Sette macro cause che hanno permesso a San Marino
di essere Stato
Tra
le svariate domande che ogni tanto mi vengono poste come studioso di
storia sammarinese da chi rimane stupito di fronte alla lunga
esistenza della minuscola repubblica, ce n’è una più ripetuta di
altre:
“Come ha fatto San Marino a divenire Stato e a durare attraverso i
tanti secoli della sua esistenza; com’è riuscito a mantenersi
integro e indipendente fino a oggi”?
Sebbene sia più corretto parlare d’indipendenza non assoluta, ma
vigilata e spesso arginata da chi nel tempo ha attorniato i nostri
confini, vigilanza mascherata e addolcita da vocaboli come
“protezione”, “amicizia”, “benevolenza”, ecc., è senz’altro una tra
le domande più difficili e complesse a cui si possa tentare di dare
una risposta fondata e schematica, perché non riguarda solo la
storia sammarinese, ma anche la storia e le velleità di tutti coloro
che avrebbero potuto sottomettere e assorbire nel corso dei secoli
la microscopica comunità, senza poi farlo realmente.
Inoltre la nascita e la preservazione di qualunque Stato, piccolo o
grande che sia, dipende da una miriade di fatti più o meno
eclatanti, più o meno documentabili, che rendono impossibile, o
comunque riduttiva, qualunque spiegazione sintetica in merito.
Tuttavia alcune cause più importanti di altre sussistono sempre, e
sono queste che si cercheranno di mettere a fuoco con il presente
breve saggio.
Già
altri studiosi hanno fornito loro pareri sulla questione
dell’indipendenza sammarinese, in genere imputandola alla povertà
del sito, alla sua secolare ubicazione geografica tra due signorie
in lotta tra loro, al senso della libertà insito nei suoi abitanti,
alla loro moralità e morigeratezza, all’attaccamento fortissimo al
santo fondatore e al suo “relinquo vos liberos ab utroque homine”,
frase che in passato gli è stata messa in bocca, ma che storicamente
non può aver pronunciato proprio lui essendo vissuto, se è
personaggio reale, antecedentemente alle lotte per le investiture.
In
epoca in cui stavano emergendo le prime spinte politiche popolari
per modificare le locali istituzioni, soprattutto il Consiglio dei
LX non a caso chiamato ancora Principe e Sovrano, e renderle meno
elitarie, ovvero alla fine del XIX secolo, molti membri
dell’intellighenzia conservatrice locale attribuivano proprio alle
istituzioni sammarinesi di origine comunale, codificate poi negli
statuti secenteschi con la mentalità oligarchica del periodo, il
principale merito della conservazione plurisecolare dell’autonomia
della repubblica.
“O
stiamo come siamo, o non saremo”.
Questo lo slogan in auge a quei tempi, usato per glorificare il
locale impianto istituzionale, considerato quasi sacro e intoccabile
pena il crollo catastrofico della mitica libertas di cui i
Sammarinesi sono sempre stati “superstiziosi”, come acutamente ha
osservato il cardinale Giulio Alberoni dopo aver soggiogato la
repubblica nel 1739. La libertà è infatti soprattutto un fatto
mentale di cui è lecito essere superstiziosi, perché ci si può
sentire liberi ovunque, ma anche schiavi ovunque, e i Sammarinesi,
per quanto vigilati e non di rado intralciati nelle loro libere
azioni, si sono sentiti autonomi sicuramente dal XIII secolo, come
documentano alcune testimonianze contenute all’interno del famoso
rotolo di Valle Sant’Anastasio del 1296, forse anche da prima
perché, come sostengono alcuni storici, chi vive isolato sopra un
monte sviluppa più facilmente di altri il senso della libertà.
Le
congetture a cui si è accennato hanno senza dubbio una valenza più o
meno condivisibile, ma si possono enumerare ulteriori motivi, più
dipendenti da fattori esterni piuttosto che interni, che
personalmente ritengo ancor più determinanti e nodali per la
sopravvivenza del nostro antico comune divenuto poi Stato.
Il
problema, comunque, è quanto mai complesso e forse destinato a non
essere mai risolto in modo esaustivo, anche perché, come sosteneva
Machiavelli, nella vita dei singoli come degli Stati, oltre alla
virtù, per avere successo occorre una certa dose di fortuna non
programmabile né perseguibile con la semplice volontà. Sono convinto
che non tutte le fortune e le virtù di cui i Sammarinesi hanno
beneficiato nel corso della loro lunga storia siano certificabili.
Vi
sono inoltre personaggi del passato, tipo Mastro Antonio orafo,
Gianbattista Belluzzi, Marino Calcigni, Giuliano Corbelli e molti
altri ancora, anche stranieri, magari non sempre noti, rimasti
quindi anonimi e oscuri attraverso i secoli, che sono stati
fondamentali per la creazione dell’indipendenza sammarinese
attraverso imprese, azioni e pressioni in parte conosciute, in parte
destinate a restare ignote, che definirei micro cause perché legate
a fatti, eventi, contingenze particolari o fortuite, ovvero non
dipendenti da azioni e volontà dei Sammarinesi.
Limitiamoci, dunque, a fare una rapida disamina dei fatti storici
più macroscopici, perseguiti e non scaturiti da circostanze
accidentali, che si possono documentare e che costituiscono le
fondamenta analizzabili della sopravvivenza di San Marino come
agglomerato indipendente, per quanto sorvegliato, attraverso i
secoli.
1. Il Monte brullo e poco ospitale
Nel
periodo altomedievale, quando la comunità sammarinese è nata, epoca
di cui sappiamo ben poco al di là delle vaghe e spesso
approssimative informazioni contenute nella leggenda riguardante
Marino da Arbe, l’iniziatore della “libertas”, e di pochi
altri documenti, l’asperità e le limitatezze del Monte Titano sono
senz’altro da annoverare tra le prime cause della sopravvivenza di
una piccola società sulla sua vetta. Il Titano non aveva sorgenti,
né aree particolarmente adatte alla coltivazione, per cui non
possedeva importanti attrattive per insediamenti stabili di lunga
durata.
Pare
che in epoche imprecisate già fosse utilizzato come cava per
l’estrazione della pietra. Probabilmente era luogo di pascolo e di
caccia, anche d’insediamento e permanenza fin dalla preistoria per
periodi imprecisati, così come di vicinanza alle divinità celestiali
e di culto, come dimostrano svariati ritrovamenti archeologici.
Indubbiamente lo possiamo ipotizzare pure come sito dove ci si
poteva isolare e nascondere senza troppa paura di venir scoperti.
Marino, stando a quanto ci dice la leggenda che illustra spesso in
maniera stereotipata alcune sue vicissitudini terrene, vi sale
proprio per distaccarsi dal mondo, perché il posto dove si era
occultato prima, ai piedi del Titano, era stato scoperto e violato,
quindi si era dimostrato inadatto come nascondiglio per chi, come
lui, era impaziente di fuggire dai clamori della sua dimora
precedente a Rimini, e da una donna petulante e persecutrice che lo
accusava di aver abbandonato il tetto coniugale. Per quanto
l’informazione sia leggendaria, non la si può scartare a priori, ma
va interpretata e forse può considerarsi davvero una notizia di
natura storica. E’ verosimile, infatti, che come Marino anche altri
abbiano cercato rifugio sul Titano per sfuggire ai pericoli della
pianura, percorsa per secoli in largo e in lungo, dopo il crollo
dell’Impero Romano, da minacciosi e spietati invasori barbari,
saccheggiatori seriali, da cui era meglio stare alla larga.
Da
un succinto documento del periodo, si evince che agli inizi del 500
sul Titano esisteva un monastero, primo insediamento di epoca
medievale di cui si abbia notizia, sorto senz’altro per opera di
individui che cercavano pace, solitudine e distacco dagli altri.
“Noti a noi, ignoti agli altri” è una locuzione tipica della
mentalità sammarinese dei secoli scorsi. Le origini di simile
pensiero forte e categorico, che ha caratterizzato la locale
concezione di vita fino alla seconda metà dell’Ottocento, forse sono
ben più remote di quanto si possa credere, così come remoto può
essere il concetto di “spartano”, anch’esso tipico della cultura
sammarinese del passato, concetto di cui si andava orgogliosi, di
sicuro non avvertito come mortificante perché molti attribuivano
proprio alle ristrettezze economiche e sociali della minuscola
collettività e alla dimensione esistenziale per nulla appariscente
il motivo principale della sua salvezza e della secolare
indipendenza. Ma su un monte brullo e con scarse risorse naturali
che, per chi vi era andato a risiedere, aveva proprio in queste
caratteristiche il suo fascino, non si poteva essere altro che
fieramente spartani, e poco timorosi di venire infastiditi da
malintenzionati a caccia di gloria e ricchezze.
Il
monastero presumibilmente fu il fulcro attorno a cui si è sviluppata
la prima comunità sammarinese, dedita a Dio, alla propria austera
sopravvivenza, al miraggio di non venire molestata, quindi con già
nell’animo un embrione di brama di libertà individuale, preludio
della brama di libertà statuale.
2. I Montefeltro
Se
lo scarso interesse per il Titano come sito da sottomettere può
essere stato inizialmente una causa fondamentale di salvezza e
aggregazione della piccola comunità originaria, in seguito, negli
ultimi secoli altomedievali, chi viveva attorno al monte si accorse
della sua valenza strategica e militare: pur non essendo alto,
infatti, sorge solitario in mezzo a una zona pianeggiante che domina
e rende visibile per molti chilometri. Non a caso a un certo punto
divenne soggetto alla giurisdizione del Vicariato di Montefeltro e
al potere feudale del vescovo feretrano, cioè allo Stato Pontificio.
E’
da questo periodo che i documenti diventano via via più abbondanti e
la storia della piccola comunità sammarinese un po’ più leggibile,
anche se in maniera ancora piuttosto lacunosa. Nel XIII secolo il
vescovo era la figura politica dominante della zona, tuttavia a
partire circa dalla metà del secolo gli abitanti del Titano
cominciarono a creare proprie istituzioni di stampo comunale
(Reggenti, Consiglio dei XII, dei LX, norme statutarie), sempre però
sotto il controllo e il benestare delle autorità ecclesiastiche.
Il
processo di svincolo dal dominio vescovile fu graduale e continuò
durante il XIV secolo, favorito senz’altro dal cosiddetto periodo di
“cattività avignonese” del papato che aveva permesso un controllo
politico meno rigido del territorio pontificio. Fondamentale per il
suo concretizzarsi si dimostrò l’alleanza con i Montefeltro, signori
ghibellini di Urbino e circondario, che iniziò a concretizzarsi
circa dalla seconda metà del 1200, per consolidarsi fortemente nei
secoli successivi.
L’alleanza fu stipulata dagli Urbinati presumibilmente per avere una
potente avanguardia sui confini dei Malatesta, signori guelfi di
Rimini, nemici storici dei Montefeltro e con questi spesso in
conflitto per motivi di espansionismo e dominio territoriale.
E’
lecito chiedersi perché i signori di Urbino abbiano preferito avere
rapporti benevoli e da alleati con San Marino piuttosto che
soggiogarlo. Si può rispondere solo in maniera ipotetica: forse fu
preferita per convenienza politica una sorta di subordinazione
“soft” e spontanea da parte sammarinese, tanto da non apparire come
tale, rispetto ad un asservimento forzoso che li avrebbe resi nemici
degli Urbinati e probabili alleati dei Malatesta, visto che
all’epoca nel paese operavano sia fazioni guelfe che ghibelline, e
già esisteva una sorta di superstizione della libertà, per usare il
concetto dell’Alberoni.
Il
connubio con i Montefeltro risultò abbastanza vincolante per i
Sammarinesi anche nei secoli successivi, tanto che il duca divenne
figura chiave e carismatica all’interno del Consiglio dei LX, nonché
personaggio fondamentale quando vi era la necessità di risolvere le
grane politiche e sociali più spinose e conflittuali del paese.
Tuttavia la “sancta libertà” dei Sammarinesi, a cui tenevano
moltissimo, e di cui i più dotti avevano coscienza come minimo fin
dalle ultime decadi del XIII secolo, com’è documentato dal rotolo di
Valle Sant’Anastasio a cui già si è accennato, fu sempre
intelligentemente rispettata dagli Urbinati, che ne divennero in
certo modo garanti e tutori in un momento assai travagliato della
storia della penisola italiana in cui tutti erano contro tutti.
La
“sancta libertà” da questo momento in poi crebbe nella coscienza
sammarinese sempre più, fino a diventare mitica, “perpetua”, nata
paradossalmente e inverosimilmente addirittura nel 301 d.C., in
piena epoca romana, radicata in tutti, manifestata in ogni occasione
possibile.
3. Il Santo
Lo
Stato Pontificio è sicuramente colui che nel corso dei secoli ha
dato a San Marino i maggiori problemi nel mantenimento della sua
indipendenza, in quanto non ha mai considerato la piccola repubblica
un’entità pienamente autonoma, ma solo una sua porzione
territoriale, un suo “feudo”, come scrisse esplicitamente Carlo Fea
nel 1834 nel suo testo “Il diritto sovrano della Santa Sede sopra le
Valli di Comacchio e sopra la Repubblica di S. Marino”, che aveva
potuto consolidarsi e auto reggersi solo grazie alla magnanimità di
alcuni papi che glielo avevano concesso nel tempo.
Finché rimase in vita il potente ducato di Urbino, dapprima sotto i
Montefeltro, poi dal 1508 sotto i Della Rovere, San Marino beneficiò
di una discreta protezione militare. Ciò non gl’impedì, però, di
venire invaso e soggiogato nei primi anni del 1500 dalle armate di
Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro VI. La morte del pontefice,
che per la logica che ho fornito al presente testo considero una
micro causa, rappresentò la repentina fine dell’avventura del Borgia,
e il ripristino della signoria dei Montefeltro e dell’indipendenza
sammarinese.
Nel
corso dello stesso secolo la repubblica, che così ormai si definiva,
subì altri due tentativi non riusciti d’invasione di probabile
matrice papalina: nel 1543 da parte di Fabiano da Monte San Savino,
nipote del futuro papa Giulio III; nel 1549 da parte di Lionello
Pio, castellano di Verucchio.
Questo secolo fu quello in cui i Sammarinesi cominciarono ad
affinare le loro capacità diplomatiche, visto ormai che, con il
rapido sviluppo delle armi da fuoco, non avevano più grandi
possibilità di preservare l’indipendenza del loro Stato tramite la
modesta milizia cittadina di cui disponevano e le fortificazioni che
attorniavano il centro storico già da secoli.
Ancora non avevano i mezzi economici per stipendiare diplomatici di
professione presso le corti italiane, per cui si avvalsero dei loro
cittadini che lavoravano fuori confine, in particolare a Roma, come
Mastro Antonio, valente orafo dei pontefici, o Giambattista Belluzzi,
architetto militare dei Della Rovere, o Giuliano Corbelli,
governatore di diverse città laziali, marchigiane, romagnole ed
umbre.
Solo
nel 1610 fu ufficialmente nominato un “Incaricato d’affari” a Roma
con lo scopo di tutelare gl’interessi sammarinesi e di mantenere
buoni rapporti con lo Stato che circondava la repubblica e da cui
più si temevano atteggiamenti pericolosi.
Un
primo successo diplomatico fu comunque registrato nel 1548, quando
la comunità ottenne dal cardinale Guido Ascanio Sforza l’esenzione
da tutti i tributi e pagamenti al Vaticano, e un formale
riconoscimento del loro status di comunità che si autogestiva. Tali
diritti vennero poi ufficializzati l’anno seguente tramite lettera
firmata da papa Paolo III.
Alla
fine del secolo emerse sempre più la possibilità che si
estinguessero i Della Rovere e che la loro signoria passasse sotto
il controllo diretto di Roma. Non a caso si volle rinsaldare la
devozione verso il santo fondatore, principale sbarramento che ora i
Sammarinesi potevano avere contro eventuali pretese del pontefice:
le sue ossa, infatti, ritrovate sotto l’altare della Pieve nel 1586,
dove giacevano dimenticate da secoli, nel 1602 furono ufficialmente
situate nel reliquiario d’argento e oro, monito visivo e tangibile,
in cui ancora si trovano.
E’
lecito ipotizzare che simile azione sia stata promossa perché si era
in piena epoca controriformista, ma anche per il desiderio di
enfatizzare la sacralità dell’antica indipendenza sammarinese,
determinata non da patti, concessioni o licenze terrene, ma da una
figura carismatica e celestiale che la Chiesa cattolica romana aveva
il dovere morale e politico di rispettare.
D’altronde nel 1629, con una cerimonia sontuosa ed ufficiale, sullo
stesso reliquiario venne collocata una preziosa corona per ribadire
a Roma e al mondo intero che solo il Santo era l’unico principe
formalmente riconosciuto e ossequiato dai Sammarinesi, l’unico
garante della dimensione statuale e autonomistica di San Marino.
Anche la sua immagine dipinta cambiò consolidandosi nella figura del
bonario, vecchio, saggio uomo raffigurato nel famoso quadro della
scuola del Guercino, che simbolicamente e visivamente suggeriva in
maniera subliminale che la repubblica era vecchia, saggia e buona
quanto il suo fondatore.
Nel
1603 il duca d’Urbino si adoperò presso il papa per raccomandare San
Marino affinché fosse preso sotto la protezione di Roma senza che ne
venisse lesa l’indipendenza. I Sammarinesi fecero la stessa cosa. Il
24 maggio papa Clemente VIII accettò la richiesta di divenire
protettore della minuscola comunità anche a nome dei successori,
purché i suoi cittadini si dimostrassero sempre “riverenti, devoti,
fedeli”.
Quest’atto fu confermato il 31 agosto 1627 da un importante e
minuzioso accordo sottoscritto con Urbano VIII, ribadito
ulteriormente il 23 febbraio 1628 con un altro documento ancora. In
questi atti, comunque, si parla prevalentemente e vagamente di
“protezione” da parte dello Stato Pontificio, non di piena
indipendenza della comunità sammarinese.
Proprio da ciò nasceranno le ambiguità successive e le contestazioni
di Roma verso la presunta libertà perpetua dei sammarinesi. Fea nel
suo testo afferma in proposito:
“Questa
Repubblica, e suo territorio, è sempre stata una minima frazione
dello Stato della Chiesa, nel quale è inclusa: che i Sommi Pontefici
sempre ne hanno disposto come hanno stimato nelle circostanze: ne
hanno dilatato il territorio; le hanno accordato molti utili
privilegj, ed esenzioni, che giornalmente si godono; e hanno
permesso a quell’avanzo alpestre delle Repubbliche Italiane dei
secoli di guerre civili, e di anarchia, di continuare a governarsi
da loro con particolari Statuti approvati, e riformati a quando a
quando dai Pontefici, e loro Legati, a modo di feudo; e feudo è
stato sempre dichiarato, e chiamato dai medesimi Sommi Pontefici”.
Poi
aggiunge:
“La
così detta Repubblica in sostanza è un avanzo tollerato in un monte
poco invidiato, fuori di mano […] di quelle ora generalmente
detestate feudalità, o piuttosto anarchie, de’ bassi tempi; avanzo
erettosi col tratto del tempo a poco a poco, per la dolcezza del
governo dei Sommi Pontefici in tutto lo Stato Ecclesiastico, ove le
città, e paesi alquanto agiati si governavano da sé a modo di
Repubblica”.
Questa logica era la stessa del cardinale Giulio Alberoni che un
secolo prima, nel 1739, col consenso del papa, occupò San Marino per
diversi mesi con l’intento di porre fine ad una realtà politica mal
tollerata, che dava qualche fastidio come enclave in cui si
nascondevano i ricercati da Roma e che facilitava forme di
contrabbando dei generi di monopolio dell’epoca.
L’invasione fu facile, ma suscitò le ire della maggior parte dei
Sammarinesi, vincolatissimi alla loro santa libertà, anche se non
tutti, e avversi a qualsiasi sottomissione, nonché la disistima
delle principali corti europee, che vedevano ormai in San Marino una
reliquia storica, un’icona da non violare, la repubblica più antica
del mondo.
Fea,
senz’altro memore dell’episodio legato all’Alberoni, sui motivi che
hanno preservato San Marino nei secoli ebbe a dire:
“Più
di tutto, la conservazione della Repubblica si deve all’attaccamento
degli abitanti al loro santo Marino, alla loro località isolata
sopra un alto monte alpestre; alla forma popolare del governo, che
lega, ed obbliga ogni individuo, alla compiacenza di quella idea
esaltata di antica LIBERTA’”.
I
problemi con Roma non terminarono con la fine dell’invasione dell’Alberoni,
ma ebbero reviviscenze nel 1786, sempre per il ruolo di enclave che
San Marino volente o nolente esercitava, col blocco dei confini per
qualche mese da parte delle truppe papaline ai comandi del cardinale
Valenti Gonzaga, e per tutto il periodo risorgimentale, di cui si
parlerà fra breve.
4. Il mito
Nonostante
le velleità dello Stato pontificio, San Marino nel ‘600 aveva già
assunto un ruolo riconosciuto tacitamente a livello internazionale,
ovvero una fisionomia di piccolo Stato indipendente senza pretese se
non quella di sopravvivere in autonomia, che lo portava ad essere
mitizzato come città felice e ideale meritevole di essere lasciata
in pace nella sua povertà e autogestione. L’importante testo di Aldo
Garosci del 1967, “San Marino mito e storiografia tra i libertini e
Carducci”, mette a fuoco proprio il mito di cui la piccola
repubblica venne gradualmente rivestita a partire dal XVI secolo
grazie a Flavio Biondo, Pietro Bembo e Gian Giorgio Trissino, e
soprattutto nel secolo successivo con l’opera i “Ragguagli di
Parnaso” di Traiano Boccalini, scritta intorno al 1610, con cui
l’autore indicò San Marino come modello politico migliore di quello
monarchico/nobiliare.
Quindici anni dopo sarà Ludovico Zuccolo a scrivere “Il Belluzzi, o
vero della Città Felice”, un dialogo immaginario tra il Sammarinese
Giovanni Andrea Belluzzi e il medico di Mondaino Vincenzo Moricucci,
incentrato sulla particolare costituzione sammarinese, e
sull’eccezionalità di San Marino come realtà indipendente. Lo
Zuccolo spiega tale straordinarietà con la povertà e piccolezza del
paese, che l’hanno tenuto fuori dai grandi agoni politici del
circondario; col sito aspro e provinciale, anche se lo reputa un
motivo minore; con l’amore per la patria e l’entusiasmo collettivo
dei Sammarinesi per la loro indipendenza; con l’ “uguaglianza tra i
mediocri”, perché era una società rustica senza grandi dislivelli
interni, quindi semplicissima e senza particolari ambizioni.
Vi
furono altri esaltatori della semplicità sammarinese che
contribuirono a diffondere il suo mito, come l’arcadico Antonio
Malegonnelle, che vide nella repubblica un residuo del Rinascimento,
ritenuto l’età d’oro della penisola italiana, e una società beata
che campava con poco immersa nella natura. Ugualmente fu un
estimatore il medico Giovan Maria Lancisi, che visitò San Marino al
seguito del cardinale Annibale Albani nel mese di giugno del 1705,
ammirando il paese per il suo governo formato da un misto di
aristocrazia e democrazia e per la sua tranquillità in quanto le
guardie alle porte d’ingresso del centro storico facevano deporre le
armi, così da non ammettere in paese “gente oziosa, che è la feccia
delle città”.
Altri visitatori/estimatori della comunità sammarinese furono Joseph
Addison che compì un viaggio in Italia tra il 1701 e il 1703, ovvero
il grand tour che fin dal secolo precedente l’aristocrazia
culturale britannica svolgeva negli antichi centri italiani. Egli
salì sul Titano coperto di neve ammirandone il paesaggio rozzo e
primitivo, e il suo aspetto povero e dimesso. “Con l’Addison -
scrive Garosci - San Marino entrava dunque non solo nella cultura
dei geografi e dei curiosi di politica, ma nella mente del grande
pubblico; chè il successo della diffusione del mito, e del resto si
disse che la descrizione di San Marino ebbe da sola tanta celebrità
quanta tutto il resto del libro”. Probabilmente proprio per la
conoscenza della repubblica promossa da questo importante letterato,
nel 1817 si recò a visitare il paese addirittura la principessa di
Galles, moglie dell’erede al trono inglese. Anche Montesquieu salì
da Rimini sul Titano in quel periodo e ne fece una descrizione
sommaria pubblicata in seguito.
Nel
‘700, in conclusione, la repubblica non era semplicemente un puntino
sconosciuto sulla carta geografica della penisola italiana, ma una
realtà politica nota a livello europeo e abbastanza stimata. Non a
caso l’Alberoni dovette desistere dalle sue pretese di annessione
del suo territorio più per le pressioni diplomatiche ricevute dal
papa a Roma che per altri motivi.
Il
mito repubblicano aumenterà ancor più nel corso del Risorgimento,
quando dai mazziniani e dai liberali in genere San Marino verrà
additato come un esempio politico a cui riferirsi.
5.
Napoleone 1°
Fondamentale
per la preservazione e valorizzazione dell’indipendenza sammarinese
furono senza dubbio i rapporti avuti tra la fine del Settecento e
gl’inizi del secolo successivo con Napoleone Bonaparte, così come
grande protettore della repubblica risultò poi essere Napoleone III
negli anni ’50 e ’60 del XIX secolo, momento delicatissimo e
pericolosissimo per le velleità dei Savoia di creare un’Italia
unita.
Il
primo contatto tra San Marino e le armate napoleoniche non fu di
certo conciliante, in quanto avvenne tramite una lettera perentoria,
inviata da Rimini il 5 febbraio 1797, in cui si chiedeva l’immediata
consegna del vescovo di tale città che si sapeva nascosto
all’interno dei confini repubblicani.
I
Sammarinesi s’industriarono subito per esaudire la richiesta,
scrivendo inoltre ai Francesi una lettera in cui assicuravano piena
collaborazione e affermavano che non vi sarebbe stato alcun motivo
di lagnarsi per il comportamento “di una piccola popolazione povera,
altrettanto che ambiziosa della libertà che gode da tempo
immemorabile”. In tal modo evidenziarono subito i motivi per cui non
valeva la pena invaderli: la piena volontà di cooperare, la
piccolezza e povertà del territorio, la mitica e perenne libertà
repubblicana fin lì goduta.
Il
tono dei Francesi si raddolcì: il 7 febbraio venne recapitata ai
Reggenti una seconda lettera in cui si assicurava che Napoleone non
aveva intenzioni ostili verso l'antica repubblica, e si garantiva
l'amicizia, la simpatia e la fratellanza della neonata repubblica
francese. Addirittura veniva prospettata la possibilità di
ampliamenti territoriali, qualora i Sammarinesi li avessero
desiderati.
“La
libertà era bandita da quasi tutta l’Europa – riporta la lettera
– non esisteva che a San Marino, dove, per la saggezza del vostro
governo, e soprattutto per le vostre virtù, cittadini, voi avete
conservato questo prezioso deposito attraverso tante rivoluzioni e
difeso il suo asilo per tanti e tanti anni”.
La
dimensione politica e il mito legato alla “libertas” di San Marino
sedussero il giovane generale Bonaparte, all’epoca pienamente
animato da ideali repubblicani e liberali. Da ciò l’atteggiamento
conciliante e deferente, probabilmente un po’ opportunistico, che
ebbe in seguito: infatti ben poca ricchezza avrebbe ottenuto
soggiogando il paese, mentre molto più avrebbe ottenuto, a livello
propagandistico, col totale rispetto dello Stato che anche all’epoca
era considerato il più antico di tutti. Il leone, insomma, che
risparmia il topolino.
“Sembraci
ancora un sogno la gentile sorpresa che voi ci faceste”,
risposero le autorità sammarinesi, meravigliate da tanta
magnanimità. “Questa è la prima volta che, distinti dalla turba
vile dei servi, abbiamo ricevuto un onore che era riserbato alla
vostra grande Nazione di conferirci”.
Riguardo all’ampliamento territoriale, lo rifiutarono garbatamente
(e con grande acume, visto ciò che succederà in seguito col
Congresso di Vienna), affermando che San Marino era “contenta
della sua piccolezza”, e che non ardiva “accettare l’offerta
generosa che le vien fatta, né entrare in viste di ambizioso
ingrandimento che potrebbero col tempo compromettere la sua libertà”.
I
rapporti col Bonaparte si tranquillizzarono istantaneamente, dunque,
e si mantennero ottimi e pacati per tutti gli anni in cui dominò
sulla penisola italiana e l’Europa. Quando finì la sua epopea, il
Congresso di Vienna non ebbe nulla da imputare a San Marino, per cui
lo ignorò totalmente lasciandolo nelle condizioni di sempre, ma
anche nei rapporti ambigui con lo Stato Pontificio.
Il
riconoscimento politico ricevuto da Napoleone aveva però acuito nei
Sammarinesi il sentimento di essere cittadini di uno Stato sovrano,
cosa che non poteva risultare gradita al Vaticano, soprattutto in un
momento in cui avvenivano continue sollevazioni contro i governi e
le logiche dell’Ancien Regime, ed il suolo sammarinese era sovente
utilizzato dai ribelli come nascondiglio. Non a caso sono questi gli
anni in cui a Roma fu pubblicato il libro di Carlo Fea più volte
citato.
6.
Il Risorgimento e Napoleone III
Dagli anni ’20 in avanti del XIX secolo gli attriti tra autorità
sammarinesi e pontificie furono continui e in crescendo, fino al
famoso scampo di Garibaldi del 1849 che determinò velenosi
strascichi sia con i confinanti di San Marino, sia all’interno della
piccola società.
Oltre alle continue polemiche verbali con Roma, testimoniate dalle
tante lettere intercorse, avvenne un’azione eclatante che scaturì
dalla tensione esistente: il blocco dei confini sammarinesi da parte
delle truppe papaline nel giugno del 1851, seguita da meticolosa
ispezione del territorio sammarinese concordata con le locali
autorità, che in realtà non ebbero scelta alternativa, alla ricerca
di rifugiati politici e criminali comuni che i papalini ritenevano
fossero centinaia.
L’azione fu repentina, in certe situazioni prepotente, e portò
all’arresto di soli 35 rifugiati, ma lasciò nei giovani liberali che
vi erano anche a San Marino forte malumore e la convinzione che il
governo del Titano fosse troppo arrendevole verso la autorità
pontificie, considerate simbolo vivente del mondo appartenente al
passato che volevano abbattere.
Questo fatto fu una delle cause che il 14 luglio 1853 determinò
l’assassinio del Segretario politico sammarinese Gianbattista
Bonelli da parte di due giovani liberali locali. Inoltre la
situazione sociale divenne tanto agitata da portare ad altri due
omicidi l’anno dopo.
Tale
stato di cose creò notevole allarme nel circondario, a Roma e nel
Granducato di Toscana, che sospettavano l’azione incontrastata di
una setta mazziniana assassina all’interno del suolo sammarinese, e
la seria intenzione di mettere sotto diretto controllo la piccola
repubblica, ormai considerata in preda a totale anarchia ed
assolutamente inadeguata a gestire la turbolenta situazione che
stava vivendo.
I
Sammarinesi, però, si erano già mossi per tempo percependo la
pericolosità del momento storico: per garantire la loro
sopravvivenza e prevenire eventuali rappresaglie da parte dei
confinanti, fin dal 1851-52 avevano cercato tutela e protezione
presso qualche potente corte europea, trovandola alla fine in
Napoleone III, neo imperatore di Francia, a cui nel dicembre del
1852 avevano inviato una lettera piena di complimenti e lusinghe e,
nei primi mesi dell’anno successivo, un delegato per carpirne
benevolenza e simpatia.
Il
neoimperatore, verosimilmente per emulare il suo più illustre
predecessore, con lettera del 14 giugno 1853 colma di simpatia e
parole premurose, assicurò amicizia e protezione a San Marino
donando pure una cassa di libri come suo omaggio personale.
Nei
mesi successivi le relazioni con la corte napoleonica divennero
molto più strette, tanto che la repubblica decise di attivarvi il
suo primo consolato, che iniziò ad operare nel maggio del 1854.
Grazie a questi nuovi forti rapporti diplomatici, Granducato di
Toscana e Stato Pontificio non ebbero il coraggio d’intervenire
autonomamente negli affari interni sammarinesi, dopo i delitti di
cui si è detto, senza prima avvisare la Francia di quello che,
secondo la loro opinione, stava pericolosamente avvenendo
all’interno del territorio sammarinese.
Nel
1854, dunque, Napoleone III optò di verificare direttamente la
situazione inviando un suo funzionario. Costui rimase sul Titano per
qualche tempo e relazionò che gli allarmi lanciati dai confinanti
sammarinesi erano esagerati e preconcetti, per cui non occorreva
porre la repubblica sotto tutela speciale perché non vi era nessuna
setta assassina. La situazione così si normalizzò e le acque
tornarono progressivamente a placarsi. San Marino sia per virtù che
per fortuna riuscì a salvarsi ancora.
7. Il Regno d’Italia
L’amicizia e la protezione di Napoleone III, insieme ad altre cause
ancora, furono determinanti alla preservazione dell’autonomia
sammarinese anche quando si consolidò il Regno d’Italia dopo la
Seconda Guerra d’Indipendenza. Le autorità del Titano si erano già
mosse ulteriormente perché, oltre a garantirsi la protezione della
Francia, fin dal 1857 avevano allacciato rapporti amichevoli e
diplomatici con il Regno di Savoia istituendo a Torino un
“Incaricato d'Affari” in grado di agire a vantaggio della
repubblica, cosa resa facile dalla simpatia che re Vittorio Emanuele
II nutriva “verso l’unico ed antico avanzo delle Repubbliche
Italiane”, come fu scritto all’interno della lettera in cui si
comunicava il gradimento della nuova figura diplomatica.
Nel
novembre dello stesso anno si era voluto donare una medaglia a
Cavour, per ovvi motivi di “captatio benevolentiae”, così quando i
Savoia nel 1861 posero sotto il loro dominio buona parte della
penisola italiana, San Marino non venne colto spiazzato, avendo già
allacciato importanti rapporti con Torino e la corte sabauda.
Inoltre nel 1859, appena scoppiata la Seconda Guerra d’Indipendenza,
aveva inviato a Londra il suo console francese per cercare di
suscitare simpatia ed eventuale sostegno anche da parte di quella
potente nazione, in quanto non aveva certezze su quali tipi di
rapporti si sarebbero poi realmente instaurati coi Savoia, e sulla
possibilità di mantenere integra la sua indipendenza. Le autorità
inglesi in maggio manifestarono la loro amicizia e simpatia, cosa
che tranquillizzò un po’ di più i governanti del Titano.
Nel
1860 i contatti con Torino divennero più fitti, in quanto ormai
tutti i territori attorno ai confini sammarinesi erano caduti sotto
il controllo del governo piemontese. Le prime relazioni tra il neo
regno italiano e la vetusta repubblica non si mantennero sempre
tranquille e cordiali, perché San Marino rappresentava un problema
pure per i suoi nuovi vicini come nascondiglio occasionale dei suoi
nemici o dei disertori dell’esercito.
I
primi funzionari sabaudi che s’insediarono a capo delle città e dei
comuni dell'Emilia-Romagna contattarono inizialmente la repubblica
solo per chiedere la consegna di qualche rifugiato. Lo stesso
Cavour, nel mese di maggio, scrisse ai governanti sammarinesi una
lettera accusatoria dai toni assai poco amichevoli in cui affermava
che nel territorio sammarinese trovavano fin troppo facile riparo
malviventi e disertori, e da qui poi si muovevano per fare scorrerie
nel circondario. Invitava dunque le locali autorità ad una maggiore
e più rigorosa vigilanza su chi entrava e usciva dai loro confini.
Occorre dire, tuttavia, che il modo in cui le autorità italiane si
rivolgevano a quelle sammarinesi, pur a volte perentorio come nella
lettera di Cavour, era in genere ben diverso e più disponibile di
quello che in precedenza era stato tenuto dalle autorità pontificie,
perché il regno italiano fin da subito ebbe verso la repubblica un
atteggiamento di rispettosa stima, considerandola a tutti gli
effetti uno Stato autonomo e sovrano da rispettare e non da
annettere.
Quali le cause di tanto riguardo? Senz’altro le stesse che già
avevano indotto Napoleone Bonaparte a rispettare l’indipendenza
sammarinese (la piccolezza, la povertà, l’antichità, il forte
simbolismo che la permeava come più antico Stato del mondo, il suo
mito repubblicano conosciuto a livello internazionale, l’effetto
propagandistico, ecc.), con in più una manifesta simpatia da parte
del re Vittorio Emanuele II, affetto che coinvolgeva anche
tantissimi sudditi del nuovo regno, tra cui figure importanti, come
Garibaldi, che a San Marino si erano salvati, o vi avevano visto una
possibile salvezza, o semplicemente un modello politico da imitare.
Inoltre è fondamentale sottolineare che la repubblica si trovava
ancora sotto la protezione di Napoleone III e della Francia, ovvero
di una potenza che in quel particolare momento storico le autorità
sabaude non potevano di certo permettersi di provocare
ulteriormente, dopo le tensioni sviluppatesi tra le due nazioni
durante lo svolgimento della guerra che aveva portato l’Italia quasi
alla sua completa unificazione, e soprattutto dopo la firma
dell’armistizio di Villafranca voluto da Napoleone per porre fine
all’alleanza con i Savoia. Da ricordare che fu proprio l’esercito
francese ad impedire che la città di Roma e lo Stato pontifico
fossero incorporati nel regno d’Italia fino al 1870, ovvero fino
alla sconfitta subita da parte della Prussia e alla destituzione
dello stesso imperatore.
Occorre aggiungere, inoltre, che il senso d’indipendenza era
talmente antico e radicato nei Sammarinesi che nessuno di loro si
mosse per chiedere plebisciti con cui far annettere il piccolo Stato
al neo regno, come stava invece accadendo negli altri Stati
preunitari della penisola italiana. I diplomatici della repubblica
di Francia e di Torino si raccomandavano in continuazione di fare
attenzione soprattutto a questo aspetto, perché se fosse scaturita
dai cittadini la richiesta di un plebiscito popolare per verificare
la possibilità di un’eventuale annessione, San Marino si sarebbe
potuto trovare solo e senza protezione davanti al concreto rischio
di perdere la propria sovranità.
D’altronde dopo l’unificazione le polemiche con l’Italia furono così
cospicue, a volte addirittura allarmanti, da indurre i governanti
sammarinesi ad esercitare costante pressione sul suo console
francese affinché facesse di tutto per mantenere la repubblica nelle
grazie di Napoleone III.
Sempre per motivi di “captatio benevolentiae”, nel marzo del 1861 il
Consiglio deliberò di concedere la cittadinanza onoraria al
presidente americano Abramo Lincoln, per creare simpatia e favore
verso l’autonomia di San Marino da parte della sua nazione, la
repubblica più grande del mondo. Nello stesso periodo la
cittadinanza fu conferita non a caso anche a Garibaldi.
Tutti questi fatti indussero il nuovo regno sabaudo ad intavolare
trattative diplomatiche con la piccola repubblica per stipulare un
trattato utile a dirimere le controversie sui rifugiati, frenare il
pericolo del contrabbando di sale, tabacco e polvere pirica, pratica
in uso da secoli attraverso i confini sammarinesi, regolare, in
definitiva, tutti i rapporti commerciali e di altro genere tra i due
Stati confinanti.
Tale
convenzione fu firmata il 22 marzo 1862 e in seguito aggiornata o
rinnovata periodicamente. La sua importanza sta soprattutto nel
fatto che San Marino venne trattato, per la prima volta nella sua
storia, come uno Stato, sebbene sempre sotto la “protezione”
italiana, a cui però non si diede la stessa accezione soggiogante
attribuitagli in precedenza dalle autorità pontificie.
Vi
furono diverse crisi con l’Italia nei decenni seguenti, anche gravi,
come nel 1874, quando il territorio sammarinese fu circondato perché
lo si riteneva rifugio di troppi nemici politici del governo
italiano, e s’impose l’apertura di un consolato al suo interno; o
nel 1957, per i turbolenti fatti politici di Rovereta, che portarono
ad un governo ben accetto all’Italia al posto di quello
socialcomunista andato al potere nel 1945, o nei decenni successivi
per problemi legati all’elusione o evasione fiscale favoriti da
società con sede a San Marino.
Tuttavia la repubblica non ha più dovuto temere pericoli d’invasione
o di annessione, sebbene in più occasioni sia stata indotta a
dirimere i problemi con l’Italia non proprio come avrebbe
desiderato, ma la sua piccolezza e la sua fisionomia di enclave
circondata soltanto dallo Stato italiano non le hanno mai permesso
di potersi comportare con assoluta libertà.
Si
può terminare questo discorso evidenziando che nel 1974 la
repubblica è entrata a far parte dell’Unesco, accolta nella
Conferenza Generale di quell’anno per acclamazione dai 132 Stati che
allora ne erano membri a pieno titolo.
In
seguito, il 2 marzo 1992, dopo aver avuto accreditato per alcuni
anni presso l’ONU a New York un proprio osservatore permanente, San
Marino è stato ammesso a pieno titolo anche nell’Organizzazione
delle Nazioni Unite divenendone di fatto il 175° paese aderente.
(Il
presente saggio è stato pubblicato sull’Annuario della Scuola
Secondaria Superiore di San Marino, n. XLIV, edito per l’anno
scolastico 2016-2017)
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