre di militi vennero riorganizzate in tutta fretta per
farvi fronte e per aiutare i pochi carabinieri che la Repubblica
aveva in quel momento. Queste squadre operavano a turni, ed erano
preposte soprattutto al controllo delle zone di confine. Il loro
lavoro era particolarmente gravoso, perciò nel giugno del 1944 si
decise di arruolare un gruppo di giovani, fra i 18 e i 30 anni di
età, con funzioni di milizia confinaria in aiuto ai militi che già
stavano svolgendo tale incombenza dall’anno precedente. I mesi
successivi furono particolarmente problematici per la Repubblica,
per cui le squadre di militi vennero tenute costantemente sotto
pressione per far fronte alle tante situazioni d’incertezza che si
determinavano quasi ogni giorno. Nel mese di agosto venne
ricostituito il congresso militare sostituendo alcuni suoi vecchi
membri fascisti con altri. Uno dei primi atti compiuti dal nuovo
congresso fu la creazione di un corpo di pompieri, sottoposto sempre
al regolamento del 1867, che era ancora quello a cui sottostavano le
milizie, e la nomina di una guardia civica ausiliaria che doveva
prestare servizio militare nelle varie parrocchie sammarinesi. Per
fortuna il periodo di crisi della Repubblica legato al passaggio del
fronte durò poco: infatti nell’ottobre del ’44 avvenne la
smobilitazione della milizia confinaria e rimase attiva solo una
squadra di militi con le mansioni di guardia al palazzo pubblico,
recupero di eventuali armi o materiale bellico abbandonato e
svolgimento di altri servizi legati all’ordine pubblico.
Naturalmente, com’è sempre accaduto a San Marino, col venir meno
delle tensioni e dei pericoli, negli anni seguenti la milizia venne
ancora una volta ad assumere ruoli legati soltanto alla pace, alle
cerimonie della Repubblica, alle parate, ecc. Per la seconda metà
del Novecento, dunque, non si hanno notizie od informazioni
particolari da fornire. Una qualche riorganizzazione delle milizie
ebbe luogo nel 1960, quando venne ristrutturato il Congresso
Militare, sempre basandosi sulle disposizioni del regolamento delle
milizie del 1867, e quando venne aumentato a 83 uomini il numero
della milizia uniformata, a cui vennero dati in dotazione fucili
nuovi e riformate in alcuni particolari le uniformi, che verranno
ulteriormente modificate nei primi anni ’80. Fu creato nella stessa
occasione un gruppo scelto di 30 militi da affiancare alla
gendarmeria in momenti di eventuale necessità.
Il 26 gennaio 1990 fu promulgato come legge n° 15 un nuovo
“Regolamento organico e di Disciplina dei Corpi Militari” che,
riprendendo in larga parte la logica secolare a cui erano sempre
stati sottoposti i corpi militari sammarinesi, andava ad aggiornare
la normativa per i vari gruppi militari di cui San Marino disponeva.
Interessante rilevare che anche in questa legge è ancora mantenuta
l’obbligatorietà al servizio militare per tutti i cittadini compresi
tra i 16 ed i 60 anni (quindi ora anche delle donne), eccetto i
membri del governo, i magistrati, gli ecclesiastici, coloro che
erano indispensabili alla burocrazia ed ai servizi essenziali, chi
era impedito per problemi fisici. La mobilitazione generale è
ordinata dal Consiglio, dalla Reggenza in caso di urgenza, o dal
comandante superiore previo parere del Deputato alle milizie, che
dal 1945 è quello preposto agli affari esteri. (Vedi CD)
Nel 1881 venne creato un preciso regolamento per la custodia delle
nuove uniformi della milizia. Vi si diceva che il quartigliere,
ovvero l’addetto al quartiere delle milizie, doveva prestare la sua
opera nelle 24 ore successive a ciascun servizio delle milizie
cittadine, spazzolando tutte le divise, verificando la loro
integrità, riparando eventuali loro danni. Del duo operato avrebbe
risposto al furiere, subendo una multa, ovvero una trattenuta sullo
stipendio, se non lo avesse svolto a norma.
Nel 1882 il regolamento di disciplina militare della compagnia degli
uniformati venne integrato da alcune aggiunte che fornivano una
struttura leggermente diversa alle stesse. Infatti la compagnia
veniva organizzata in quattro plotoni, composti complessivamente da
72 uomini più quattro sergenti, uno per plotone, un furiere, un
capitano, un tenente ed un sottotenente. Questi militi avevano
compiti legati alle parate ed alle cerimonie civili e religiose, ma
potevano essere utilizzati per l’ordine pubblico e in aiuto ai
gendarmi che, in anni di tranquillità, e sempre con l’obbiettivo di
non pesare troppo sulle casse statali, mai troppo colme, la
Repubblica manteneva in numero esiguo. Quando i militi dovevano
coadiuvare i gendarmi, avevano l’obbligo di indossare la divisa. Ma
erano specificati anche altri servizi cui erano tenuti, come quello
di teatro, che veniva prestato per tutelare l’ordine pubblico
durante le feste da ballo o lo svolgimento di commedie, o quello
legato alla condotta dei sali e tabacchi, che come generi di
monopolio venivano distribuiti direttamente dallo Stato e
necessitavano della tutela di personale militare, o l’antico
servizio che veniva prestato durante le fiere. Per ognuno di questi
uffici i militi ricevevano un compenso prestabilito, che poteva
essere maggiorato se il servizio stesso si fosse protratto per molte
ore. Agli ufficiali veniva riconosciuta invece una indennità annua a
titolo di mantenimento della divisa, e per la pulizia delle armi ed
accessori.
Da un ruolo di questi stessi anni sappiamo che la milizia era
composta all’epoca da 28 ufficiali, 57 sottufficiali, 9 furieri, 226
graduati, 920 militi più 79 guardie di rocca, per un complessivo di
1319 uomini. Ovviamente la maggioranza di questi uomini non
disponeva di uniforme, ma erano, diciamo così, tutti i militi
virtuali della Repubblica, quelli che dovevano rendersi pienamente
disponibili in caso di necessità. Gli uniformati erano invece una
sessantina, senza contare in questo numero gli ufficiali, le guardie
di rocca e la banda. La divisa, stando ad una descrizione del 1927
che ci è pervenuta, era costituita da tunica e pantaloni di panno
blu filettato di bianco, con giubba simile a quella della fanteria
italiana, con keppy e stemma di ottone e coccarda bianca e celeste e
pappina rossa per i soldati, oro e metallo dorato, come le spalline,
per gli ufficiali. Inoltre costoro avevano il paramani della giubba
in panno bianco e dello stesso colore era anche il bavero con
granate d’oro ai due estremi, bande bianche ai calzoni, sciarpa e
liste bianche e celesti. La divisa in quel momento aveva però subito
una qualche modifica in quanto i distintivi erano in argento e il
keppy era stato sostituito da un berretto.
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