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L’argentaro del Papa    

        Era il 1476 quando Antonio di Paolo de’ Fabri di San Marino decise di andarsene a Roma a cercare quella fortuna e quella ricchezza che il suo modesto e provinciale paese natio non gli avrebbe mai potuto offrire.
        Antonio, nato una ventina di anni prima, era un artigiano di belle speranze, desideroso di imparare e affinare al meglio il mestiere che gli stava a cuore, quello di orafo, lavoro che in un burbero comune arrampicato sopra un brullo monticcello, popolato tra l’altro da gente modesta e sobria che di tutto aveva bisogno fuorché di oggetti preziosi e voluttuari, avrebbe sicuramente trovato sempre pochissimo spazio esistenziale e tantissima penuria economica.  
        I comuni italiani invece stavano vivendo la loro rinascita, il loro momento storico più fulgido e brillante. I tanti signorotti sparsi per la penisola, in particolare nelle sue zone centro – settentrionali, gareggiavano tra loro per abbellire città e  palazzi, per attorniarsi di artisti e geni capaci di allietare la loro aurea esistenza con costosissime frivolezze, nonché di renderli eterni e imperituri con opere sublimi e stupefacenti degne di valicare i tempi.  
        Erano gli anni dei Leonardo, dei Michelangelo e di tutto quello stuolo di esseri creativi e ingegnosi che hanno lasciato nella storia dell’umanità segni unici e inestimabili della presenza loro e di chi a loro affidava incombenze fondate su acume e abilità irripetibili.  
        Antonio da San Marino, stimolato forse dal clima peculiare che si respirava nelle corti italiane dell’epoca, dotato di potenziale maestria e di personalissima creatività bisognosa di trovare  materializzazione e premio, abbandonò dunque il comune sammarinese per cercar prosperità e successo altrove.  
        I Sammarinesi del passato, d’altronde, di sovente dovevano andarsene dalla loro terra per sfamarsi e sfamare i loro cari. Ma Antonio era un emigrante di lusso, uno che non aveva solo sudore e braccia nerborute da offrire a qualche padrone, come succedeva per i più. No: Antonio aveva da affidare estro e perizia a chi l’avrebbe assoldato, attributi assai ricercati e ben pagati durante il suo momento storico.  

        Soggiornò dapprima presso la corte di Urbino, a cui San Marino già da tempo era stretto da vincoli speciali e solidissimi rapporti di natura diplomatica e militare. Poi si stabilì definitivamente nella città eterna, diventando apprendista e aiutante di Andrea Bregno e di altri valenti artisti, orafi e gioiellieri che lì già operavano.  
        Nel 1492, ormai esperto del suo mestiere, si mise in proprio acquistando, con un socio, una bottega orafa ben avviata.  
        Un artigiano particolarmente solerte e valente in quegli anni poteva fare fortuna in fretta a Roma, perché i pontefici, dimentichi del messaggio evangelico e tutt’altro che affezionati a sorella povertà, spendevano a larghe mani montagne di denaro per attorniarsi di cose appariscenti e uniche.  
        Antonio da San Marino, conosciuto ormai come “Mastro Antonio Orafo”, diventò uno degli artigiani ufficiali di quel papa Alessandro VI Borgia passato alla storia per le tante nefandezze fatte, e per essere genitore di Lucrezia e Cesare, detto il Valentino. 
        Purtroppo non siamo a conoscenza della produzione artistica del nostro valente maestro, perché gli orafi non erano soliti siglare le loro opere, né renderle in qualche modo attribuibili. Tuttavia tanti documenti dell’epoca  ci testimoniano che Antonio da San Marino fu a lungo considerato uno dei migliori orefici di Roma,  puntualmente utilizzato da tutti i papi succedutisi in quegli anni, e anche da banchieri, ricchi commercianti e altri potenti delle diverse realtà politiche italiane: per cui è presumibile che la sua produzione dovette essere abbondante e di elevata qualità.  
        Questa sua privilegiata posizione sociale gli permise di entrare in contatto con il fior fiore degli artisti dell’epoca, tra i quali si fece amici importanti e famosi, come Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione, Giulio Romano. Di costoro merita però ricordare per primo Raffaello Sanzio da Urbino, a cui Antonio fu legato da grande confidenza, e anche da puntuali rapporti di lavoro: nel 1506, per esempio, sappiamo che il nostro orafo forgiò per Isabella d’Este alcuni pezzi di grande pregio su disegno proprio di Raffaello. Il legame con l’amico di Urbino fu tale che, quando Raffaello morì ancora giovane nel 1520, Antonio ricevette da lui in eredità un terreno e un dipinto.  
        Raffaello, tra l’altro, era stato anche padrino del terzo figlio di Antonio, chiamato non a caso con lo stesso nome del celeberrimo artista urbinate.  
        Mastro Antonio divenne dunque un personaggio stimato e benestante. Dalla sua bottega uscirono  artigiani assai apprezzati, come Giovanni da Firenzuola, da cui imparerà il mestiere il ben noto Benvenuto Cellini. Anche costui avrà per l’orafo sammarinese, ormai avanti negli anni, parole di apprezzamento.  
        Il peso sociale e le conoscenze di Antonio indussero la piccola comunità del Titano ad utilizzarlo come ambasciatore permanente presso la corte di Roma, con cui San Marino non sempre aveva avuto e manteneva rapporti sereni. Nell’archivio della Repubblica sono conservate diverse lettere del nostro, che spesso, con un pizzico di motivata vanagloria, si firmava “orefice in Roma”, e altre “argentaro” di questo o quel papa, in particolare di Leone X sotto il cui pontificato Antonio raggiunse il massimo della sua fama. Sono lettere piene di consigli e di ammonimenti su come comportarsi nelle situazioni che via via la Repubblica di San Marino dovette affrontare in questo turbolento periodo storico in cui essa fu costretta a subire per lungo tempo pure l’invasione ed il dominio delle armate di Cesare Borgia.  
        Da questi documenti traspare un uomo dall’indole cauta e riflessiva, costantemente pronto a suggerire ai suoi compatrioti avvedutezza e discernimento nei rapporti con i loro confinanti e con la Santa Sede, ancora legato alla sua patria, dove d’altronde continuavano a vivere i suoi fratelli e parenti, nonostante vi fosse lontano ormai da anni.  
        Antonio con la sua opera giovò senz’altro alla Repubblica, contribuendo a mantenere rapporti sereni tra lei e il papato, e a rafforzare quell’autonomia e quella libertà cui i Sammarinesi tenevano tanto, figlie indubbie di un insieme di circostanze favorevoli, ma anche di tanti uomini come Antonio,  i più ormai del tutto dimenticati.  
        Mastro Antonio passò a miglior vita nel 1522 lasciando dietro di sé alcuni figli, una moglie, una miriade di anonimi prodotti pregiati e di lusso sparsi per Roma e la penisola italiana tutta, un insieme di scritti autografi stilati in italiano cinquecentesco.  
        Non molto, per la verità, se si valuta quanto è travagliata la vita di ciascun uomo. Abbastanza però per essere degno di ricordo anche a cinquecento anni di distanza.

 

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