Verter Casali personaggio del
mese
L’indipendenza storicamente relativa
di San Marino
Angela Venturini
La “fiscofobia” dei sammarinesi è
solo un fatto di attualità? Le manifestazioni sul Pianello, gli
assalti a Palazzo Pubblico, le proteste contro i politici sono solo
un esempio della moderna democrazia partecipata?
Macché! Ci sono sempre stati.
Ce lo rivela uno storico, anzi un
ricercatore di storia come Verter Casali che, proprio analizzando
questi aspetti ha coniato il neologismo “fiscofobia”, paura delle
tasse. O meglio avversione alle tasse, che i sammarinesi hanno
espresso con così tanta veemenza già agli inizi del Novecento, tanto
da arrivare al famoso Arengo del 1906.
Verter Casali,
ricercatore di storia, laureato in filosofia con indirizzo storico,
professore di storia e filosofia presso il nostrano Liceo, è un
esperto di storia sammarinese. Tante e assai note le sue
pubblicazioni, dalla prima, famosissima, “Il delitto Bonelli” del
1992, seguito subito dopo da “I tempi di Palamede Malpeli” e da
altri, tra cui l’ormai diffusissimo “Manuale di storia sammarinese”.
Tantissimi gli scritti e le ricerche sulla storia politica e sugli
eventi che hanno caratterizzato Ottocento e Novecento. Il suo ultimo
lavoro, per la Cassa Edile, con il titolo “50 anni al servizio della
comunità” è stato presentato ufficialmente alla Reggenza il 12
ottobre scorso.
Professore,
da cosa nasce questo suo amore per la storia sammarinese?
Dalla mia tesi di laurea, che ho
voluto dedicare all’Arengo del 1906
E adesso a cosa sta lavorando?
A un testo per l’Annuario della
Scuola Superiore dove vado ad analizzare l’avversione, storica, dei
sammarinesi per il fisco e dove appunto ho coniato il termine “fiscofobia”.
Quindi, le vicende che viviamo oggi,
con le proteste della gente di fronte a Palazzo, non sono una
novità?
Assolutamente no. Nel 1797, in pieno
clima giacobino, quando gli echi della rivoluzione francese hanno
invaso ormai tutta l’Europa, anche a San Marino alcuni cittadini
manifestano la volontà di tornare ad una democrazia effettiva, non
soltanto oligarchica. Così, un’ottantina di persone si radunano sul
Pianello, ammucchiano le fascine davanti al vecchio Palazzo e
minacciano di fare un immenso falò con tutti i Consiglieri dentro,
se non vengono accettate le loro richieste.
Quando arriviamo invece alla prima
protesta contro le tasse?
Forse pochi lo sanno, ma l’Arengo
del 1906 nasce da una protesta fiscale. All’inizio del secolo, lo
Stato si trova con un deficit di 200 mila lire, una cifra assai
consistente per l’epoca. Nel 1902 viene dato ad un tributarista
italiano il compito di articolare una riforma tributaria per colmare
questo buco e avviare un sistema fiscale che non fosse basato solo
su espedienti. Remo Giacomini, insieme a Ignazio Grazia e Telemaco
Martelli, tutti e tre di indole riformista, cominciano ad agitare
gli animi: la riforma va bene, ma la deve approvare un referendum
popolare. Da lì inizia la richiesta di referendum, che porta allo
storico Arengo del 1906.
E la riforma tributaria?
Si deve aspettare il 1922. E anche
qui ci sono polemiche a non finire. L’Unione Democratica, un partito
dell’epoca, addirittura esce dal Consiglio. Tante le contestazioni
sul Pianello. Con persone per niente pacifiche.
Oggi le cronache si infiammano per
l’assalto al Palazzo, ci sono precedenti?
Sì, nel 1984. Me lo ricordo anch’io,
che non sono più giovanissimo. Quella volta, i manifestanti sono
riusciti ad entrare nell’atrio e i pochi Gendarmi che c’erano li
hanno fermati che erano già sullo scalone, pronti ad entrare nella
sala del Consiglio.
Insomma, non c’è nulla di nuovo
sotto il sole…
In effetti è così. Anche se oggi non
si manifesta solo per la riforma tributaria. La protesta comprende
altri temi fondamentali, come la forte disoccupazione giovanile, la
crisi economica e il deficit di Bilancio, che fa altrettanta paura.
Considerata la ristrettezza
territoriale di San Marino, potrebbe sembrare che sul fronte storico
non ci sia più niente dire, o da scoprire. Lei che è un esperto, ne
conviene?
No assolutamente. C’è ancora
tantissimo da scoprire. Ci sono tutti gli archivi criminali che
hanno una serie infinita di notizie. E’ un mare magnum completamente
inesplorato. La documentazione del 1300, del 1400 è ancora poco
conosciuta perché ci vogliono specialisti che sappiano decifrare il
tipo di scrittura. Ci sono ancora tanti archivi privati, come quello
dei Gozi, o dei Fattori, che non sono stati mai esplorati a fondo.
Uno dei miei prossimi lavori riguarderà l’archivio Giacomini, che
attualmente è in fase di catalogazione, per approfondire l’attività
e le vicende del Novecento.
Perché, allora, si conosce così poco
della nostra storia, sia recente, sia passata?
La nostra storia ha due momenti
fondamentali: prima del fascismo e dopo. Il fascismo, come tutti i
regimi, ha fatto una manipolazione della storia locale, per questo
molti studi non sono stati mai avviati. Non interessava approfondire
le radici povere e montanare della popolazione sammarinese.
Interessava invece l’esaltazione, l’apologia. Per questo, la nostra
generazione conosce solo Garibaldi, Napoleone, o l’episodio
alberoniano. I grandi fatti. I piccoli fatti, invece, li abbiamo
scoperti dopo la Seconda Guerra mondiale. Per questo motivo c’è
ancora tanto da studiare a da capire. Compresa la storia del
fascismo e quello che viene dopo, come i fatti di Rovereta su cui
solo da poco tempo è iniziata un’indagine approfondita.
E’ un concetto ormai abbastanza
diffuso che la storia l’abbiano scritta sempre i vincitori. Anche a
Rovereta l’hanno scritta i vincitori?
La storia di Rovereta non è stata
ancora del tutto scritta! Ci sono
tanti libri, ma una storia organica, di taglio scientifico, non è
ancora emersa perché a tutt’oggi, quando si prova ad indagare, si
accendono gli animi e piovono le accuse di essere da una parte o
dall’altra. E poi mancano molti documenti. Rovereta è stato il primo
episodio internazionale della nostra storia. Sono emersi vari
documenti americani, ma mancano completamente quelli di
stampo comunista. C’erano di mezzo i servizi segreti. Insomma, ci
sono tanti aspetti affatto sconosciuti.
Parliamo del mito dell’indipendenza
di San Marino. La storia, invece, ci rivela che più volte è stata
violata, o non riconosciuta. Come si può conciliare la realtà con il
mito?
Per tutta l’epoca dello Stato
Pontificio, non si può parlare di indipendenza ma di un po’ di
libertà. Dopo l’unificazione d’Italia, le cose cambiano, ma non
subito perché Cavour non ci vede di buon occhio. Ma già nel 1862,
data della prima convenzione con il Regno d’Italia, San Marino
inizia un iter di affermazione della sua indipendenza, che lo
porterà alla fine del Novecento (fino)
ad entrare nell’ONU.
Oggi ci scandalizziamo quando una
pattuglia varca il confine. In passato è successo ben di peggio, non
solo con invasioni di soldati stranieri, ma anche con atti
unilaterali presi da parti esterne. Allora, l’indipendenza è solo
nella nostra idealizzazione?
Più che altro, è un’indipendenza
storicamente relativa. I sammarinesi hanno dovuto sempre scendere a
patti, non possono battere i pugni sul tavolo… La sopravvivenza
dello Stato è sempre stata frutto di compromessi: prima con il
ducato di Urbino, poi lo Stato Pontificio, poi il Regno d’Italia, e
adesso con l’Europa, passando attraverso i vari Scelba, Visco,
Tremonti. Ma questo non accade solo a noi, accade a tutti i piccoli
Paesi, che hanno una loro libertà interna sul fronte normativo,
giudiziario, fiscale, ecc. dovuta appunto alla loro statualità.
Ciascuno di essi deve però relazionarsi quotidianamente con
l’esterno e certe anomalie, o differenziazioni, spesso vengono
perseguite. La logica dell’indipendenza assoluta forse non è mai
esistita, e oggi sicuramente non esiste più. Ogni Stato è vincolato
a qualcosa di superiore. O, ancora più spesso, all’andamento dei
mercati. La globalizzazione c’è anche a livello politico, e i più
forti comandano sugli altri.
In questa logica, ci sarà posto
nella storia futura per i piccoli Stati?
Sicuramente sì! Io ne sono convinto
perché siamo il residuo di un passato che nessuno ha interesse a
sopprimere. San Marino non è stato cancellato da Napoleone, ma
neppure dall’Italia, perché siamo comunque un emblema storico. Un
simbolo che non si può abbattere. Come non si può abbattere un
monumento!
Professore, lei è a contatto
quotidiano con i giovani. La storia piace alle giovani generazioni?
Direi di sì. Una mia ex studentessa,
ormai mia valente collega, Valentina Rossi, ha intrapreso la
carriera di ricercatrice. Credo che sarà proprio lei a raccogliere
il mio testimone.
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