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Cultura e mentalità del primo fascismo sammarinese
(intervento fatto al convegno su Marino Moretti, San Marino, ottobre 2009)

Per capire i motivi che indussero le autorità sammarinesi ad osteggiare con acidità nel 1928 il Trono dei poveri di Marino Moretti, occorre senz’altro cercar d’interpretare la loro mentalità, nonché i miti, i sogni, le velleità del locale fascismo, unico e indisturbato gestore della repubblica in quel momento storico. Rivolgerò l’analisi contenuta nel presente breve intervento prevalentemente alla comprensione di questi aspetti della vita collettiva di San Marino.

Ufficialmente il Partito Fascista Sammarinese fu fondato il 10 agosto 1922. In realtà aveva iniziato a germogliare da tempo, perché la politica portata avanti da tale raggruppamento non può semplicemente considerarsi emulativa di quella italiana del periodo e a questa indissolubilmente legata. Infatti già da anni ribolliva all’interno di una larga parte della popolazione la volontà di attuare una reazione decisa alla riforma di indole democratica varata dall’Arengo del 25 marzo 1906, l’assemblea dei capifamiglia che optò di abbandonare l’antico sistema di nomina dei consiglieri mediante cooptazione per adottarne uno più moderno, ovvero l’elezione tramite suffragio periodico. Il fascismo rappresentò il mezzo efficace, sopraggiunto all’improvviso, con cui poter lecitamente ritornare all’antico, cioè ad un Consiglio elitario in mano a pochi individui. 

Al momento della sua nascita, era già in atto da tempo una sorta di controriforma passatista, orchestrata da conservatori, possidenti, nostalgici del precedente regime patriarcale, per riportare ordine e disciplina nel caos e nell’anarchia generati esclusivamente, secondo costoro, dal sistema politico e sociale che la riforma democratica del 1906 aveva promosso.

Vi sono precise analogie con certe logiche repressive di stampo conservatore che pure in Italia si scatenarono grazie ai manganelli dei fascisti, dopo la confusione sociale ed i timori provocati dal periodo postbellico e dal cosiddetto biennio rosso. Tuttavia nel fascismo sammarinese fu completamente assente l’aspetto rivoluzionario ed eversivo, il “fascismo movimento”, come l’ha definito Renzo de Felice nella sua “Intervista sul fascismo”[1],  non essendovi la volontà di attuare un sovvertimento sociale per instaurare un ordine nuovo.

Tale pretesa, al contrario, caratterizzò sempre i riformisti più radicali di indole democratica, che nell’Arengo avevano visto solo un primo passo di una metamorfosi che avrebbe dovuto essere ben più profonda e radicale.

I fascisti sammarinesi, invece, desideravano soprattutto ripristinare l’ordine antico, tornare al sistema socialmente soporifero dei pochi che comandavano e dei molti che sottostavano quieti, silenziosi, ossequianti e grati, come accadeva nei secoli precedenti.

“Fascismo regime” fin da subito, dunque, sempre per usare un concetto messo a fuoco nell’ “Intervista sul fascismo”, assolutamente privo di velleità sovvertitrici dell’assetto plurisecolare della piccola repubblica.

Ma partiamo proprio dai preludi del fascismo sammarinese, che ci permetteranno di capire come mai alcuni presunti intellettuali dell’epoca, esaltando sperticatamente il nuovo sistema politico, sostenevano che la Repubblica di San Marino fosse fascista da sempre, addirittura fin dalla mitica e veneratissima figura dell’anacoreta fondatore dello Stato, fascista pure lui.

Il periodo è assai complesso, per cui mi vedo costretto a sintetizzarlo al massimo per stare nei tempi programmati[2]

Dopo l’arengo del 1906, San Marino politicamente rimase in un grave stato d’instabilità provocato dai forti contrasti tra riformisti, che avevano varie anime, più o meno radicali, più o meno disposte a scendere a compromessi, e conservatori, uniti in genere nel cattolicesimo e nel timore di una imminente scristianizzazione della società, nel forte desiderio di salvaguardare le sacre tradizioni culturali e statutarie ereditate dal passato, nel terrore verso le ideologie innovative e, per tanti, eversive, soprattutto di matrice sinistroide, infine nella paura di perdere privilegi sociali ed economici.

A parte rari momenti di tranquillità in cui la politica riuscì ad attuare alcune riforme rilevanti per la società sammarinese, gli anni dal 1906 in avanti furono costantemente caratterizzati da scontri più o meno violenti tra la fazione progressista e quella conservatrice, non di rado anche tra progressisti e progressisti per i disaccordi che sussistevano tra costoro sulle procedure e sulla radicalità degli interventi da promuovere e sostenere.

Non esistendo, inoltre, partiti politici organizzati, a parte quello socialista che nel Consiglio dei LX poteva annoverare pochi esponenti che si richiamavano ad una stessa linea politica prefissata, ma solo scarni gruppi più o meno ideologizzati o accomunati da altri motivi (liberali, mazziniani, cattolici, possidenti, ecc.), le leggi e le deliberazioni politiche di ogni genere venivano promosse da alleanze contingenti, non di rado effimere, che si disfacevano in fretta se non si raggiungevano compromessi in grado di appagare tutte le componenti.

La confusione e l’instabilità si accentuarono ulteriormente con la Prima Guerra Mondiale per i problemi che determinò (carovita, rientro degli emigranti, disoccupazione, precarietà sociale e altro ancora), nonché per gli scontri terribili nelle sedute consiliari tra socialisti e riformisti radicali da una parte, che pretendevano requisizioni di grano e prodotti di prima necessità a prezzi contenuti per favorire i meno abbienti, e conservatori e proprietari terrieri dall’altra, che non volevano vedersi decurtare i guadagni.

Contro i socialisti, schierati anche a San Marino su posizioni rigidamente neutraliste, si coalizzò poi una forte e ostile dissidenza capeggiata dagli interventisti, pronti ad accusarli ad ogni occasione di vigliaccheria, anti italianità, anti patriottismo, sabotaggio ed altro ancora.

Fu proprio a causa dei diversi sentimenti verso la guerra che si spaccò indissolubilmente il percorso riformista tra socialisti e repubblicani/mazziniani, che in precedenza si erano invece trovati frequentemente su posizioni comuni, per il netto interventismo di questi ultimi che consideravano la guerra del ‘14 - ‘18 come la giusta prosecuzione dei conflitti risorgimentali.

Da sottolineare che tra le loro fila si annoveravano Giuliano e Manlio Gozi, i futuri leader del Partito Fascista Sammarinese. In un suo discorso pronunciato il 4 giugno 1915 a favore della guerra, il giovane Giuliano Gozi disse molto esplicitamente:

“Mentre piccoli uomini si dibattono in vane questioni dirette a far proclamare la neutralità dello Stato, affermiamo vigorosamente che sedici secoli di storia, se sono bastati a conoscere la nostra libertà, non valgono però a dividerci dal resto del mondo e a farci dimenticare di essere soprattutto italiani!” [3].

Altro dissidio tra socialisti e Gozi avvenne nel 1918, quando costui fu nominato Segretario degli Affari Esteri, perché considerato uomo della borghesia: “Gli agrari ed i loro accoliti perseguono l’intento di fortificarsi al governo, circondandosi di sentinelle vigili che paghino colla devozione il debito della gratitudine”, dissero i socialisti sul loro periodico, il “Nuovo Titano” n. 2 del 12 maggio[4].

Un nuovo scontro tra i Gozi da una parte e i socialisti dall’altra avvenne nella seduta consiliare dell’8 novembre 1919, giorno in cui si discusse una proposta di riforma istituzionale avanzata dal gruppo socialista. Giuliano Gozi affermò: “L’egoismo, l’opportunismo, l’ambizione costituiscono una piaga che non può essere curata da nessuna riforma legislativa, ma soltanto dal riflesso salutare di nuove e ben educate generazioni. Da qualche tempo si era iniziato ad attuare riforme radicali, che d’un tratto hanno demolito nella Repubblica secolare il sistema patriarcale di famiglia di governo; inoltre per l’avvento al potere di uomini nuovi, il filo della consuetudine è andato sempre più smarrendosi sì che oggi la confusione trionfa”[5].

Parole profetiche se si valutano quelli che saranno i capisaldi del fascismo sammarinese, ovvero la ricostruzione del “sistema patriarcale di famiglia”, demolito dalle riforme radicali che da qualche tempo erano state attuate, e l’allontanamento dalla politica degli “uomini nuovi” che avevano determinato lo smarrimento del “filo della consuetudine”, facendo trionfare la confusione.

Ovviamente anche in questo caso il riferimento è a chi era giunto in Consiglio attraverso un percorso democratico, non tramite cooptazione o grazie alla sua appartenenza al ceto nobile[6], come succedeva prima del 1906.

Un altro episodio degno di attenzione era avvenuto poco prima, nel Consiglio del 16 settembre 1919, quando, sempre Giuliano Gozi, aveva affermato che la classe operaia era aumentata a dismisura facendo dilatare i costi dovuti ai lavori pubblici, che occorreva inventarsi in continuazione per evitare malumori provocati dalla disoccupazione. La colpa era senz’altro da attribuirsi all’aumento dei prezzi della mano d’opera, ma soprattutto all’ingrossamento del ceto operaio.

“Per scopi elettorali e politici si sono tolti i contadini dalle campagne per iscriverli nelle leghe operaie, si sono eccessivamente protetti tanti cittadini dubbi e che non ricordavano nemmeno più di essere tali e di poterlo divenire, per iscriverli ugualmente nelle leghe operaie. Disse con foga. Accuso voi, socialisti, che li avete guidati e li guidate e che mostrando di fare il loro bene avete loro procurato niente altro che male ed insieme male alla Repubblica” determinando una costante e dannosa fuga dalla campagna e dai lavori agricoli.

Se si voleva “salvare la Repubblica dal precipizio e riparare ai danni procurati",  occorreva subito intervenire “con savi provvedimenti”, e soprattutto “con la retta scuola di educazione morale politica e civile”[7].

Sebbene tali parole possano apparire vaghe nel 1919, momento in cui sono state pronunciate, in seguito diventeranno sempre più comprensibili man mano che il fascismo consoliderà metodologie e potere.

La filippica di Gozi scatenò all’istante la reazione veemente di Gino Giacomini che, come capo carismatico dei socialisti, si sentì attaccato in prima persona, e che perorò la causa della classe operaia, fortemente disoccupata in quel frangente storico e con gravi difficoltà anche di semplice sopravvivenza, nonché dei contadini, che fuggivano dalle campagna perché i padroni li affamavano.

Poiché Gozi aveva accusato i socialisti anche di non voler collaborare in alcuna maniera al governo di San Marino, ovvero con le altre componenti consiliari, per il miglioramento del paese, Giacomini gli rispose che il gruppo socialista aveva un programma che mirava a modificare le basi stesse della società e che non sarebbe mai entrato in un governo dove sarebbe stato necessario scendere a compromessi su tutto e giocare continuamente al ribasso rispetto ai loro desiderata.

Questa idea si era ormai consolidata nei socialisti a causa dei fallimenti dell’alleanza democratica che aveva prodotto l’Arengo, abortita pochi mesi dopo il suo svolgimento, e di quella nata nel 1912 col nome di “Blocco Democratico”, morta dopo appena un anno e mezzo dal suo battesimo per contrasti insanabili al suo interno sulle linee riformiste da seguire.

Gozi continuò la polemica sostenendo che il sistema istituzionale sammarinese era ottimo, visto che il paese era arrivato libero e sovrano fin lì, mentre le riforme promosse dall’Arengo del 1906 stavano rischiando di farlo precipitare in un baratro.

“Il Sig. Giacomini è sicuro che dopo le riforme si camminerà meglio di prima? - disse - Io ne dubito perché ritengo che una sola riforma possa essere utile e veramente efficace; ma una riforma che non si può attuare, qual’ è quella di trapanare tutti i crani dei sammarinesi per insinuarvi un nuovo cervello con una nuova coscienza. Perché a S. Marino, coscienza, amor patrio, buon senso, sono spariti per la erronea educazione che da 20 anni a questa parte si impartisce. Riformiamo pure, ma troveremo gli uomini idonei a reggere gli istituti? Educhiamo, perché educare soprattutto bisogna, politicamente e civilmente”[8].

Anche in questo caso l’educazione a cui si riferisce Gozi, e la nuova coscienza che avrebbe voluto, risulteranno ben decodificabili quando sarà il suo governo a gestire con autoritarismo la repubblica.

Ultimo aspetto che merita evidenziare per comprendere la volontà di un ritorno al passato che stava consolidandosi sempre più è quello legato alla fisionomia marcatamente massimalista assunta dal socialismo sammarinese dopo la prima guerra mondiale e soprattutto dopo la rivoluzione bolscevica, fisionomia che atterriva cattolici, possidenti, conservatori in genere.

Tale carattere più aggressivo e intollerante, non disposto a scendere a compromessi con nessuno, mirava a portare la classe operaia al potere: non con colpi di Stato o rivoluzioni, ma tramite una efficace opera propagandistica e culturale che avrebbe dovuto essere orchestrata dalla nuova Camera del Lavoro, nata il 7 febbraio 1920, se avesse avuto il tempo necessario per farlo.

Dal 1918, inoltre, San Marino, sempre per le turbolenze provocate dagli ormai intolleranti “rossi”, vide la nascita e lo sviluppo della cultura degli scioperi, mai registrata in precedenza. I primi furono gli impiegati, ormai organizzati in associazione, nel 1918.

Un altro sciopero venne promosso dai socialisti il pomeriggio del 5 luglio 1919 contro il caroviveri. Lo sciopero più imponente avvenne il 20 e 21 luglio 1919, quando il Partito Socialista Sammarinese aderì alla serrata generale internazionale per chiedere il ritiro delle truppe alleate da Russia e Ungheria, sciopero indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro e dal Partito Socialista Italiano, in accordo con le organizzazioni politiche ed economiche inglesi, francesi e belghe.

Ancora uno sciopero, il primo gestito dalla Camera del Lavoro, fu proclamato nel marzo del 1920 dagli operai delle vigne Manzoni-Borghesi. Non a caso proprio questi operai saranno le vittime delle prime bastonature fasciste distribuite in territorio sammarinese.

Da ora in poi la Camera del Lavoro divenne animatrice costante di scioperi nel paese.

Insomma, dopo anni, anzi secoli di assopimento sociale in cui i sammarinesi dei ceti più modesti non avevano mai osato agitare le acque né produrre disturbo alla loro serafica società, improvvisamente una turba di individui, da sempre sottomessi ai cosiddetti Signori, alzava la testa per pretendere il rispetto di diritti civili e sociali mai in precedenza reclamati.

Se a tutto ciò si aggiunge l’alto numero di rifugiati politici, anche di indole rivoluzionaria, che proprio i socialisti locali proteggevano e nascondevano (la “Casa del Popolo” di Serravalle innalzata tra il 1921 e il 1922 secondo il progetto iniziale avrebbe dovuto chiamarsi “Casa degli Esuli”), e la fondazione ai primi del 1921 ad opera dell’avvocato Vittorio Ambrosini, ex capitano degli Arditi, di una sezione sammarinese del Partito Comunista Italiano, abbiamo tutti gli elementi per comprendere quali fossero gli spettri che non facevano dormire sonni pacati a benestanti, proprietari, cattolici, tradizionalisti e nostalgici dell’ordine in auge durante la mitizzata epoca patriarcale.

Non a caso il fascismo sammarinese, che ancora non si definiva in tal maniera, iniziò a mostrarsi molto prima della sua costituzione ufficiale, quando al potere vi era ancora un governo composto da consiglieri del Partito Popolare, seconda organizzazione partitica locale nata tra il ’19 e il ’20, e dell’Unione Democratica, terzo partito nato per partecipare alle elezioni politiche del 14 novembre 1920, svoltesi con una nuova legge elettorale di tipo proporzionale varata nello stesso anno, che avrà al suo interno i principali esponenti dell’imminente Partito Fascista Sammarinese.  

Come si può, infatti, non ritenere di indole fascista il decreto del 13 maggio 1921 che prevedeva la censura dei giornali, la proibizione di riunirsi in assemblea pubblica, nonché l’arruolamento di un contingente di carabinieri italiani per tenere sotto stretto controllo l’eccessivo dinamismo della società sammarinese?

D’altra parte i cattolici locali, ora riuniti nel Partito Popolare Sammarinese, diranno sul loro nuovo periodico “La Libertà” del 16 gennaio 1921: “In verità non sappiamo qual nemico ci sia peggiore e quale sia il flagello più temibile tra la reazione fascista e il massimalismo bolscevico”, dimostrando di sottovalutare non poco, come d’altra parte succedeva anche al di là dei confini, il pericolo fascista, e di temerlo molto meno di quello bolscevico[9].

Il fascismo a San Marino scatenò la sua violenza a partire dal mese di settembre del ‘22 quando una squadra di picchiatori proveniente dall’Italia, aiutata anche da locali, entrò in territorio per catturare l’onorevole Giuseppe Giulietti, qui rifugiato. Egli riuscì a non farsi trovare, quindi a salvarsi, ma la sua casa venne completamente devastata [10].

Nello stesso mese fu assalita e messa a soqquadro la Casa del Popolo a Serravalle.

Il 1° ottobre venne insediata una Reggenza filofascista e nel pomeriggio iniziarono subito violenze e persecuzioni contro i socialisti, giudicati sprezzantemente da “La Libertà” come “eunuchi politici e sabotatori dello stato”, etichetta che userà in parecchi suoi numeri.

Nella notte del 14 ottobre Gino Giacomini si risolse a fuggire da San Marino in compagnia di altri suoi compagni di fede politica socialista perché circolava la voce che lo si volesse morto.

Il 26 ottobre avvenne un’irruzione dei fascisti nella sede della Camera del Lavoro sammarinese, dove furono bruciati i mobili e malmenato il suo segretario.

Nel mese di novembre vennero bastonati il socialista Pietro Franciosi, a cui poi fu tolto d’ufficio il posto d’insegnante nel liceo che deteneva da più di trent’anni, e il figlio Valdes.

Alla fine del 1922 il fascismo sammarinese, in stretto connubio con il vasto mondo conservatore e cattolico locale, che ancora non sentiva l’obbligo di definirsi fascista, era padrone assoluto della Repubblica avendo perseguitato, espulso o comunque totalmente annichilito ogni avversario politico di tendenza social comunista.

I fascisti sammarinesi non si sentivano però legati ad alcun ceto in particolare, tanto meno a quello dei possidenti, ed erano convinti di aver agito solo ad esclusivo beneficio dello Stato sammarinese. Sul giornale riminese “La Penna Fascista” del 2 ottobre si legge infatti che il fascismo sammarinese “non ha carattere di fazione e non è sorto per assumere funzioni di difesa di determinati interessi economici specialmente quando questi contrastino coll’interesse del Paese; il fascismo sammarinese agisce per tenere alto nella Repubblica il sentimento di patria e d’italianità troppe volte conculcati e per impedire che gli interessi di classe debbano prevalere in danno degli interessi generali del Paese. Il Fascismo Sammarinese tende ad incunearsi nella nostra piccola vita statale e a piazzarsi stabilmente per svolgere una funzione governativa senza fomentare disordini di piazza e provocazioni di alcun genere, anti demagogicamente, e si tiene pronto però a rispondere fascisticamente alle provocazioni avversarie tendenti a fargli perdere tempo. Purtroppo queste ebbero nel passato triste predominio nella vita del paese”[11].

Sulla “Penna Fascista” del 25 dicembre si sostiene che occorreva seguire una sola strada: “la via del rinnovamento coraggioso, sostanziale, innestato sullo spirito di conservazione”, risanando la burocrazia, realizzando maggiori economie, riducendo i lavori pubblici “a quelli riconosciuti di assoluta necessità e di indiscussa utilità”[12].

Con tale logica di “rinnovamento…innestato sullo spirito di conservazione”, nei tempi successivi il fascismo sammarinese mirò al consolidamento del suo potere sulla piccola società. In novembre nacquero i sindacati fascisti che azzerarono subito sia quelli “rossi”, già aggrediti e sottomessi con violenza, che quelli “bianchi” legati al locale Partito Popolare.

Nel mese di gennaio del 1923 il PFS provvide a costringere alle dimissioni dal Consiglio i consiglieri del Partito Popolare per farli aderire al neo “Blocco Patriottico”, composto da 20 popolari, 30 fascisti, 10 democratici, unico raggruppamento che si candidò alle elezioni politiche del 4 marzo stravincendole, ovviamente, anche se su 4.263 elettori solo 1.484 si recarono alle urne. In seguito il PFS si consolidò tramite la costituzione di 14 sezioni sparse per l’intero territorio.

Negli anni seguenti non si può registrare altro se non l’entusiasmo dei nuovi governanti del paese, soddisfatti di aver annichilito qualunque forma di partitismo locale, di aver finalmente ripristinato l’antico ordine di stampo patriarcale, e di essere in piena sintonia con l’Italia.

Infatti nel mese di agosto del ’26 giunse sul Titano per una visita turistica e di cortesia lo stesso Benito Mussolini, che paternalisticamente assicurò di attivarsi per far costruire un collegamento con Rimini tramite una linea ferroviaria, sogno coltivato dai sammarinesi fin dal momento dell’unificazione del Regno Italiano.

Alla fine del ‘26 il fascismo stabilizzò ancor più il suo dominio dapprima tramite la pubblicazione di un suo organo ufficiale, il “Popolo Sammarinese”, l’unico tollerato in Repubblica, da cui poter divulgare il suo verbo e fare propaganda; poi, nel mese di novembre, varando una legge elettorale dalla spiccata fisionomia totalitaria; infine andando alle elezioni politiche del 12 dicembre come unico partito da poter votare, in quanto quello popolare era stato costretto a sciogliersi.

Ottenne ben 2.444 voti su 2.445 votanti, ma non poteva succedere nulla di diverso.

Da questi primi giornali, sempre colmi di autoesaltazioni e retorica smodata e magniloquente, si coglie con facilità l’enorme considerazione che di sé aveva il fascismo sammarinese, abile in soli tre anni a risollevare totalmente la Repubblica dal grave declino in cui era caduta prima del suo avvento, a ridare al popolo “una coscienza e una maggiore consapevolezza dei propri doveri, esumando dalla sua anima l’attaccamento e la devozione alle istituzioni e alle secolari tradizioni”, a riformare “la politica dei lavori con un vivo senso dell’arte e di rispetto per le bellezze e le glorie del passato”, come ci ha lasciato scritto.

E tutto questo senza un programma predefinito. “Il programma? - si chiede il primo numero del Popolo Sammarinese - E’…nel fascismo. Non vuole essere il libello, di cui un tempo gli avversari furono maestri, ma il foglio della battaglia combattuta a visiera aperta e con le armi del cavaliere di razza”[13].

Costanti richiami alla “Patria diletta”, all’ “esempio fulgido dei padri”, al “fervore che inspira il fascismo moralizzatore e instauratore” o anche “purificatore e rigeneratore”, al “maggior rispetto dovuto alla Religione degli Avi”, all’ordine, alla disciplina, alla dignità che ora i sammarinesi avevano riconquistato sono presenti praticamente in ogni pagina dei giornali del PFS.

Il fascismo si considerava “il ritorno integrale alle vitali sorgenti delle nostre tradizioni, delle nostre consuetudini, delle nostre leggi, plasmate dall’amore di Patria, dalla dedizione incondizionata dell’individuo allo Stato”, concetti che erano stati offuscati e alterati dalla rivoluzione inglese prima e da quella francese poi, le quali avevano introdotto “esotiche dottrine” con cui si sostituiva allo Stato l’individuo, che non aveva più il dovere di collaborare silente alla sua vita, né di obbedirgli, ma che poteva addirittura combatterlo e contrastarlo.

Le dottrine diffuse dalle due rivoluzioni, secondo questa logica, rappresentavano la degenerazione dello Stato e l’esaltazione di “effimeri politicanti” dediti solo alla “soddisfazione di personali interessi” [14].

Anche le grandi e abbondanti opere edilizie che il fascismo sammarinese promosse, inizialmente per dar lavoro alla classe operaia, poi per creare una “Repubblica nuova”, nonché attrattive per la nascente industria turistica, servivano per far riscoprire alla “nobile patria […] le sue antiche glorie e le sue austere Forme, quali gli avi composero”. Questi lavori rappresentavano “quanto di vivo, di eroico è in noi, nella nostra stirpe, nelle nostre tradizioni”.

E ancora: “Il Fascismo è difensore rigido delle glorie avite, di tutto il patrimonio tradizionalistico di nostra gente; nemico acerrimo di quelle novità che offendono e calpestano il buon nome e le caratteristiche del Paese” [15].

Infatti “il Sammarinese è fedele alle tradizioni politiche e religiose dei Padri. Il Fascismo è lo strenuo difensore di queste tradizioni”, ci dice uno slogan elettorale del 1926.

La mentalità del locale fascismo, tanto convinta di sé quanto elementare, è tutta qui, anche se potrei continuare a sciorinare concetti analoghi a quelli appena esposti ancora a lungo, visto che sono presenti quasi in tutti i documenti fascisti del ventennio.

Patria, religione, tradizione e cieca fedeltà al passato sono i pensieri fin troppo semplici di un partito non a caso soddisfatto di essere privo di un programma politico, di cui non sentiva alcuna esigenza, perché per programmare il futuro era convinto che bastasse ripristinare integralmente o quasi, anche tramite interpretazioni alquanto forzate e discutibili, il passato, con le buone o con le cattive.

I sammarinesi erano, infatti, una “stirpe eroica”, non bisognosi di novità “esotiche”, offensive verso “il buon nome e le caratteristiche del Paese”, come si è già detto poco fa.

Carducci aveva saputo celebrare tale eroismo. Anche Pascoli c’era riuscito, e il fascismo sammarinese ogni tanto li decantava con gratitudine e deferenza [16].

Moretti con il suo Trono dei poveri assolutamente no. Anzi, aveva mostrato un volto di San Marino, in fondo il vero volto, che non poteva risultare gradito a chi era imbevuto di tanta altisonante e mitica cultura del passato, di pomposa retorica, e si considerava “difensore rigido delle glorie avite”.

La mitizzazione del passato della piccola repubblica è una caratteristica che attraversa tutta la sua storiografia, ma certamente il fascismo sammarinese l’ha elevata al massimo livello. Non a caso fu Pietro Franciosi a spendere qualche parola di elogio per il romanzo di Moretti. Oltre ad essere egli stesso un figlio del popolo (suo padre faceva il macellaio), da sempre maggiormente in contatto con la gente semplice e, come studioso, con la storia reale del paese, non sentiva la necessità di glorificarla, come invece avevano bisogno di fare i Gozi e gli altri eredi delle famiglie oligarchiche che per secoli avevano gestito e dominato la Repubblica. Magnificando e mitizzando il passato, infatti, costoro in realtà magnificavano e mitizzavano se stessi, come è concretamente successo con la creazione del monumento dedicato a Girolamo Gozi e ai difensori della libertà, inaugurato nel 1940, con cui veniva decantato il fallimento dell’occupazione da parte del cardinale Giulio Alberoni due secoli prima.

Da evidenziare, inoltre, che il 29 settembre del 1927, pochi mesi prima che si scatenasse la polemica contro il Trono dei poveri, prese avvio quell’imponente processo urbanistico, destinato a durare per alcuni lustri, teso soprattutto a rigenerare, enfatizzandola, la tradizione di una repubblica eroica che affondava le sue radici nel Medioevo più remoto, e a adeguare l’immagine reale del paese ad una idea/mito del tutto astorica: venne infatti inaugurata l’Ara dei Volontari, mausoleo celebrativo degli eroi sammarinesi del Risorgimento e della 1a Guerra Mondiale, gonfio di retorica e rappresentatività, che nel suo progetto iniziale avrebbe dovuto avere in cima all’obelisco che lo caratterizza ancor’oggi addirittura la statua di un guerriero dotato di scudo e spada sguainata, per dimostrare quanto anche i sammarinesi erano stati e fossero pronti a sfoderare le baionette al momento opportuno a preservazione e gloria della loro patria e dell’Italia intera.

Certamente un monumento del tutto inadatto all’universo minimale, al piccolo mondo antico di Marino Fogliani, impacciato antieroe del Trono dei poveri, emblema vivente di un paese del tutto pacifista, antimilitarista e privo, perché non se li era mai potuti permettere, di gratuiti slanci di eroismo.

Ovviamente con questa cultura di fondo, con questa mentalità roboante ed esagerata, il romanzo di Moretti non aveva alcuna chance d’incontrare i favori delle autorità sammarinesi. Se fosse stato pubblicato una ventina di anni prima probabilmente sì, ma all’epoca appariva del tutto fuori luogo a chi stava mirando a ricostruire miticamente la piccola Repubblica di San Marino forzandone e stiracchiandone la storia in tutte le maniere.

Concluderei questo mio intervento evidenziando che proprio il 1928, anno della polemica contro Moretti, fu periodo particolare per il fascismo sammarinese, perché dopo un lustro di relativa tranquillità interna al partito, che gli consentì di rappresentarsi davanti alla popolazione come monolitico tutore delle tradizioni dei padri, dell’ordine e della vita politica del paese, nonché promotore di una sana tranquillità sociale, iniziarono problemi e polemiche tra la fazione di Città, facente capo ai Gozi, e quella di Serravalle e del contado, che vedrà come leader Ezio Balducci.

Il romanzo di Marino Moretti, definito non a caso “socialistoide”, sicuramente venne visto come un ulteriore elemento perturbatore della pax fascista che, imbevuta di simboli bellicosi e di enfasi smodata, ovvero di peculiarità che stavano agli antipodi rispetto al messaggio che scaturiva dal Trono dei poveri, doveva signoreggiare sovrana ad ogni costo.


[1] RENZO DE FELICE, Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1975.

[2] Per una sua analisi più approfondita, si veda: VERTER CASALI, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, San Marino, 2002.

[3] E’ riportato in: Giuliano Gozi 1894 – 1955, San Marino, 1965.

[4] “Il Nuovo Titano”, n° 2, 12 maggio 1918. Sulla questione si veda anche: Archivio di Stato della RSM (ASRSM), Atti del Consiglio Grande e Generale, vol. L, n° 58, sedute del 23 marzo, 20 e 30 aprile 1918.

[5] ASRSM, Atti del Consiglio Grande e Generale, vol. M, n° 59, seduta dell’8 novembre 1919.

[6] Lo statuto secentesco sammarinese stabiliva che il Consiglio Principe e Sovrano fosse formato da esponenti dei due ceti in cui all’epoca veniva divisa la società sammarinese (Terra e Contado), ma dal XVIII secolo si sviluppò un terzo ceto, quello nobile, che prese il sopravvento nella gestione della comunità. Si veda sull’argomento: VERTER CASALI, Manuale di storia sammarinese, San Marino, 2009, p. 67,68.

[7] ASRSM, Atti del Consiglio Grande e Generale, vol. M, n° 59, seduta del 16 settembre 1919.

[8] Ibidem.

[9] Fascismo e Socialismo in “La Libertà”, anno 2, n° 1, 16 gennaio 1921.

[10] Sul fascismo sammarinese: ANNA LISA CARLOTTI, Storia del partito fascista sammarinese, Celuc, Milano, 1973; MARIA CRISTINA CONTI, Il fascismo a San Marino 1922 – 1945, tesi di dottorato di ricerca in scienze storiche, triennio 2001 – 2004, Dipartimento della Formazione della Scuola Superiore di Studi Storici, Università della R.S.M.

[11] “La Penna Fascista”, 2 ottobre 1922.

[12] “La Penna Fascista”, 25 dicembre 1922.

[13] “Il Popolo Sammarinese”, 15 agosto 1926.

[14] Ibidem

[15] “Il Popolo Sammarinese”, 1 ottobre 1926.

[16] Si veda a titolo di esempio l’articolo sui due letterati contenuto nel “Popolo Sammarinese” del 3 settembre 1926.

 

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