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Una vita per il Socialismo   

Gino Giacomini nacque a Borgo Maggiore il 27 dicembre 1878 “in una casetta ad un piano, posta nella cosiddetta Piazza di Sopra” come lui stesso ci dice nelle sue memorie tuttora inedite, da Giuditta Caimi, figlia di Marino, “un esperto norcino di origine marchigiana che aveva sposato Maria Fattori, massaia dal polso fermo, sorella dello storico Marino Fattori”, e da Remo Giacomini, figlio di Agostino, “onesto artigiano, commerciante e cittadino integerrimo, elemento autorevolmente pacificatore nell’epoca in cui si erano riaccese le deplorevoli lotte di campanile fra la Città sorniona e ufficialmente conservatrice, e il Borgo frenetico che sentiva ancora l’influsso delle schiere di profughi politici riparati a San Marino”, ovvero gli anni in cui venne ucciso il Segretario di Stato Giambattista Bonelli (14 luglio 1853).
Ebbe quattro fratelli: Giannetto, Lina, Maria e Marta.
“Agostino morì quarantenne e la sua fine prematura suscitò grande commozione. Sua moglie, nonna Clementina, trascorse alcuni anni in vedovanza, convolò a nuove nozze, e i due orfani, Romolo e Remo, furono presi in casa dagli zii Federico Martelli e Giuseppe Giacomini”, ci dice sempre Gino dall’interno dei suoi “Ricordi di vita vissuta”, ovvero della sua autobiografia.
“La famiglia Giacomini risulta proveniente dalla Villa di Verucchio, precisamente da Poggio Berni, fin dal 18° secolo. Io ho sentito parlare da mio padre di un certo Cugano (Gaetano), suo nonno, che fra l’altro faceva l’artificiere e che rallegrava spesso i suoi nipoti con qualche diversivo pirotecnico”.
Remo Giacomini nel 1867, a 14 anni, andò a combattere al fianco di Garibaldi a Mentana e a Monterotondo per tentare di conquistare Roma, ancora in mano al Papa. “E’ facile immaginare quale doveva essere l’indirizzo dei miei sentimenti e pensieri in un ambiente che vibrava di patriottismo e di progresso, e con un babbo che io idolatravo, come un esemplare di schiettezza, di coraggio, di generosità e di rettitudine civica”. In seguito imparò a fare l’orologiaio dimorando per qualche tempo a Roma, poi aprì un caffè in Borgo, attività che curò praticamente per tutta la vita.
Gino imparò i rudimenti della lettura in casa di Teresa Reffi, una signora che per pochi soldi raccoglieva i bambini in età prescolastica “in un cosiddetto asilo che aveva per canoni l’obbedienza e l’immobilità”. A sei anni entrò nella scuola pubblica dove fungeva da maestro il notaio Federico Martelli.  “Era una piccola bolgia infernale, frequentata da sandroni indisciplinati e fuori d’età, che ne facevano di cotte e di crude”. “I miei amici di quell’incantato primo tempo della mia fanciullezza erano Rufo Reffi, Giovanni Vincenti, Vincenzo Michetti, Angelo Corrucci, Raffaele Montemaggi”.
Finita la terza elementare, andò a frequentare la 4a e la 5a in Città, unica sede in Repubblica di queste classi, poi frequentò quella che allora si chiamava la prima ginnasiale (l’attuale prima media) venendo però rimandato in due materie. Questo parziale fallimento indusse il padre di Gino a portare il figlio a lavorare nel suo caffè: “Poiché in quei tempi gli studi erano considerati come un appannaggio di privilegiati, fui applicato al banco del caffè a mescere bibite e mistrà”. 
Tuttavia Gino non si fossilizzò in una vita intellettualmente disinteressata:” Ero un precoce e un emotivo, vivevo una vita interiore intensa, dominata dalla fantasia; leggevo molto e scombiccheravo da quel grafomane che poi mi si ritenne più o meno giustamente”. “La mia mente, pur essendo incolta parecchio, dava sintomi di precocità, ero un animale politico con tutti i difetti della specie e mi dibattevo nel conflitto fra i miei sentimenti socialisti e l’adorazione che avevo per mio padre repubblicano, di disciplina e di costumi mazziniani. (…) L’atmosfera della mia modesta casa era satura di spiriti laici, liberali e combattivi”.
All’età di dieci anni Gino incontrò per caso a San Marino, dove era venuto per una gita di piacere, Andrea Costa, “apostolo invitto del socialismo italiano e ardente romagnolo”, “ma chi influì decisamente sul mio animo e contribuì a dare ai miei confusi istinti politici una coordinazione con indirizzo politico, fu mio cugino, Tullio Giacomini, allora studente universitario, che portava da Bologna una fresca e irruente vena di pensiero moderno”.  Insieme a Tullio, alla fine dell’Ottocento altri giovani studenti sammarinesi si avvicinarono alle nuove teorie politiche che stavano spazzando l’Europa e le importarono a San Marino influendo così sulla generazione più giovane. Era il periodo in cui vennero stampati, sempre da questi giovani riformisti, i primi giornali locali tendenzialmente polemici con la dimensione politica/oligarchica ai vertici di San Marino.
Gino Giacomini aderì senza più remore al socialismo quando una sera sentì dire da parte del suo venerato padre, in discussione con un altro uomo, queste parole: “Basta considerare le condizioni meschine in cui si dibatte anche il nostro Paese, per riconoscere che non è più affare di Repubblica o di monarchia. Questi non sono che vasi, bisogna vedere quel che c’è dentro. Il socialismo arriva nelle radici della società. Anche Garibaldi ha proclamato che il socialismo è il sole dell’avvenire”. “Non udii altro - ci racconta direttamente Gino – e quando potei riavermi dalla sorpresa abbandonai la tavola e sgattaiolai via in silenzio per andare a piangere di gioia nel silenzio della mia camera. Da quel giorno non ebbi scrupoli e riserve, mi sentii padrone del mio pensiero e con l’impeto del neofita, lessi, studiai, assimilai i temi di propaganda che veniva scodellata negli opuscoli di Turati, Prampolini, Costa, Bissolati e di tutti i nostri maggiori. Dall’ABC tentai poi di salire a più alte sfere di acquisizione scientifica della dialettica marxista, alla quale sono rimasto sempre fedele attraverso gli scritti di Sorel, Labriola, e agli originali di Engels, Vassalle, e degli altri, e mi misi a fare propaganda spicciola da quel soldato volontario e volenteroso che sono sempre stato”.
Un giorno in Borgo avvenne un tragico fatto di sangue: due barbieri che lì lavoravano vennero ad uno scontro, probabilmente per motivi di concorrenza; uno rimase ucciso, mentre l’altro finì a lungo in galera. Dietro consiglio del padre, Gino pensò di diventare barbiere perché si era creata una buona possibilità di lavoro, e perché il caffè dei Giacomini rendeva solo il necessario per sopravvivere. Si recò perciò a Rimini per imparare il mestiere presso un barbiere di lì “scorticando le rudi facce dei marinai”. In questa città Gino perfezionò e approfondì ancor più i suoi ideali, aiutato in questo dai socialisti locali, e fece anche un comizio. Manteneva nel frattempo una fitta corrispondenza col cugino Tullio che aveva trovato un posto come medico a Montefiorito.
Tuttavia non era destino che Gino dovesse fare il barbiere. Infatti una malattia inaspettata lo rese leggermente claudicante ed instabile sulle gambe, per cui era impossibilitato a svolgere un mestiere che presupponeva invece un costante movimento in piedi. Era il 1897 ed egli doveva rimettersi in discussione di nuovo. “Che fare dunque? Ci tolse d’imbarazzo una distinta e cara signora, verso la quale io protesto ancora e sempre la mia gratitudine. Era la moglie del medico del Borgo, Speranza Romani Ancadori, laureata in lettere, colta, fine, la quale aveva avuto occasione di leggere alcune mie novelle” che aveva apprezzato particolarmente. Gino dunque durante l’estate di quell’anno si mise a studiare alacremente per sostenere come privatista l’esame d’ammissione alla scuola normale, esame che superò brillantemente. “Così s’inizia la mia sommaria e rapida vita di studente alla quale mi accostai con uno scarso scibile scolastico, con una cultura irregolare, tratta da divorate nozioni fra cui eccelleva la materia politica e sociologica, riscaldata da una febbre febbrile sotto il segno zodiacale della povertà, che però non mi faceva paura. Lo zio dottor Caimi mi faceva pervenire abiti e scarpe dimesse; per il resto, ed era il più, provvedevo con la scorta di un sussidio di trenta lire mensili, corrispostemi da quel governo oligarchico che io strapazzavo”.
Gino si recò quindi a studiare alle scuole magistrali di Urbino; qui si legò immediatamente alla locale sezione socialista continuando e raffinando quell’attivismo politico in cui già si era fatto una certa esperienza. Rimase nella cittadina marchigiana fino al 1900, anno in cui si diplomò maestro elementare, senza avere grossi problemi, anche se i locali conservatori, che vedevano il socialismo come un grosso pericolo, lo mal tolleravano. Nel 1898, anno dei gravi fatti legati al generale Bava Beccarsi a Milano, Gino si dovette nascondere per qualche tempo perché la polizia  arrestò molti di coloro che erano in odore di sovversivismo, tuttavia alla fine non gli accadde nulla.
Sempre ad Urbino Gino curò e fece stampare un giornale, il 1° Maggio, che venne poi divulgato prevalentemente a San Marino, così come scrisse vari articoli pubblicati sul Risveglio di Forlì e sull’Avanti, giornale a cui collaborò fin dalla sua nascita nel 1896.
Diplomatosi dunque maestro elementare, Giacomini ebbe il suo primo impiego a Morciano, dove sostituì per un anno un anziano insegnante andato in aspettativa, grazie all’intercessione del professor Pietro Franciosi, “sempre primo nelle amarezze come nelle gioie di casa mia”, con cui Gino comincerà a legarsi fraternamente proprio da questi anni. Anche in questo paese continuò ad attivarsi per il socialismo contribuendo alla riorganizzazione della locale sezione, squassata da contrasti interni. A Morciano Gino rimarrà legato affettivamente e per motivi politici sempre.
Il secondo impiego Gino lo trovò a Montelabbate, nelle vicinanze di Pesaro. Anche in questo “paesello montano” subito si industriò per divulgare il verbo socialista tenendosi in relazione con i dirigenti della federazione di Pesaro, organizzando una sezione locale con annessa una biblioteca circolante, e prodigandosi “per dare una fede e una coscienza a quei lavoratori costretti dall’insufficienza economica ad emigrare ogni anno in Svizzera o in Francia”.
Nel settembre del 1902 egli partecipò, per conto dei socialisti sammarinesi, al sesto Congresso del Partito Socialista italiano che si svolse ad Imola, votando per l’ordine del giorno di Turati, Treves, ecc, ovvero per quello di tendenza riformista, “ma mi rammaricai degli effetti che seguirono il trionfo riformista” dice esplicitamente Giacomini sempre all’interno della sua autobiografia.
Nel novembre dello stesso anno il Consiglio di San Marino, con diciotto voti favorevoli, tredici contrari e sei astenuti, nominò Giacomini maestro presso la scuola elementare di Borgo, dopo che 124 persone avevano sottoscritto a suo vantaggio una petizione in cui lo si richiedeva come insegnante presso quella sede essendo ritenuto "giovane capacissimo e che gode la stima dell’intero paese".
Gino, trionfante ma anche molto polemico con i governanti sammarinesi a cui attribuiva la colpa di averlo boicottato in precedenza e di averlo fatto aspettare tanto un lavoro in territorio, scrisse a Franciosi il 15 novembre per dirgli: "La ringrazio con affetto del compiacimento con cui ha accolto la mia nomina a maestro del Borgo. La volontà del popolo ha trionfato delle male arti della camorra nobile. Finalmente potrò rientrare in patria! Arriverò gli ultimi del mese".
Il rientro di Giacomini coincise con l’inizio del movimento pro arengo a cui il nostro diede tutto il suo entusiasmo ed il suo ciclonico dinamismo. Fu anche colui che volle la fondazione del “Titano” nel 1903 (“Io ne fui da allora ad oggi, salvo le obbligate parentesi, e sono trascorsi 57 anni, il fondatore e il redattore permanente”). L’uscita del giornale fu assai importante per scuotere l’intorpidita società sammarinese, anche se determinò turbamento alla madre di Giacomini che avrebbe preferito che il figlio non agitasse così tanto le acque. “Io non potevo deflettere dall’azione intrapresa e d’altra parte avevo per la mamma, tanto cagionevole in salute, un tenero affetto, e dovetti quindi superare in quella circostanza un doloroso interno conflitto”. La sua attività giornalistica procurò anche varie denunce a Giacomini, che non era certo moderato nelle polemiche e nelle accuse nei confronti dei suoi avversari. La focosità del linguaggio, che a volte diveniva vera e propria aggressività, fu una caratteristica piuttosto costante di Gino.
In questi primi anni del Novecento stava iniziando un dibattito tra socialisti e con gli altri riformisti sammarinesi per vedere come mutare l’ingessata situazione socio-politica locale. Le opinioni erano divergenti e quelle socialiste erano le più radicali ed estremiste tra tutte. Giacomini, che era già l’elemento più carismatico e deciso del socialismo sammarinese, era su posizioni molto nette: nel 1902 egli reputava prioritario il suffragio universale su tutte le altre riforme, e proprio per questo, in una lettera del 28 febbraio, polemizzerà con Franciosi, che era invece su posizioni più moderate: "La coscienza pubblica si orienti in senso veramente democratico e tenda esclusivamente alla conquista del diritto di voto prima che lo sfacelo sia completo. Questa è la prima logica ed utile riforma, le altre saranno una conseguenza inevitabile”.

Nello stesso anno Gino, in collaborazione con Tullio Giacomini, curò e diresse un altro giornale di stampo socialista, edito sempre per il 1° maggio, su cui scrissero anche altri riformisti locali per chiedere appunto l’elezione tramite suffragio dei consiglieri, ma anche il decentramento amministrativo ed una riforma tributaria capace di colpire soprattutto i più abbienti.
Ugualmente del 1902 è la nascita della Sezione socialista sammarinese cui Gino fornì, ovviamente, un grosso impulso e l’esperienza che si era fatto nelle sezioni socialiste da lui frequentate fuori territorio.
Continuava nel frattempo la sua carriera scolastica: infatti dopo aver iniziato a fare il maestro nelle prime classi elementari del Borgo, come si è detto, venne ben presto promosso anche a maestro di quarta elementare in Città, tuttavia il suo attivismo principale in questi anni fu dedicato alla propaganda per sensibilizzare i Sammarinesi alla causa riformista e al bisogno di convocare un arengo con cui rompere l’oligarchia imperante: “Non si dormiva e la propaganda spicciola e capillare esercitata nelle campagne si alternava senza posa con quella di massa nelle adunanze e nei comizi. (…) Non sarei obbiettivo se sottacessi che io ero uno dei più operanti e dinamici in questo movimento cui davo tutto l’immenso slancio che si ha in gioventù e l’alimento di una fede entusiastica”. 
Tutto questo dinamismo riformista, insieme ai problemi che realmente attanagliavano il Paese in questi anni, determinò la convocazione di un’assemblea popolare in data 29 ottobre 1905 in cui si costituì ufficialmente il Comitato pro – Arengo. A Gino venne proposto l’incarico di segretario del Comitato, ma lo rifiutò affermando che "egli ed i suoi compagni socialisti dopo aver dato il moto di propulsione al movimento intendono, perché la loro qualità di sovversivi non impauri alcuno, di mettersi alla coda".
Come è risaputo, l’arengo alla fine venne convocato per il 25 marzo 1906, però Gino non avrebbe potuto votare; infatti :”Io non ero nel ruolo dei capi – famiglia che avevano accesso nell’assemblea dell’Arengo perché facevo economia cioè convivevo coi miei genitori, e a tutti i miei compagni di lotta premeva che io fossi presente nella giornata del 25 marzo, giorno della grande convocazione, per cui dovetti conformarmi ad un rito che si svolse in Tribunale, di fronte al Commissario della Legge e che consisteva nella liberazione dalla paterna potestà consentita con tre abbracci a scioglimento finale datimi da mio padre in segno di consenso. Una pantomima rievocata da costumi antichi caduta in desuetudine”.  Tale rito comunque lo fece essere tra i votanti.
Gino dopo l’arengo non entrò in Consiglio perché vi era suo padre, quindi per legge non poteva. Tuttavia si dedicò anima e corpo alla politica, all’evoluzione del socialismo, alla battaglia per svecchiare le istituzioni e la società di San Marino, alle crociate contro i conservatori. La sua voce tuonò in continuazione dal “Titano”. Insieme al fido professor Franciosi e ad altri percorse in lungo e in largo il territorio della Repubblica, ma anche quello del suo circondario, per fare comizi, divulgare il nuovo verbo socialista, esaltare gli eroi risorgimentali come Garibaldi, predicare l’esigenza di cambiare le cose, di modernizzarsi in tutti i campi.
Giacomini per tutta la vita fu caratterizzato da un dinamismo fuori dal comune e da una fede nelle teorie socialiste da portarlo a combattere sempre e dovunque con tenacia e foga per la loro divulgazione e per l’emancipazione della classe operaia e dei ceti più diseredati. Continuò comunque anche a svolgere al meglio il suo mestiere di maestro di quarta elementare e a studiare per qualificarsi sempre più. Negli anni in esame frequentò a Bologna il corso di perfezionamento per maestri, dove insegnò anche il Pascoli, che gli permise, nel giugno del 1910, di conseguire un altro diploma che lo abilitava ad essere direttore didattico. Nello stesso anno egli si sposò con Anita Amati a Verucchio, località scelta perché a San Marino vigeva solo il matrimonio religioso, mentre egli volle sposarsi in civile.
In quel periodo in Repubblica si stavano riorganizzando le locali scuole elementari i cui primi corsi erano sparsi per tutto il territorio, riorganizzazione a cui lo stesso Giacomini aveva collaborato. In questa trasformazione si prevedeva d’istituire la carica proprio di direttore didattico, che doveva fungere da supervisore di tutti i corsi elementari, posto a cui naturalmente Gino ambiva. Però ormai si era fatto molti nemici in patria tra i conservatori ed i cattolici intransigenti, perché egli era stato sempre un propugnatore della necessità di laicizzare lo Stato. Questa inimicizia gli costò il posto cui aspirava, perché pur essendo l’unico sammarinese in possesso dei requisiti e dei titoli necessari, il Consiglio per ben due volte gli rifiutò l’assegnazione dell’incarico.
Il fatto lo fece montare su tutte le furie e provocò non poche polemiche nel Paese. Giacomini, disgustato, decise dunque di andarsene a lavorare altrove e rimediò subito un posto come direttore didattico a Fiesso Umbertino, in provincia di Rovigo. Qui egli trovò un ambiente benevolo, ma il suo stipendio era assai modesto e non gli consentiva di vivere decentemente (“abitavamo in una specie di magazzino sprovvisto di ogni servizio”). Quando gli capitò l’occasione, dunque, Giacomini si cercò un’altra sistemazione. La trovò vincendo un concorso da direttore didattico ad Argenta, comune con 72 scuole, dove lo stipendio era senz’altro più consistente. Giacomini naturalmente s’industriò subito per fare al meglio il suo mestiere:  “Ripristinai la disciplina, incrementai l’andamento didattico, pubblicai un bollettino scolastico per l’opportuna guida e normalizzazione del servizio, riordinai la Biblioteca civica, (…) istituii l’Università Popolare”. A San Marino comunque la vicenda lasciò strascichi velenosi tanto che si rimandò l’istituzione dell’incarico a tempi futuri. Solo nella seduta consigliare del 10 maggio 1913, infatti, venne istituito ufficialmente il posto di Direttore Didattico, e per chiamata venne assegnato a Giacomini, che ovviamente provvide a rientrare velocemente da Argenta e ad accettare l’incarico nel mese di settembre dello stesso anno, pur venendo a percepire uno stipendio inferiore al precedente. Come primo compito gli fu assegnato quello di riorganizzare e sistemare le locali scuole elementari.
Nello stesso anno, celebrandosi in novembre elezioni suppletive per rimpiazzare alcuni consiglieri, Gino venne per la prima volta eletto consigliere, iniziando così una lunga militanza politica, interrotta solo durante il periodo fascista, nel massimo organo istituzionale dello Stato, anche se in questo periodo era piuttosto polemico sul modo con cui i socialisti sammarinesi stavano facendo politica.
Ugualmente si gettò subito a capofitto nell’ufficio di migliorare le locali scuole primarie, progetto su cui già dal 1907 si stava discutendo, perché soprattutto i riformisti ed i socialisti volevano il potenziamento della scuola di base per eliminare piano piano la piaga dell’analfabetismo che ancora colpiva buona parte della popolazione sammarinese. Tale progetto però fino a quel momento era rimasto prevalentemente teorico. Un grosso contributo lo diede anche all’innalzamento degli stipendi degli insegnanti, all’istituzione del patronato scolastico, delle scuole serali e di altro ancora. “Ma quel che più conta, fu dato un indirizzo moderno, aggiornato, al metodo d’insegnare e al processo didattico, secondo i canoni positivi della nuova pedagogia sociale, fissati nei programmi particolari che io stesso compilai”, ci dice il nostro all’interno delle sue note autobiografiche. Nel 1918 si diede da fare per istituire una scuola di arti e mestieri, che iniziò effettivamente ad operare nello stesso anno.
Giacomini continuò naturalmente anche nella sua opera politica, ma in quegli anni il locale gruppo socialista era poco attivo e molto disorganizzato, per cui, nonostante la sua opera indefessa insieme a quella di pochi altri, tra cui l’amico Franciosi, i risultati che poterono essere raccolti politicamente furono in genere inferiori alle aspettative. Tra l’altro la Grande Guerra contribuì notevolmente a rallentare l’evoluzione politica ed economica di San Marino, quindi anche i socialisti, di cui Gino era l’indiscusso capo, dovettero attendere tempi migliori per continuare a combattere le loro battaglie.
Tuttavia troviamo Gino sempre in prima fila per propugnare la riforma fiscale (essendo egli contrario a racimolare denaro, come si stava facendo, soprattutto con lotterie, vendita di onorificenze o espedienti simili, e a far pagare le tasse soprattutto alle masse con l’imposizione prevalentemente indiretta), per chiedere la riforma di molte delle vecchie istituzioni che reggevano ancora la Repubblica, tra cui l’abolizione del sorteggio per la Reggenza, il prolungamento del loro mandato, il decentramento dei poteri, ecc.
Altra innovazione per cui s’industrierà in continuazione, sempre insieme a Franciosi, sarà la  creazione di una Camera del lavoro per il miglioramento delle condizioni degli operai. Quando, dopo la guerra, si riuscirà finalmente ad istituirla, Giacomini avrà una gran parte nel trovare il suo segretario e nell’avviarla.
Ugualmente si adopererà molto per far smerciare prodotti di prima necessità a prezzi politici perché, con la crisi economica che c’era, molti non avevano il denaro necessario per sopravvivere. Egli sarà propugnatore dell’Ente dei Consumi, che vendeva merci a prezzi bassi, e battaglierà in continuazione in Consiglio perché fossero varati provvedimenti per la requisizione del grano a prezzi assai contenuti. Ovviamente questo suo atteggiamento a favore dei poveri gli procurò non poche inimicizie tra i commercianti del Paese e i proprietari terrieri.
Gli anni prima dell’ascesa del Partito Fascista videro rifugiarsi in territorio sammarinese un nugolo di fuoriusciti politici di indole socialista che fuggivano dalle persecuzioni cui erano soggetti, o che si nascondevano perché implicati in qualche fatto illegale. Giacomini fu tra i più prodighi a dar loro ospitalità e qualche conforto, così come ne coinvolse diversi nelle attività del locale socialismo. Tra l’altro allacciò importanti amicizie che gli furono utili in seguito, quando venne costretto ad un lungo esilio dal Paese insieme alla moglie Anita ed ai due figlioletti, Remy e Lea.
Egli dovette allontanarsi da San Marino quando il pericolo fascista divenne concreto. Già da tempo circolavano voci su una possibile spedizione punitiva nei suoi confronti, tanto che suo padre tutte le notti girava armato per casa in attesa di un possibile assalto. Gino nella notte del 14 ottobre del 1922, in compagnia di Alvaro Casali e di Secondo Forcellini, si decise ad andarsene da casa, con destinazione Roma, per attendere l’evoluzione degli eventi e calmare gli animi alla sua famiglia preoccupatissima. Sua moglie Anita lo seguì qualche giorno dopo, i figli qualche mese dopo.
A Roma fu costretto a vivere tra i disagi per diverso tempo e alla ricerca di una mansione che gli desse uno stipendio con cui sopravvivere, ma che non riusciva a trovare. Nel frattempo a San Marino si provvide a licenziarlo dal suo lavoro di direttore didattico e addirittura a sopprimere il posto.
Finalmente però, grazie soprattutto alle amicizie che aveva saputo guadagnarsi negli anni precedenti, ebbe un lavoro presso la cooperativa marittima Garibaldi di Genova, dove prese servizio il 2 giugno del ’23. Qui per qualche mese visse in tranquillità grazie anche ad un buon stipendio di 1.200 lire mensili che lo metteva al riparo dai bisogni economici patiti nei mesi precedenti. Purtroppo questa situazione favorevole non durò perché il 2 gennaio del ’24 la Garibaldi venne assalita da una squadraccia fascista e Giacomini, dopo aver preso “un mucchio di legnate”, come egli stesso ebbe a scrivere a Franciosi, venne messo in galera per un giorno e mezzo, poi venne licenziato in tronco. Gino si ritrovò dunque a spasso e avvilito perché le prospettive che aveva non erano certo rosee: “Il fantasma del domani che è così oscuro, mi turba”, scrisse in una sua corrispondenza del 1° maggio 1924. Un mese dopo decise quindi di tornarsene a Roma per cercare di rimediare un qualche lavoro. Nel frattempo riuscì anche a fare qualche capatina a San Marino, di nascosto ovviamente, per dare un saluto ai suoi familiari.
Egli fu a lungo ingenuamente convinto che il fenomeno fascista sammarinese non avesse a durare più di tanto, perché pensava che gli stessi fascisti italiani, e prima di tutti Italo Balbo con cui era in contatto e che aveva conosciuto bene quando aveva studiato presso il liceo sammarinese, non avessero in alcuna simpatia i capi fascisti della Repubblica.
Era però anche preoccupato che venisse dimenticato ciò che egli aveva fatto a San Marino e che il gruppo socialista, alla cui costituzione ed evoluzione egli aveva dato un impulso fondamentale nei tempi passati, ormai fosse destinato a rimanersene disgregato: “Io sono preso da un grande senso di dubbio, perché vedo che in mezzo alla nostra piccola schiera i legami si sciolgono e ognuno si disperde per vie traverse”. Inoltre si era pentito di essere scappato da San Marino: “Il mio più grande errore fu quello di lasciarmi persuadere ad esulare. La mia vita doveva compiersi a San Marino. Fuori io sono un albero sradicato dal suolo”, comunicò sempre a Franciosi il 21 agosto del 1927.
Nei mesi successivi Gino vide la sua situazione finanziaria andare sempre peggio e l’avvilimento crescere. Tra l’altro alla fine dell’anno dovette subire anche un piccolo intervento chirurgico. Le cose gli andarono meglio solo a partire dal 1926 quando riuscì a trovare impiego presso una società di tiro a volo, attività che non gli piaceva, ma che s’impose di fare per la sua famiglia e perché di meglio non riuscì a trovare. In seguito lavorò presso la ditta di polveri da sparo di Giovanni Stacchini, lavoro che, pur senza esaltarlo (“vita impiegatizia arida, indisponente”, la definì in una lettera del 23 dicembre 1934) e garantendogli la semplice, dura sopravvivenza (“presso la Ditta Stacchini ho trascorso gli strazi della più travagliata esistenza”), senza tra l’altro toglierlo dai debiti che lo costrinsero a vendere anche la casa che aveva in Borgo, continuò nei tempi successivi fino al settembre del 1939.
Negli anni seguenti, pur dovendo combattere in continuazione “con quell’animale che ho addosso del mio sistema nervoso”, con i problemi di una quotidianità sempre precaria, con una perenne nostalgia per il suo paese di origine, su cui rimaneva costantemente informato da una fitta corrispondenza con Franciosi e con qualche altro amico, e dove si recava fuggevolmente ogni volta che poteva, con il fascismo italiano (“la polizia romana non ha mancato di infastidirmi coi suoi periodici e talvolta giornalieri controlli”), Giacomini riuscì a tirare avanti alla meglio e a far studiare i suoi due figli fino alla laurea.
Il 28 luglio 1943 finalmente il fascismo cadde anche a San Marino e Giacomini, accompagnato dalla famiglia, poté tornare in patria dove subito, nonostante l’età non più verde, si mise in opera per riorganizzare il partito socialista, le organizzazioni sindacali e operaie e tutto ciò che il ventennio fascista aveva spazzato via con brutalità.
Il giorno 11 marzo 1945 si tennero le prime libere elezioni e Gino venne rieletto in Consiglio dopo anni di forzata assenza. Venne altresì nominato al prestigioso incarico di Segretario degli Esteri, ruolo che ricoprì ininterrottamente e con grande lena e capacità fino al 1957, anno dei fatti di Rovereta. Dopo tale data Giacomini fu vittima di numerosi attacchi da parte dei suoi avversari politici, che lo riconoscevano come capo indiscusso della Sinistra sammarinese e quindi personaggio da demonizzare. Venne anche trascinato in tribunale e condannato come uno dei principali responsabili delle vicende del ’57 a sette anni di galera e ad un’ammenda pecuniaria. La sentenza non venne eseguita, tuttavia gli furono tolti i diritti civili e politici.
Visse ancora qualche anno impegnandosi a favore del partito socialista e mantenendosi in grande attività nonostante la veneranda età raggiunta.
Morì il 19 febbraio 1962 suscitando grande cordoglio tra i tantissimi Sammarinesi che lo avevano conosciuto ed apprezzato per le sue grandi qualità umane e per l’amore immenso avuto sempre per il suo paese natio.                                               

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