Quando, o
Gobba, creperai?
Borgo Maggiore, Marzo 1831
I
Il
dottore scrutava assorto quel volto emaciato che a fatica emergeva
da sotto le lenzuola, e si passava con lentezza, ma ossessivamente,
una mano tra i capelli. Il buio della stanza, illuminata a mala pena
da un lume in procinto di estinguersi per sempre, rendeva ancor più
angosciosa quella scena di cui la signora Antonia Martelli era la
drammatica ed involontaria protagonista. In un angolo, seduto sopra
una massiccia sedia in noce, con lo sguardo apatico e fisso nel
nulla, il marito dell'ammalata, Assideo Grazia, pareva presenziare
solo fisicamente alla visita del medico ed alla lenta agonia della
moglie. In piedi nell'angolo opposto, con le mani conserte quasi
fosse in preghiera, stava la serva di casa, la Catarina, conosciuta
meglio come Pagnucca.
Erano sei giorni che il dottor Madruzza stava curando
l'Antonia, ma invece di potersi rallegrare di qualche suo
miglioramento, aveva potuto assistere solo al lento degenerare della
malattia. Non ne capiva il motivo: aveva fatto tutto il possibile, o
almeno tutto quanto gli consentiva l'arte medica di quel lontano
1831. Aveva diagnosticato una cardiologia irritativa, e l'aveva
curata come andava fatto, prima con una bibita a base di limone e
sale di tartaro alcalino, poi con dei salassi giornalieri. Ma tutto
inutilmente. L'Antonia se ne stava andando appena trentaquattrenne,
e lui non sapeva più che fare.
Pareva un morbo micidiale, quasi una specie di avvelenamento.
Già...una specie di avvelenamento. Al dottore cominciò a balenare in
testa una strana idea. Si guardò attorno; volse gli occhi al marito
sempre più assente, e alla serva dall'aria piagnucolante; scrutò sul
buio comodino collocato accanto al letto; si concentrò anche sul
comò. Niente. Non era facile vedere in quella stanza immersa
nell'oscurità. Aguzzò ulteriormente la vista: attaccata alla parete
più lontana dal letto notò una sagoma nera su cui giacevano altre
forme indistinte. Si avvicinò e vide una vecchia ma robusta madia su
cui se ne stavano appoggiati un bicchiere e due boccali opachi. Ne
sollevò uno e vi immerse un dito: conteneva un liquido fresco; lo
palpò con l'aiuto del pollice, lo annusò, lo assaggiò con la punta
della lingua. Pareva della banalissima acqua. Ripeté le medesime
operazioni con l'altro boccale, ma sempre con lo stesso esito:
acqua, solo acqua. Però è strano...perché due boccali d'acqua e
non solo uno? L'idea che si era incuneata nella mente del
dottore non se ne voleva andare. Si avvicinò deciso al flebile e
traballante lume portandosi appresso i due boccali e il bicchiere.
Provò a guardare al loro interno per vedervi qualcosa che non fosse
la semplice trasparenza dell'acqua. Nel primo non vide niente, ma
nel secondo notò qualche granello di una sostanza giallognola
che se ne stava in lieve sospensione. Sbirciò nuovamente verso
Assideo, ma costui non era più nella camera da letto; se n'era
andato qualche attimo prima in un'altra stanza ed il dottore,
raccolto com'era nelle sue analisi, non se n'era nemmeno accorto.
Meglio così -pensò- posso prelevare un campione di
questo liquido senza che mi si creino
problemi. Pagnucca -esclamò con piglio autoritario-
porto con me questo boccale. Dì al tuo padrone che glielo renderò in
fretta. La serva non se la sentì di controbattere. Il
personaggio era troppo autorevole, ed il tono con cui le si era
rivolto troppo perentorio per poterlo fare. Si limitò ad un
ossequioso -Va bene, signor dottore- anche se dentro di sè
non capiva cosa se ne potesse fare Madruzza con un boccale così
ordinario.
Il medico uscì in fretta dalla casa dopo aver porto un
anonimo saluto ad Assideo che incrociò accanto alla porta
d'ingresso. Fuori montò sul suo cavallo, e dopo un breve
tragitto di pochi attimi arrivò nella piazza del Borgo. Si fermò
davanti all'antica spezieria dei fratelli Righi, scese da cavallo e
senza esitazione entrò in quel negozio con l'intenzione di far
esaminare quella indefinibile polvere giallognola ai due
farmacisti.
I Righi furono informati dei sospetti del dottore mentre
sottoponevano la sostanza alle loro prove farmacologiche. L'esame
durò una trentina di minuti; alla fine non poterono far altro che
fornire conferma alla folle idea di Madruzza: quella polvere
sospetta era arsenico. L'Antonia era stata lentamente avvelenata
giorno dopo giorno mentre si dissetava attingendo acqua dai boccali.
II
Il dottor Madruzza guardò stupito Beniamino Righi. Arsenico? Sei
proprio sicuro che sia arsenico? Beniamino cercò sostegno nello
sguardo del fratello Pietro. Costui ribadì che era arsenico senza
ombra di dubbio.
Il medico rimase impietrito qualche istante; pensava a come
comportarsi. Non si era mai imbattuto in un caso simile, nè era mai
stato immischiato in quello che aveva tutta l'aria di essere un
tentativo di omicidio. Sigillami questo boccale -ordinò
infine a Beniamino- e tienlo chiuso a chiave dentro la tua
bottega. Vado a cercare il bargello. I Righi si diedero subito
da fare per sigillare con carta, spago, e cera di Spagna il boccale;
poi lo chiusero a chiave dentro uno degli armadi in cui custodivano
i loro prodotti. Madruzza quando vide che le sue disposizioni
avevano avuto giusta esecuzione uscì per dirigersi a piedi verso la
zona alta del Borgo dove abitava Mosè Maroni, il bargello appunto.
Bussò ripetutamente alla sua porta, ma senza esito. La dirimpettaia,
affacciatasi incuriosita alla finestra, gli disse che Mosè era
uscito di buon ora e che sicuramente non sarebbe tornato a
casa prima di mezzogiorno. Il dottore allora si diresse deciso verso
la vicina bottega di Pellegrino Natalucci; Pellegrino, chiudi un
attimo e vieni con me -disse-; è successo un fatto assai
grave! Natalucci, vedendo l'amico così accaldato, non osò
chiedere spiegazioni. Si tolse il grembiule, chiuse il negozio, e
s'incamminò spedito dietro il dottore, che gli spiegò per sommi capi
quanto era accaduto mentre si dirigevano verso l'abitazione di
Grazia. In pochi attimi furono dentro la casa; entrarono nella
camera della povera Antonia a cui faceva ancora compagnia la serva;
Assideo non c'era da nessuna parte. Prendo anche quest'altra
brocca insieme al bicchiere!, enunciò Madruzza alla sempre più
esterrefatta Pagnucca che questa volta non ebbe l'ardire nè il tempo
di proferir parola: in un batter di ciglia il dottore e Natalucci
uscirono di nuovo per dirigersi insieme alla spezieria.
Lungo il tragitto incrociarono i fratelli Biagio ed Antonio
Martelli, e li invitarono a seguirli dai Righi per essere testimoni
di quanto avrebbero fatto. Qui giunti anche i due nuovi recipienti
sequestrati furono fatti sigillare davanti a tutti; poi vennero
messi sotto chiave accanto al primo. Il dottore se ne partì
lasciando i suoi quattro compagni a confabulare tra loro della
misteriosa ed incredibile vicenda.
III
Sei una stupida! Somara! Villana! Tu devi startene a vangare i campi
e non a servizio dei signori! Non dovevi permettere al dottore di
portarsi via la nostra roba! Vai subito a riprenderla, e non
farti viva finché non l'avrai recuperata!
La povera Pagnucca mogia mogia se ne stava rintanata in un angolo
mentre le piovevano addosso tutti questi improperi. Chi la stava
assaltando non era Assideo Grazia, accortosi di quanto aveva
combinato il dottor Madruzza, bensì una giovane donna dal
temperamento forte, e dai modi spicci e burberi: la Giovanna Galassi.
Da sette anni Giovanna bazzicava quella casa perché il suo
cognato, Giovanni Moracci, marito della sorella Luigia, ne era il
cantiniere. Prima che arrivasse a servizio la Pagnucca, aveva
lavorato come serva di quella famiglia insieme alla sorella; poi
però nel giro di poco tempo aveva stretto sempre più amicizia con
Assideo fino a diventarne l'amante. Da quel momento aveva cominciato
lei a farsi servire e a farsi trattare come quella signora che
avrebbe sempre voluto essere.
Assideo era un bell'uomo ed aveva anche i soldi. Anzi, era la sua
moglie che aveva i soldi, però egli ne poteva disporre a piacimento
perché l'Antonia ne era profondamente innamorata, ma era anche,
poverina, tanto, tanto fessa. La natura con lei non era stata
gentile. L'aveva fatta nascere signora, è vero, con terre, beni e
ricchezze che in pochi Sammarinesi si potevano sognare. Tuttavia fin
da piccola aveva avuto un corpo pieno di acciacchi e leggermente
deforme, ed un'intelligenza assai modesta.
Quando nel 1823 aveva sposato il suo Assideo le era parso di vivere
una favola. Il primo anno di matrimonio, poi, era stato veramente un
sogno, con lui che la riempiva di attenzioni e premure e faceva di
tutto per renderla felice. Poi dalla fine del '24 era incominciato
l'incubo. Dapprima era morto il suo primogenito, poi suo padre
Matteo, infine Assideo, preso in mano le redini della casa, vi aveva
fatto entrare la bella e fresca Giovanna, giovane fiore di appena
vent'anni di età che aspettava solo di essere colto. Nel giro di
pochissimo tempo i due avevano incominciato ad intendersela in
maniera sempre più spudorata e tracotante.
La Giovanna poi era del tutto priva di inibizioni morali; anzi,
pareva proprio che godesse nel farsi vedere da Antonia in
atteggiamenti ambigui e provocatori, mentre scherzava e rideva con
Assideo, o gli accarezzava i capelli facendogli appoggiare la testa
sulle ginocchia, o si faceva toccare con voluttà. Poi era
malignamente dispettosa, riuscendo a coinvolgere nelle sue birbonate
il sempre più fedele amante; all'Antonia, poveretta, ne avevano
fatte di tutti i colori: l'avevano scottata con l'ortica, le avevano
dato da mangiare cibi avariati, l'avevano picchiata, la offendevano
in continuazione, erano giunti perfino ad infilarsi insieme nel suo
letto mentre lei dormiva, e ad infilarvi un'altra volta un loro
complice, sempre mentre era assopita, per poterle dare della
puttana. La sua vita era diventata un inferno, un inferno da cui non
sapeva come uscire perché era sola, non aveva nessuno a cui
rivolgersi, ed in faccende simili il paese, che pur sapeva ogni cosa
e anche di più, guardava bene dall'intromettersi. Alla fine optò per
sopportare tutto con santa pazienza, confidando che prima o poi il
cielo l'avrebbe aiutata affrancandola da quella tormentosa presenza
e da quella disgraziata situazione.
Un atteggiamento tanto remissivo, invece, diede sempre più forza ed
arroganza alla Galassi, che alla fine divenne l'unica dispotica
padrona di quella casa. La segreta speranza di Giovanna era che
Antonia morisse: Quando, o gobba, creperai? -le chiedeva con
sempre maggiore arroganza- Tanto non puoi durare a lungo storpia
e malandata come sei. Antonia infatti, pur senza avere mai avuto
malattie tanto gravi da dover temere per la sua vita, era di salute
cagionevole, ed ogni tanto si doveva mettere a letto per qualche
tempo. Lo stomaco in particolare le dava qualche problema, quando
beveva del vino o qualche alcolico specialmente. Stava in riguardo,
ma il vino, soprattutto quello bianco e frizzante dei suoi vigneti,
l'aveva sempre attratta, per cui puntualmente doveva pagare il fio
della sua gola. Nei primi anni della sua tresca con Assideo,
Giovanna era stata fermamente convinta della benignità della natura
che presto l'avrebbe di certo liberata da quella gobbaccia,
sua indegna rivale, che le impediva di vivere in piena
felicità con quello che considerava il suo uomo. Era assai
giovane, e per alcuni versi anche molto ingenua, per cui pensava,
anzi ne era profondamente persuasa, che non fosse giusta
quell'equivoca situazione in cui si era venuta a trovare, e che
ormai si sentiva costretta a vivere giorno dopo giorno. Non era
giusto che lei, così energica e piacente, capace di mandare avanti
una casa come quella di Assideo, e di aiutarlo a dirigere e seguire
i lavori nelle sue terre ed i suoi affari in generale, capace di
amarlo e certamente anche di riempirgli la casa di bambini, dovesse
stare in subordine rispetto ad una stupida sciancata il cui unico
pregio era il patrimonio di cui si trovava in possesso e la
conseguente agiatezza che ne derivava. No, tutta quella strana
vicenda in cui era scivolata non poteva essere giusta e prima o poi
la vita avrebbe avuto senza dubbio una svolta tale da rimettere le
cose come dovevano andare. Ne aveva parlato con Assideo, ed anche
lui se n'era convinto: entrambi si erano messi ad aspettare
pazientemente il momento in cui poter seppellire la sua moglie.
Ma gli anni passavano e nulla cambiava. Antonia con puntualità si
ammalava e con altrettanta puntualità si guariva. Il suo
atteggiamento rassegnato e sottomesso, poi, capace di farle
accettare con ipocrita condiscendenza una situazione assurda come
quella che si svolgeva quotidianamente sotto il suo tetto mandava
ancora più in bestia la Giovanna. Ad un certo punto essa
cambiò totalmente opinione, giungendo a ritenere che la gobbaccia
non sarebbe crepata mai, e che quella squallida relazione a tre, che
ormai le andava sempre più stretta, avrebbe durato chissà quanto.
Allora cominciò a rimuginare pensieri tristi e a domandarsi se la
natura, che con lei non si era dimostrata per nulla benigna, poteva
essere in qualche modo aiutata nel suo corso. Quando la sua rivale
si ammalava, Giovanna faceva di tutto per somministrarle vino ed
alcolici, ed addirittura cibi avariati. Antonia aveva però la
fortuna di possedere un fisico inespugnabile, capace di una strenua
autodifesa nei momenti in cui percepiva un qualche pericolo, e
abilissimo nel tutelarla facendole vomitare all'istante tutto ciò
che captava come nocivo.
Così Antonia continuava a guarirsi puntualmente, e Giovanna ad
inviperirsi sempre più. La gobbaccia ha la pelle dura;
-disse un giorno ad Assideo- se vogliamo togliercela di torno,
bisogna che usiamo modi più energici. Assideo prima di sposarsi
aveva lavorato per due anni in una spezieria come apprendista,
imparando così i rudimenti della farmacologia dell'epoca. Ne sapeva
abbastanza da conoscere i veleni più comuni e di più facile
reperibilità. Inoltre si era dilettato di pittura e continuava
ancora a farlo quando aveva un pò di tempo. Sapeva che per fare un
ottimo giallo occorreva usare l'orpimento, ovvero del solfuro di
arsenico di colore oro, letale per l'uomo se assunto in giusta
quantità, ma assai facile da reperirsi. Potremmo avvelenarla con
l'arsenico, pensò a voce alta. Giovanna lo scrutò intensamente
per vedere fino a che punto poteva essere risoluto. Lo sguardo
di Assideo non lasciava dubbi: la gobbaccia aveva i giorni
contati.
IV
Dopo la
sfuriata della Giovanna, la Pagnucca uscì fret-tolosamente di casa
in cerca del dottore. Chiedendo in giro, venne a sapere che lo si
era visto entrare nella spezieria Righi; subito vi andò anche lei.
-Avete visto il dottore? chiese ai presenti.
-Se n'è appena andato a casa, le risposero.
-Ha lasciato qui dei boccali ed un bicchiere?
-Sì. Li abbiamo appena messi sotto chiave.
-Mi manda il mio padrone; sono suoi; li rivuole indietro!
-Cara Pagnucca, va' a dire al tuo padrone che li riavrà a suo tempo.
Per il momento glieli custodiamo noi come ci ha ordinato il dottore.
C'è sotto qualcosa di grosso, di molto grosso.
La Pagnucca strabuzzò gli occhi; non capiva cosa potesse esserci di
grosso in due boccali ed un bicchiere. Provò a richiederne di nuovo
la consegna, ma ancora senza esito. Allora se ne tornò a casa
preparata ad essere ancora una volta strapazzata dalla Giovanna.
Nel frattempo il dottor Madruzza era partito dal Borgo per
tornarsene a casa sua in Città. Qui giunto, aveva scritto una
dettagliata relazione sull'accaduto e su quanto aveva potuto
sommariamente verificare. Poi se n'era uscito di nuovo per recarsi
presso l'abitazione del commissario della legge Ceccovilli a
denunciare il veneficio.
Il commissario rimase assai stupito di quanto denunciatogli dal
medico. Erano già diversi anni che se n'era venuto a San Marino
dalla sua Toscana, ma un fatto simile non gli era mai capitato. La
società sammarinese era irrequieta, ma non assassina. Aveva
affrontato tantissimi casi di furto, molte risse, qualche
accoltellamento, una violenza carnale, ma mai un tentato
omicidio col veleno, delitto che all'epoca veniva considerato
gravissimo perché vincolato a sicura e feroce premeditazione. Ci
pensò un attimo poi prese una decisione: occorreva arrestare Assideo
Grazia con l'accusa di tentato uxoricidio; al momento gli sembrava
il colpevole più probabile.
V
Il giorno dopo, Sabato 12 Marzo, il presunto colpevole venne
tradotto in una fredda e disumana cella collocata nella Rocca, ed il
commissario Ceccovilli incominciò le sue indagini. All'epoca i
processi erano assai semplici e lineari: si interrogavano più volte
tutti coloro che potevano sapere qualcosa sul fatto in esame, si
verbalizzavano dettagliatamente le loro dichiarazioni, ed alla fine,
quando il commissario che aveva condotto le indagini pensava di aver
conosciuto tutto il necessario, e si era convinto di essersi fatto
una chiara idea sull'accaduto, emetteva la sentenza. Tra il 13, 14 e
15 marzo Ceccovilli interrogò i principali testimoni della vicenda.
Prima toccò al dottor Madruzza, poi ai fratelli Martelli, a
Natalucci, alla Pagnucca e ad alcuni altri. Fece inoltre perquisire
l'abitazione di Grazia in cerca di ulteriori prove.
Dalle interrogazioni svolte emerse che tutti sapevano cosa
accadeva in casa Grazia, e molti erano a conoscenza anche delle
vessazioni a cui era sottoposta la signora Antonia, ma nessuno era
mai intervenuto, lasciando la poveretta così al suo destino. Tutti
gli interrogati o quasi erano convinti che la colpa principale della
brutta faccenda fosse della Galassi, degna addirittura di essere
frustata sulla pubblica piazza, come ebbe a dichiarare Biagio
Martelli. Il commissario Ceccovilli si rese conto quindi anche delle
gravi responsabiltà della Giovanna, ed il giorno 16 ne ordinò
l'arresto. Ma qualche voce benevola verosimilmente fece in tempo ad
avvertirla, cosicchè a Mosè Maroni, che l'era andata a prelevare, fu
riferito che l'avevano vista verso Serravalle mentre speditamente e
guardandosi continuamente dietro le spalle se ne stava uscendo dai
confini in compagnia del fratello Mariano; questo egli riportò
al commissario. Ceccovilli avvisò le autorità pontificie pregandole
di arrestare la presunta rea qualora ne avessero avuta l'occasione.
Costoro promisero tutta la collaborazione possibile, e dopo qualche
tempo gli comunicarono anche di avere la certezza che si nascondesse
a Rimini; tuttavia la Giovanna non venne mai catturata e si dovette
processarla come contumace.
Il 16 marzo il commissario decise inoltre di recarsi in Borgo in
casa di Grazia per interrogare la povera signora Antonia,
immobilizzata sempre a letto, e sentire la sua versione dei fatti.
Mercoledì 9 di questo mese -denunciò al commissario- feci
chiamare il dottore perché già da tre giorni avevo forti bruciori
allo stomaco e vomitavo in continuazione. Il primo giorno
della mia malattia la Giovanna mi volle per forza dare un uovo da
bere dicendomi -lo prenda, lo prenda che le farà bene-; avevo visto
che vi rimescolava dentro con un bastoncino, ma non ci feci caso più
di tanto e lo bevvi. Aveva un sapore assai cattivo, però, tanto da
non sembrare nemmeno un uovo. La Giovanna mi disse che andava tutto
bene, che l'uovo era fresco e che il saporaccio dipendeva dalla mia
bocca, ma io dopo un attimo lo rigettai. Da quel momento, comunque,
la mia malattia peggiorò, ed i bruciori di stomaco nei giorni
successivi aumentarono di molto così da indurmi a chiamare il
medico. Costui mi visitò e mi prescrisse del cremor di tartaro da
bere con l'acqua. Mandai la Pagnucca a prenderlo in spezieria, e poi
iniziai ad assumerlo. Il giorno dopo, però, volle prepararmi la
bevanda la Giovanna: quando la bevvi avvertii che non aveva più il
sapore leggermente acido gustato il giorno prima, ma era molto più
cattiva e disgustosa. Vomitai subito quella robaccia, e la Giovanna
mi disse che le medicine più erano cattive e più facevano bene,
costringendomi a bere immediatamente un altro bicchiere di quella
schifezza. Rivomitai e dissi alla Giovanna che non avrei più bevuto
quella medicina. Le chiesi un bicchiere d'acqua pura; lei mi passò
il bicchiere con l'acqua, ma forse vi aveva messo un'altra volta la
medicina, perché percepii ancora quel saporaccio amaro e rivomitai
per la terza volta. A questo punto mi misi sotto le coperte
rifiutandomi di prendere nient'altro, e la Giovanna se ne andò.
Tornò la mattina dopo appena che il dottore si era portato
via i boccali e il bicchiere. La vidi impallidire, poi strapazzare
la Pagnucca, poi litigare con Assideo, ed infine mi disse che
le sarebbe dispiaciuto che mediante quella roba che si era
portato via il medico si fosse fatto qualche burla ad Assideo,
perché nei boccali non era stato messo niente di cattivo. Se
qualcosa c'era forse era stata messa lì dai ragazzi, ma chi fossero
questi ragazzi proprio non saprei dirle.
Il commissario ed il suo aiutante verbalizzavano le dichiarazioni
della signora Antonia senza interromperla. Ad un certo punto, però,
Ceccovilli le chiese: Che rapporti c'erano tra suo marito e la
Giovanna Galassi?
- Assideo aveva perso la testa per quella ragazza,
-gli rispose- stava sempre in sua compagnia e le permetteva di
fare come voleva in casa mia, anche di maltrattarmi. Lei mi odiava e
non faceva niente per nasconderlo. Non avrei mai pensato, però, che
arrivasse al punto di darmi una sostanza capace di farmi star tanto
male quanto sto adesso. Mi viene poi in mente che oltre
all'uovo e alla bevanda nauseante la Giovanna mi ha dato altri cibi
schifosi prima che chiamassi il medico: Domenica a pranzo mi
ha dato del sangue fritto di agnello indorato con l'uovo che aveva
un gusto pessimo; due giorni dopo ha insistito perché mangiassi un
biscottino fatto da lei che però era cattivissimo. Ne mangiai solo
metà e l'altra metà la nascosi mentre non mi guardava.
-Ce l'ha ancora quel pezzo di biscotto? chiese con premura il
commissario.
-Forse sì. Guardi dentro quel cassetto. L'avevo messo lì.
Il commissario andò di persona nel mobile indicato dalla signora
Antonia. In un angolo, sotto una pila di panni, trovò un mezzo
biscottino all'uovo di colore giallo che incartò e si pose in tasca.
Poi s'incamminò verso la porta.
-La saluto signora Antonia e le faccio i miei auguri. Per oggi mi ha
detto abbastanza. Forse avrò bisogno ancora di venirla a trovare.
-Venga, venga quando vuole signor Commissario. Speriamo che il Cielo
me la mandi buona!
VI
Negli ultimi giorni di marzo Ceccovilli continuò la sua indagine
alla ricerca della verità. Il 29 fu interrogata nuovamente e più in
dettaglio la Pagnucca la quale si dimostrò assai titubante e
reticente nelle risposte, anche rispetto a quello che aveva già
dichiarato al commissario in precedenza. Ceccovilli la redarguì più
volte ad essere sincera, ma vedendo che il suo atteggiamento non
cambiava, la fece arrestare e tradurre nelle carceri del Pianello,
dove venivano in genere rinchiuse le donne. Fu interrogata nei mesi
successivi altre volte, ma sempre si dimostrò smemorata e restia
nelle risposte.
Nel frattempo, il 2 aprile, venne interrogato per la prima volta
Assideo Grazia. Egli dichiarò che non aveva nessuna relazione con la
Galassi e che questa frequentava la casa solo perché cognata del suo
cantiniere. La malattia della moglie si doveva esclusivamente al
vizio di bere alcolici che aveva.
Nel mese di aprile la signora Antonia peggiorò lentamente; a fine
mese il dottor Madruzza denunciò per iscritto che le sue condizioni
cominciavano ad essere assai gravi e che aveva ormai perso del tutto
la sensibilità alle mani ed ai piedi.
Il 19 maggio il commissario fece sottoporre ad esame da parte dei
fratelli Righi del Borgo, del dottor Madruzza e del dottor Paolo
Margotti, medico di San Leo, i boccali e il bicchiere, ancora
sigillati da marzo, nonchè il pezzo di biscotto. Tutti risultarono
riportare tracce di arsenico solforato giallo, cioè del minerale
chiamato orpimento che in genere veniva usato dai pittori per
preparare il colore giallo. Tale sostanza, definita assolutamente
mortale, non era stata ancora capace di ammazzare la Martelli
perché probabilmente non ne aveva ingerito in grandi quantità.
Il 17 giugno la Pagnucca dalla sua cella fece sapere a Ceccovilli di
voler essere interrogata. Egli la fece tradurre immediatamente nel
suo ufficio.
-Signor Commissario -esordì- io le voglio dire tutto quello
che so perché non resisto più in galera.
-E' ora che parli -le disse bruscamente Ceccovilli- dovevi
averlo già fatto da tempo.
-Finora non le ho detto tante cose perché avevo paura di essere
considerata complice per quello che è successo alla povera signora
Antonia, -ribattè timorosa la donna- e perché non volevo
essere bastonata e strapazzata da padrone Assideo o dalla Giovanna.
Io posso aggiungere solo, però, che non ho visto con i miei occhi
chi ha messo la polvere gialla nell'acqua della signora, però ho
visto che sia padron Assideo, sia la Giovanna si erano dati da fare
per portare le brocche ed il bicchiere alla signora, e quindi penso
che siano stati loro. Poi quando il dottore le portò via, tutti e
due si sono spaventati e mi hanno maltrattato, e poi si sono chiusi
in un'altra stanza a parlare. Dopo mi hanno detto che se
qualcuno mi chiedeva di quella polvere gialla, dovevo dire che erano
stati dei ragazzi a metterla nell'acqua.
-Senti -aggiunse il commissario- sai niente di un piatto di
sangue fritto mangiato dalla signora Antonia che le aveva fatto
male?
-Sì; l'aveva preparato la Giovanna per tutti, ma ho visto che
alla signora l'avevano messo in un piatto diverso rispetto a quello
dove l'abbiamo preso noi.
-E di un uovo schifoso che aveva fatto vomitare la signora Antonia?
-Sì, anche quello glielo aveva voluto preparare e dare a tutti i
costi la Giovanna.
Il commissario Ceccovilli si ritenne pienamente soddisfatto delle
risposte ricevute, ed ordinò che la Pagnucca venisse posta in
libertà. Nei mesi successivi Assideo Grazia venne sottoposto a
ripetuti e meticolosi interrogatori, ma egli negò sempre tutto: non
era l'amante della Giovanna, non aveva messo nulla di nocivo nelle
bevande e nei cibi della moglie, non l'aveva mai strapazzata, né le
aveva tirato oggetti o malmenata, non sapeva che la Giovanna la
ingiuriasse. Sostenne che la Galassi era solo una serva, anche se
ammise che frequentava molto la sua casa perché lui l'aveva
incaricata di sorvegliare con attenzione la moglie che aveva già
strapazzato a morte tre dei suoi figli, ed aveva paura che
potesse fare altrettanto anche con l'unico superstite, Ortolero di
quattro anni d'età. La moglie si era ammalata solo perché era
un'alcolizzata.
Il 31 ottobre il tribunale emise la prima sentenza: Giovanna Galassi,
contumace, venne considerata rea di veneficio e fu condannata al
sequestro di tutti i beni ed alla pena di morte.
Il 6 maggio del 1833 suonò la campana per chiamare a raccolta
l'Arringo in cui leggere la sentenza riguardante Assideo Grazia. Il
giorno dopo fu letta all'interno del pubblico palazzo: Assideo
Grazia fu ritenuto colpevole di avere attentato alla vita della
moglie col veleno in complicità con l'amante. Fu condannato
alla confisca dei beni ed alla pena capitale.
*****************************
-Il
racconto è stato liberamente tratto da una vicenda accaduta in Borgo
nel periodo indicato. I nomi dei personaggi, le date e la
maggioranza dei fatti narrati, sono del tutto reali.
cfr.
Archivio di Stato della Repubblica di San Marino, Atti Criminali
1831-1832, busta 706/13.-
|