Libertas o Liber Tas? Sammarinesità e Fiscofobia
Prendo
spunto dai fatti accaduti non tanto tempo fa, precisamente il 24
settembre 2013, e dalle diverse manifestazioni anti riforma
tributaria di quel periodo, assai partecipate, in qualche occasione
fin troppo esagitate, per scrivere un breve saggio su un argomento
che mi frulla in testa già da tempo: che rapporto storico c’è tra
Sammarinesi e fisco? Quanto la mitica Libertas sammarinese è
figlia dell’insofferenza verso le imposte? Quanto, in altre parole,
è storicamente brama di Liber Tas, ovvero soprattutto di
essere liberi (esenti) dalle tasse, come sostenevano i riformisti
d’inizio Novecento che già allora sognavano per il paese
l’applicazione di tributi progressivi in base ai singoli redditi
prodotti?
Ma andiamo per ordine.
Il 24 settembre si è svolta a San Marino la manifestazione popolare
probabilmente più imponente della sua plurisecolare storia.
Organizzata dalla CSU (Centrale Sindacale Unitaria), lo scopo dello
sciopero generale era quello d’indurre il governo sammarinese, in
quel giorno riunito a Palazzo insieme al Consiglio dei LX, a
rivedere il suo progetto di legge di riforma tributaria, già andato
in prima lettura alla fine di luglio, perché giudicato iniquo e
troppo dispendioso per i lavoratori a stipendio fisso.
Quella protesta era stata preceduta nei mesi precedenti da riunioni,
assemblee, dibattiti, critiche ed altre manifestazioni di forte
opposizione al nuovo disegno di legge, che avevano gradualmente
surriscaldato il clima d’insofferenza nei confronti dello stesso.
Martedì 24 settembre i lavoratori sammarinesi hanno dunque
partecipato numerosissimi alla serrata indetta dalle organizzazioni
sindacali, marciando compatti con fischi, cartelli e urla contro i
governanti affinché venisse rivista, moderata e resa più equa
l’ipotesi di riforma fiscale in questione.
In realtà la rabbia dei partecipanti è in larga parte dipesa dalla
normativa in esame, ma indubbiamente è scaturita pure dall’ampia
disoccupazione, giovanile e non, che già da qualche anno sta
attanagliando il paese, senza che s’intravedano ancora importanti
prospettive migliorative.
E’ nata, inoltre, dalla grave crisi economica in cui si trova San
Marino sia per i problemi mondiali di natura finanziaria, sia perché
le fonti di benessere economico che hanno consentito ai Sammarinesi
di vivere con agiatezza per alcuni decenni si sono esaurite e
all’orizzonte non se ne vedono per il momento di simili.
I 5.000 presenti sul Pianello (alcune fonti dicono molti di più,
altre un po’ di meno) sono stati quindi spronati da vari
corroboranti, ma la riforma fiscale è stata di certo lo stimolante
supremo, ciò che in ultima analisi ha saputo riunire in una protesta
condivisa numerosi individui e a scuoterne i nervi.
“Siamo arrivati e siamo tantissimi, siete circondati”, hanno
sbraitato i dimostranti alla volta del Palazzo Pubblico, dove se ne
stava rintanato il Consiglio.
“Ladri, mafiosi, buffoni”, hanno vociato ancora mentre spingevano
contro il cordone di gendarmi schierato per impedire il loro
ingresso tumultuoso nel Palazzo.
Sono volate uova, bottiglie ed altri oggetti contundenti.
Quando la seduta è terminata, alcuni parlamentari sono stati
circondati e strattonati da chi era rimasto lì per ore ad attendere
la loro uscita per sfogare la propria rabbia.
“Sembravano posseduti”, è stato il laconico quanto azzeccato
commento di un consigliere che era stato suo malgrado coinvolto
nella baraonda.
Non entro nel merito della bontà o negatività della riforma
contestata, anche perché non sarei imparziale, visto che ho aderito
allo sciopero. Da studioso della nostra storia posso però affermare
che non è la prima volta che Sammarinesi arrabbiati come furie si
recano sul Pianello per inveire contro i governanti, vuoi per motivi
fiscali, vuoi per altro.
Nel 1797, per citare un caso che all’epoca provocò ai governanti non
poche palpitazioni, varie decine di cittadini scalmanati addirittura
arrivarono ad ammucchiare fascine ai piedi del vecchio Palazzo
Pubblico minacciando d’incendiarlo, ovviamente con tutti i
consiglieri al suo interno, se non fossero state accolte le loro
richieste, che non erano di natura fiscale, ma politica, in quanto
pretendevano, sulle ali dell’entusiasmo per gl’ideali della
Rivoluzione Francese, una maggiore democratizzazione delle
istituzioni, l’abolizione della locale nobiltà, un più rilevante
rispetto per la cittadinanza e per le istanze che avanzava ai
governanti.
Altra “sommossa”, come fu all’epoca chiamata, avvenne il 26 febbraio
1910 contro la legge elaborata per istituire l’organico per
gl’impiegati. In quel giorno il Consiglio avrebbe dovuto vararla, ma
essendo una legge d’ispirazione socialista, ed essendo in atto nel
periodo un fortissimo scontro ideologico/politico tra progressisti e
conservatori, apparvero lungo il territorio manifesti manoscritti in
cui si sosteneva che il governo stava per deliberare spese enormi a
vantaggio della classe degli impiegati, e conseguenti tributi a
danno del povero popolo lavoratore dei campi. I conservatori
invitavano perciò i contadini a partecipare ad una marcia pacifica
di protesta fin sul Pianello nel giorno in cui il Consiglio avrebbe
dovuto emanarla.
La marcia vide la partecipazione di molti agricoltori, ma non fu per
nulla pacata: vari consiglieri progressisti, infatti, insieme alla
stessa Reggenza, vennero offesi senza mezzi termini dai dimostranti.
Un consigliere poi, visto il brutto, aveva osato tirar fuori da una
tasca della sua giacca una pistola (in questi anni non era inusuale
girare armati), fatto che, esasperando ancor più la folla, gli aveva
fatto passare un brutto quarto d’ora.
Dopo un assedio durato vario tempo, in cui il Consiglio venne
praticamente bloccato all’interno del Palazzo Pubblico,
l'assembramento si sciolse ponendo termine al brutto episodio. Gli
animi rimasero però surriscaldati a lungo. I progressisti ed i
conservatori, infatti, si lanciarono strali sempre più astiosi dai
loro giornali, gli uni sostenendo che i preti, invece di curare
esclusivamente le loro mansioni spirituali, istigavano le masse
analfabete e credulone contro lo Stato e contro il bisogno che aveva
il paese di evolversi e progredire; gli altri asserendo a spada
tratta che i riformisti, coi socialisti in testa, bramavano la morte
di San Marino perché ne volevano mutare l’anima religiosa ed
istituzionale, essenza stessa della sua esistenza plurisecolare.
Un assalto al Palazzo con contestazioni di natura fiscale è avvenuto
invece nell’ottobre del 1984, data della riforma tributaria
precedente a quella odierna:
“SAN MARINO, ASSEDIO AL PARLAMENTO”, titolava in quell’occasione a
caratteri cubitali il quotidiano “La Repubblica” del 12 ottobre.
“Quello che non hanno potuto secoli di assedi e di guerre è stato
possibile con le tasse. La Repubblica di San Marino ha vissuto ieri
il suo giorno più lungo, carico di tensione. L' intero Parlamento,
60 membri eletti dal popolo nelle ultime votazioni del 1983, i due
Capitani Reggenti che sono la massima autorità dello Stato, e l'
esecutivo composto da dieci ministri sono stati tenuti in ostaggio
da centinaia di persone per tre ore all' interno del palazzo del
governo. A scatenare la protesta è l' approvazione della riforma
tributaria prevista per oggi. Una rivoluzione nel sistema fiscale
della più piccola e forse più antica repubblica del mondo. Fino a
ieri i sanmarinesi pagavano infatti un'imposta fissa, un'aliquota
del 33% sui redditi presunti, fissati dallo Stato. Operai e
pensionati ad esempio non hanno mai versato un soldo nelle casse
della Repubblica. Da oggi invece il sistema fiscale di San Marino
introduce la dichiarazione dei redditi, obbliga le imprese, i
commercianti e gli artigiani a tenere la contabilità, impone a tutti
i cittadini di contribuire all' erario secondo aliquote progressive
che vanno dal 4 al 25%. E in più introduce il sistema degli
accertamenti induttivi attraverso sorteggio in casi eccezionali. Su
questa riforma fiscale c' è stata gran polemica da parte dell'
opposizione, Dc in testa, che ha spinto le categorie economicamente
più forti - artigiani e commercianti appunto - a dare battaglia su
tutti i fronti. Ma neppure i democristiani avevano previsto che una
volta in piazza i commercianti avrebbero innalzato le barricate. E
invece poco dopo le 14 di ieri, guidati dai presidenti delle loro
associazioni hanno fatto irruzione nel palazzo. Dapprima un
centinaio di persone si è assiepato nella sala del Consiglio grande
e generale, poi ha stretto d'assedio deputati e consiglieri
impedendo loro di uscire. Ci sono stati momenti di acuta tensione
soprattutto quando la guardia nobile ha cercato di disperdere i
manifestanti. All' interno del palazzo del governo c'è stata una
rissa, sono volati pugni e calci e qualche soldato ne è uscito
malconcio. Intanto sulla piazza della Libertà, il salotto buono di
San Marino, si è radunata una gran folla che ha cominciato a
rumoreggiare. Solo dopo tre ore l'intervento del giudice penale,
Emiliani, è riuscito a sbloccare la situazione. Così i Capitani
Reggenti, i deputati e i consiglieri hanno potuto lasciare il
palazzo accolti da bordate di fischi. Il braccio di ferro tra
popolazione e governo a San Marino è tutt'altro che finito. Ieri la
piccola Repubblica aggrappata alle pendici del monte Titano pareva
una città fantasma. Negozi e ristoranti chiusi, saracinesche
abbassate, poca gente in giro sotto un cielo di piombo. Commercianti
e artigiani hanno infatti decretato una serrata di due giorni che si
protrarrà anche oggi e per stamani annunciano una nuova clamorosa
manifestazione. Ieri pomeriggio solo una frenetica consultazione tra
i Capitani Reggenti e le segreterie politiche dei partiti della
sinistra (il governo della Repubblica è dal '78 nelle mani di
comunisti e socialisti) ha impedito che squadre di operai
scendessero in piazza contro gli artigiani e i commercianti che la
stavano presidiando”. (dall’ inviato Carlo Cambi)
Alla fine la riforma entrò in vigore, e ancora oggi, pur con qualche
integrazione, è sempre lei che caratterizza il nostro sistema
tributario.
Dopo gli episodi narrati è giunto il momento di porsi una domanda:
cosa scatta in noi Sammarinesi, che in genere siamo un popolo
estremamente tranquillo e ordinato, quando si preannuncia un
possibile inasprimento fiscale legato a nuove normative?
Soffriamo forse di una qualche strana malattia, non ancora ben
classificata, la Fiscofobia appunto, capace per alcuni di
trasformarsi addirittura in Fiscoisteria e di far salire il sangue
al cervello quando ci si sente minacciati nelle tasche?
E’ chiaro che le tasse non piacciono a nessuno, anche se nel corso
del Novecento piano piano ce ne siamo dovuti fare una ragione (in
realtà forse stiamo ancora sforzandoci di farcene una ragione)
perché ormai è appurato che uno Stato moderno non può procedere in
avanti se non viene ben sostenuto economicamente dai suoi cittadini
sia con contribuzioni indirette, di cui ci accorgiamo di meno, per
cui diamo meno in escandescenza quando vengono inasprite, sia con
quelle dirette, che scatenano invece fenomeni di fiscofobia e
fiscoisteria.
Ma il problema della mentalità di noi sammarinesi riguardo alle
tasse è senza dubbio più complesso sia perché non siamo abituati a
pagare abbondanti imposte, sia perché votiamo numerosi i nostri
governanti, ma non ci fidiamo mai molto di loro, sia perché
“una gran parte di libertà è pagar poco”, come
ha sintetizzato nel 1867 Palamede Malpeli all’interno di una sua
relazione presentata alla Reggenza,
pensiero che caratterizza il popolo sammarinese da tempi remotissimi
e che, molto probabilmente, è uno dei capisaldi, forse è meglio dire
dei pregiudizi, su cui si è consolidata la nostra mitica libertas,
che quindi per molti si è mescolata proprio con il concetto di
liber tas.
Altre tracce di fiscofobia le ritroviamo nel 1922, anno in cui fu
varata la prima vera riforma tributaria sammarinese. In
quell’occasione furono proprietari terrieri e benestanti a sbraitare
perché erano coloro che, rispetto al sistema fiscale in auge
precedentemente, basato quasi per intero sulle sole tasse indirette,
avevano più da rimetterci.
In Consiglio vi furono tentativi ad oltranza per bloccarla da parte
dell’Unione Democratica Sammarinese, gruppo politico sostenuto dalla
parte più agiata della cittadinanza, che uscì per protesta dall’aula
nel giorno in cui si stava varando la nuova legge.
Anche in quell’occasione si ritrovarono sul Pianello decine di
contestatori schiamazzanti. Lo stesso Partito Socialista, comunque,
da sempre sostenitore di una riforma tributaria in grado di colpire
progressivamente i redditi, come già si è anticipato, in forte
polemica politica col governo dei Popolari, che alla fine era stato
l’artefice di tale riforma, la contestò risolutamente ritenendola
monca in quanto non prevedeva nessuna imposta di natura patrimoniale.
La fiscofobia è alla base dello stesso Arengo del 25 marzo 1906, o
almeno è stata una delle componenti che gli ha dato il primo moto e
che in seguito ha permesso ai riformisti di ottenere il consenso
necessario, soprattutto da parte del vasto mondo contadino,
analfabeta e iperconservatore, per giungere all’abolizione del
Consiglio Principe e Sovrano che si perpetuava da secoli tramite
cooptazione, evento che, senza la paura di nuove terribili
imposizioni, chissà se sarebbe davvero avvenuto o se avrebbe dato
inizio alle novità istituzionali che alla fine ha generato.
San Marino navigava in acque economiche agitate e precarie fin
dall’ultima decade dell’Ottocento, infatti, per cui il Consiglio si
era messo a discutere sul metodo di reperire cespiti in grado di
mettere in sicurezza il bilancio pubblico, che ormai da tempo si
chiudeva con disavanzi crescenti.
Negli anni precedenti erano giunte di tanto in tanto nelle pubbliche
casse cifre consistenti da chi voleva acquistare un titolo nobiliare
sammarinese, ma ora tale traffico si stava esaurendo per sempre
maggiore carenza di richieste, quindi era indispensabile reperire
nuove entrate solide e meno estemporanee.
I socialisti locali, pochi ma decisi, fin dall’ottobre del 1899
avevano presentato un’istanza d’arengo con cui avevano richiesto
l’istituzione di un’imposta unica sul reddito, con esenzione dei
redditi minori e progressività per i maggiori. Il Consiglio,
tuttavia, controllato dai proprietari terrieri e da cittadini più
abbienti della media, ovviamente la snobbò.
La fiscofobia regnava sovrana anche all’epoca, dunque, ma altre
soluzioni per portare al pareggio il bilancio statale non c’erano,
per cui nella sua seduta del 24 settembre 1901 il Consiglio,
senz’altro a malincuore, dovette analizzare la relazione redatta da
una commissione finanziaria nominata in una seduta precedente
proprio per fornire suggerimenti in tal senso.
I Sammarinesi non erano abituati a ragionare di tasse dirette perché
le scarsissime entrate dello Stato fino agli anni ’60 del XIX secolo
dipendevano prevalentemente da tributi indiretti sui tabacchi, il
sale, la polvere pirica e diverse altre mercanzie, più qualche
leggerissimo balzello di natura diretta.
Pur nella scarsità dei documenti disponibili (le finanze pubbliche
venivano gestite in passato con grande approssimazione e scarsi
controlli consentendo così abusi e appropriazioni indebite), anche
chi ha studiato ultimamente il sistema finanziario sammarinese del
‘7 e ‘800 è giunto alla conclusione che San Marino è sempre stato in
passato “un territorio sottoposto a un prelievo fiscale di scarsa
rilevanza”.
Inoltre il pensiero di Malpeli riportato poco sopra corrispondeva
realmente ad una sorta di datato preconcetto mentale dei
Sammarinesi, che ogni tanto emerge dalle fonti archivistiche, i
quali fondavano la loro libertà su vari fattori, tra cui l’esiguità
dei tributi da pagare.
D’altra parte uno dei documenti più importanti che è giunto fino a
noi dal Medioevo sammarinese, il cosiddetto “Rotolo di Valle Sant’Anastasio”
del 1296, non è un’indagine ed una disputa sull’obbligo che avevano
gli abitanti del Titano di pagare un tributo al podestà del
Montefeltro?
Il famoso nemini teneri, che scaturisce come estrema
sintesi da tale documento, nel suo intimo non significa che si era
indipendenti perché non si doveva nulla a nessuno, tanto meno la
gabella pretesa?
Libertas
come Liber Tas è dunque un’idea granitica dei Sammarinesi
rintracciabile periodicamente a partire dal XIII secolo, forse uno
dei motivi principali che hanno indotto i cittadini del Titano ad
aborrire sempre e comunque, da tale fase della loro storia in
avanti, la sottomissione politica e fiscale all’esosissimo Stato
Pontificio.
Tornando ora al punto precedente, negli anni dopo l’unificazione
italiana erano cresciuti enormemente i bisogni dello Stato, ma erano
giunti come manna dal cielo il canone doganale dall’Italia a partire
dal 1862, la vendita delle onorificenze dalla seconda metà di quegli
stessi anni, la possibilità di produrre francobolli e monete
proprie, qualche altro introito ancora legato ai pochi nuovi uffici
creati nel corso dell’Ottocento.
Con tali entrate San Marino era stato abbastanza tranquillo
economicamente per una trentina d’anni, quindi non aveva avvertito
più di tanto l’esigenza d’istituire nuovi tributi, né di seguire
l’opprimente politica fiscale della Destra Storica italiana.
A fine secolo, però, la situazione era cambiata, e si era giunti
alla conclusione che occorressero ulteriori entrate per rinsaldare
l’economia dello Stato e progredire lungo la strada della modernità.
Da ciò la relazione del 24 settembre 1901 in cui si suggeriva
l’introduzione di varie tasse nuove e l’inasprimento di altre già
esistenti, in particolare sul vino, sul bestiame, sul porto d’armi,
sugli stipendi dei pochi impiegati che all’epoca vi erano (appena
dell’1 o 2%).
Questo progetto finanziario, che faceva grande affidamento sulla
maggiore tassazione sul vino, di cui si stava inutilmente discutendo
da cinquant’anni (si prevedeva che potesse fornire 10.000 lire
all’anno), determinò grande dibattito e infinite polemiche
all’interno del Consiglio, nonché una proposta avanzata da un
consigliere che alla fine incontrò l’appoggio della maggioranza.
“Il Consigliere Marino Borbiconi - recita il verbale della seduta -
caldeggia con lodevoli parole la massima di trattare tutti i
cittadini in ugual modo, di essere miti ma equi nelle imposte, senza
gravare, cioè, una classe a vantaggio di un’altra. Dice che le tasse
non solo sono necessarie a ristorare le nostre finanze: ma a
renderci ancora avveduti e saggi nell’impiegare il danaro pubblico.
Conclude coll’esprimere il voto che lo studio d’applicazione delle
minime tasse, ormai ritenute più che utili e salutari, sia affidata
ad un finanziere anche estero il quale, considerato il nostro
bilancio, saprà facilmente distribuire a chi spetta il giusto,
benché esiguo, contributo da corrispondere al Governo. Il
Consigliere Onofrio Fattori si associa a quest’ultima proposta del
Borbiconi, ed anche il Consigliere Pasquale Busignani dimostra con
buoni argomenti che le tasse sono scuola di moralizzazione per i
contribuenti e per i Governi. Alla fine anche la Reggenza aderì a
tale proposta e chiese al Consiglio se si era tutti concordi nel
nominare un finanziere idoneo e capace a redigere un concreto
progetto tributario. Tutti assentirono, dando mandato alla stessa di
reperirlo”.
La fiscofobia è presente anche in questo intervento, vista la
continua sottolineatura che le tasse dovessero essere eque, ma
esigue, nonostante che il bilancio avesse ormai raggiunto un
disavanzo tra le 150 e le 200.000 lire circa.
Il consigliere Remo Giacomini, padre di Gino, dichiarò tuttavia che,
prima di applicare nuove contribuzioni, fosse opportuno indire un
referendum, all’epoca istituto non ancora previsto dalla
legislazione locale, per chiedere l’opinione del popolo, visto che
alla fine sarebbe stato proprio questo a dover mettere le mani in
tasca.
La sua richiesta, che il 6 aprile riemergerà come istanza d’arengo
presentata da lui insieme a Telemaco Martelli e Ignazio Grazia,
scatenando, com’è risaputo, le polemiche che infine porteranno
all’Arengo del 25 marzo 1906, al momento non ottenne l’appoggio di
nessuno.
Nel gennaio del 1902 fu messa in opera la proposta di Borbiconi con
l’affidare l’incarico di redigere un disegno di legge a Lorenzo
Gostoli, segretario d’Argenta in pensione, esperto tributarista. In
pochi mesi egli riuscì a produrre la prima parte dell’ipotesi di
riforma, che affidò al governo sammarinese nel mese di luglio,
evidenziando, però, che senza l’istituzione di un ufficio anagrafico
e di un ufficio tecnico non sarebbe stato possibile attuare una
riforma equa e intelligente.
Si era dunque arrivati ad una concreta e articolata idea per
l’innalzamento dei tributi, tuttavia la parte più progressista tra i
consiglieri e del paese non era pienamente d’accordo sulle mosse del
Consiglio. Non criticava l’esigenza di attuare una riforma
tributaria organica, ma era fermamente avversa al fatto che a
promuoverla e ad amministrare i soldi pubblici che avrebbe scaturito
fosse un governo oligarchico non eletto direttamente dal popolo.
“Ma chi potrà imporre di pagare le tasse a questo popolo se lo
tenete come un cane fuori dalla porta, privo dei diritti civili e
politici? - venne affermato all’interno di un giornale del periodo -
.
Se deve contribuire nel campo finanziario economico - continuava -
vorrà di logica naturale conseguenza prendere prima parte allo
svolgimento della vita amministrativa - politica; altrimenti tutte
le leggi di tasse, di fiscalità non avranno forza, non saranno
osservate e naufragheranno tutte”.
“Il dovere di sottostare ai tributi - ribadì il Titano del 18 agosto
1904 - implica il diritto ai pubblici controlli”.
Questo pensiero divenne via via condiviso sempre più.
La storia degli anni successivi, delle polemiche tra progressisti e
conservatori per giungere alla convocazione dell’Arengo e dell’esito
che questo ebbe il 25 marzo 1906, giorno in cui si svolse, è ben
nota e documentata.
Fu in effetti un referendum, perché al popolo vennero sottoposti
alcuni quesiti a cui doveva limitarsi a rispondere sì o no: non però
sulla riforma tributaria, ma sul desiderio di rendere elettivo
periodicamente il Consiglio.
Dopo il suo svolgimento ogni tanto si tornerà a parlare di attuare
tale riforma, ma inutilmente, tanto che nel 1914, proprio
sull’impossibilità di attivarla per la decisa opposizione dei
benestanti, naufragherà, dopo appena quindici mesi di vita, anche il
secondo governo di indole progressista (il cosiddetto “Blocco
Democratico”) che era riuscito a formarsi a San Marino dopo quello
del 1906.
Fino al 1922 San Marino non riuscirà a produrre una riforma
tributaria completa ed organica, ma, come si è detto, anche
all’epoca la fiscofobia riemerse puntuale e irosa come una patologia
ciclica.
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