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Sette macro cause che hanno permesso a San Marino di essere Stato

  

Tra le svariate domande che ogni tanto mi vengono poste come studioso di storia sammarinese da chi rimane stupito di fronte alla lunga esistenza della minuscola repubblica, ce n’è una più ripetuta di altre:

“Come ha fatto San Marino a divenire Stato e a durare attraverso i tanti secoli della sua esistenza; com’è riuscito a mantenersi integro e indipendente fino a oggi”?

Sebbene sia più corretto parlare d’indipendenza non assoluta, ma vigilata e spesso arginata da chi nel tempo ha attorniato i nostri confini, vigilanza mascherata e addolcita da vocaboli come “protezione”, “amicizia”, “benevolenza”, ecc., è senz’altro una tra le domande più difficili e complesse a cui si possa tentare di dare una risposta fondata e schematica, perché non riguarda solo la storia sammarinese, ma anche la storia e le velleità di tutti coloro che avrebbero potuto sottomettere e assorbire nel corso dei secoli la microscopica comunità, senza poi farlo realmente.

Inoltre la nascita e la preservazione di qualunque Stato, piccolo o grande che sia, dipende da una miriade di fatti più o meno eclatanti, più o meno documentabili, che rendono impossibile, o comunque riduttiva, qualunque spiegazione sintetica in merito. Tuttavia alcune cause più importanti di altre sussistono sempre, e sono queste che si cercheranno di mettere a fuoco con il presente breve saggio.

Già altri studiosi hanno fornito loro pareri sulla questione dell’indipendenza sammarinese, in genere imputandola alla povertà del sito, alla sua secolare ubicazione geografica tra due signorie in lotta tra loro, al senso della libertà insito nei suoi abitanti, alla loro moralità e morigeratezza, all’attaccamento fortissimo al santo fondatore e al suo “relinquo vos liberos ab utroque homine”, frase che in passato gli è stata messa in bocca, ma che storicamente non può aver pronunciato proprio lui essendo vissuto, se è personaggio reale, antecedentemente alle lotte per le investiture.

In epoca in cui stavano emergendo le prime spinte politiche popolari per modificare le locali istituzioni, soprattutto il Consiglio dei LX non a caso chiamato ancora Principe e Sovrano, e renderle meno elitarie, ovvero alla fine del XIX secolo, molti membri dell’intellighenzia conservatrice locale attribuivano proprio alle istituzioni sammarinesi di origine comunale, codificate poi negli statuti secenteschi con la mentalità oligarchica del periodo, il principale merito della conservazione plurisecolare dell’autonomia della repubblica.

“O stiamo come siamo, o non saremo”.

Questo lo slogan in auge a quei tempi, usato per glorificare il locale impianto istituzionale, considerato quasi sacro e intoccabile pena il crollo catastrofico della mitica libertas di cui i Sammarinesi sono sempre stati “superstiziosi”, come acutamente ha osservato il cardinale Giulio Alberoni dopo aver soggiogato la repubblica nel 1739. La libertà è infatti soprattutto un fatto mentale di cui è lecito essere superstiziosi, perché ci si può sentire liberi ovunque, ma anche schiavi ovunque, e i Sammarinesi, per quanto vigilati e non di rado intralciati nelle loro libere azioni, si sono sentiti autonomi sicuramente dal XIII secolo, come documentano alcune testimonianze contenute all’interno del famoso rotolo di Valle Sant’Anastasio del 1296, forse anche da prima perché, come sostengono alcuni storici, chi vive isolato sopra un monte sviluppa più facilmente di altri il senso della libertà.

Le congetture a cui si è accennato hanno senza dubbio una valenza più o meno condivisibile, ma si possono enumerare ulteriori motivi, più dipendenti da fattori esterni piuttosto che interni, che personalmente ritengo ancor più determinanti e nodali per la sopravvivenza del nostro antico comune divenuto poi Stato.

Il problema, comunque, è quanto mai complesso e forse destinato a non essere mai risolto in modo esaustivo, anche perché, come sosteneva Machiavelli, nella vita dei singoli come degli Stati, oltre alla virtù, per avere successo occorre una certa dose di fortuna non programmabile né perseguibile con la semplice volontà. Sono convinto che non tutte le fortune e le virtù di cui i Sammarinesi hanno beneficiato nel corso della loro lunga storia siano certificabili.

Vi sono inoltre personaggi del passato, tipo Mastro Antonio orafo, Gianbattista Belluzzi, Marino Calcigni, Giuliano Corbelli e molti altri ancora, anche stranieri, magari non sempre noti, rimasti quindi anonimi e oscuri attraverso i secoli, che sono stati fondamentali per la creazione dell’indipendenza sammarinese attraverso imprese, azioni e pressioni in parte conosciute, in parte destinate a restare ignote, che definirei micro cause perché legate a fatti, eventi, contingenze particolari o fortuite, ovvero non dipendenti da azioni e volontà dei Sammarinesi.

Limitiamoci, dunque, a fare una rapida disamina dei fatti storici più macroscopici, perseguiti e non scaturiti da circostanze accidentali, che si possono documentare e che costituiscono le fondamenta analizzabili della sopravvivenza di San Marino come agglomerato indipendente, per quanto sorvegliato, attraverso i secoli.   

 1. Il Monte brullo e poco ospitale

Nel periodo altomedievale, quando la comunità sammarinese è nata, epoca di cui sappiamo ben poco al di là delle vaghe e spesso approssimative informazioni contenute nella leggenda riguardante Marino da Arbe, l’iniziatore della “libertas”, e di pochi altri documenti, l’asperità e le limitatezze del Monte Titano sono senz’altro da annoverare tra le prime cause della sopravvivenza di una piccola società sulla sua vetta. Il Titano non aveva sorgenti, né aree particolarmente adatte alla coltivazione, per cui non possedeva importanti attrattive per insediamenti stabili di lunga durata.

Pare che in epoche imprecisate già fosse utilizzato come cava per l’estrazione della pietra. Probabilmente era luogo di pascolo e di caccia, anche d’insediamento e permanenza fin dalla preistoria per periodi imprecisati, così come di vicinanza alle divinità celestiali e di culto, come dimostrano svariati ritrovamenti archeologici. Indubbiamente lo possiamo ipotizzare pure come sito dove ci si poteva isolare e nascondere senza troppa paura di venir scoperti.

Marino, stando a quanto ci dice la leggenda che illustra spesso in maniera stereotipata alcune sue vicissitudini terrene, vi sale proprio per distaccarsi dal mondo, perché il posto dove si era occultato prima, ai piedi del Titano, era stato scoperto e violato, quindi si era dimostrato inadatto come nascondiglio per chi, come lui, era impaziente di fuggire dai clamori della sua dimora precedente a Rimini, e da una donna petulante e persecutrice che lo accusava di aver abbandonato il tetto coniugale. Per quanto l’informazione sia leggendaria, non la si può scartare a priori, ma va interpretata e forse può considerarsi davvero una notizia di natura storica. E’ verosimile, infatti, che come Marino anche altri abbiano cercato rifugio sul Titano per sfuggire ai pericoli della pianura, percorsa per secoli in largo e in lungo, dopo il crollo dell’Impero Romano, da minacciosi e spietati invasori barbari, saccheggiatori seriali, da cui era meglio stare alla larga.

Da un succinto documento del periodo, si evince che agli inizi del 500 sul Titano esisteva un monastero, primo insediamento di epoca medievale di cui si abbia notizia, sorto senz’altro per opera di individui che cercavano pace, solitudine e distacco dagli altri.

“Noti a noi, ignoti agli altri” è una locuzione tipica della mentalità sammarinese dei secoli scorsi. Le origini di simile pensiero forte e categorico, che ha caratterizzato la locale concezione di vita fino alla seconda metà dell’Ottocento, forse sono ben più remote di quanto si possa credere, così come remoto può essere il concetto di “spartano”, anch’esso tipico della cultura sammarinese del passato, concetto di cui si andava orgogliosi, di sicuro non avvertito come mortificante perché molti attribuivano proprio alle ristrettezze economiche e sociali della minuscola collettività e alla dimensione esistenziale per nulla appariscente il motivo principale della sua salvezza e della secolare indipendenza. Ma su un monte brullo e con scarse risorse naturali che, per chi vi era andato a risiedere, aveva proprio in queste caratteristiche il suo fascino, non si poteva essere altro che fieramente spartani, e poco timorosi di venire infastiditi da malintenzionati a caccia di gloria e ricchezze.

Il monastero presumibilmente fu il fulcro attorno a cui si è sviluppata la prima comunità sammarinese, dedita a Dio, alla propria austera sopravvivenza, al miraggio di non venire molestata, quindi con già nell’animo un embrione di brama di libertà individuale, preludio della brama di libertà statuale.

2. I Montefeltro 

Se lo scarso interesse per il Titano come sito da sottomettere può essere stato inizialmente una causa fondamentale di salvezza e aggregazione della piccola comunità originaria, in seguito, negli ultimi secoli altomedievali, chi viveva attorno al monte si accorse della sua valenza strategica e militare: pur non essendo alto, infatti, sorge solitario in mezzo a una zona pianeggiante che domina e rende visibile per molti chilometri. Non a caso a un certo punto divenne soggetto alla giurisdizione del Vicariato di Montefeltro e al potere feudale del vescovo feretrano, cioè allo Stato Pontificio.

E’ da questo periodo che i documenti diventano via via più abbondanti e la storia della piccola comunità sammarinese un po’ più leggibile, anche se in maniera ancora piuttosto lacunosa. Nel XIII secolo il vescovo era la figura politica dominante della zona, tuttavia a partire circa dalla metà del secolo gli abitanti del Titano cominciarono a creare proprie istituzioni di stampo comunale (Reggenti, Consiglio dei XII, dei LX, norme statutarie), sempre però sotto il controllo e il benestare delle autorità ecclesiastiche.

Il processo di svincolo dal dominio vescovile fu graduale e continuò durante il XIV secolo, favorito senz’altro dal cosiddetto periodo di “cattività avignonese” del papato che aveva permesso un controllo politico meno rigido del territorio pontificio. Fondamentale per il suo concretizzarsi si dimostrò l’alleanza con i Montefeltro, signori ghibellini di Urbino e circondario, che iniziò a concretizzarsi circa dalla seconda metà del 1200, per consolidarsi fortemente nei secoli successivi.

L’alleanza fu stipulata dagli Urbinati presumibilmente per avere una potente avanguardia sui confini dei Malatesta, signori guelfi di Rimini, nemici storici dei Montefeltro e con questi spesso in conflitto per motivi di espansionismo e dominio territoriale.

E’ lecito chiedersi perché i signori di Urbino abbiano preferito avere rapporti benevoli e da alleati con San Marino piuttosto che soggiogarlo. Si può rispondere solo in maniera ipotetica: forse fu preferita per convenienza politica una sorta di subordinazione “soft” e spontanea da parte sammarinese, tanto da non apparire come tale, rispetto ad un asservimento forzoso che li avrebbe resi nemici degli Urbinati e probabili alleati dei Malatesta, visto che all’epoca nel paese operavano sia fazioni guelfe che ghibelline, e già esisteva una sorta di superstizione della libertà, per usare il concetto dell’Alberoni.

Il connubio con i Montefeltro risultò abbastanza vincolante per i Sammarinesi anche nei secoli successivi, tanto che il duca divenne figura chiave e carismatica all’interno del Consiglio dei LX, nonché personaggio fondamentale quando vi era la necessità di risolvere le grane politiche e sociali più spinose e conflittuali del paese.

Tuttavia la “sancta libertà” dei Sammarinesi, a cui tenevano moltissimo, e di cui i più dotti avevano coscienza come minimo fin dalle ultime decadi del XIII secolo, com’è documentato dal rotolo di Valle Sant’Anastasio a cui già si è accennato, fu sempre intelligentemente rispettata dagli Urbinati, che ne divennero in certo modo garanti e tutori in un momento assai travagliato della storia della penisola italiana in cui tutti erano contro tutti.

La “sancta libertà” da questo momento in poi crebbe nella coscienza sammarinese sempre più, fino a diventare mitica, “perpetua”, nata paradossalmente e inverosimilmente addirittura nel 301 d.C., in piena epoca romana, radicata in tutti, manifestata in ogni occasione possibile.

 3. Il Santo

Lo Stato Pontificio è sicuramente colui che nel corso dei secoli ha dato a San Marino i maggiori problemi nel mantenimento della sua indipendenza, in quanto non ha mai considerato la piccola repubblica un’entità pienamente autonoma, ma solo una sua porzione territoriale, un suo “feudo”, come scrisse esplicitamente Carlo Fea nel 1834 nel suo testo “Il diritto sovrano della Santa Sede sopra le Valli di Comacchio e sopra la Repubblica di S. Marino”, che aveva potuto consolidarsi e auto reggersi solo grazie alla magnanimità di alcuni papi che glielo avevano concesso nel tempo.

Finché rimase in vita il potente ducato di Urbino, dapprima sotto i Montefeltro, poi dal 1508 sotto i Della Rovere, San Marino beneficiò di una discreta protezione militare. Ciò non gl’impedì, però, di venire invaso e soggiogato nei primi anni del 1500 dalle armate di Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI. La morte del pontefice, che per la logica che ho fornito al presente testo considero una micro causa, rappresentò la repentina fine dell’avventura del Borgia, e il ripristino della signoria dei Montefeltro e dell’indipendenza sammarinese.

Nel corso dello stesso secolo la repubblica, che così ormai si definiva, subì altri due tentativi non riusciti d’invasione di probabile matrice papalina: nel 1543 da parte di Fabiano da Monte San Savino, nipote del futuro papa Giulio III; nel 1549 da parte di Lionello Pio, castellano di Verucchio.

Questo secolo fu quello in cui i Sammarinesi cominciarono ad affinare le loro capacità diplomatiche, visto ormai che, con il rapido sviluppo delle armi da fuoco, non avevano più grandi possibilità di preservare l’indipendenza del loro Stato tramite la modesta milizia cittadina di cui disponevano e le fortificazioni che attorniavano il centro storico già da secoli.

Ancora non avevano i mezzi economici per stipendiare diplomatici di professione presso le corti italiane, per cui si avvalsero dei loro cittadini che lavoravano fuori confine, in particolare a Roma, come Mastro Antonio, valente orafo dei pontefici, o Giambattista Belluzzi, architetto militare dei Della Rovere, o Giuliano Corbelli, governatore di diverse città laziali, marchigiane, romagnole ed umbre.

Solo nel 1610 fu ufficialmente nominato un “Incaricato d’affari” a Roma con lo scopo di tutelare gl’interessi sammarinesi e di mantenere buoni rapporti con lo Stato che circondava la repubblica e da cui più si temevano atteggiamenti pericolosi.

Un primo successo diplomatico fu comunque registrato nel 1548, quando la comunità ottenne dal cardinale Guido Ascanio Sforza l’esenzione da tutti i tributi e pagamenti al Vaticano, e un formale riconoscimento del loro status di comunità che si autogestiva. Tali diritti vennero poi ufficializzati l’anno seguente tramite lettera firmata da papa Paolo III.

Alla fine del secolo emerse sempre più la possibilità che si estinguessero i Della Rovere e che la loro signoria passasse sotto il controllo diretto di Roma. Non a caso si volle rinsaldare la devozione verso il santo fondatore, principale sbarramento che ora i Sammarinesi potevano avere contro eventuali pretese del pontefice: le sue ossa, infatti, ritrovate sotto l’altare della Pieve nel 1586, dove giacevano dimenticate da secoli, nel 1602 furono ufficialmente situate nel reliquiario d’argento e oro, monito visivo e tangibile, in cui ancora si trovano.  

E’ lecito ipotizzare che simile azione sia stata promossa perché si era in piena epoca controriformista, ma anche per il desiderio di enfatizzare la sacralità dell’antica indipendenza sammarinese, determinata non da patti, concessioni o licenze terrene, ma da una figura carismatica e celestiale che la Chiesa cattolica romana aveva il dovere morale e politico di rispettare.

D’altronde nel 1629, con una cerimonia sontuosa ed ufficiale, sullo stesso reliquiario venne collocata una preziosa corona per ribadire a Roma e al mondo intero che solo il Santo era l’unico principe formalmente riconosciuto e ossequiato dai Sammarinesi, l’unico garante della dimensione statuale e autonomistica di San Marino.

Anche la sua immagine dipinta cambiò consolidandosi nella figura del bonario, vecchio, saggio uomo raffigurato nel famoso quadro della scuola del Guercino, che simbolicamente e visivamente suggeriva in maniera subliminale che la repubblica era vecchia, saggia e buona quanto il suo fondatore.   

Nel 1603 il duca d’Urbino si adoperò presso il papa per raccomandare San Marino affinché fosse preso sotto la protezione di Roma senza che ne venisse lesa l’indipendenza. I Sammarinesi fecero la stessa cosa. Il 24 maggio papa Clemente VIII accettò la richiesta di divenire protettore della minuscola comunità anche a nome dei successori, purché i suoi cittadini si dimostrassero sempre “riverenti, devoti, fedeli”.

Quest’atto fu confermato il 31 agosto 1627 da un importante e minuzioso accordo sottoscritto con Urbano VIII, ribadito ulteriormente il 23 febbraio 1628 con un altro documento ancora. In questi atti, comunque, si parla prevalentemente e vagamente di “protezione” da parte dello Stato Pontificio, non di piena indipendenza della comunità sammarinese.

Proprio da ciò nasceranno le ambiguità successive e le contestazioni di Roma verso la presunta libertà perpetua dei sammarinesi. Fea nel suo testo afferma in proposito:

Questa Repubblica, e suo territorio, è sempre stata una minima frazione dello Stato della Chiesa, nel quale è inclusa: che i Sommi Pontefici sempre ne hanno disposto come hanno stimato nelle circostanze: ne hanno dilatato il territorio; le hanno accordato molti utili privilegj, ed esenzioni, che giornalmente si godono; e hanno permesso a quell’avanzo alpestre delle Repubbliche Italiane dei secoli di guerre civili, e di anarchia, di continuare a governarsi da loro con particolari Statuti approvati, e riformati a quando a quando dai Pontefici, e loro Legati, a modo di feudo; e feudo è stato sempre dichiarato, e chiamato dai medesimi Sommi Pontefici”.

Poi aggiunge:

La così detta Repubblica in sostanza è un avanzo tollerato in un monte poco invidiato, fuori di mano […] di quelle ora generalmente detestate feudalità, o piuttosto anarchie, de’ bassi tempi; avanzo erettosi col tratto del tempo a poco a poco, per la dolcezza del governo dei Sommi Pontefici in tutto lo Stato Ecclesiastico, ove le città, e paesi alquanto agiati si governavano da sé a modo di Repubblica”.

Questa logica era la stessa del cardinale Giulio Alberoni che un secolo prima, nel 1739, col consenso del papa, occupò San Marino per diversi mesi con l’intento di porre fine ad una realtà politica mal tollerata, che dava qualche fastidio come enclave in cui si nascondevano i ricercati da Roma e che facilitava forme di contrabbando dei generi di monopolio dell’epoca.

L’invasione fu facile, ma suscitò le ire della maggior parte dei Sammarinesi, vincolatissimi alla loro santa libertà, anche se non tutti, e avversi a qualsiasi sottomissione, nonché la disistima delle principali corti europee, che vedevano ormai in San Marino una reliquia storica, un’icona da non violare, la repubblica più antica del mondo.

Fea, senz’altro memore dell’episodio legato all’Alberoni, sui motivi che hanno preservato San Marino nei secoli ebbe a dire:

Più di tutto, la conservazione della Repubblica si deve all’attaccamento degli abitanti al loro santo Marino, alla loro località isolata sopra un alto monte alpestre; alla forma popo­lare del governo, che lega, ed obbliga ogni individuo, alla compiacenza di quella idea esaltata di antica LIBERTA’”.

I problemi con Roma non terminarono con la fine dell’invasione dell’Alberoni, ma ebbero reviviscenze nel 1786, sempre per il ruolo di enclave che San Marino volente o nolente esercitava, col blocco dei confini per qualche mese da parte delle truppe papaline ai comandi del cardinale Valenti Gonzaga, e per tutto il periodo risorgimentale, di cui si parlerà fra breve.

 4. Il mito

 Nonostante le velleità dello Stato pontificio, San Marino nel ‘600 aveva già assunto un ruolo riconosciuto tacitamente a livello internazionale, ovvero una fisionomia di piccolo Stato indipendente senza pretese se non quella di sopravvivere in autonomia, che lo portava ad essere mitizzato come città felice e ideale meritevole di essere lasciata in pace nella sua povertà e autogestione. L’importante testo di Aldo Garosci del 1967, “San Marino mito e storiografia tra i libertini e Carducci”, mette a fuoco proprio il mito di cui la piccola repubblica venne gradualmente rivestita a partire dal XVI secolo grazie a Flavio Biondo, Pietro Bembo e Gian Giorgio Trissino, e soprattutto nel secolo successivo con l’opera i “Ragguagli di Parnaso” di Traiano Boccalini, scritta intorno al 1610, con cui l’autore indicò San Marino come modello politico migliore di quello monarchico/nobiliare.

Quindici anni dopo sarà Ludovico Zuccolo a scrivere “Il Belluzzi, o vero della Città Felice”, un dialogo immaginario tra il Sammarinese Giovanni Andrea Belluzzi e il medico di Mondaino Vincenzo Moricucci, incentrato sulla particolare costituzione sammarinese, e sull’eccezionalità di San Marino come realtà indipendente. Lo Zuccolo spiega tale straordinarietà con la povertà e piccolezza del paese, che l’hanno tenuto fuori dai grandi agoni politici del circondario; col sito aspro e provinciale, anche se lo reputa un motivo minore; con l’amore per la patria e l’entusiasmo collettivo dei Sammarinesi per la loro indipendenza; con l’ “uguaglianza tra i mediocri”, perché era una società rustica senza grandi dislivelli interni, quindi semplicissima e senza particolari ambizioni.

Vi furono altri esaltatori della semplicità sammarinese che contribuirono a diffondere il suo mito, come l’arcadico Antonio Malegonnelle, che vide nella repubblica un residuo del Rinascimento, ritenuto l’età d’oro della penisola italiana, e una società beata che campava con poco immersa nella natura. Ugualmente fu un estimatore il medico Giovan Maria Lancisi, che visitò San Marino al seguito del cardinale Annibale Albani nel mese di giugno del 1705, ammirando il paese per il suo governo formato da un misto di aristocrazia e democrazia e per la sua tranquillità in quanto le guardie alle porte d’ingresso del centro storico facevano deporre le armi, così da non ammettere in paese “gente oziosa, che è la feccia delle città”.

Altri visitatori/estimatori della comunità sammarinese furono Joseph Addison che compì un viaggio in Italia tra il 1701 e il 1703, ovvero il grand tour che fin dal secolo precedente l’aristocrazia culturale britannica svolgeva negli antichi centri italiani. Egli salì sul Titano coperto di neve ammirandone il paesaggio rozzo e primitivo, e il suo aspetto povero e dimesso. “Con l’Addison - scrive Garosci - San Marino entrava dunque non solo nella cultura dei geografi e dei curiosi di politica, ma nella mente del grande pubblico; chè il successo della diffusione del mito, e del resto si disse che la descrizione di San Marino ebbe da sola tanta celebrità quanta tutto il resto del libro”. Probabilmente proprio per la conoscenza della repubblica promossa da questo importante letterato, nel 1817 si recò a visitare il paese addirittura la principessa di Galles, moglie dell’erede al trono inglese. Anche Montesquieu salì da Rimini sul Titano in quel periodo e ne fece una descrizione sommaria pubblicata in seguito.

Nel ‘700, in conclusione, la repubblica non era semplicemente un puntino sconosciuto sulla carta geografica della penisola italiana, ma una realtà politica nota a livello europeo e abbastanza stimata. Non a caso l’Alberoni dovette desistere dalle sue pretese di annessione del suo territorio più per le pressioni diplomatiche ricevute dal papa a Roma che per altri motivi.

Il mito repubblicano aumenterà ancor più nel corso del Risorgimento, quando dai mazziniani e dai liberali in genere San Marino verrà additato come un esempio politico a cui riferirsi.

 5. Napoleone 1°

 Fondamentale per la preservazione e valorizzazione dell’indipendenza sammarinese furono senza dubbio i rapporti avuti tra la fine del Settecento e gl’inizi del secolo successivo con Napoleone Bonaparte, così come grande protettore della repubblica risultò poi essere Napoleone III negli anni ’50 e ’60 del XIX secolo, momento delicatissimo e pericolosissimo per le velleità dei Savoia di creare un’Italia unita.

Il primo contatto tra San Marino e le armate napoleoniche non fu di certo conciliante, in quanto avvenne tramite una lettera perentoria, inviata da Rimini il 5 febbraio 1797, in cui si chiedeva l’immediata consegna del vescovo di tale città che si sapeva nascosto all’interno dei confini repubblicani.

I Sammarinesi s’industriarono subito per esaudire la richiesta, scrivendo inoltre ai Francesi una lettera in cui assicuravano piena collaborazione e affermavano che non vi sarebbe stato alcun motivo di lagnarsi per il comportamento “di una piccola popolazione povera, altrettanto che ambiziosa della libertà che gode da tempo immemorabile”. In tal modo evidenziarono subito i motivi per cui non valeva la pena invaderli: la piena volontà di cooperare, la piccolezza e povertà del territorio, la mitica e perenne libertà repubblicana fin lì goduta.

Il tono dei Francesi si raddolcì: il 7 febbraio venne recapitata ai Reggenti una seconda lettera in cui si assicurava che Napoleone non aveva intenzioni ostili verso l'antica repubblica, e si garantiva l'amicizia, la simpatia e la fratellanza della neonata repubblica francese. Addirittura veniva prospettata la possibilità di ampliamenti territoriali, qualora i Sammarinesi li avessero desiderati.

La libertà era bandita da quasi tutta l’Europa – riporta la lettera – non esisteva che a San Marino, dove, per la saggezza del vostro governo, e soprattutto per le vostre virtù, cittadini, voi avete conservato questo prezioso deposito attraverso tante rivoluzioni e difeso il suo asilo per tanti e tanti anni”.

La dimensione politica e il mito legato alla “libertas” di San Marino sedussero il giovane generale Bonaparte, all’epoca pienamente animato da ideali repubblicani e liberali. Da ciò l’atteggiamento conciliante e deferente, probabilmente un po’ opportunistico, che ebbe in seguito: infatti ben poca ricchezza avrebbe ottenuto soggiogando il paese, mentre molto più avrebbe ottenuto, a livello propagandistico, col totale rispetto dello Stato che anche all’epoca era considerato il più antico di tutti. Il leone, insomma, che risparmia il topolino.

Sembraci ancora un sogno la gentile sorpresa che voi ci faceste”, risposero le autorità sammarinesi, meravigliate da tanta magnanimità. “Questa è la prima volta che, distinti dalla turba vile dei servi, abbiamo ricevuto un onore che era riserbato alla vostra grande Nazione di conferirci”.

Riguardo all’ampliamento territoriale, lo rifiutarono garbatamente (e con grande acume, visto ciò che succederà in seguito col Congresso di Vienna), affermando che San Marino era “contenta della sua piccolezza”, e che non ardiva “accettare l’offerta generosa che le vien fatta, né entrare in viste di ambizioso ingrandimento che potrebbero col tempo compromettere la sua libertà”.

I rapporti col Bonaparte si tranquillizzarono istantaneamente, dunque, e si mantennero ottimi e pacati per tutti gli anni in cui dominò sulla penisola italiana e l’Europa. Quando finì la sua epopea, il Congresso di Vienna non ebbe nulla da imputare a San Marino, per cui lo ignorò totalmente lasciandolo nelle condizioni di sempre, ma anche nei rapporti ambigui con lo Stato Pontificio.

Il riconoscimento politico ricevuto da Napoleone aveva però acuito nei Sammarinesi il sentimento di essere cittadini di uno Stato sovrano, cosa che non poteva risultare gradita al Vaticano, soprattutto in un momento in cui avvenivano continue sollevazioni contro i governi e le logiche dell’Ancien Regime, ed il suolo sammarinese era sovente utilizzato dai ribelli come nascondiglio. Non a caso sono questi gli anni in cui a Roma fu pubblicato il libro di Carlo Fea più volte citato.

 6. Il Risorgimento e Napoleone III

 Dagli anni ’20 in avanti del XIX secolo gli attriti tra autorità sammarinesi e pontificie furono continui e in crescendo, fino al famoso scampo di Garibaldi del 1849 che determinò velenosi strascichi sia con i confinanti di San Marino, sia all’interno della piccola società.

Oltre alle continue polemiche verbali con Roma, testimoniate dalle tante lettere intercorse, avvenne un’azione eclatante che scaturì dalla tensione esistente: il blocco dei confini sammarinesi da parte delle truppe papaline nel giugno del 1851, seguita da meticolosa ispezione del territorio sammarinese concordata con le locali autorità, che in realtà non ebbero scelta alternativa, alla ricerca di rifugiati politici e criminali comuni che i papalini ritenevano fossero centinaia.

L’azione fu repentina, in certe situazioni prepotente, e portò all’arresto di soli 35 rifugiati, ma lasciò nei giovani liberali che vi erano anche a San Marino forte malumore e la convinzione che il governo del Titano fosse troppo arrendevole verso la autorità pontificie, considerate simbolo vivente del mondo appartenente al passato che volevano abbattere.

Questo fatto fu una delle cause che il 14 luglio 1853 determinò l’assassinio del Segretario politico sammarinese Gianbattista Bonelli da parte di due giovani liberali locali. Inoltre la situazione sociale divenne tanto agitata da portare ad altri due omicidi l’anno dopo.

Tale stato di cose creò notevole allarme nel circondario, a Roma e nel Granducato di Toscana, che sospettavano l’azione incontrastata di una setta mazziniana assassina all’interno del suolo sammarinese, e la seria intenzione di mettere sotto diretto controllo la piccola repubblica, ormai considerata in preda a totale anarchia ed assolutamente inadeguata a gestire la turbolenta situazione che stava vivendo.

I Sammarinesi, però, si erano già mossi per tempo percependo la pericolosità del momento storico: per garantire la loro sopravvivenza e prevenire eventuali rappresaglie da parte dei confinanti, fin dal 1851-52 avevano cercato tutela e protezione presso qualche potente corte europea, trovandola alla fine in Napoleone III, neo imperatore di Francia, a cui nel dicembre del 1852 avevano inviato una lettera piena di complimenti e lusinghe e, nei primi mesi dell’anno successivo, un delegato per carpirne benevolenza e simpatia.

Il neoimperatore, verosimilmente per emulare il suo più illustre predecessore, con lettera del 14 giugno 1853 colma di simpatia e parole premurose, assicurò amicizia e protezione a San Marino donando pure una cassa di libri come suo omaggio personale.

Nei mesi successivi le relazioni con la corte napoleonica divennero molto più strette, tanto che la repubblica decise di attivarvi il suo primo consolato, che iniziò ad operare nel maggio del 1854.

Grazie a questi nuovi forti rapporti diplomatici, Granducato di Toscana e Stato Pontificio non ebbero il coraggio d’intervenire autonomamente negli affari interni sammarinesi, dopo i delitti di cui si è detto, senza prima avvisare la Francia di quello che, secondo la loro opinione, stava pericolosamente avvenendo all’interno del territorio sammarinese.

Nel 1854, dunque, Napoleone III optò di verificare direttamente la situazione inviando un suo funzionario. Costui rimase sul Titano per qualche tempo e relazionò che gli allarmi lanciati dai confinanti sammarinesi erano esagerati e preconcetti, per cui non occorreva porre la repubblica sotto tutela speciale perché non vi era nessuna setta assassina. La situazione così si normalizzò e le acque tornarono progressivamente a placarsi. San Marino sia per virtù che per fortuna riuscì a salvarsi ancora.

 7. Il Regno d’Italia

 L’amicizia e la protezione di Napoleone III, insieme ad altre cause ancora, furono determinanti alla preservazione dell’autonomia sammarinese anche quando si consolidò il Regno d’Italia dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza. Le autorità del Titano si erano già mosse ulteriormente perché, oltre a garantirsi la protezione della Francia, fin dal 1857 avevano allacciato rapporti amichevoli e diplomatici con il Regno di Savoia istituendo a Torino un “Incaricato d'Affari” in grado di agire a vantaggio della repubblica, cosa resa facile dalla simpatia che re Vittorio Emanuele II nutriva “verso l’unico ed antico avanzo delle Repubbliche Italiane”, come fu scritto all’interno della lettera in cui si comunicava il gradimento della nuova figura diplomatica.

Nel novembre dello stesso anno si era voluto donare una medaglia a Cavour, per ovvi motivi di “captatio benevolentiae”, così quando i Savoia nel 1861 posero sotto il loro dominio buona parte della penisola italiana, San Marino non venne colto spiazzato, avendo già allacciato importanti rapporti con Torino e la corte sabauda.

Inoltre nel 1859, appena scoppiata la Seconda Guerra d’Indipendenza, aveva inviato a Londra il suo console francese per cercare di suscitare simpatia ed eventuale sostegno anche da parte di quella potente nazione, in quanto non aveva certezze su quali tipi di rapporti si sarebbero poi realmente instaurati coi Savoia, e sulla possibilità di mantenere integra la sua indipendenza. Le autorità inglesi in maggio manifestarono la loro amicizia e simpatia, cosa che tranquillizzò un po’ di più i governanti del Titano.

Nel 1860 i contatti con Torino divennero più fitti, in quanto ormai tutti i territori attorno ai confini sammarinesi erano caduti sotto il controllo del governo piemontese. Le prime relazioni tra il neo regno italiano e la vetusta repubblica non si mantennero sempre tranquille e cordiali, perché San Marino rappresentava un problema pure per i suoi nuovi vicini come nascondiglio occasionale dei suoi nemici o dei disertori dell’esercito.

I primi funzionari sabaudi che s’insediarono a capo delle città e dei comuni dell'Emilia-Romagna contattarono inizialmente la repubblica solo per chiedere la consegna di qualche rifugiato. Lo stesso Cavour, nel mese di maggio, scrisse ai governanti sammarinesi una lettera accusatoria dai toni assai poco amichevoli in cui affermava che nel territorio sammarinese trovavano fin troppo facile riparo malviventi e disertori, e da qui poi si muovevano per fare scorrerie nel circondario. Invitava dunque le locali autorità ad una maggiore e più rigorosa vigilanza su chi entrava e usciva dai loro confini.

Occorre dire, tuttavia, che il modo in cui le autorità italiane si rivolgevano a quelle sammarinesi, pur a volte perentorio come nella lettera di Cavour, era in genere ben diverso e più disponibile di quello che in precedenza era stato tenuto dalle autorità pontificie, perché il regno italiano fin da subito ebbe verso la repubblica un atteggiamento di rispettosa stima, considerandola a tutti gli effetti uno Stato autonomo e sovrano da rispettare e non da annettere.

Quali le cause di tanto riguardo? Senz’altro le stesse che già avevano indotto Napoleone Bonaparte a rispettare l’indipendenza sammarinese (la piccolezza, la povertà, l’antichità, il forte simbolismo che la permeava come più antico Stato del mondo, il suo mito repubblicano conosciuto a livello internazionale, l’effetto propagandistico, ecc.), con in più una manifesta simpatia da parte del re Vittorio Emanuele II, affetto che coinvolgeva anche tantissimi sudditi del nuovo regno, tra cui figure importanti, come Garibaldi, che a San Marino si erano salvati, o vi avevano visto una possibile salvezza, o semplicemente un modello politico da imitare.

Inoltre è fondamentale sottolineare che la repubblica si trovava ancora sotto la protezione di Napoleone III e della Francia, ovvero di una potenza che in quel particolare momento storico le autorità sabaude non potevano di certo permettersi di provocare ulteriormente, dopo le tensioni sviluppatesi tra le due nazioni durante lo svolgimento della guerra che aveva portato l’Italia quasi alla sua completa unificazione, e soprattutto dopo la firma dell’armistizio di Villafranca voluto da Napoleone per porre fine all’alleanza con i Savoia. Da ricordare che fu proprio l’esercito francese ad impedire che la città di Roma e lo Stato pontifico fossero incorporati nel regno d’Italia fino al 1870, ovvero fino alla sconfitta subita da parte della Prussia e alla destituzione dello stesso imperatore.

Occorre aggiungere, inoltre, che il senso d’indipendenza era talmente antico e radicato nei Sammarinesi che nessuno di loro si mosse per chiedere plebisciti con cui far annettere il piccolo Stato al neo regno, come stava invece accadendo negli altri Stati preunitari della penisola italiana. I diplomatici della repubblica di Francia e di Torino si raccomandavano in continuazione di fare attenzione soprattutto a questo aspetto, perché se fosse scaturita dai cittadini la richiesta di un plebiscito popolare per verificare la possibilità di un’eventuale annessione, San Marino si sarebbe potuto trovare solo e senza protezione davanti al concreto rischio di perdere la propria sovranità.

D’altronde dopo l’unificazione le polemiche con l’Italia furono così cospicue, a volte addirittura allarmanti, da indurre i governanti sammarinesi ad esercitare costante pressione sul suo console francese affinché facesse di tutto per mantenere la repubblica nelle grazie di Napoleone III.

Sempre per motivi di “captatio benevolentiae”, nel marzo del 1861 il Consiglio deliberò di concedere la cittadinanza onoraria al presidente americano Abramo Lincoln, per creare simpatia e favore verso l’autonomia di San Marino da parte della sua nazione, la repubblica più grande del mondo. Nello stesso periodo la cittadinanza fu conferita non a caso anche a Garibaldi.

Tutti questi fatti indussero il nuovo regno sabaudo ad intavolare trattative diplomatiche con la piccola repubblica per stipulare un trattato utile a dirimere le controversie sui rifugiati, frenare il pericolo del contrabbando di sale, tabacco e polvere pirica, pratica in uso da secoli attraverso i confini sammarinesi, regolare, in definitiva, tutti i rapporti commerciali e di altro genere tra i due Stati confinanti.

Tale convenzione fu firmata il 22 marzo 1862 e in seguito aggiornata o rinnovata periodicamente. La sua importanza sta soprattutto nel fatto che San Marino venne trattato, per la prima volta nella sua storia, come uno Stato, sebbene sempre sotto la “protezione” italiana, a cui  però non si diede la stessa accezione soggiogante attribuitagli in precedenza dalle autorità pontificie.

Vi furono diverse crisi con l’Italia nei decenni seguenti, anche gravi, come nel 1874, quando il territorio sammarinese fu circondato perché lo si riteneva rifugio di troppi nemici politici del governo italiano, e s’impose l’apertura di un consolato al suo interno; o nel 1957, per i turbolenti fatti politici di Rovereta, che portarono ad un governo ben accetto all’Italia al posto di quello socialcomunista andato al potere nel 1945, o nei decenni successivi per problemi legati all’elusione o evasione fiscale favoriti da società con sede a San Marino.

Tuttavia la repubblica non ha più dovuto temere pericoli d’invasione o di annessione, sebbene in più occasioni sia stata indotta a dirimere i problemi con l’Italia non proprio come avrebbe desiderato, ma la sua piccolezza e la sua fisionomia di enclave circondata soltanto dallo Stato italiano non le hanno mai permesso di potersi comportare con assoluta libertà.

Si può terminare questo discorso evidenziando che nel 1974 la repubblica è entrata a far parte dell’Unesco, accolta nella Conferenza Generale di quell’anno per acclamazione dai 132 Stati che allora ne erano membri a pieno titolo.

In seguito, il 2 marzo 1992, dopo aver avuto accreditato per alcuni anni presso l’ONU a New York un proprio osservatore permanente, San Marino è stato ammesso a pieno titolo anche nell’Organizzazione delle Nazioni Unite divenendone di fatto il 175° paese aderente.  

 (Il presente saggio è stato pubblicato sull’Annuario della Scuola Secondaria Superiore di San Marino, n. XLIV, edito per l’anno scolastico 2016-2017)

 

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