Una vita per il Socialismo
Gino Giacomini nacque a Borgo
Maggiore il 27 dicembre 1878 “in una casetta ad un piano, posta
nella cosiddetta Piazza di Sopra” come lui stesso ci dice
nelle sue memorie tuttora inedite, da Giuditta Caimi, figlia di
Marino, “un esperto norcino di origine marchigiana che aveva sposato
Maria Fattori, massaia dal polso fermo, sorella dello storico Marino
Fattori”, e da Remo Giacomini, figlio di Agostino, “onesto
artigiano, commerciante e cittadino integerrimo, elemento
autorevolmente pacificatore nell’epoca in cui si erano riaccese le
deplorevoli lotte di campanile fra la Città sorniona e ufficialmente
conservatrice, e il Borgo frenetico che sentiva ancora l’influsso
delle schiere di profughi politici riparati a San Marino”, ovvero
gli anni in cui venne ucciso il Segretario di Stato Giambattista
Bonelli (14 luglio 1853).
Ebbe quattro fratelli: Giannetto, Lina, Maria e Marta.
“Agostino morì quarantenne e la sua fine prematura suscitò grande
commozione. Sua moglie, nonna Clementina, trascorse alcuni anni in
vedovanza, convolò a nuove nozze, e i due orfani, Romolo e Remo,
furono presi in casa dagli zii Federico Martelli e Giuseppe
Giacomini”, ci dice sempre Gino dall’interno dei suoi “Ricordi di
vita vissuta”, ovvero della sua autobiografia.
“La famiglia Giacomini risulta proveniente dalla Villa di Verucchio,
precisamente da Poggio Berni, fin dal 18° secolo. Io ho sentito
parlare da mio padre di un certo Cugano (Gaetano), suo nonno, che
fra l’altro faceva l’artificiere e che rallegrava spesso i suoi
nipoti con qualche diversivo pirotecnico”.
Remo Giacomini nel 1867, a 14 anni, andò a combattere al fianco di
Garibaldi a Mentana e a Monterotondo per tentare di conquistare
Roma, ancora in mano al Papa. “E’ facile immaginare quale doveva
essere l’indirizzo dei miei sentimenti e pensieri in un ambiente che
vibrava di patriottismo e di progresso, e con un babbo che io
idolatravo, come un esemplare di schiettezza, di coraggio, di
generosità e di rettitudine civica”. In seguito imparò a fare
l’orologiaio dimorando per qualche tempo a Roma, poi aprì un caffè
in Borgo, attività che curò praticamente per tutta la vita.
Gino imparò i rudimenti della lettura in casa di Teresa Reffi, una
signora che per pochi soldi raccoglieva i bambini in età
prescolastica “in un cosiddetto asilo che aveva per canoni
l’obbedienza e l’immobilità”. A sei anni entrò nella scuola pubblica
dove fungeva da maestro il notaio Federico Martelli. “Era una
piccola bolgia infernale, frequentata da sandroni indisciplinati e
fuori d’età, che ne facevano di cotte e di crude”. “I miei amici di
quell’incantato primo tempo della mia fanciullezza erano Rufo Reffi,
Giovanni Vincenti, Vincenzo Michetti, Angelo Corrucci, Raffaele
Montemaggi”.
Finita la terza elementare, andò a frequentare la 4a e la
5a in Città, unica sede in Repubblica di queste classi,
poi frequentò quella che allora si chiamava la prima ginnasiale
(l’attuale prima media) venendo però rimandato in due materie.
Questo parziale fallimento indusse il padre di Gino a portare il
figlio a lavorare nel suo caffè: “Poiché in quei tempi gli studi
erano considerati come un appannaggio di privilegiati, fui applicato
al banco del caffè a mescere bibite e mistrà”.
Tuttavia Gino non si fossilizzò in una vita intellettualmente
disinteressata:” Ero un precoce e un emotivo, vivevo una vita
interiore intensa, dominata dalla fantasia; leggevo molto e
scombiccheravo da quel grafomane che poi mi si ritenne più o meno
giustamente”. “La mia mente, pur essendo incolta parecchio, dava
sintomi di precocità, ero un animale politico con tutti i difetti
della specie e mi dibattevo nel conflitto fra i miei sentimenti
socialisti e l’adorazione che avevo per mio padre repubblicano, di
disciplina e di costumi mazziniani. (…) L’atmosfera della mia
modesta casa era satura di spiriti laici, liberali e combattivi”.
All’età di dieci anni Gino incontrò per caso a San Marino, dove era
venuto per una gita di piacere, Andrea Costa, “apostolo invitto del
socialismo italiano e ardente romagnolo”, “ma chi influì decisamente
sul mio animo e contribuì a dare ai miei confusi istinti politici
una coordinazione con indirizzo politico, fu mio cugino, Tullio
Giacomini, allora studente universitario, che portava da Bologna una
fresca e irruente vena di pensiero moderno”. Insieme a Tullio,
alla fine dell’Ottocento altri giovani studenti sammarinesi si
avvicinarono alle nuove teorie politiche che stavano spazzando
l’Europa e le importarono a San Marino influendo così sulla
generazione più giovane. Era il periodo in cui vennero stampati,
sempre da questi giovani riformisti, i primi giornali locali
tendenzialmente polemici con la dimensione politica/oligarchica ai
vertici di San Marino.
Gino Giacomini aderì senza più remore al socialismo quando una sera
sentì dire da parte del suo venerato padre, in discussione con un
altro uomo, queste parole: “Basta considerare le condizioni meschine
in cui si dibatte anche il nostro Paese, per riconoscere che non è
più affare di Repubblica o di monarchia. Questi non sono che vasi,
bisogna vedere quel che c’è dentro. Il socialismo arriva nelle
radici della società. Anche Garibaldi ha proclamato che il
socialismo è il sole dell’avvenire”. “Non udii altro - ci racconta
direttamente Gino – e quando potei riavermi dalla sorpresa
abbandonai la tavola e sgattaiolai via in silenzio per andare a
piangere di gioia nel silenzio della mia camera. Da quel giorno non
ebbi scrupoli e riserve, mi sentii padrone del mio pensiero e con
l’impeto del neofita, lessi, studiai, assimilai i temi di propaganda
che veniva scodellata negli opuscoli di Turati, Prampolini, Costa,
Bissolati e di tutti i nostri maggiori. Dall’ABC tentai poi di
salire a più alte sfere di acquisizione scientifica della dialettica
marxista, alla quale sono rimasto sempre fedele attraverso gli
scritti di Sorel, Labriola, e agli originali di Engels, Vassalle, e
degli altri, e mi misi a fare propaganda spicciola da quel soldato
volontario e volenteroso che sono sempre stato”.
Un giorno in Borgo avvenne un tragico fatto di sangue: due barbieri
che lì lavoravano vennero ad uno scontro, probabilmente per motivi
di concorrenza; uno rimase ucciso, mentre l’altro finì a lungo in
galera. Dietro consiglio del padre, Gino pensò di diventare barbiere
perché si era creata una buona possibilità di lavoro, e perché il
caffè dei Giacomini rendeva solo il necessario per sopravvivere. Si
recò perciò a Rimini per imparare il mestiere presso un barbiere di
lì “scorticando le rudi facce dei marinai”. In questa città Gino
perfezionò e approfondì ancor più i suoi ideali, aiutato in questo
dai socialisti locali, e fece anche un comizio. Manteneva nel
frattempo una fitta corrispondenza col cugino Tullio che aveva
trovato un posto come medico a Montefiorito.
Tuttavia non era destino che Gino dovesse fare il barbiere. Infatti
una malattia inaspettata lo rese leggermente claudicante ed
instabile sulle gambe, per cui era impossibilitato a svolgere un
mestiere che presupponeva invece un costante movimento in piedi. Era
il 1897 ed egli doveva rimettersi in discussione di nuovo. “Che fare
dunque? Ci tolse d’imbarazzo una distinta e cara signora, verso la
quale io protesto ancora e sempre la mia gratitudine. Era la moglie
del medico del Borgo, Speranza Romani Ancadori, laureata in lettere,
colta, fine, la quale aveva avuto occasione di leggere alcune mie
novelle” che aveva apprezzato particolarmente. Gino dunque durante
l’estate di quell’anno si mise a studiare alacremente per sostenere
come privatista l’esame d’ammissione alla scuola normale, esame che
superò brillantemente. “Così s’inizia la mia sommaria e rapida vita
di studente alla quale mi accostai con uno scarso scibile
scolastico, con una cultura irregolare, tratta da divorate nozioni
fra cui eccelleva la materia politica e sociologica, riscaldata da
una febbre febbrile sotto il segno zodiacale della povertà, che però
non mi faceva paura. Lo zio dottor Caimi mi faceva pervenire abiti e
scarpe dimesse; per il resto, ed era il più, provvedevo con la
scorta di un sussidio di trenta lire mensili, corrispostemi da quel
governo oligarchico che io strapazzavo”.
Gino si recò quindi a studiare alle scuole magistrali di Urbino; qui
si legò immediatamente alla locale sezione socialista continuando e
raffinando quell’attivismo politico in cui già si era fatto una
certa esperienza. Rimase nella cittadina marchigiana fino al 1900,
anno in cui si diplomò maestro elementare, senza avere grossi
problemi, anche se i locali conservatori, che vedevano il socialismo
come un grosso pericolo, lo mal tolleravano. Nel 1898, anno dei
gravi fatti legati al generale Bava Beccarsi a Milano, Gino si
dovette nascondere per qualche tempo perché la polizia arrestò
molti di coloro che erano in odore di sovversivismo, tuttavia alla
fine non gli accadde nulla.
Sempre ad Urbino Gino curò e fece stampare un giornale, il 1°
Maggio, che venne poi divulgato prevalentemente a San Marino,
così come scrisse vari articoli pubblicati sul Risveglio di
Forlì e sull’Avanti, giornale a cui collaborò fin dalla sua
nascita nel 1896.
Diplomatosi dunque maestro elementare, Giacomini ebbe il suo primo
impiego a Morciano, dove sostituì per un anno un anziano insegnante
andato in aspettativa, grazie all’intercessione del professor Pietro
Franciosi, “sempre primo nelle amarezze come nelle gioie di casa
mia”, con cui Gino comincerà a legarsi fraternamente proprio da
questi anni. Anche in questo paese continuò ad attivarsi per il
socialismo contribuendo alla riorganizzazione della locale sezione,
squassata da contrasti interni. A Morciano Gino rimarrà legato
affettivamente e per motivi politici sempre.
Il secondo impiego Gino lo trovò a Montelabbate, nelle vicinanze di
Pesaro. Anche in questo “paesello montano” subito si industriò per
divulgare il verbo socialista tenendosi in relazione con i dirigenti
della federazione di Pesaro, organizzando una sezione locale con
annessa una biblioteca circolante, e prodigandosi “per dare una fede
e una coscienza a quei lavoratori costretti dall’insufficienza
economica ad emigrare ogni anno in Svizzera o in Francia”.
Nel settembre del 1902 egli partecipò, per conto dei socialisti
sammarinesi, al sesto Congresso del Partito Socialista italiano che
si svolse ad Imola, votando per l’ordine del giorno di Turati,
Treves, ecc, ovvero per quello di tendenza riformista, “ma mi
rammaricai degli effetti che seguirono il trionfo riformista” dice
esplicitamente Giacomini sempre all’interno della sua autobiografia.
Nel novembre dello stesso anno il Consiglio di San Marino, con
diciotto voti favorevoli, tredici contrari e sei astenuti, nominò
Giacomini maestro presso la scuola elementare di Borgo, dopo che 124
persone avevano sottoscritto a suo vantaggio una petizione in cui lo
si richiedeva come insegnante presso quella sede essendo ritenuto
"giovane capacissimo e che gode la stima dell’intero paese".
Gino, trionfante ma anche molto polemico con i governanti
sammarinesi a cui attribuiva la colpa di averlo boicottato in
precedenza e di averlo fatto aspettare tanto un lavoro in
territorio, scrisse a Franciosi il 15 novembre per dirgli: "La
ringrazio con affetto del compiacimento con cui ha accolto la mia
nomina a maestro del Borgo. La volontà del popolo ha trionfato delle
male arti della camorra nobile. Finalmente potrò rientrare in
patria! Arriverò gli ultimi del mese".
Il rientro di Giacomini coincise con l’inizio del movimento pro
arengo a cui il nostro diede tutto il suo entusiasmo ed il suo
ciclonico dinamismo. Fu anche colui che volle la fondazione del
“Titano” nel 1903 (“Io ne fui da allora ad oggi, salvo le obbligate
parentesi, e sono trascorsi 57 anni, il fondatore e il redattore
permanente”). L’uscita del giornale fu assai importante per scuotere
l’intorpidita società sammarinese, anche se determinò turbamento
alla madre di Giacomini che avrebbe preferito che il figlio non
agitasse così tanto le acque. “Io non potevo deflettere dall’azione
intrapresa e d’altra parte avevo per la mamma, tanto cagionevole in
salute, un tenero affetto, e dovetti quindi superare in quella
circostanza un doloroso interno conflitto”. La sua attività
giornalistica procurò anche varie denunce a Giacomini, che non era
certo moderato nelle polemiche e nelle accuse nei confronti dei suoi
avversari. La focosità del linguaggio, che a volte diveniva vera e
propria aggressività, fu una caratteristica piuttosto costante di
Gino.
In questi primi anni del Novecento stava iniziando un dibattito tra
socialisti e con gli altri riformisti sammarinesi per vedere come
mutare l’ingessata situazione socio-politica locale. Le opinioni
erano divergenti e quelle socialiste erano le più radicali ed
estremiste tra tutte. Giacomini, che era già l’elemento più
carismatico e deciso del socialismo sammarinese, era su posizioni
molto nette: nel 1902 egli reputava prioritario il suffragio
universale su tutte le altre riforme, e proprio per questo, in una
lettera del 28 febbraio, polemizzerà con Franciosi, che era invece
su posizioni più moderate: "La coscienza pubblica si orienti in
senso veramente democratico e tenda esclusivamente alla conquista
del diritto di voto prima che lo sfacelo sia completo. Questa è la
prima logica ed utile riforma, le altre saranno una conseguenza
inevitabile”.
Nello stesso anno Gino, in
collaborazione con Tullio Giacomini, curò e diresse un altro
giornale di stampo socialista, edito sempre per il 1° maggio, su cui
scrissero anche altri riformisti locali per chiedere appunto
l’elezione tramite suffragio dei consiglieri, ma anche il
decentramento amministrativo ed una riforma tributaria capace di
colpire soprattutto i più abbienti.
Ugualmente del 1902 è la nascita della Sezione socialista
sammarinese cui Gino fornì, ovviamente, un grosso impulso e
l’esperienza che si era fatto nelle sezioni socialiste da lui
frequentate fuori territorio.
Continuava nel frattempo la sua carriera scolastica: infatti dopo
aver iniziato a fare il maestro nelle prime classi elementari del
Borgo, come si è detto, venne ben presto promosso anche a maestro di
quarta elementare in Città, tuttavia il suo attivismo principale in
questi anni fu dedicato alla propaganda per sensibilizzare i
Sammarinesi alla causa riformista e al bisogno di convocare un
arengo con cui rompere l’oligarchia imperante: “Non si dormiva e la
propaganda spicciola e capillare esercitata nelle campagne si
alternava senza posa con quella di massa nelle adunanze e nei
comizi. (…) Non sarei obbiettivo se sottacessi che io ero uno dei
più operanti e dinamici in questo movimento cui davo tutto l’immenso
slancio che si ha in gioventù e l’alimento di una fede
entusiastica”.
Tutto questo dinamismo riformista, insieme ai problemi che realmente
attanagliavano il Paese in questi anni, determinò la convocazione di
un’assemblea popolare in data 29 ottobre 1905 in cui si costituì
ufficialmente il Comitato pro – Arengo. A Gino venne proposto
l’incarico di segretario del Comitato, ma lo rifiutò affermando che
"egli ed i suoi compagni socialisti dopo aver dato il moto di
propulsione al movimento intendono, perché la loro qualità di
sovversivi non impauri alcuno, di mettersi alla coda".
Come è risaputo, l’arengo alla fine venne convocato per il 25 marzo
1906, però Gino non avrebbe potuto votare; infatti :”Io non ero nel
ruolo dei capi – famiglia che avevano accesso nell’assemblea
dell’Arengo perché facevo economia cioè convivevo coi miei genitori,
e a tutti i miei compagni di lotta premeva che io fossi presente
nella giornata del 25 marzo, giorno della grande convocazione, per
cui dovetti conformarmi ad un rito che si svolse in Tribunale, di
fronte al Commissario della Legge e che consisteva nella liberazione
dalla paterna potestà consentita con tre abbracci a scioglimento
finale datimi da mio padre in segno di consenso. Una pantomima
rievocata da costumi antichi caduta in desuetudine”. Tale rito
comunque lo fece essere tra i votanti.
Gino dopo l’arengo non entrò in Consiglio perché vi era suo padre,
quindi per legge non poteva. Tuttavia si dedicò anima e corpo alla
politica, all’evoluzione del socialismo, alla battaglia per
svecchiare le istituzioni e la società di San Marino, alle crociate
contro i conservatori. La sua voce tuonò in continuazione dal
“Titano”. Insieme al fido professor Franciosi e ad altri percorse in
lungo e in largo il territorio della Repubblica, ma anche quello del
suo circondario, per fare comizi, divulgare il nuovo verbo
socialista, esaltare gli eroi risorgimentali come Garibaldi,
predicare l’esigenza di cambiare le cose, di modernizzarsi in tutti
i campi.
Giacomini per tutta la vita fu caratterizzato da un dinamismo fuori
dal comune e da una fede nelle teorie socialiste da portarlo a
combattere sempre e dovunque con tenacia e foga per la loro
divulgazione e per l’emancipazione della classe operaia e dei ceti
più diseredati. Continuò comunque anche a svolgere al meglio il suo
mestiere di maestro di quarta elementare e a studiare per
qualificarsi sempre più. Negli anni in esame frequentò a Bologna il
corso di perfezionamento per maestri, dove insegnò anche il Pascoli,
che gli permise, nel giugno del 1910, di conseguire un altro diploma
che lo abilitava ad essere direttore didattico. Nello stesso anno
egli si sposò con Anita Amati a Verucchio, località scelta perché a
San Marino vigeva solo il matrimonio religioso, mentre egli volle
sposarsi in civile.
In quel periodo in Repubblica si stavano riorganizzando le locali
scuole elementari i cui primi corsi erano sparsi per tutto il
territorio, riorganizzazione a cui lo stesso Giacomini aveva
collaborato. In questa trasformazione si prevedeva d’istituire la
carica proprio di direttore didattico, che doveva fungere da
supervisore di tutti i corsi elementari, posto a cui naturalmente
Gino ambiva. Però ormai si era fatto molti nemici in patria tra i
conservatori ed i cattolici intransigenti, perché egli era stato
sempre un propugnatore della necessità di laicizzare lo Stato.
Questa inimicizia gli costò il posto cui aspirava, perché pur
essendo l’unico sammarinese in possesso dei requisiti e dei titoli
necessari, il Consiglio per ben due volte gli rifiutò l’assegnazione
dell’incarico.
Il fatto lo fece montare su tutte le furie e provocò non poche
polemiche nel Paese. Giacomini, disgustato, decise dunque di
andarsene a lavorare altrove e rimediò subito un posto come
direttore didattico a Fiesso Umbertino, in provincia di Rovigo. Qui
egli trovò un ambiente benevolo, ma il suo stipendio era assai
modesto e non gli consentiva di vivere decentemente (“abitavamo in
una specie di magazzino sprovvisto di ogni servizio”). Quando gli
capitò l’occasione, dunque, Giacomini si cercò un’altra
sistemazione. La trovò vincendo un concorso da direttore didattico
ad Argenta, comune con 72 scuole, dove lo stipendio era senz’altro
più consistente. Giacomini naturalmente s’industriò subito per fare
al meglio il suo mestiere: “Ripristinai la disciplina,
incrementai l’andamento didattico, pubblicai un bollettino
scolastico per l’opportuna guida e normalizzazione del servizio,
riordinai la Biblioteca civica, (…) istituii l’Università Popolare”.
A San Marino comunque la vicenda lasciò strascichi velenosi tanto
che si rimandò l’istituzione dell’incarico a tempi futuri. Solo
nella seduta consigliare del 10 maggio 1913, infatti, venne
istituito ufficialmente il posto di Direttore Didattico, e per
chiamata venne assegnato a Giacomini, che ovviamente provvide a
rientrare velocemente da Argenta e ad accettare l’incarico nel mese
di settembre dello stesso anno, pur venendo a percepire uno
stipendio inferiore al precedente. Come primo compito gli fu
assegnato quello di riorganizzare e sistemare le locali scuole
elementari.
Nello stesso anno, celebrandosi in novembre elezioni suppletive per
rimpiazzare alcuni consiglieri, Gino venne per la prima volta eletto
consigliere, iniziando così una lunga militanza politica, interrotta
solo durante il periodo fascista, nel massimo organo istituzionale
dello Stato, anche se in questo periodo era piuttosto polemico sul
modo con cui i socialisti sammarinesi stavano facendo politica.
Ugualmente si gettò subito a capofitto nell’ufficio di migliorare le
locali scuole primarie, progetto su cui già dal 1907 si stava
discutendo, perché soprattutto i riformisti ed i socialisti volevano
il potenziamento della scuola di base per eliminare piano piano la
piaga dell’analfabetismo che ancora colpiva buona parte della
popolazione sammarinese. Tale progetto però fino a quel momento era
rimasto prevalentemente teorico. Un grosso contributo lo diede anche
all’innalzamento degli stipendi degli insegnanti, all’istituzione
del patronato scolastico, delle scuole serali e di altro ancora. “Ma
quel che più conta, fu dato un indirizzo moderno, aggiornato, al
metodo d’insegnare e al processo didattico, secondo i canoni
positivi della nuova pedagogia sociale, fissati nei programmi
particolari che io stesso compilai”, ci dice il nostro all’interno
delle sue note autobiografiche. Nel 1918 si diede da fare per
istituire una scuola di arti e mestieri, che iniziò effettivamente
ad operare nello stesso anno.
Giacomini continuò naturalmente anche nella sua opera politica, ma
in quegli anni il locale gruppo socialista era poco attivo e molto
disorganizzato, per cui, nonostante la sua opera indefessa insieme a
quella di pochi altri, tra cui l’amico Franciosi, i risultati che
poterono essere raccolti politicamente furono in genere inferiori
alle aspettative. Tra l’altro la Grande Guerra contribuì
notevolmente a rallentare l’evoluzione politica ed economica di San
Marino, quindi anche i socialisti, di cui Gino era l’indiscusso
capo, dovettero attendere tempi migliori per continuare a combattere
le loro battaglie.
Tuttavia troviamo Gino sempre in prima fila per propugnare la
riforma fiscale (essendo egli contrario a racimolare denaro, come si
stava facendo, soprattutto con lotterie, vendita di onorificenze o
espedienti simili, e a far pagare le tasse soprattutto alle masse
con l’imposizione prevalentemente indiretta), per chiedere la
riforma di molte delle vecchie istituzioni che reggevano ancora la
Repubblica, tra cui l’abolizione del sorteggio per la Reggenza, il
prolungamento del loro mandato, il decentramento dei poteri, ecc.
Altra innovazione per cui s’industrierà in continuazione, sempre
insieme a Franciosi, sarà la creazione di una Camera del
lavoro per il miglioramento delle condizioni degli operai. Quando,
dopo la guerra, si riuscirà finalmente ad istituirla, Giacomini avrà
una gran parte nel trovare il suo segretario e nell’avviarla.
Ugualmente si adopererà molto per far smerciare prodotti di prima
necessità a prezzi politici perché, con la crisi economica che
c’era, molti non avevano il denaro necessario per sopravvivere. Egli
sarà propugnatore dell’Ente dei Consumi, che vendeva merci a prezzi
bassi, e battaglierà in continuazione in Consiglio perché fossero
varati provvedimenti per la requisizione del grano a prezzi assai
contenuti. Ovviamente questo suo atteggiamento a favore dei poveri
gli procurò non poche inimicizie tra i commercianti del Paese e i
proprietari terrieri.
Gli anni prima dell’ascesa del Partito Fascista videro rifugiarsi in
territorio sammarinese un nugolo di fuoriusciti politici di indole
socialista che fuggivano dalle persecuzioni cui erano soggetti, o
che si nascondevano perché implicati in qualche fatto illegale.
Giacomini fu tra i più prodighi a dar loro ospitalità e qualche
conforto, così come ne coinvolse diversi nelle attività del locale
socialismo. Tra l’altro allacciò importanti amicizie che gli furono
utili in seguito, quando venne costretto ad un lungo esilio dal
Paese insieme alla moglie Anita ed ai due figlioletti, Remy e Lea.
Egli dovette allontanarsi da San Marino quando il pericolo fascista
divenne concreto. Già da tempo circolavano voci su una possibile
spedizione punitiva nei suoi confronti, tanto che suo padre tutte le
notti girava armato per casa in attesa di un possibile assalto. Gino
nella notte del 14 ottobre del 1922, in compagnia di Alvaro Casali e
di Secondo Forcellini, si decise ad andarsene da casa, con
destinazione Roma, per attendere l’evoluzione degli eventi e calmare
gli animi alla sua famiglia preoccupatissima. Sua moglie Anita lo
seguì qualche giorno dopo, i figli qualche mese dopo.
A Roma fu costretto a vivere tra i disagi per diverso tempo e alla
ricerca di una mansione che gli desse uno stipendio con cui
sopravvivere, ma che non riusciva a trovare. Nel frattempo a San
Marino si provvide a licenziarlo dal suo lavoro di direttore
didattico e addirittura a sopprimere il posto.
Finalmente però, grazie soprattutto alle amicizie che aveva saputo
guadagnarsi negli anni precedenti, ebbe un lavoro presso la
cooperativa marittima Garibaldi di Genova, dove prese servizio il 2
giugno del ’23. Qui per qualche mese visse in tranquillità grazie
anche ad un buon stipendio di 1.200 lire mensili che lo metteva al
riparo dai bisogni economici patiti nei mesi precedenti. Purtroppo
questa situazione favorevole non durò perché il 2 gennaio del ’24 la
Garibaldi venne assalita da una squadraccia fascista e Giacomini,
dopo aver preso “un mucchio di legnate”, come egli stesso ebbe a
scrivere a Franciosi, venne messo in galera per un giorno e mezzo,
poi venne licenziato in tronco. Gino si ritrovò dunque a spasso e
avvilito perché le prospettive che aveva non erano certo rosee: “Il
fantasma del domani che è così oscuro, mi turba”, scrisse in una sua
corrispondenza del 1° maggio 1924. Un mese dopo decise quindi di
tornarsene a Roma per cercare di rimediare un qualche lavoro. Nel
frattempo riuscì anche a fare qualche capatina a San Marino, di
nascosto ovviamente, per dare un saluto ai suoi familiari.
Egli fu a lungo ingenuamente convinto che il fenomeno fascista
sammarinese non avesse a durare più di tanto, perché pensava che gli
stessi fascisti italiani, e prima di tutti Italo Balbo con cui era
in contatto e che aveva conosciuto bene quando aveva studiato presso
il liceo sammarinese, non avessero in alcuna simpatia i capi
fascisti della Repubblica.
Era però anche preoccupato che venisse dimenticato ciò che egli
aveva fatto a San Marino e che il gruppo socialista, alla cui
costituzione ed evoluzione egli aveva dato un impulso fondamentale
nei tempi passati, ormai fosse destinato a rimanersene disgregato:
“Io sono preso da un grande senso di dubbio, perché vedo che in
mezzo alla nostra piccola schiera i legami si sciolgono e ognuno si
disperde per vie traverse”. Inoltre si era pentito di essere
scappato da San Marino: “Il mio più grande errore fu quello di
lasciarmi persuadere ad esulare. La mia vita doveva compiersi a San
Marino. Fuori io sono un albero sradicato dal suolo”, comunicò
sempre a Franciosi il 21 agosto del 1927.
Nei mesi successivi Gino vide la sua situazione finanziaria andare
sempre peggio e l’avvilimento crescere. Tra l’altro alla fine
dell’anno dovette subire anche un piccolo intervento chirurgico. Le
cose gli andarono meglio solo a partire dal 1926 quando riuscì a
trovare impiego presso una società di tiro a volo, attività che non
gli piaceva, ma che s’impose di fare per la sua famiglia e perché di
meglio non riuscì a trovare. In seguito lavorò presso la ditta di
polveri da sparo di Giovanni Stacchini, lavoro che, pur senza
esaltarlo (“vita impiegatizia arida, indisponente”, la definì in una
lettera del 23 dicembre 1934) e garantendogli la semplice, dura
sopravvivenza (“presso la Ditta Stacchini ho trascorso gli strazi
della più travagliata esistenza”), senza tra l’altro toglierlo dai
debiti che lo costrinsero a vendere anche la casa che aveva in
Borgo, continuò nei tempi successivi fino al settembre del 1939.
Negli anni seguenti, pur dovendo combattere in continuazione “con
quell’animale che ho addosso del mio sistema nervoso”, con i
problemi di una quotidianità sempre precaria, con una perenne
nostalgia per il suo paese di origine, su cui rimaneva costantemente
informato da una fitta corrispondenza con Franciosi e con qualche
altro amico, e dove si recava fuggevolmente ogni volta che poteva,
con il fascismo italiano (“la polizia romana non ha mancato di
infastidirmi coi suoi periodici e talvolta giornalieri controlli”),
Giacomini riuscì a tirare avanti alla meglio e a far studiare i suoi
due figli fino alla laurea.
Il 28 luglio 1943 finalmente il fascismo cadde anche a San Marino e
Giacomini, accompagnato dalla famiglia, poté tornare in patria dove
subito, nonostante l’età non più verde, si mise in opera per
riorganizzare il partito socialista, le organizzazioni sindacali e
operaie e tutto ciò che il ventennio fascista aveva spazzato via con
brutalità.
Il giorno 11 marzo 1945 si tennero le prime libere elezioni e Gino
venne rieletto in Consiglio dopo anni di forzata assenza. Venne
altresì nominato al prestigioso incarico di Segretario degli Esteri,
ruolo che ricoprì ininterrottamente e con grande lena e capacità
fino al 1957, anno dei fatti di Rovereta. Dopo tale data Giacomini
fu vittima di numerosi attacchi da parte dei suoi avversari
politici, che lo riconoscevano come capo indiscusso della Sinistra
sammarinese e quindi personaggio da demonizzare. Venne anche
trascinato in tribunale e condannato come uno dei principali
responsabili delle vicende del ’57 a sette anni di galera e ad
un’ammenda pecuniaria. La sentenza non venne eseguita, tuttavia gli
furono tolti i diritti civili e politici.
Visse ancora qualche anno impegnandosi a favore del partito
socialista e mantenendosi in grande attività nonostante la veneranda
età raggiunta.
Morì il 19 febbraio 1962 suscitando grande cordoglio tra i
tantissimi Sammarinesi che lo avevano conosciuto ed apprezzato per
le sue grandi qualità umane e per l’amore immenso avuto sempre per
il suo paese natio.
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