Cultura
e mentalità del primo fascismo sammarinese
(intervento fatto al convegno su Marino Moretti, San Marino, ottobre
2009)
Per capire i motivi che indussero le autorità sammarinesi ad
osteggiare con acidità nel 1928 il Trono dei poveri di Marino
Moretti, occorre senz’altro cercar d’interpretare la loro mentalità,
nonché i miti, i sogni, le velleità del locale fascismo, unico e
indisturbato gestore della repubblica in quel momento storico.
Rivolgerò l’analisi contenuta nel presente breve intervento
prevalentemente alla comprensione di questi aspetti della vita
collettiva di San Marino.
Ufficialmente il Partito Fascista Sammarinese fu fondato il
10 agosto 1922. In realtà aveva iniziato a germogliare da tempo,
perché la politica portata avanti da tale raggruppamento non può
semplicemente considerarsi emulativa di quella italiana del periodo
e a questa indissolubilmente legata. Infatti già da anni ribolliva
all’interno di una larga parte della popolazione la volontà di
attuare una reazione decisa alla riforma di indole democratica
varata dall’Arengo del 25 marzo 1906, l’assemblea dei capifamiglia
che optò di abbandonare l’antico sistema di nomina dei consiglieri
mediante cooptazione per adottarne uno più moderno, ovvero
l’elezione tramite suffragio periodico. Il fascismo rappresentò il
mezzo efficace, sopraggiunto all’improvviso, con cui poter
lecitamente ritornare all’antico, cioè ad un Consiglio elitario in
mano a pochi individui.
Al momento della sua nascita, era già in atto da tempo una
sorta di controriforma passatista, orchestrata da conservatori,
possidenti, nostalgici del precedente regime patriarcale, per
riportare ordine e disciplina nel caos e nell’anarchia generati
esclusivamente, secondo costoro, dal sistema politico e sociale che
la riforma democratica del 1906 aveva promosso.
Vi sono precise analogie con certe logiche repressive di
stampo conservatore che pure in Italia si scatenarono grazie ai
manganelli dei fascisti, dopo la confusione sociale ed i timori
provocati dal periodo postbellico e dal cosiddetto biennio rosso.
Tuttavia nel fascismo sammarinese fu completamente assente l’aspetto
rivoluzionario ed eversivo, il “fascismo movimento”, come l’ha
definito Renzo de Felice nella sua “Intervista sul fascismo”,
non essendovi la volontà di attuare un sovvertimento sociale per
instaurare un ordine nuovo.
Tale pretesa, al contrario, caratterizzò sempre i riformisti
più radicali di indole democratica, che nell’Arengo avevano visto
solo un primo passo di una metamorfosi che avrebbe dovuto essere ben
più profonda e radicale.
I fascisti sammarinesi, invece, desideravano soprattutto
ripristinare l’ordine antico, tornare al sistema socialmente
soporifero dei pochi che comandavano e dei molti che sottostavano
quieti, silenziosi, ossequianti e grati, come accadeva nei secoli
precedenti.
“Fascismo regime” fin da subito, dunque, sempre per usare un
concetto messo a fuoco nell’ “Intervista sul fascismo”,
assolutamente privo di velleità sovvertitrici dell’assetto
plurisecolare della piccola repubblica.
Ma partiamo proprio dai preludi del fascismo sammarinese, che
ci permetteranno di capire come mai alcuni presunti intellettuali
dell’epoca, esaltando sperticatamente il nuovo sistema politico,
sostenevano che la Repubblica di San Marino fosse fascista da
sempre, addirittura fin dalla mitica e veneratissima figura
dell’anacoreta fondatore dello Stato, fascista pure lui.
Il periodo è assai complesso, per cui mi vedo costretto a
sintetizzarlo al massimo per stare nei tempi programmati.
Dopo l’arengo del 1906, San Marino politicamente rimase in un
grave stato d’instabilità provocato dai forti contrasti tra
riformisti, che avevano varie anime, più o meno radicali, più o meno
disposte a scendere a compromessi, e conservatori, uniti in genere
nel cattolicesimo e nel timore di una imminente scristianizzazione
della società, nel forte desiderio di salvaguardare le sacre
tradizioni culturali e statutarie ereditate dal passato, nel terrore
verso le ideologie innovative e, per tanti, eversive, soprattutto di
matrice sinistroide, infine nella paura di perdere privilegi sociali
ed economici.
A parte rari momenti di tranquillità in cui la politica
riuscì ad attuare alcune riforme rilevanti per la società
sammarinese, gli anni dal 1906 in avanti furono costantemente
caratterizzati da scontri più o meno violenti tra la fazione
progressista e quella conservatrice, non di rado anche tra
progressisti e progressisti per i disaccordi che sussistevano tra
costoro sulle procedure e sulla radicalità degli interventi da
promuovere e sostenere.
Non esistendo, inoltre, partiti politici organizzati, a parte
quello socialista che nel Consiglio dei LX poteva annoverare pochi
esponenti che si richiamavano ad una stessa linea politica
prefissata, ma solo scarni gruppi più o meno ideologizzati o
accomunati da altri motivi (liberali, mazziniani, cattolici,
possidenti, ecc.), le leggi e le deliberazioni politiche di ogni
genere venivano promosse da alleanze contingenti, non di rado
effimere, che si disfacevano in fretta se non si raggiungevano
compromessi in grado di appagare tutte le componenti.
La confusione e l’instabilità si accentuarono ulteriormente
con la Prima Guerra Mondiale per i problemi che determinò (carovita,
rientro degli emigranti, disoccupazione, precarietà sociale e altro
ancora), nonché per gli scontri terribili nelle sedute consiliari
tra socialisti e riformisti radicali da una parte, che pretendevano
requisizioni di grano e prodotti di prima necessità a prezzi
contenuti per favorire i meno abbienti, e conservatori e proprietari
terrieri dall’altra, che non volevano vedersi decurtare i guadagni.
Contro i socialisti, schierati anche a San Marino su
posizioni rigidamente neutraliste, si coalizzò poi una forte e
ostile dissidenza capeggiata dagli interventisti, pronti ad
accusarli ad ogni occasione di vigliaccheria, anti italianità, anti
patriottismo, sabotaggio ed altro ancora.
Fu proprio a causa dei diversi sentimenti verso la guerra che
si spaccò indissolubilmente il percorso riformista tra socialisti e
repubblicani/mazziniani, che in precedenza si erano invece trovati
frequentemente su posizioni comuni, per il netto interventismo di
questi ultimi che consideravano la guerra del ‘14 - ‘18 come la
giusta prosecuzione dei conflitti risorgimentali.
Da sottolineare che tra le loro fila si annoveravano Giuliano
e Manlio Gozi, i futuri leader del Partito Fascista Sammarinese. In
un suo discorso pronunciato il 4 giugno 1915 a favore della guerra,
il giovane Giuliano Gozi disse molto esplicitamente:
“Mentre piccoli uomini si dibattono in vane questioni dirette
a far proclamare la neutralità dello Stato, affermiamo vigorosamente
che sedici secoli di storia, se sono bastati a conoscere la nostra
libertà, non valgono però a dividerci dal resto del mondo e a farci
dimenticare di essere soprattutto italiani!”
.
Altro dissidio tra socialisti e Gozi avvenne nel 1918, quando
costui fu nominato Segretario degli Affari Esteri, perché
considerato uomo della borghesia: “Gli agrari ed i loro accoliti
perseguono l’intento di fortificarsi al governo, circondandosi di
sentinelle vigili che paghino colla devozione il debito della
gratitudine”, dissero i socialisti sul loro periodico, il “Nuovo
Titano” n. 2 del 12 maggio.
Un nuovo scontro tra i Gozi da una parte e i socialisti
dall’altra avvenne nella seduta consiliare dell’8 novembre 1919,
giorno in cui si discusse una proposta di riforma istituzionale
avanzata dal gruppo socialista. Giuliano Gozi affermò: “L’egoismo,
l’opportunismo, l’ambizione costituiscono una piaga che non può
essere curata da nessuna riforma legislativa, ma soltanto dal
riflesso salutare di nuove e ben educate generazioni. Da qualche
tempo si era iniziato ad attuare riforme radicali, che d’un tratto
hanno demolito nella Repubblica secolare il sistema patriarcale di
famiglia di governo; inoltre per l’avvento al potere di uomini
nuovi, il filo della consuetudine è andato sempre più smarrendosi sì
che oggi la confusione trionfa”.
Parole profetiche se si valutano quelli che saranno i
capisaldi del fascismo sammarinese, ovvero la ricostruzione del
“sistema patriarcale di famiglia”, demolito dalle riforme radicali
che da qualche tempo erano state attuate, e l’allontanamento dalla
politica degli “uomini nuovi” che avevano determinato lo smarrimento
del “filo della consuetudine”, facendo trionfare la confusione.
Ovviamente anche in questo caso il riferimento è a chi era
giunto in Consiglio attraverso un percorso democratico, non tramite
cooptazione o grazie alla sua appartenenza al ceto nobile,
come succedeva prima del 1906.
Un altro episodio degno di attenzione era avvenuto poco
prima, nel Consiglio del 16 settembre 1919, quando, sempre Giuliano
Gozi, aveva affermato che la classe operaia era aumentata a
dismisura facendo dilatare i costi dovuti ai lavori pubblici, che
occorreva inventarsi in continuazione per evitare malumori provocati
dalla disoccupazione. La colpa era senz’altro da attribuirsi
all’aumento dei prezzi della mano d’opera, ma soprattutto
all’ingrossamento del ceto operaio.
“Per scopi elettorali e politici si sono tolti i contadini
dalle campagne per iscriverli nelle leghe operaie, si sono
eccessivamente protetti tanti cittadini dubbi e che non ricordavano
nemmeno più di essere tali e di poterlo divenire, per iscriverli
ugualmente nelle leghe operaie. Disse con foga. Accuso voi,
socialisti, che li avete guidati e li guidate e che mostrando di
fare il loro bene avete loro procurato niente altro che male ed
insieme male alla Repubblica” determinando una costante e dannosa
fuga dalla campagna e dai lavori agricoli.
Se si voleva “salvare la Repubblica dal precipizio e riparare
ai danni procurati", occorreva subito intervenire “con savi
provvedimenti”, e soprattutto “con la retta scuola di educazione
morale politica e civile”.
Sebbene tali parole possano apparire vaghe nel 1919, momento
in cui sono state pronunciate, in seguito diventeranno sempre più
comprensibili man mano che il fascismo consoliderà metodologie e
potere.
La filippica di Gozi scatenò all’istante la reazione veemente
di Gino Giacomini che, come capo carismatico dei socialisti, si
sentì attaccato in prima persona, e che perorò la causa della classe
operaia, fortemente disoccupata in quel frangente storico e con
gravi difficoltà anche di semplice sopravvivenza, nonché dei
contadini, che fuggivano dalle campagna perché i padroni li
affamavano.
Poiché Gozi aveva accusato i socialisti anche di non voler
collaborare in alcuna maniera al governo di San Marino, ovvero con
le altre componenti consiliari, per il miglioramento del paese,
Giacomini gli rispose che il gruppo socialista aveva un programma
che mirava a modificare le basi stesse della società e che non
sarebbe mai entrato in un governo dove sarebbe stato necessario
scendere a compromessi su tutto e giocare continuamente al ribasso
rispetto ai loro desiderata.
Questa idea si era ormai consolidata nei socialisti a causa
dei fallimenti dell’alleanza democratica che aveva prodotto
l’Arengo, abortita pochi mesi dopo il suo svolgimento, e di quella
nata nel 1912 col nome di “Blocco Democratico”, morta dopo appena un
anno e mezzo dal suo battesimo per contrasti insanabili al suo
interno sulle linee riformiste da seguire.
Gozi continuò la polemica sostenendo che il sistema
istituzionale sammarinese era ottimo, visto che il paese era
arrivato libero e sovrano fin lì, mentre le riforme promosse
dall’Arengo del 1906 stavano rischiando di farlo precipitare in un
baratro.
“Il Sig. Giacomini è sicuro che dopo le riforme si camminerà
meglio di prima? - disse - Io ne dubito perché ritengo che una sola
riforma possa essere utile e veramente efficace; ma una riforma che
non si può attuare, qual’ è quella di trapanare tutti i crani dei
sammarinesi per insinuarvi un nuovo cervello con una nuova
coscienza. Perché a S. Marino, coscienza, amor patrio, buon senso,
sono spariti per la erronea educazione che da 20 anni a questa parte
si impartisce. Riformiamo pure, ma troveremo gli uomini idonei a
reggere gli istituti? Educhiamo, perché educare soprattutto bisogna,
politicamente e civilmente”.
Anche in questo caso l’educazione a cui si riferisce Gozi, e
la nuova coscienza che avrebbe voluto, risulteranno ben
decodificabili quando sarà il suo governo a gestire con
autoritarismo la repubblica.
Ultimo aspetto che merita evidenziare per comprendere la
volontà di un ritorno al passato che stava consolidandosi sempre più
è quello legato alla fisionomia marcatamente massimalista assunta
dal socialismo sammarinese dopo la prima guerra mondiale e
soprattutto dopo la rivoluzione bolscevica, fisionomia che atterriva
cattolici, possidenti, conservatori in genere.
Tale carattere più aggressivo e intollerante, non disposto a
scendere a compromessi con nessuno, mirava a portare la classe
operaia al potere: non con colpi di Stato o rivoluzioni, ma tramite
una efficace opera propagandistica e culturale che avrebbe dovuto
essere orchestrata dalla nuova Camera del Lavoro, nata il 7 febbraio
1920, se avesse avuto il tempo necessario per farlo.
Dal 1918, inoltre, San Marino, sempre per le turbolenze
provocate dagli ormai intolleranti “rossi”, vide la nascita e
lo sviluppo della cultura degli scioperi, mai registrata in
precedenza. I primi furono gli impiegati, ormai organizzati in
associazione, nel 1918.
Un altro sciopero venne promosso dai socialisti il pomeriggio
del 5 luglio 1919 contro il caroviveri. Lo sciopero più imponente
avvenne il 20 e 21 luglio 1919, quando il Partito Socialista
Sammarinese aderì alla serrata generale internazionale per chiedere
il ritiro delle truppe alleate da Russia e Ungheria, sciopero
indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro e dal Partito
Socialista Italiano, in accordo con le organizzazioni politiche ed
economiche inglesi, francesi e belghe.
Ancora uno sciopero, il primo gestito dalla Camera del
Lavoro, fu proclamato nel marzo del 1920 dagli operai delle vigne
Manzoni-Borghesi. Non a caso proprio questi operai saranno le
vittime delle prime bastonature fasciste distribuite in territorio
sammarinese.
Da ora in poi la Camera del Lavoro divenne animatrice
costante di scioperi nel paese.
Insomma, dopo anni, anzi secoli di assopimento sociale in cui
i sammarinesi dei ceti più modesti non avevano mai osato agitare le
acque né produrre disturbo alla loro serafica società,
improvvisamente una turba di individui, da sempre sottomessi ai
cosiddetti Signori, alzava la testa per pretendere il
rispetto di diritti civili e sociali mai in precedenza reclamati.
Se a tutto ciò si aggiunge l’alto numero di rifugiati
politici, anche di indole rivoluzionaria, che proprio i socialisti
locali proteggevano e nascondevano (la “Casa del Popolo” di
Serravalle innalzata tra il 1921 e il 1922 secondo il progetto
iniziale avrebbe dovuto chiamarsi “Casa degli Esuli”), e la
fondazione ai primi del 1921 ad opera dell’avvocato Vittorio
Ambrosini, ex capitano degli Arditi, di una sezione sammarinese del
Partito Comunista Italiano, abbiamo tutti gli elementi per
comprendere quali fossero gli spettri che non facevano dormire sonni
pacati a benestanti, proprietari, cattolici, tradizionalisti e
nostalgici dell’ordine in auge durante la mitizzata epoca
patriarcale.
Non a caso il fascismo sammarinese, che ancora non si
definiva in tal maniera, iniziò a mostrarsi molto prima della sua
costituzione ufficiale, quando al potere vi era ancora un governo
composto da consiglieri del Partito Popolare, seconda organizzazione
partitica locale nata tra il ’19 e il ’20, e dell’Unione
Democratica, terzo partito nato per partecipare alle elezioni
politiche del 14 novembre 1920, svoltesi con una nuova legge
elettorale di tipo proporzionale varata nello stesso anno, che avrà
al suo interno i principali esponenti dell’imminente Partito
Fascista Sammarinese.
Come si può, infatti, non ritenere di indole fascista il
decreto del 13 maggio 1921 che prevedeva la censura dei giornali, la
proibizione di riunirsi in assemblea pubblica, nonché l’arruolamento
di un contingente di carabinieri italiani per tenere sotto stretto
controllo l’eccessivo dinamismo della società sammarinese?
D’altra parte i cattolici locali, ora riuniti nel Partito
Popolare Sammarinese, diranno sul loro nuovo periodico “La Libertà”
del 16 gennaio 1921: “In verità non sappiamo qual nemico ci sia
peggiore e quale sia il flagello più temibile tra la reazione
fascista e il massimalismo bolscevico”, dimostrando di
sottovalutare non poco, come d’altra parte succedeva anche al di là
dei confini, il pericolo fascista, e di temerlo molto meno di quello
bolscevico.
Il fascismo a San Marino scatenò la sua violenza a partire
dal mese di settembre del ‘22 quando una squadra di picchiatori
proveniente dall’Italia, aiutata anche da locali, entrò in
territorio per catturare l’onorevole Giuseppe Giulietti, qui
rifugiato. Egli riuscì a non farsi trovare, quindi a salvarsi, ma la
sua casa venne completamente devastata
.
Nello stesso mese fu assalita e messa a soqquadro la Casa del
Popolo a Serravalle.
Il 1° ottobre venne insediata una Reggenza filofascista e nel
pomeriggio iniziarono subito violenze e persecuzioni contro i
socialisti, giudicati sprezzantemente da “La Libertà” come “eunuchi
politici e sabotatori dello stato”, etichetta che userà in parecchi
suoi numeri.
Nella notte del 14 ottobre Gino Giacomini si risolse a
fuggire da San Marino in compagnia di altri suoi compagni di fede
politica socialista perché circolava la voce che lo si volesse
morto.
Il 26 ottobre avvenne un’irruzione dei fascisti nella sede
della Camera del Lavoro sammarinese, dove furono bruciati i mobili e
malmenato il suo segretario.
Nel mese di novembre vennero bastonati il socialista Pietro
Franciosi, a cui poi fu tolto d’ufficio il posto d’insegnante nel
liceo che deteneva da più di trent’anni, e il figlio Valdes.
Alla fine del 1922 il fascismo sammarinese, in stretto
connubio con il vasto mondo conservatore e cattolico locale, che
ancora non sentiva l’obbligo di definirsi fascista, era padrone
assoluto della Repubblica avendo perseguitato, espulso o comunque
totalmente annichilito ogni avversario politico di tendenza social
comunista.
I fascisti sammarinesi non si sentivano però legati ad alcun
ceto in particolare, tanto meno a quello dei possidenti, ed erano
convinti di aver agito solo ad esclusivo beneficio dello Stato
sammarinese. Sul giornale riminese “La Penna Fascista” del 2 ottobre
si legge infatti che il fascismo sammarinese “non ha carattere di
fazione e non è sorto per assumere funzioni di difesa di determinati
interessi economici specialmente quando questi contrastino
coll’interesse del Paese; il fascismo sammarinese agisce per tenere
alto nella Repubblica il sentimento di patria e d’italianità troppe
volte conculcati e per impedire che gli interessi di classe debbano
prevalere in danno degli interessi generali del Paese. Il Fascismo
Sammarinese tende ad incunearsi nella nostra piccola vita statale e
a piazzarsi stabilmente per svolgere una funzione governativa senza
fomentare disordini di piazza e provocazioni di alcun genere, anti
demagogicamente, e si tiene pronto però a rispondere fascisticamente
alle provocazioni avversarie tendenti a fargli perdere tempo.
Purtroppo queste ebbero nel passato triste predominio nella vita del
paese”.
Sulla “Penna Fascista” del 25 dicembre si sostiene che
occorreva seguire una sola strada: “la via del rinnovamento
coraggioso, sostanziale, innestato sullo spirito di conservazione”,
risanando la burocrazia, realizzando maggiori economie, riducendo i
lavori pubblici “a quelli riconosciuti di assoluta necessità e di
indiscussa utilità”.
Con tale logica di “rinnovamento…innestato sullo spirito di
conservazione”, nei tempi successivi il fascismo sammarinese
mirò al consolidamento del suo potere sulla piccola società. In
novembre nacquero i sindacati fascisti che azzerarono subito sia
quelli “rossi”, già aggrediti e sottomessi con violenza, che quelli
“bianchi” legati al locale Partito Popolare.
Nel mese di gennaio del 1923 il PFS provvide a costringere
alle dimissioni dal Consiglio i consiglieri del Partito Popolare per
farli aderire al neo “Blocco Patriottico”, composto da 20 popolari,
30 fascisti, 10 democratici, unico raggruppamento che si candidò
alle elezioni politiche del 4 marzo stravincendole, ovviamente,
anche se su 4.263 elettori solo 1.484 si recarono alle urne. In
seguito il PFS si consolidò tramite la costituzione di 14 sezioni
sparse per l’intero territorio.
Negli anni seguenti non si può registrare altro se non
l’entusiasmo dei nuovi governanti del paese, soddisfatti di aver
annichilito qualunque forma di partitismo locale, di aver finalmente
ripristinato l’antico ordine di stampo patriarcale, e di essere in
piena sintonia con l’Italia.
Infatti nel mese di agosto del ’26 giunse sul Titano per una
visita turistica e di cortesia lo stesso Benito Mussolini, che
paternalisticamente assicurò di attivarsi per far costruire un
collegamento con Rimini tramite una linea ferroviaria, sogno
coltivato dai sammarinesi fin dal momento dell’unificazione del
Regno Italiano.
Alla fine del ‘26 il fascismo stabilizzò ancor più il suo
dominio dapprima tramite la pubblicazione di un suo organo
ufficiale, il “Popolo Sammarinese”, l’unico tollerato in Repubblica,
da cui poter divulgare il suo verbo e fare propaganda; poi, nel mese
di novembre, varando una legge elettorale dalla spiccata fisionomia
totalitaria; infine andando alle elezioni politiche del 12 dicembre
come unico partito da poter votare, in quanto quello popolare era
stato costretto a sciogliersi.
Ottenne ben 2.444 voti su 2.445 votanti, ma non poteva
succedere nulla di diverso.
Da questi primi giornali, sempre colmi di autoesaltazioni e
retorica smodata e magniloquente, si coglie con facilità l’enorme
considerazione che di sé aveva il fascismo sammarinese, abile in
soli tre anni a risollevare totalmente la Repubblica dal grave
declino in cui era caduta prima del suo avvento, a ridare al popolo
“una coscienza e una maggiore consapevolezza dei propri doveri,
esumando dalla sua anima l’attaccamento e la devozione alle
istituzioni e alle secolari tradizioni”, a riformare “la politica
dei lavori con un vivo senso dell’arte e di rispetto per le bellezze
e le glorie del passato”, come ci ha lasciato scritto.
E tutto questo senza un programma predefinito. “Il programma?
- si chiede il primo numero del Popolo Sammarinese - E’…nel
fascismo. Non vuole essere il libello, di cui un tempo gli avversari
furono maestri, ma il foglio della battaglia combattuta a visiera
aperta e con le armi del cavaliere di razza”.
Costanti richiami alla “Patria diletta”, all’ “esempio
fulgido dei padri”, al “fervore che inspira il fascismo
moralizzatore e instauratore” o anche “purificatore e
rigeneratore”, al “maggior rispetto dovuto alla Religione degli Avi”,
all’ordine, alla disciplina, alla dignità
che ora i sammarinesi avevano riconquistato sono presenti
praticamente in ogni pagina dei giornali del PFS.
Il fascismo si considerava “il ritorno integrale alle vitali
sorgenti delle nostre tradizioni, delle nostre consuetudini, delle
nostre leggi, plasmate dall’amore di Patria, dalla dedizione
incondizionata dell’individuo allo Stato”, concetti che erano stati
offuscati e alterati dalla rivoluzione inglese prima e da quella
francese poi, le quali avevano introdotto “esotiche dottrine”
con cui si sostituiva allo Stato l’individuo, che non aveva più il
dovere di collaborare silente alla sua vita, né di obbedirgli, ma
che poteva addirittura combatterlo e contrastarlo.
Le dottrine diffuse dalle due rivoluzioni, secondo questa
logica, rappresentavano la degenerazione dello Stato e l’esaltazione
di “effimeri politicanti” dediti solo alla
“soddisfazione di personali interessi”
.
Anche le grandi e abbondanti opere edilizie che il fascismo
sammarinese promosse, inizialmente per dar lavoro alla classe
operaia, poi per creare una “Repubblica nuova”, nonché attrattive
per la nascente industria turistica, servivano per far riscoprire
alla “nobile patria […] le sue antiche glorie e le sue austere
Forme, quali gli avi composero”. Questi lavori
rappresentavano “quanto di vivo, di eroico è in noi, nella nostra
stirpe, nelle nostre tradizioni”.
E ancora: “Il Fascismo è difensore rigido delle glorie avite,
di tutto il patrimonio tradizionalistico di nostra gente; nemico
acerrimo di quelle novità che offendono e calpestano il buon nome e
le caratteristiche del Paese”
.
Infatti “il Sammarinese è fedele alle tradizioni politiche e
religiose dei Padri. Il Fascismo è lo strenuo difensore di queste
tradizioni”, ci dice uno slogan elettorale del 1926.
La mentalità del locale fascismo, tanto convinta di sé quanto
elementare, è tutta qui, anche se potrei continuare a sciorinare
concetti analoghi a quelli appena esposti ancora a lungo, visto che
sono presenti quasi in tutti i documenti fascisti del ventennio.
Patria, religione, tradizione e cieca fedeltà al passato sono
i pensieri fin troppo semplici di un partito non a caso soddisfatto
di essere privo di un programma politico, di cui non sentiva alcuna
esigenza, perché per programmare il futuro era convinto che bastasse
ripristinare integralmente o quasi, anche tramite interpretazioni
alquanto forzate e discutibili, il passato, con le buone o con le
cattive.
I sammarinesi erano, infatti, una “stirpe eroica”, non
bisognosi di novità “esotiche”, offensive verso “il buon nome
e le caratteristiche del Paese”, come si è già detto poco fa.
Carducci aveva saputo celebrare tale eroismo. Anche Pascoli
c’era riuscito, e il fascismo sammarinese ogni tanto li decantava
con gratitudine e deferenza
.
Moretti con il suo Trono dei poveri assolutamente no.
Anzi, aveva mostrato un volto di San Marino, in fondo il vero volto,
che non poteva risultare gradito a chi era imbevuto di tanta
altisonante e mitica cultura del passato, di pomposa retorica, e si
considerava “difensore rigido delle glorie avite”.
La mitizzazione del passato della piccola repubblica è una
caratteristica che attraversa tutta la sua storiografia, ma
certamente il fascismo sammarinese l’ha elevata al massimo livello.
Non a caso fu Pietro Franciosi a spendere qualche parola di elogio
per il romanzo di Moretti. Oltre ad essere egli stesso un figlio del
popolo (suo padre faceva il macellaio), da sempre maggiormente in
contatto con la gente semplice e, come studioso, con la storia reale
del paese, non sentiva la necessità di glorificarla, come invece
avevano bisogno di fare i Gozi e gli altri eredi delle famiglie
oligarchiche che per secoli avevano gestito e dominato la
Repubblica. Magnificando e mitizzando il passato, infatti, costoro
in realtà magnificavano e mitizzavano se stessi, come è
concretamente successo con la creazione del monumento dedicato a
Girolamo Gozi e ai difensori della libertà, inaugurato nel 1940, con
cui veniva decantato il fallimento dell’occupazione da parte del
cardinale Giulio Alberoni due secoli prima.
Da evidenziare, inoltre, che il 29 settembre del 1927, pochi
mesi prima che si scatenasse la polemica contro il Trono dei
poveri, prese avvio quell’imponente processo urbanistico,
destinato a durare per alcuni lustri, teso soprattutto a rigenerare,
enfatizzandola, la tradizione di una repubblica eroica che affondava
le sue radici nel Medioevo più remoto, e a adeguare l’immagine reale
del paese ad una idea/mito del tutto astorica: venne infatti
inaugurata l’Ara dei Volontari, mausoleo celebrativo degli eroi
sammarinesi del Risorgimento e della 1a Guerra Mondiale,
gonfio di retorica e rappresentatività, che nel suo progetto
iniziale avrebbe dovuto avere in cima all’obelisco che lo
caratterizza ancor’oggi addirittura la statua di un guerriero dotato
di scudo e spada sguainata, per dimostrare quanto anche i
sammarinesi erano stati e fossero pronti a sfoderare le baionette al
momento opportuno a preservazione e gloria della loro patria e
dell’Italia intera.
Certamente un monumento del tutto inadatto all’universo
minimale, al piccolo mondo antico di Marino Fogliani, impacciato
antieroe del Trono dei poveri, emblema vivente di un paese
del tutto pacifista, antimilitarista e privo, perché non se li era
mai potuti permettere, di gratuiti slanci di eroismo.
Ovviamente con questa cultura di fondo, con questa mentalità
roboante ed esagerata, il romanzo di Moretti non aveva alcuna chance
d’incontrare i favori delle autorità sammarinesi. Se fosse stato
pubblicato una ventina di anni prima probabilmente sì, ma all’epoca
appariva del tutto fuori luogo a chi stava mirando a ricostruire
miticamente la piccola Repubblica di San Marino forzandone e
stiracchiandone la storia in tutte le maniere.
Concluderei questo mio intervento evidenziando che proprio il
1928, anno della polemica contro Moretti, fu periodo particolare per
il fascismo sammarinese, perché dopo un lustro di relativa
tranquillità interna al partito, che gli consentì di rappresentarsi
davanti alla popolazione come monolitico tutore delle tradizioni dei
padri, dell’ordine e della vita politica del paese, nonché promotore
di una sana tranquillità sociale, iniziarono problemi e polemiche
tra la fazione di Città, facente capo ai Gozi, e quella di
Serravalle e del contado, che vedrà come leader Ezio Balducci.
Il romanzo di Marino Moretti, definito non a caso
“socialistoide”, sicuramente venne visto come un ulteriore elemento
perturbatore della pax fascista che, imbevuta di simboli bellicosi e
di enfasi smodata, ovvero di peculiarità che stavano agli antipodi
rispetto al messaggio che scaturiva dal Trono dei poveri,
doveva signoreggiare sovrana ad ogni costo.
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