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Un golpe da operetta

 Il 5 giugno del 1933 giunsero in treno a Rimini da Palermo lo studente in legge Luigi Canepa, ventenne, in compagnia di suo cugino Luigi Attinelli, rappresentante di commercio ventisettenne, «due giovani dalla apparenza inoffensiva»[1]. Dopo poche ore, salirono sul Monte Titano dove per otto giorni dimorarono presso un albergo, e in seguito affittarono una casa.   

Nel periodo vi erano state contestazioni da parte di qualcuno contro i locali governanti fascisti, per cui i gendarmi stavano particolarmente attenti a ciò che succedeva a livello sociale, e a chi, provenendo da fuori confine, soggiornava a lungo a San Marino: i due giovani, quindi, furono posti discretamente sotto controllo e pedinati a distanza.

Si comportavano infatti in maniera bizzarra: osservavano con attenzione le case dei governanti e delle autorità locali, facevano indagini strane e insolite per essere semplicemente due turisti venuti in Repubblica per «motivi di salute», come avevano dichiarato, si erano recati alla Casa del Fascio e in alcuni uffici pubblici con pretesti futili per fare domande specifiche ed ambigue, avevano manifestato il desiderio di visitare anche la caserma dei gendarmi, erano entrati nella sede della Cassa di Risparmio chiedendo di ricevere l’elenco dei contribuenti, si erano recati più volte nei Castelli del territorio, assumevano informazioni «sulle cose sammarinesi ed in ispecie sulle persone delle più alte autorità», avevano svolto vari indefinibili viaggi a Rimini, stavano insomma agendo in maniera molto atipica ed equivoca per essere due semplici soggiornanti bisognosi dell’aria fina del Titano, come andavano raccontando un po’ a tutti.     

Un simile comportamento indusse la gendarmeria sammarinese a chiedere informazioni sul loro conto alla questura di Palermo il 10 giugno. Pochi giorni dopo le fu risposto che erano giovani incensurati e di regolare condotta, tuttavia consigliava di usare «cauta vigilanza» nei loro confronti.

Insospettiti che non fossero solo turisti, ma avessero propositi oscuri, il 14 giugno i militi optarono di perquisire la residenza che avevano affittato a San Marino: qui sequestrarono vari documenti, tra cui una lettera datata 9 giugno scritta da Antonio Canepa, fratello di Luigi, in cui si ventilava che il 18 mattina, una domenica, un gruppo di persone proveniente dalla Sicilia in treno si sarebbe recato nella Repubblica per portare a termine un colpo di stato.

I due furono subito arrestati e incarcerati, e il giorno dopo sottoposti ad interrogatorio: Attinelli asserì che si trovava a San Marino senza sapere nulla delle reali intenzioni del cugino, affermazione che ribadì anche durante gl’interrogatori successivi, mentre Canepa dichiarò che vi era stato inviato dal fratello col fine di prendere informazioni sul paese, sui Reggenti, sulle dimore delle autorità, in particolare dei Gozi, sulle disponibilità economiche delle banche e dello Stato, ecc., così da preparare il terreno ad un golpe con cui si sarebbe dovuto ribaltare il locale governo fascista che sapevano inviso alla cittadinanza.

Aggiunse inoltre che, da quanto dettogli da un certo Gabriele Torre che aveva incontrato in precedenza e che gli aveva prospettato la congiura, menti del complotto erano Ezio Balducci e Ferruccio Martelli, due fascisti dissidenti avversi al governo della Repubblica, fuggiti da San Marino anni prima, bramosi di prendere il potere dopo l’abbattimento del governo. La cospirazione «aveva lo scopo di sopprimere i fratelli Gozi ed i Capitani Reggenti e di impossessarsi del denaro esistente sia presso le banche sia presso le Casse Governative sia presso le più facoltose famiglie del luogo»[2].

Il 25 giugno “Il Popolo Sammarinese”, periodico del locale partito fascista (PFS), uscì urlando contro il «nefando complotto» ideato da «un’orda di briganti, assoldati dai fuoriusciti sammarinesi» nei «bassifondi della Sicilia», pronti ad attentare alla vita dei Reggenti e a far «strage di Autorità, funzionari e cittadini», a depredare i beni pubblici e privati, ad impossessarsi con violenza dei gangli vitali della Repubblica grazie a «ordigni micidiali» trasportati in «pesanti bauli». Per raggiungere il loro scopo, gli assalitori non avrebbero esitato a «terrorizzare la popolazione della città e falcidiare quanti sammarinesi per avventura avessero mostrato intenzioni di reagire».  

Il giorno prima, il tribunale della Repubblica inviò un memorandum al regio procuratore italiano in cui si dettagliavano le presunte azioni ostili verso il legittimo governo da parte di Martelli e Balducci «esclusi (per indisciplina) dal partito fascista Sammarinese», e autori dal 1931 in poi di «campagna a mezzo di stampa anonima e del giornale per diminuire il credito e la fiducia verso i governanti», con lo scopo successivo di «abbattere i governanti stessi coi mezzi più opportuni e occorrendo anche coi mezzi violenti»[3].

Scopo di questo documento era conseguire la carcerazione e la successiva estradizione dei ribelli. In effetti la polizia italiana già in precedenza aveva avviato indagini per capire meglio l’accaduto, giungendo ad arrestare per qualche tempo Martelli e a incarcerarlo a Regina Coeli. Il 7 luglio, però, il sottosegretario agli esteri Fulvio Suvich aveva inviato una lettera alle autorità sammarinesi in cui precisava che «detto complotto è da attribuirsi esclusivamente al progetto di un giovane ammalato di mente quale è risultato essere il Canepa Antonio, dalle Regie autorità già ricoverato in manicomio»[4].

Torneremo presto sulla follia alla base del colpo di Stato, già comunque individuabile nelle parole contenute all’interno dei documenti che il tribunale sammarinese utilizzò per processare e incarcerare i golpisti, veri o supposti che fossero.

Per l’Italia la vicenda in definitiva era figlia di un piano squilibrato che le autorità sammarinesi, opportunisticamente, stavano prendendo troppo sul serio. Carmine Senise, funzionario del Ministero degli Interni italiano, in una nota scritta al Ministero degli Esteri dichiarò che sapeva da fonte assai attendibile «che i dirigenti dalla Repubblica di S. Marino fanno credere al popolo che l’asserito progettato eccidio delle autorità di detta Repubblica era stato tramato dalla Direzione Generale di P. S. del Regno insieme ai fuoriusciti sammarinesi», mentre era risultato «in modo inoppugnabile che il preteso complotto contro la Repubblica di S. Marino non era altro che una fantasticheria del demente Canepa Antonio»[5].

Lo stesso funzionario confermò queste affermazioni in un documento datato 17 gennaio 1934 in cui scrisse che le «accurate» indagini svolte avevano accertato «in modo indubbio che i pretesi tentativi contro la Repubblica di S, Marino » si dovevano soltanto «al fantastico e ridicolo progetto (…) architettato da un individuo ammalato di mente» da tempo ricoverato in una casa di cura[6].

Nonostante la fonte autorevole da cui scaturivano simili asserzioni, gl’inquirenti sammarinesi non consideravano il mancato golpe una folle idea concepita da alcuni giovani, ma un reale progetto criminale ordito in primis dai fuoriusciti, i quali addirittura fin dal 1931 avevano ipotizzato di ribaltare in qualsiasi maniera i Gozi e il loro governo.

Documento fondamentale che per loro dimostrava con assoluta evidenza la fregola di attuare un golpe era la lettera del 9 giugno scritta da Antonio al fratello Luigi, sequestrata durante la perquisizione della sua dimora sammarinese, in cui venivano date istruzioni su come muoversi in Repubblica, quali informazioni acquisire, come sarebbe avvenuto l’assalto a San Marino nel giorno prestabilito. Vi era scritto che sarebbero giunti a Rimini due gruppi di siculi: una parte sarebbe giunta sul Titano al mattino, l’altra nelle prime ore del pomeriggio.  

«Se si potesse avere a Rimini uno stambugio dove depositare tutti i bauli – prosegue il bizzarro documento – sarebbe ottima cosa: ma senza spendere più di un 200 lire». Alcuni degli assalitori, quelli «meno rozzi» che dovevano già trovarsi sul monte al mattino, era bene che prenotassero negli alberghi e cenassero «alla spicciolata nelle trattorie», perché dopo due giorni di viaggio sarebbero stati molto stanchi.

Purtroppo l’invasione doveva avvenire necessariamente di domenica per una serie di ragioni, anche se vi erano controindicazioni perché le banche erano chiuse, e le autorità si potevano trovare nelle loro case o in giro, non nei loro uffici. Tuttavia vi erano anche motivi favorevoli per «la confusione, per l’abbandono dei luoghi»; diversamente vi sarebbero state senz’altro «gravi perdite».

«Quel che occorre ben individuare è l’abitazione dei governanti, se è guardata e come; e se essi se ne allontanano la domenica. (…) Bisogna che i 3 o 4 G. siano al sicuro. Fatto questo tutto è fatto». Era necessario anche rimediare gl’indirizzi dei tipografi per comunicare subito alla popolazione, nonostante fosse giorno festivo, quanto accaduto tramite volantini e manifesti, magari facendosene amico qualcuno.  

Luigi doveva trovare uomini del luogo «3 o 4 – non più – sempliciotti e devoti» che avrebbero dovuto «correre in difesa del fascio e di Massimo Fattori[7]», una serie di distintivi del fascio sammarinese, non meno di 5, una fascia bianco/azzurra da indossare.

La lettera fornisce altre indicazioni e richieste, a volte assurde («a che serve lo scanno che sta alla destra dei Reggenti, nella sala del Consiglio. Le armi dei carabinieri cariche o non?»), raccomandandosi di usare prudenza e di «sospendere a un certo punto tutta quella attività che può dar nell’occhio»[8].

Per quanto grottesco in alcuni suoi passaggi, gl’inquirenti vollero prendere molto sul serio questo documento, perciò richiesero ulteriori chiarimenti a Luigi. Egli disse che nel novembre del ’32 aveva per caso conosciuto il Torre a Palermo: costui qualche mese dopo gli aveva prospettato un’impresa da compiersi all’estero che avrebbe fruttato notevoli ricchezze, ovvero la conquista della Repubblica di San Marino, descrittagli come un paese idilliaco e ricco, governato da tiranni malvisti dalla popolazione. Canepa rimase entusiasta dell’idea e della missione prospettatagli da Torre, cioè portarsi a San Marino in compagnia di un suo amico per prendere tutte le informazioni sul paese e i suoi governanti, e predisporne la conquista.

«Scopo dell’impresa…era un colpo politico aiutato da certo avv. Martelli direttore della “Voce di San Marino” e da certo Balducci che il Torre disse essere direttore del giornale fascista l’ “Assalto” di Bologna», dichiarò. Gli aveva anche detto che vi erano due gruppi di fascisti sammarinesi: uno al governo, capeggiato soprattutto da vari esponenti della famiglia Gozi, e uno, quello nel giusto, che gli si opponeva e che era stato costretto a fuggire dalla Repubblica.

Torre aveva dichiarato «in modo esplicito che egli agiva per incarico del Martelli e del Balducci» e di altre persone di cui non si ricordava il nome. Per la sua azione, egli avrebbe ricevuto dai dissidenti 100.000 lire, soldi di cui non conosceva la provenienza, anche se sapeva che Balducci era appoggiato da Arpinati[9]. Il colpo di stato avrebbe fruttato a tutti molto denaro perché San Marino era un paese ricco, e «in un secondo tempo poteva diventare un secondo Monaco».

La presa della Repubblica sarebbe avvenuta grazie a due squadre di complottisti siciliani: la prima, comandata probabilmente dallo stesso Torre, e ignara che poi sarebbe giunto sul Titano un secondo gruppo, aveva l’incarico di «distruggere lo stato esistente delle cose, togliere di mezzo le autorità, assaltare e depredare i denari del governo, gli istituti e le case private»; la seconda, guidata direttamente da Massimo Fattori, avrebbe dovuto «svolgere un’opera ricostruttrice e antagonista a quella svolta dall’altra». Scopo supremo di tutta l’operazione era di «abbattere i governanti attuali per far andare al potere altri nuovi», ovvero Balducci e Martelli.

A riprova della sincerità della deposizione, il tenente dei carabinieri che la raccolse dichiarò che Canepa «fece la narrazione spontaneamente senza alcuna domanda indiretta». Nei giorni seguenti Luigi scrisse lettere al fratello e alla fidanzata in cui asserì di avere esposto «l’intera verità» agli inquirenti.

In carcere si mise a redigere una sorta di novella epica, intitolata “Intorno alla Vetta”, basata sull’«azione redentrice», come la definì, a cui aveva preso parte perché gli era stato promesso tanto denaro e la nomina a Comandante delle locali milizie.

«Un giorno, la data è da stabilirsi, appariranno improvvisamente a San Marino alcuni camion dai quali balzeranno una cinquantina o anche meno di ceffi equivoci. Costoro si precipiteranno nelle abitazioni dei tiranni e, nello stesso tempo, alle banche, al palazzo del governo, alle poste, alla caserma dei carabinieri e alle case dei cittadini più abbienti. Se nulla accade in contrario, cinque minuti più tardi comparirà alla luce una seconda squadra composta di un venti uomini, il numero si preciserà poi. Succederà una lotta di pochi istanti che si concluderà con la fuga di quelli che erano venuti coi camion. Allora i tiranni saranno piantonati nelle loro stesse case e condotti alla torre per venire in seguito processati per violazione degli statuti e per tutte le vessazioni e i delitti perpetrati; contemporaneamente il popolo sarà chiamato a raccolta. Si farà una manifestazione alle grida “Viva la Repubblica! Viva la libertà! Abbasso i tiranni!», scrisse.

«Mi ero anche innamorato della mia futura carica di Comandante delle milizie e immaginavo, con un piacere non esente da vanità, la sorpresa e l’ammirazione della mia Fanciulla allorché mi avrebbe visto nella brillante divisa da ufficiale». L’intera vicenda si sarebbe conclusa con il rientro dei patrioti sammarinesi fuoriusciti e un nuovo governo per il paese.

Tutti questi sogni trionfalistici svanirono però in fretta: «Quando fui a San Marino ebbi in breve tante disillusioni. Invece di un popolo calpestato ed oppresso, trovai degli abitanti tranquilli e beati; di quelle favolose ricchezze a cui mi si era fatto credere, non sentii neppure l’odore; i cosiddetti tiranni erano delle persone dall’aspetto comunissimo che si incontravano tutto il giorno per le vie o al bar: non vidi nessuna traccia di sopraffazioni né alcun scontento nel popolo: il massimo ordine e la massima quiete. (…) non vi era nessuno da salvare, nessuna catena da infrangere. (…) Probabilmente il popolo stava bene coi governanti attuali e non voleva saperne di quelli altri». Inoltre ebbe un’altra illuminazione: «Chi mi assicurava che m’avrebbero dato il posto promesso e non invece una pedata? Come potevano darmi ventimila lire all’anno se i Capitani Reggenti cioè la massima Autorità ne percepivano appena lire mille al mese?».

Resosi conto di come stessero davvero le cose, Canepa decise di abbandonare l’azione: «L’impresa non si farà: inventerò delle ragioni, dirò che hanno subodorato la cosa, che sono state prese misure preventive; sosterrò che è impossibile agire. E chiederò una ricompensa per l’opera svolta»[10].

Stando a questo racconto alquanto bislacco, l’acuto golpista alla fine aveva compreso che i buoni erano i governanti di San Marino, mentre i cattivi erano coloro che li volevano scalzare, e che lo avevano ingannato con la promessa di un futuro radioso per lui e per la Repubblica.  

Passata l’estate, Canepa ebbe un’altra illuminazione e volle rinnegare questa versione dei fatti. Il 22 ottobre, infatti, fece verbalizzare agli inquirenti una nuova deposizione in cui notificò che il Torre era un personaggio di pura invenzione che non esisteva; quello che aveva dichiarato in precedenza era falso e fatto «allo scopo di esimere da responsabilità il fratello Antonio»; il colpo di Stato era un’idea esclusiva del fratello avuta «senza collaboratori, istigatori o consiglieri», poiché egli «accarezzava da tempo l’idea di un regno ideale, dove gli uomini potessero vivere santamente in concordia e felici», e di cui sarebbe stato legislatore e capo. Luigi era stato coinvolto perché aveva espresso al fratello il desiderio di formarsi «subito una posizione anche a costo di dover arrischiare la vita».

Il suo atteggiamento caparbio aveva indotto Antonio a svelargli, il 1° giugno, il  disegno di assalire e conquistare San Marino, idea scaturita dalla consapevolezza che in quel luogo vi era «qualche cosa di torbido, di poco leale», certezza desunta dalla lettura di qualche copia della “Voce di San Marino” pubblicata in clandestinità da esuli: «Vi sono dei Sammarinesi fuorusciti: questo fatto è di per sé un sintomo», pensava; infatti le contestazioni e le lagnanze che avanzavano dovevano avere un fondamento di verità, perché altrimenti l’Italia non avrebbe loro permesso «di aprir bocca».

La missione affidata a Luigi era quella di recarsi sul posto per sincerarsene: «Se è vero faremo la rivoluzione; se non è vero tu, dopo essertene ben accertato, mi avvertirai con telegramma sicché io potrò tempestivamente interrompere i preparativi». All’azione avrebbero preso parte pochi uomini a cui sarebbe stato pagato il viaggio con un prestito ottenuto da Antonio. «Armi non ce ne occorrono. Tutto al più (…) qualche scacciacani, sarebbe pericoloso portare rivoltelle vere», disse a Luigi per tranquillizzarlo. Nemmeno «agli stessi tiranni» doveva essere «torto un capello».

Antonio garantiva che lui stesso avrebbe provveduto a calmare l’eventuale furore della folla presentandosi come Massimo Fattori, «un patriota, esule da molti anni di cui più nessuno si ricorda», tornato in patria per «liberarla dall’oppressione». Disse poi al suo complice che sarebbero saliti al potere e l’avrebbero mantenuto senza problemi perché non avrebbero «fatto innovazioni di alcun genere».

Una volta in Repubblica, Luigi si accorse però che «il popolo era tranquillo, nulla vi era di torbido, dunque necessariamente la rivoluzione andava in fumo», e perciò il 14 giugno, verosimilmente poco prima dell’arresto, avvisò il fratello d’interrompere qualsiasi preparativo.

Il 10 novembre venne reinterrogato e messo di fronte alle incongruenze della sua ultima deposizione rispetto alla lettera del 9 giugno trovatagli durante la perquisizione. Egli disse che non conosceva tutti i particolari del piano ideato da suo fratello, e che solo il nome di Balducci gli era stato fatto come «persona che era in urto con gli attuali governanti e che polemizzava con loro sui giornali»[11].

Ormai però la strada per condannare i due giovani, e soprattutto i nemici sammarinesi del governo che erano il vero bersaglio a cui si puntava, era tracciata: «Orbene il confronto coi documenti sequestrati prova, in modo chiaro e convincente, come la seconda e la più recente versione del detenuto Canepa sia destituita di fondamento», recita il Procedimento penale da cui si sta attingendo, che poi dedica svariate pagine ad avvalorare questa tesi[12]. Proprio tramite queste conosciamo particolari della corrispondenza tra Luigi e i familiari intercorsa dopo il suo arresto che, estrapolati dalle lettere, furono interpretati dagli inquirenti come prove a sostegno della colpevolezza di Canepa, ritenuto pienamente consapevole e responsabile dell’azione ordita, e non ingenuo strumento nelle mani del fratello.

Avvisata giorni prima dalle autorità sammarinesi della presunta cospirazione grazie all’invio del memorandum di cui già si è detto, fin dal 13 giugno la polizia italiana aveva provveduto ad arrestare Antonio insieme ad altri 16 individui, suoi amici, coinvolti nel progetto con la prospettiva di ricevere come premio un’occupazione redditizia[13]. Le indagini svolte nei giorni seguenti le avevano però fatto concludere che esistevano sicure responsabilità di Attinelli e di Luigi??? nell’ipotizzato complotto, mentre vi era «inconsistenza degli elementi probatori» per ritenere coinvolto anche Balducci. Egli non era estraneo alla campagna critica e diffamatoria contro i Gozi e il governo sammarinese messa in atto insieme a Martelli e altri con volantini e giornali dal ’31 in poi, ma non vi erano elementi per accusarlo di reati più gravi. Fu divulgato un comunicato, apparso su alcuni giornali italiani del 23 e 24 giugno del ’33, in cui si specificò che il colpo di Stato l’aveva concepito «uno squilibrato che intendeva compiere una gesta eroica fuori del comune (…). Data l’inconsistenza degli elementi probatori forniti, la richiesta di estradizione fatta dal Commissario della legge di S. Marino non ha avuto alcun seguito»[14].  

I governanti sammarinesi rimasero assai delusi dall’esito delle indagini italiane, che consentivano con le loro conclusioni a Balducci e agli altri dissidenti di restarsene liberi e fuori confine. Tuttavia in seguito la lotta contro costoro proseguì con tenacia tramite ripetute comunicazioni e lagnanze a livello diplomatico, tra ministeri italiani e segreterie sammarinesi, nonché con l’inasprimento delle pene verso chi creava sfiducia nei confronti del governo o tramava contro lo Stato[15].

Comunque pure a San Marino, fin dai primi giorni in cui si era scoperta la stravagante trama, non tutti erano rimasti terrorizzati dal ventilato golpe: il professor Pietro Franciosi, anch’egli ostile al fascismo e al governo in carica, sebbene non in combutta con Balducci e Martelli, nei giorni in cui Canepa finì in galera scrisse all’interno del suo diario: «L’immaginario attentato suscita riso e scherno in chi ha un po’ di senno, perché la polizia italiana se n’è occupata ed ha finito la sua inchiesta col conchiudere che non c’è da dar peso alle scempiaggini megalomani dei due pazzoidi Palermitani e che i dissidenti Sammarinesi non c’entrano affatto negli atti di demenza di loro due. Ma questo referto non basta ai nostri maggiorenti, che vedono ovunque nemici e complottisti contro la Repubblica e contro loro, e vogliono ad ogni costo imbastire un processo per creare delle vittime. Più che salvatori della patria essi finiranno per diventare attori di un poema eroicomico»[16].

Concetti analoghi li espresse Gino Giacomini da Roma, dove era fuggito fin dal 1922 per evitare persecuzioni nei suoi confronti essendo capo dei socialisti: «Qua il fatto viene considerato con aria di scherno. Un complotto, con tutti gli annessi e connessi che si sono fabbricati romanzescamente, è così inverosimile da sembrare un’operetta», scrisse alle sorelle il 21 giugno. A suo parere un fatto tanto assurdo era potuto avvenire a San Marino perché era ridotto «un paese citrullo (…) che ormai crede anche agli asini che volano».

Un «bluff di lestofanti e di pazzoidi», lo definì in un’altra lettera inviata questa volta a Franciosi. «Il nostro paese è come un povero corpo debole preso da epilessia e non so quale cura possa bastare per guarirlo», aggiunse. Lo stesso Mussolini riteneva i complottisti «due pazzoidi», per cui aveva risposto negativamente alla richiesta di estradizione avanzata dalle autorità del Titano per Martelli, Balducci e qualche altro dissidente non più dimorante in Repubblica, dove il fatto invece aveva creato forte apprensione[17].

Nel paese la vicenda aveva destato una montagna di chiacchiere, e molti pensavano che il governo dei Gozi fosse al capolinea. Addirittura si mormorava che il complotto, «il piano infernale», fosse stato orchestrato dagli stessi governanti, «ma sono cose dette all’orecchio», scrisse una sua sorella a Giacomini il 4 luglio[18]. Era giunta a molti una lettera anonima scritta a macchina e spedita da Venezia che recitava: «State in guardia. Il complotto contro S. Marino si presenterà fra breve nella sua vera luce, che lo farà apparire come un’inaudita ed enorme mistificazione degli attuali dirigenti della Repubblica. Alla sacrosanta opera di chiarificazione, infaticabilmente cooperano tutti coloro, a cui stanno a cuore le sorti del piccolo Stato. Lo stesso Duce ha mostrato il fermo proposito di volere vederci chiaro nell’agrovigliata e torbida facenda (sic). Si attende presto a S. Marino un cambiamento di scena, cui seguiranno giorni migliori per la Repubblica».

Al di là dell’agitazione suscitata nel paese, montata ad arte dal governo, nonché delle vicende e dei documenti fin qui esaminati, la follia di Antonio, o almeno un qualche suo squilibrio, pare presumibile dal fatto che, dopo essere stato arrestato, fu fatto portare in manicomio dagli inquirenti italiani, anche se non vi sarà trattenuto a lungo.

L’insania di suo fratello è documentata invece, oltre che dalle sue deposizioni non sempre congrue, dapprima da una lettera scrittagli da suo padre il 23 settembre, mentre ancora si trovava in galera, in cui si evidenzia che era «malato di esaurimento nervoso e di nevrastenia», e che certamente aveva seguito il fratello nel suo piano perché «suggestionabilissimo», poi da alcuni certificati, di cui diremo fra breve, giunti successivamente al processo, ma ignorati dagli inquirenti sammarinesi.

Perché Luigi cambiò versione rinnegando quanto dichiarato subito dopo il suo arresto? Non possiamo avere certezze in merito, non essendo ancora emersi documenti che lo spieghino, ma nemmeno è certa la loro eventuale esistenza. Personalmente credo, ma è solo un’ipotesi, che la sua deposizione del 22 ottobre possa essere stata influenzata dall’incontro avuto in carcere con l’onorevole Antonino Pecoraro, fratello della madre, quindi suo zio, che il 15 settembre era andato a fargli visita e lo aveva trovato in buona salute. Il 17 novembre Luigi parlò col padre della visita in una sua corrispondenza, in maniera piuttosto criptica per la verità, scrivendogli: «Oh babbo, mi diceva lo zio che tu hai nettamente intuito quale doveva essere la verità: tu mi conosci molto bene e non potevi ingannarti… L’amara notizia che mi ha recato lo zio…ha levato via l’unica ragione del riserbo ed io ho detto quello che lui, come te sapeva e indovinava»[19].   

Questo breve periodo fu utilizzato dagli inquirenti per svilire la seconda deposizione di Luigi, in quanto interpretarono i concetti sottintesi della lettera a sostegno della tesi del colpo di Stato. E’ però possibile anche un’altra interpretazione, ovvero che lo zio avesse comunicato che il fratello Antonio, ideatore del piano, era stato rinchiuso prima in carcere, cosa che Luigi sapeva già da una lettera della madre datata 29 giugno, poi in manicomio, per cui ora non vi erano più motivi di proteggerlo sostenendo un racconto non veritiero.

Può anche essere, ma siamo sempre nel campo delle pure ipotesi, che Pecoraro gli abbia detto che Balducci era un personaggio importante del fascismo bolognese, nonché amico personale dell’onorevole Arpinati, per cui non era il caso di coinvolgere lui e gli altri fuoriusciti in un’azione dai risvolti molto indefinibili.

Forse Luigi prima di rinnegare la prima deposizione ha sentito necessità di pensare cosa fosse meglio per lui, forse di consultarsi con qualcuno, non lo sappiamo, mentre è verbalizzato che il 2 ottobre chiese di parlare urgentemente con gl’inquirenti, ma ebbe la possibilità di farlo solo venti giorni dopo.

Le autorità sammarinesi fin dal 5 luglio erano state avvisate che Antonio dal ‘33 era stato rinchiuso in una clinica psichiatrica «per disturbi mentali caratterizzati da idee paranoidi in temperamento schizofrenico»[20], ma per loro la follia di Antonio non aveva alcun peso, perché ritenevano i fuoriusciti sammarinesi i veri architetti del golpe: «Se taluno incarica un pazzo ad eseguire un’azione illecita che di fatto viene eseguita o eseguisce un’azione illecita commessagli da un pazzo, a questo taluno non basta per scagionarsi allegare la pazzia dell’esecutore nel primo caso o del mandante nel secondo quando lui pazzo non sia, ma nella pienezza delle sue facoltà mentali».  

Inoltre non vi era esatta conoscenza di quando Antonio fosse divenuto pazzo, se prima, durante o dopo la pianificazione del golpe: «Non potrà dirsi di tutti noi di non essere savi oggi se diventeremo pazzi domani», verbalizzarono all’interno del fascicolo che si sta analizzando[21].

Aggiunsero pure che nessuno si era accorto della pazzia di Antonio fino al luglio del ’33, e che il piano da lui elaborato non era folle, ma del tutto logico, tanto da trovare l’adesione dei suoi amici, nonché del fratello e di Attinelli che per metterlo in opera erano addirittura giunti dalla Sicilia fin sul Monte Titano.

Occorre poi aggiungere che il 25 ottobre Luigi in carcere era stato visitato da alcuni medici di San Marino che attestarono «l’assoluto convincimento che il Canepa Luigi sia nelle sue piene facoltà mentali perfettamente coscente (sic), completamente responsabile delle sue azioni». La presunta sua follia era una farsa: «Riteniamo con sicurezza che le ostentate e mal riuscite forme di squilibrio mentale di questi ultimi tempi, siano unicamente dovute alle esortazioni scritte e verbali dei propri genitori, alle quali intelligentemente si attiene nella speranza di raggiungere dei risultati benefici. E ciò può anche ritenersi umano»[22].

La seconda versione dei fatti narrata da Luigi alla fine non fu quindi creduta, e il 26 marzo del ’34 il Consiglio dei XII, grazie alla legge varata tre mesi prima, condannò Balducci a vent’anni, Martelli e Morri a diciassette anni e mezzo, Attinelli a quindici anni, Luigi a dieci; tutti furono anche multati[23].

I due palermitani rimasero in carcere fino al luglio del ’35, poi, grazie a lunghe e complesse trattative diplomatiche con l’Italia che ne pretendeva la scarcerazione[24], vennero graziati e se ne tornarono a casa.

Gli altri condannati erano liberi perché all’esterno dei confini sammarinesi, ma Martelli, ritenendosi del tutto innocente ed estraneo al tentativo di golpe, nell’estate del ’35 chiese la propria riabilitazione producendo nuovi documenti per le autorità giudiziarie sammarinesi in cui si attestava che l’ideazione del progetto era avvenuta non da lui, ma da altri individui privi di senno. Questi documenti furono richiesti e ottenuti dall’avvocato Vincenzo Macherione di Roma, difensore di Martelli: il primo è un certificato datato 18 luglio 1935 e firmato dal professor Gerolamo Mirto, libero docente di clinica delle malattie nervose e mentali, e vicedirettore di un ospedale psichiatrico palermitano. Vi si attesta che Luigi Canepa era affetto da «neuropsicastenia originaria con idee depressive, sonno incompleto, parestesie cefaliche, disturbi dell’equilibrio statico, tremore alle mani protese, tics dei muscoli delle spalle, titubazione a occhi chiusi, pseudo Romberz, notevole tara gentilizia neuro-psicopatica». Anche suo fratello soffriva di problemi mentali, essendo frenastenico con epilessia, e in quel momento degente in ospedale psichiatrico. Aveva possibilità di guarire con trattamenti adeguati, medicine specifiche e una dieta personalizzata.

Un altro certificato fu prodotto dal professor Ercole Pisateri, anch’egli psichiatra che esercitava a Palermo, in cui veniva evidenziato che Luigi era in uno stato di depressione melanconica con abulia e rallentamento psichico.

C’è chi ha evidenziato che le diagnosi erano successive al processo, e che potevano essere scaturite non da una situazione d’instabilità mentale permanente di Luigi, ma dalle forti tensioni a cui era stato sottoposto durante i mesi di carcerazione, ipotesi suffragata dal fatto che il giovane era uno studente universitario al momento del tentato golpe, quindi in teoria mentalmente a posto[25].

Tuttavia lo stesso padre dei due fratelli, Pietro Canepa, noto giurista e docente universitario, aveva risposto all’avvocato Macherione, sempre da Palermo, il 16 aprile del 1936, dicendo che le condizioni di salute mentale di Luigi avevano sempre lasciato a desiderare, e da mesi si trovava in uno stato psichicamente pietoso. Non dava esami all’università, né riusciva a frequentare i corsi essendo in cura presso specialisti del sistema nervoso. Anche il collegio medico militare lo aveva dichiarato inabile a qualunque servizio per le sue condizioni neuro-psichiche. Se si cercava di parlare con lui di ciò che aveva tentato di combinare a San Marino, un «fanciullesco episodio» secondo Pietro, si rifiutava di rispondere. Non gli risultava alcuna corrispondenza di suo figlio con Martelli, Balducci e Morri, conosciuto solo dopo l’arresto perché anche lui era stato imprigionato[26].

Macherione chiese lumi anche all’onorevole Antonino Pecoraro, il quale il 18 aprile 1936 rispose da Francavilla in Sicilia che suo nipote in carcere gli aveva raccontato di non conoscere nessuno dei fuoriusciti con cui lo si voleva associare: durante l’interrogatorio aveva fornito informazioni false per non inguaiare il fratello Antonio, l’unico con cui aveva complottato. Per Pecoraro era soltanto «un povero infermo di mente».

Oltre a questi documenti, Martelli inviò una spontanea dichiarazione di Attinelli, che era stato scarcerato insieme a Canepa l’anno prima, rilasciata sotto giuramento davanti a un giudice di Roma il 30 aprile del ’36, in cui ribadì che non aveva mai conosciuto Martelli, Balducci e Morri. Era stato arrestato e tenuto sette mesi in isolamento nel carcere sammarinese, poi messo nella stessa cella di Luigi Canepa. Solo a questo punto aveva saputo con precisione il motivo per cui erano stati trattenuti: infatti Canepa gli aveva raccontato che lui e il fratello Antonio «avevano concepito il disegno di impadronirsi della Repubblica di San Marino per fascistizzarla». Un volta in galera, Luigi, per non incolpare il fratello, aveva detto che mente del complotto era un certo Torre Gabriele, «individuo fantastico e mai esistito»[27], ma le autorità sammarinesi avevano preteso che nel Torre egli individuasse Balducci. 

Volendo indurlo ad un’accusa dettagliata, i carcerieri gli avevano detto che i suoi genitori erano stati arrestati, e la sorella era piantonata in casa. In un secondo momento aveva ritrattato per non incriminare degli innocenti, ma di tale smentita non si era tenuto conto nel processo. Durante la detenzione, Canepa aveva manifestato segni di allucinazione e manie di persecuzione, ma nonostante che più volte avessero tentato di far loro firmare un documento accusatorio contro i dissidenti, si erano sempre rifiutati di farlo. La deposizione spontanea fornita a Martelli da Attinelli nasceva dal desiderio di far revisionare il processo a carico di Balducci, Morri e Martelli perché la loro condanna era stata del tutto arbitraria[28]

Nei mesi di luglio, agosto e settembre del ’33 vennero divulgati a San Marino un paio di scritti firmati da Martelli, insieme ad altri documenti anonimi, in cui si denunciarono le mistificazioni e le menzogne create ad arte dai governanti per processare degli innocenti. «Giuro di liberare la nostra patria dai suoi più veri nemici – fu scritto in uno di questi volantini - i quali, per libidine di potere, creando nel nostro pacifico e nobile Paese uno stato di vero terrore, con metodi nuovissimi di spietate persecuzioni, di mostruosi processi, di brutali arresti hanno fatto scempio della verità e hanno avvilito la dignità della Repubblica al cospetto del mondo e soprattutto dei nostri amici italiani»[29].

In realtà San Marino rimase controllato dal regime fascista ancora per altri dieci anni: solo dopo la sua caduta la cittadinanza poté comprendere quanta assurdità vi fosse nel tentato golpe del ’33, e quali speculazioni di natura politica nascondesse.

Già nel Numero Unico “28 Luglio”, uscito il 3 settembre del ’43, poco dopo la fine del governo fascista, il complotto fu etichettato come una «romanzesca inscenatura», e una «farsa indegna di un circo equestre». Nel 1945 il processo fu poi revisionato: nel “Fondo Balducci” vi è una lunga relazione, datata 30 giugno 1945, prodotta dal giureconsulto Corrado de Robertis, incaricato di verificare quanto sentenziato nel ’34, in cui si afferma con decisione che il procedimento era stato imbastito prevalentemente per vendetta verso i dissidenti politici; al suo interno «si era pervenuti al regno della menzogna e tutto contribuiva a traviare la verità». L’attentato fu una fandonia in cui gli avversari dei Gozi non c’entravano nulla: anzi, la «campagna di stampa dei fuoriusciti fu una lecita manifestazione di lotta politica» e nulla più. Durante il processo era chiaramente emerso che la famiglia Canepa aveva “tare psicopatiche” probabilmente di natura genetica ed ereditaria: infatti anche un altro fratello, di nome Francesco, fin dal 1920 era stato rinchiuso in una clinica psichiatrica, ma gl’inquirenti, per mere speculazioni politiche, non ne avevano tenuto per nulla conto. La corposa relazione si conclude con la piena assoluzione di tutti i presunti complottisti dalle condanne subite all’epoca[30].

Possiamo ora concludere questo saggio chiedendoci da dove sia nata un’idea tanto bizzarra, perché dai documenti in nostro possesso si può ricavare che sia scaturita da follia, da antifascismo, ma anche dalla volontà di fascistizzare meglio il paese, da disoccupazione e brama di ricchezza, da ingenui sogni di giovani non ben coscienti dell’irrazionalità dell’impresa in cui si erano fatti coinvolgere.

Che tutta la vicenda sia ammantata di una patina di paranoia traspare chiaramente dai documenti prodotti da Luigi durante il suo incarceramento, e da quelli successivi inviati agli inquirenti sammarinesi da Martelli per ottenere la revisione del suo processo. Tuttavia Luigi appare sì poco stabile mentalmente, ma anche ammaliato dal fratello maggiore verso cui nutriva una sorta di venerazione, da quanto ci dicono alcuni documenti. Inoltre era molto giovane, quindi facilmente condizionabile dall’idea di compiere un’impresa eroica che sarebbe divenuta certamente leggendaria e fascinosa per tutti, in particolare per la fidanzata.

Antonio invece appare tutt’altro tipo: pur essendo giovane anche lui con i suoi 25 anni, era  laureato da tre anni, aveva già svolto il servizio militare, e possedeva una certa esperienza politica come antifascista quando architettò il golpe. Vi sono parecchie pagine su internet che lo riguardano, e che c’informano, tra le altre cose, che anche Attinelli era un antifascista, così come i compagni d’avventura che Antonio stava assoldando per conquistare il Titano, tant’è vero che la comitiva era conosciuta come “i sammarinesi”. Tuttavia più che un gruppo d’assalto, pare più un’armata Brancaleone priva di mezzi, di denaro e di competenze, munita solo di tanta fantasia, ma del tutto inidonea a soggiogare anche una piccola realtà come San Marino, che certamente non era del tutto inerme. Inoltre l’Italia sarebbe rimasta serafica a guardare senza intervenire? Ovviamente no.

Il piano di Antonio faceva dunque acqua da tutte le parti, e aveva aspetti indubbiamente insensati. Lui, però, del tutto folle non doveva essere, visto che non venne trattenuto in manicomio a lungo, e considerando anche il suo percorso intellettuale e professionale successivo. Inoltre fu reclutato dall’Inghilterra come spia, e la Sicilia lo ricorda ancora come una sorta di eroe locale che aveva combattuto, e forse era anche morto, per la sua indipendenza. Negli anni ’70 un giornalista arrivò addirittura a etichettarlo come il “Che Guevara” dell’isola. Certamente non si può escludere che non fosse un esagitato, o troppo animato da impeto giovanile, o avesse qualche rotella fuori posto, tuttavia liquidarlo semplicemente come matto mi sembra poco corrispondente a quella che è stata tutta la sua storia esistenziale.

Riguardo al discorso dell’azione dimostrativa di matrice antifascista, ribadisco ciò che ho detto in precedenza: la conquista di San Marino, sempre che fosse stata possibile, come avrebbe potuto dimostrare al mondo che esistevano in Italia forze avverse al regime? Anche questa spiegazione del tentato golpe sa un po’ di giovanile, di pazzoide, di esagitazione.

Inoltre è una prova in più che Balducci, personaggio importante del fascismo bolognese, insieme a Martelli e agli altri, che si ritenevano rappresentanti del vero fascismo avverso a quello oligarchico e opportunista dei Gozi, non c’entravano nulla con un assalto gestito da antifascisti convinti.   

In definitiva il tentato golpe conserva e conserverà probabilmente sempre aspetti non ben determinabili, come d’altronde è normale per qualunque progetto troppo velleitario e poco razionale.


 

[1] Il Procedimento penale per l’attentato contro la sicurezza interna della Repubblica, contestazioni finali, requisitoria, sentenza, San Marino, MCMXXXIV, p. 53 e seg.

[2] Ivi, pp. 58, 59.

[3] Riportato in: G. Sorgonà, Ezio Balducci e il fascismo sammarinese, Quaderni del Centro Sammarinese di Studi Storici, n. 38, San Marino 2014, p. 154. Il giornale antigovernativo che usciva clandestinamente si chiamava “La Voce di San Marino”, ed era stato divulgato la prima volta il 31/12/32. In precedenza erano circolati tra la popolazione volantini anonimi con forti accuse ai governanti.

[4] Ivi, p. 155. La figura di Antonio Canepa è molto più complessa e controversa di quanto possa trasparire dal bizzarro episodio che lo lega alla storia sammarinese. Egli era già noto alla polizia italiana come antifascista fin dai tempi del liceo quando pubblicamente aveva manifestato sdegno per il delitto Matteotti. Pare che in seguito ideasse anche un attentato contro Mussolini, comunque mai realizzato. Nato nel 1908, laureatosi in legge nel 1930, durante il servizio militare si era legato ad altri antifascisti con cui avrebbe ideato il colpo di Stato contro San Marino con lo scopo di dimostrare l’esistenza in Italia di gruppi avversi al fascismo, anche se non è comprensibile come l’eventuale sottomissione della Repubblica avrebbe portato a questa dimostrazione. Uscito dal manicomio nel 1935, scrisse un’opera in tre volumi, il Sistema di dottrina del fascismo, che gli valse consensi, ma anche critiche perché era costruita con un abile taglio per la propaganda di idee democratiche antifasciste, con molte citazioni di opere proibite, specie marxiste. Nel 1937 riuscì ad ottenere, non si sa bene in base a quale alchimia, una cattedra universitaria a Catania, tuttavia negli anni successivi continuò nascostamente la sua attività antifascista, tanto da divenire una spia per gl’inglesi. Propugnatore dell’autonomia siciliana, fu il fondatore dell’ “Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia”. Morì assassinato nel 1945 in condizioni misteriose e sospette. Queste notizie sono desunte da Internet che contiene svariate pagine a lui dedicate, e a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.

[5] G. Sorgonà, op. cit., p. 156.

[6] Ivi, p. 164.

[7] Personaggio di pura fantasia nonché pseudonimo di Antonio Canepa.

[8] Il Procedimento penale per l’attentato contro la sicurezza interna della Repubblica, cit., pp. 59 – 61.

[9] Leandro Arpinati fu tra i fondatori del Fascio bolognese di combattimento e squadrista particolarmente violento. Segretario a Bologna del partito fascista, podestà della città dal 1926, fu nominato sottosegretario agli Interni nel ’29, ma nel ’34 venne accusato di tramare contro Mussolini e confinato a Lipari dove rimase due anni. In seguito combatté come soldato nell’esercito italiano. Morì ucciso dai partigiani nel 1945. 

[10] Il Procedimento penale…, cit., pp. 69 – 71.

[11] Ivi, p. 73.

[12] Ivi, pp. 73 – 89.

[13] Il Procedimento penale…, cit., p. 169.

[14] “Il Popolo di Roma”, n. 148.

[15] “Legge contenente aggiunte e modifiche al Codice Penale e al Codice di Procedura Penale”, n. 11 del 13/7/33. Sempre per tutelare l’ordine in un momento in cui i governanti temevano colpi di mano, fu varata nello stesso giorno la legge n. 12, che istituiva la guardia repubblicana, e fu stabilito con legge n. 19 del 21/12/33 che competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato era solamente il Consiglio dei XII, un organo politico, non giudiziario.

[16] Biblioteca di Stato della RSM, Fondo Franciosi.

[17] V. Casali, Gino Giacomini una vita intensa, gli anni romani, San Marino 2017, p.146, 148.

[18] Ivi, p. 149.

[19] Il procedimento penale…, cit., p. 77.

[20] Il Procedimento penale…, cit., p. 167. La diagnosi venne attestata da un certificato del 3/1/34 inviato a San Marino dal direttore del manicomio in cui era stato ricoverato.

[21] Ivi.

[22] Ivi, pp. 174, 175.

[23] Il procedimento penale…, cit., pp. 218, 219. Un altro condannato nel medesimo processo fu Rufo Reffi, giudicato colpevole di offese e denigrazioni alle pubbliche autorità, e di lesioni lievi a danno del Segretario del PFS, Manlio Gozi. Gli furono inflitti quattro anni di prigione, ma era già fuggito da San Marino in precedenza.

[24] Cfr. G. Sorgonà, op. cit., pp. 145 – 190.

[25] A.L. Carlotti, Storia del partito fascista sammarinese, Celuc, Milano 1973.

[26] ASRSM, “Segreteria istituzionale 1929-1945”, b. 35, fasc. III.

[27] Nella sua ritrattazione del 22 ottobre, Canepa ribadirà più volte che questo era un personaggio inventato, aggiungendo che il fratello da solo aveva organizzato il colpo di Stato desiderando creare un «regno ideale, dove gli uomini potessero vivere santamente in concordia e felici. Speciali norme e istituzioni avrebbero formato le basi in un tale regno del quale egli si riserbava di essere legislatore e capo». Cfr. Il Procedimento penale…, cit., p. 172.

[28] ASRSM, “Segreteria Istituzionale 1929-1945”, b. 35.

[29] “Ai miei concittadini sammarinesi”, luglio 1933, firmato Ferruccio Martelli.

[30] ASRSM, “Fondo Balducci”, b. 34, fasc. 2.

 

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