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Libertas o Liber Tas?  Sammarinesità e Fiscofobia

 Prendo spunto dai fatti accaduti non tanto tempo fa, precisamente il 24 settembre 2013, e dalle diverse manifestazioni anti riforma tributaria di quel periodo, assai partecipate, in qualche occasione  fin troppo esagitate, per scrivere un breve saggio su un argomento che mi frulla in testa già da tempo: che rapporto storico c’è tra Sammarinesi e fisco? Quanto la mitica Libertas sammarinese è figlia dell’insofferenza verso le imposte? Quanto, in altre parole, è storicamente brama di Liber Tas, ovvero soprattutto di essere liberi (esenti) dalle tasse, come sostenevano i riformisti d’inizio Novecento che già allora sognavano per il paese l’applicazione di tributi progressivi in base ai singoli redditi prodotti?

Ma andiamo per ordine.

Il 24 settembre si è svolta a San Marino la manifestazione popolare probabilmente più imponente della sua plurisecolare storia. Organizzata dalla CSU (Centrale Sindacale Unitaria), lo scopo dello sciopero generale era quello d’indurre il governo sammarinese, in quel giorno riunito a Palazzo insieme al Consiglio dei LX, a rivedere il suo progetto di legge di riforma tributaria, già andato in prima lettura alla fine di luglio, perché giudicato iniquo e troppo dispendioso per i lavoratori a stipendio fisso.

Quella protesta era stata preceduta nei mesi precedenti da riunioni, assemblee, dibattiti, critiche ed altre manifestazioni di forte opposizione al nuovo disegno di legge, che avevano gradualmente surriscaldato il clima d’insofferenza nei confronti dello stesso.

Martedì 24 settembre i lavoratori sammarinesi hanno dunque partecipato numerosissimi alla serrata indetta dalle organizzazioni sindacali, marciando compatti con fischi, cartelli e urla contro i governanti affinché venisse rivista, moderata e resa più equa l’ipotesi di riforma fiscale in questione.

In realtà la rabbia dei partecipanti è in larga parte dipesa dalla normativa in esame, ma indubbiamente è scaturita pure dall’ampia disoccupazione, giovanile e non, che già da qualche anno sta attanagliando il paese, senza che s’intravedano ancora importanti prospettive migliorative.    

E’ nata, inoltre, dalla grave crisi economica in cui si trova San Marino sia per i problemi mondiali di natura finanziaria, sia perché le fonti di benessere economico che hanno consentito ai Sammarinesi di vivere con agiatezza per alcuni decenni si sono esaurite e all’orizzonte non se ne vedono per il momento di simili.  

I 5.000 presenti sul Pianello (alcune fonti dicono molti di più, altre un po’ di meno) sono stati quindi spronati da vari corroboranti, ma la riforma fiscale è stata di certo lo stimolante supremo, ciò che in ultima analisi ha saputo riunire in una protesta condivisa numerosi individui e a scuoterne i nervi.

“Siamo arrivati e siamo tantissimi, siete circondati”, hanno sbraitato i dimostranti alla volta del Palazzo Pubblico, dove se ne stava rintanato il Consiglio.

“Ladri, mafiosi, buffoni”, hanno vociato ancora mentre spingevano contro il cordone di gendarmi schierato per impedire il loro ingresso tumultuoso nel Palazzo.

Sono volate uova, bottiglie ed altri oggetti contundenti.

Quando la seduta è terminata, alcuni parlamentari sono stati circondati e strattonati da chi era rimasto lì per ore ad attendere la loro uscita per sfogare la propria rabbia.

“Sembravano posseduti”, è stato il laconico quanto azzeccato commento di un consigliere che era stato suo malgrado coinvolto nella baraonda.

Non entro nel merito della bontà o negatività della riforma contestata, anche perché non sarei imparziale, visto che ho aderito allo sciopero. Da studioso della nostra storia posso però affermare che non è la prima volta che Sammarinesi arrabbiati come furie si recano sul Pianello per inveire contro i governanti, vuoi per motivi fiscali, vuoi per altro.

Nel 1797, per citare un caso che all’epoca provocò ai governanti non poche palpitazioni, varie decine di cittadini scalmanati addirittura arrivarono ad ammucchiare fascine ai piedi del vecchio Palazzo Pubblico minacciando d’incendiarlo, ovviamente con tutti i consiglieri al suo interno, se non fossero state accolte le loro richieste, che non erano di natura fiscale, ma politica, in quanto pretendevano, sulle ali dell’entusiasmo per gl’ideali della Rivoluzione Francese, una maggiore democratizzazione delle istituzioni, l’abolizione della locale nobiltà, un più rilevante rispetto per la cittadinanza e per le istanze che avanzava ai governanti[1].

Altra “sommossa”, come fu all’epoca chiamata, avvenne il 26 febbraio 1910 contro la legge elaborata per istituire l’organico per gl’impiegati. In quel giorno il Consiglio avrebbe dovuto vararla, ma essendo una legge d’ispirazione socialista, ed essendo in atto nel periodo un fortissimo scontro ideologico/politico tra progressisti e conservatori, apparvero lungo il territorio manifesti manoscritti in cui si sosteneva che il governo stava per deliberare spese enormi a vantaggio della classe degli impiegati, e conseguenti tributi a danno del povero popolo lavoratore dei campi. I conservatori invitavano perciò i contadini a partecipare ad una marcia pacifica di protesta fin sul Pianello nel giorno in cui il Consiglio avrebbe dovuto emanarla.

La marcia vide la partecipazione di molti agricoltori, ma non fu per nulla pacata: vari consiglieri progressisti, infatti, insieme alla stessa Reggenza, vennero offesi senza mezzi termini dai dimostranti. Un consigliere poi, visto il brutto, aveva osato tirar fuori da una tasca della sua giacca una pistola (in questi anni non era inusuale girare armati), fatto che, esasperando ancor più la folla, gli aveva fatto passare un brutto quarto d’ora.

Dopo un assedio durato vario tempo, in cui il Consiglio venne praticamente bloccato all’interno del Palazzo Pubblico, l'assembramento si sciolse ponendo termine al brutto episodio. Gli animi rimasero però surriscaldati a lungo. I progressisti ed i conservatori, infatti, si lanciarono strali sempre più astiosi dai loro giornali, gli uni sostenendo che i preti, invece di curare esclusivamente le loro mansioni spirituali, istigavano le masse analfabete e credulone contro lo Stato e contro il bisogno che aveva il paese di evolversi e progredire; gli altri asserendo a spada tratta che i riformisti, coi socialisti in testa, bramavano la morte di San Marino perché ne volevano mutare l’anima religiosa ed istituzionale, essenza stessa della sua esistenza plurisecolare[2].  

Un assalto al Palazzo con contestazioni di natura fiscale è avvenuto invece nell’ottobre del 1984, data della riforma tributaria precedente a quella odierna:

“SAN MARINO, ASSEDIO AL PARLAMENTO”, titolava in quell’occasione a caratteri cubitali il quotidiano “La Repubblica” del 12 ottobre.

“Quello che non hanno potuto secoli di assedi e di guerre è stato possibile con le tasse. La Repubblica di San Marino ha vissuto ieri il suo giorno più lungo, carico di tensione. L' intero Parlamento, 60 membri eletti dal popolo nelle ultime votazioni del 1983, i due Capitani Reggenti che sono la massima autorità dello Stato, e l' esecutivo composto da dieci ministri sono stati tenuti in ostaggio da centinaia di persone per tre ore all' interno del palazzo del governo. A scatenare la protesta è l' approvazione della riforma tributaria prevista per oggi. Una rivoluzione nel sistema fiscale della più piccola e forse più antica repubblica del mondo. Fino a ieri i sanmarinesi pagavano infatti un'imposta fissa, un'aliquota del 33% sui redditi presunti, fissati dallo Stato. Operai e pensionati ad esempio non hanno mai versato un soldo nelle casse della Repubblica. Da oggi invece il sistema fiscale di San Marino introduce la dichiarazione dei redditi, obbliga le imprese, i commercianti e gli artigiani a tenere la contabilità, impone a tutti i cittadini di contribuire all' erario secondo aliquote progressive che vanno dal 4 al 25%. E in più introduce il sistema degli accertamenti induttivi attraverso sorteggio in casi eccezionali. Su questa riforma fiscale c' è stata gran polemica da parte dell' opposizione, Dc in testa, che ha spinto le categorie economicamente più forti - artigiani e commercianti appunto - a dare battaglia su tutti i fronti. Ma neppure i democristiani avevano previsto che una volta in piazza i commercianti avrebbero innalzato le barricate. E invece poco dopo le 14 di ieri, guidati dai presidenti delle loro associazioni hanno fatto irruzione nel palazzo. Dapprima un centinaio di persone si è assiepato nella sala del Consiglio grande e generale, poi ha stretto d'assedio deputati e consiglieri impedendo loro di uscire. Ci sono stati momenti di acuta tensione soprattutto quando la guardia nobile ha cercato di disperdere i manifestanti. All' interno del palazzo del governo c'è stata una rissa, sono volati pugni e calci e qualche soldato ne è uscito malconcio. Intanto sulla piazza della Libertà, il salotto buono di San Marino, si è radunata una gran folla che ha cominciato a rumoreggiare. Solo dopo tre ore l'intervento del giudice penale, Emiliani, è riuscito a sbloccare la situazione. Così i Capitani Reggenti, i deputati e i consiglieri hanno potuto lasciare il palazzo accolti da bordate di fischi. Il braccio di ferro tra popolazione e governo a San Marino è tutt'altro che finito. Ieri la piccola Repubblica aggrappata alle pendici del monte Titano pareva una città fantasma. Negozi e ristoranti chiusi, saracinesche abbassate, poca gente in giro sotto un cielo di piombo. Commercianti e artigiani hanno infatti decretato una serrata di due giorni che si protrarrà anche oggi e per stamani annunciano una nuova clamorosa manifestazione. Ieri pomeriggio solo una frenetica consultazione tra i Capitani Reggenti e le segreterie politiche dei partiti della sinistra (il governo della Repubblica è dal '78 nelle mani di comunisti e socialisti) ha impedito che squadre di operai scendessero in piazza contro gli artigiani e i commercianti che la stavano presidiando”. (dall’ inviato Carlo Cambi)

Alla fine la riforma entrò in vigore, e ancora oggi, pur con qualche integrazione, è sempre lei che caratterizza il nostro sistema tributario.

Dopo gli episodi narrati è giunto il momento di porsi una domanda: cosa scatta in noi Sammarinesi, che in genere siamo un popolo estremamente tranquillo e ordinato, quando si preannuncia un possibile inasprimento fiscale legato a nuove normative?

Soffriamo forse di una qualche strana malattia, non ancora ben classificata, la Fiscofobia appunto, capace per alcuni di trasformarsi addirittura in Fiscoisteria e di far salire il sangue al cervello quando ci si sente minacciati nelle tasche? 

E’ chiaro che le tasse non piacciono a nessuno, anche se nel corso del Novecento piano piano ce ne siamo dovuti fare una ragione (in realtà forse stiamo ancora sforzandoci di farcene una ragione) perché ormai è appurato che uno Stato moderno non può procedere in avanti se non viene ben sostenuto economicamente dai suoi cittadini sia con contribuzioni indirette, di cui ci accorgiamo di meno, per cui diamo meno in escandescenza quando vengono inasprite, sia con quelle dirette, che scatenano invece fenomeni di fiscofobia e fiscoisteria.

Ma il problema della mentalità di noi sammarinesi riguardo alle tasse è senza dubbio più complesso sia perché non siamo abituati a pagare abbondanti imposte, sia perché votiamo numerosi i nostri governanti, ma non ci fidiamo mai molto di loro, sia perché “una gran parte di libertà è pagar poco”, come ha sintetizzato nel 1867 Palamede Malpeli all’interno di una sua relazione presentata alla Reggenza[3], pensiero che caratterizza il popolo sammarinese da tempi remotissimi e che, molto probabilmente, è uno dei capisaldi, forse è meglio dire dei pregiudizi, su cui si è consolidata la nostra mitica libertas, che quindi per molti si è mescolata proprio con il concetto di liber tas.

Altre tracce di fiscofobia le ritroviamo nel 1922, anno in cui fu varata la prima vera riforma tributaria sammarinese. In quell’occasione furono proprietari terrieri e benestanti a sbraitare perché erano coloro che, rispetto al sistema fiscale in auge precedentemente, basato quasi per intero sulle sole tasse indirette, avevano più da rimetterci.

In Consiglio vi furono tentativi ad oltranza per bloccarla da parte dell’Unione Democratica Sammarinese, gruppo politico sostenuto dalla parte più agiata della cittadinanza, che uscì per protesta dall’aula nel giorno in cui si stava varando la nuova legge.

Anche in quell’occasione si ritrovarono sul Pianello decine di contestatori schiamazzanti. Lo stesso Partito Socialista, comunque, da sempre sostenitore di una riforma tributaria in grado di colpire progressivamente i redditi, come già si è anticipato, in forte polemica politica col governo dei Popolari, che alla fine era stato l’artefice di tale riforma, la contestò risolutamente ritenendola monca in quanto non prevedeva nessuna imposta di natura patrimoniale[4].

La fiscofobia è alla base dello stesso Arengo del 25 marzo 1906, o almeno è stata una delle componenti che gli ha dato il primo moto e che in seguito ha permesso ai riformisti di ottenere il consenso necessario, soprattutto da parte del vasto mondo contadino, analfabeta e iperconservatore, per giungere all’abolizione del Consiglio Principe e Sovrano che si perpetuava da secoli tramite cooptazione, evento che, senza la paura di nuove terribili imposizioni, chissà se sarebbe davvero avvenuto o se avrebbe dato inizio alle novità istituzionali che alla fine ha generato.

San Marino navigava in acque economiche agitate e precarie fin dall’ultima decade  dell’Ottocento, infatti, per cui il Consiglio si era messo a discutere sul metodo di reperire cespiti in grado di mettere in sicurezza il bilancio pubblico, che ormai da tempo si chiudeva con disavanzi crescenti.

Negli anni precedenti erano giunte di tanto in tanto nelle pubbliche casse cifre consistenti da chi voleva acquistare un titolo nobiliare sammarinese, ma ora tale traffico si stava esaurendo per sempre maggiore carenza di richieste, quindi era indispensabile reperire nuove entrate solide e meno estemporanee.

I socialisti locali, pochi ma decisi, fin dall’ottobre del 1899 avevano presentato un’istanza d’arengo con cui avevano richiesto l’istituzione di un’imposta unica sul reddito, con esenzione dei redditi minori e progressività per i maggiori. Il Consiglio, tuttavia, controllato dai proprietari terrieri e da cittadini più abbienti della media, ovviamente la snobbò[5].

La fiscofobia regnava sovrana anche all’epoca, dunque, ma altre soluzioni per portare al pareggio il bilancio statale non c’erano, per cui nella sua seduta del 24 settembre 1901 il Consiglio, senz’altro a malincuore, dovette analizzare la relazione redatta da una commissione finanziaria nominata in una seduta precedente proprio per fornire suggerimenti in tal senso.

I Sammarinesi non erano abituati a ragionare di tasse dirette perché le scarsissime entrate dello Stato fino agli anni ’60 del XIX secolo dipendevano prevalentemente da tributi indiretti sui tabacchi, il sale, la polvere pirica e diverse altre mercanzie, più qualche leggerissimo balzello di natura diretta[6].

Pur nella scarsità dei documenti disponibili (le finanze pubbliche venivano gestite in passato con grande approssimazione e scarsi controlli consentendo così abusi e appropriazioni indebite), anche chi ha studiato ultimamente il sistema finanziario sammarinese del ‘7 e ‘800 è giunto alla conclusione che San Marino è sempre stato in passato “un territorio sottoposto a un prelievo fiscale di scarsa rilevanza”[7].

Inoltre il pensiero di Malpeli riportato poco sopra corrispondeva realmente ad una sorta di datato preconcetto mentale dei Sammarinesi, che ogni tanto emerge dalle fonti archivistiche, i quali fondavano la loro libertà su vari fattori, tra cui l’esiguità dei tributi da pagare.

D’altra parte uno dei documenti più importanti che è giunto fino a noi dal Medioevo sammarinese, il cosiddetto “Rotolo di Valle Sant’Anastasio” del 1296, non è un’indagine ed una disputa sull’obbligo che avevano gli abitanti del Titano di pagare un tributo al podestà del Montefeltro[8]?

Il famoso nemini teneri,  che scaturisce come estrema sintesi da tale documento, nel suo intimo non significa che si era indipendenti perché non si doveva nulla a nessuno, tanto meno la gabella pretesa?

Libertas come Liber Tas è dunque un’idea granitica dei Sammarinesi rintracciabile periodicamente a partire dal XIII secolo, forse uno dei motivi principali che hanno indotto i cittadini del Titano ad aborrire sempre e comunque, da tale fase della loro storia in avanti, la sottomissione politica e fiscale all’esosissimo Stato Pontificio.

Tornando ora al punto precedente, negli anni dopo l’unificazione italiana erano cresciuti enormemente i bisogni dello Stato, ma erano giunti come manna dal cielo il canone doganale dall’Italia a partire dal 1862, la vendita delle onorificenze dalla seconda metà di quegli stessi anni, la possibilità di produrre francobolli e monete proprie, qualche altro introito ancora legato ai pochi nuovi uffici creati nel corso dell’Ottocento.

Con tali entrate San Marino era stato abbastanza tranquillo economicamente per una trentina d’anni, quindi non aveva avvertito più di tanto l’esigenza d’istituire nuovi tributi, né di seguire l’opprimente politica fiscale della Destra Storica italiana.

A fine secolo, però, la situazione era cambiata, e si era giunti alla conclusione che occorressero ulteriori entrate per rinsaldare l’economia dello Stato e progredire lungo la strada della modernità. Da ciò la relazione del 24 settembre 1901 in cui si suggeriva l’introduzione di varie tasse nuove e l’inasprimento di altre già esistenti, in particolare sul vino, sul bestiame, sul porto d’armi, sugli stipendi dei pochi impiegati che all’epoca vi erano (appena dell’1 o 2%).

Questo progetto finanziario, che faceva grande affidamento sulla maggiore tassazione sul vino, di cui si stava inutilmente discutendo da cinquant’anni (si prevedeva che potesse fornire 10.000 lire all’anno), determinò grande dibattito e infinite polemiche all’interno del Consiglio, nonché una proposta avanzata da un consigliere che alla fine incontrò l’appoggio della maggioranza.

“Il Consigliere Marino Borbiconi - recita il verbale della seduta - caldeggia con lodevoli parole la massima di trattare tutti i cittadini in ugual modo, di essere miti ma equi nelle imposte, senza gravare, cioè, una classe a vantaggio di un’altra. Dice che le tasse non solo sono necessarie a ristorare le nostre finanze: ma a renderci ancora avveduti e saggi nell’impiegare il danaro pubblico. Conclude coll’esprimere il voto che lo studio d’applicazione delle minime tasse, ormai ritenute più che utili e salutari, sia affidata ad un finanziere anche estero il quale, considerato il nostro bilancio, saprà facilmente distribuire a chi spetta il giusto, benché esiguo, contributo da corrispondere al Governo. Il Consigliere Onofrio Fattori si associa a quest’ultima proposta del Borbiconi, ed anche il Consigliere Pasquale Busignani dimostra con buoni argomenti che le tasse sono scuola di moralizzazione per i contribuenti e per i Governi. Alla fine anche la Reggenza aderì a tale proposta e chiese al Consiglio se si era tutti concordi nel nominare un finanziere idoneo e capace a redigere un concreto progetto tributario. Tutti assentirono, dando mandato alla stessa di reperirlo”.

La fiscofobia è presente anche in questo intervento, vista la continua sottolineatura che le tasse dovessero essere eque, ma esigue, nonostante che il bilancio avesse ormai raggiunto un disavanzo tra le 150 e le 200.000 lire circa.

Il consigliere Remo Giacomini, padre di Gino, dichiarò tuttavia che, prima di applicare nuove contribuzioni, fosse opportuno indire un referendum, all’epoca istituto non ancora previsto dalla legislazione locale, per chiedere l’opinione del popolo, visto che alla fine sarebbe stato proprio questo a dover mettere le mani in tasca.

La sua richiesta, che il 6 aprile riemergerà come istanza d’arengo presentata da lui insieme a Telemaco Martelli e Ignazio Grazia, scatenando, com’è risaputo, le polemiche che infine porteranno all’Arengo del 25 marzo 1906, al momento non ottenne l’appoggio di nessuno.

Nel gennaio del 1902 fu messa in opera la proposta di Borbiconi con l’affidare l’incarico di redigere un disegno di legge a Lorenzo Gostoli, segretario d’Argenta in pensione, esperto tributarista. In pochi mesi egli riuscì a produrre la prima parte dell’ipotesi di riforma, che affidò al governo sammarinese nel mese di luglio, evidenziando, però, che senza l’istituzione di un ufficio anagrafico e di un ufficio tecnico non sarebbe stato possibile attuare una riforma equa e intelligente.

Si era dunque arrivati ad una concreta e articolata idea per l’innalzamento dei tributi, tuttavia la parte più progressista tra i consiglieri e del paese non era pienamente d’accordo sulle mosse del Consiglio. Non criticava l’esigenza di attuare una riforma tributaria organica, ma era fermamente avversa al fatto che a promuoverla e ad amministrare i soldi pubblici che avrebbe scaturito fosse un governo oligarchico non eletto direttamente dal popolo.

“Ma chi potrà imporre di pagare le tasse a questo popolo se lo tenete come un cane fuori dalla porta, privo dei diritti civili e politici? - venne affermato all’interno di un giornale del periodo - [9]. Se deve contribuire nel campo finanziario economico - continuava - vorrà di logica naturale conseguenza prendere prima parte allo svolgimento della vita amministrativa - politica; altrimenti tutte le leggi di tasse, di fiscalità non avranno forza, non saranno osservate e naufragheranno tutte”.

“Il dovere di sottostare ai tributi - ribadì il Titano del 18 agosto 1904 - implica il diritto ai pubblici controlli”.

Questo pensiero divenne via via condiviso sempre più.

La storia degli anni successivi, delle polemiche tra progressisti e conservatori per giungere alla convocazione dell’Arengo e dell’esito che questo ebbe il 25 marzo 1906, giorno in cui si svolse, è ben nota e documentata[10].

Fu in effetti un referendum, perché al popolo vennero sottoposti alcuni quesiti a cui doveva limitarsi a rispondere sì o no: non però sulla riforma tributaria, ma sul desiderio di rendere elettivo periodicamente il Consiglio.

Dopo il suo svolgimento ogni tanto si tornerà a parlare di attuare tale riforma, ma inutilmente, tanto che nel 1914, proprio sull’impossibilità di attivarla per la decisa opposizione dei benestanti, naufragherà, dopo appena quindici mesi di vita, anche il secondo governo di indole progressista (il cosiddetto “Blocco Democratico”) che era riuscito a formarsi a San Marino dopo quello del 1906[11].

Fino al 1922 San Marino non riuscirà a produrre una riforma tributaria completa ed organica, ma, come si è detto, anche all’epoca la fiscofobia riemerse puntuale e irosa come una patologia ciclica.

 


[1] L’intero episodio in V. Casali, Pane, vino e ribellione. Nuovi apporti storiografici sui fatti del 1797, in Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXIV e n. XXV, a.s. 1996/97, 1997/98.

[2] Sull’episodio cfr. V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, San Marino 2002.

[3] E’ riportata integralmente in V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, San Marino 1994, pp. 267-275.

[4] Si veda Il Nuovo Titano, n. 91, 19/3/1922.

[5] I documenti citati ed i fatti narrati sono reperibili in V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, San Marino 2002, e in V. Casali, “Ferme restando tutte le altre norme statutarie”, ovvero Arengo del 1906 e congelamento istituzionale, in Annuario della Scuola Secondaria Superiore, n. XXXII, a.s. 2004/05.

[6] Sull’economia sammarinese del passato si veda:  A. Carattoni, L’economia 1 e 2, in Storia illustrata della Repubblica di San Marino, vol. 3, Aiep Editore 1985, e il recente: L. Andreoni, I conti del camerlengo finanza ed economia a San Marino fra Sette e Ottocento, Quaderni del Centro Sammarinese di Studi Storici, n. 34, San Marino 2012.

[7] L. Andreoni, op. cit., p. 220.

[8] M. Conti, Quid est libertas 1296 – 1996, San Marino 1996.

[9] “1° maggio in Repubblica”, edito a cura della Sezione Socialista Sammarinese, numero unico, 1902.

[10]  G. Dordoni, L’Arringo conquistato, San Marino 1993; V. Casali, “Ferme restando tutte le altre norme statutarie”, ovvero Arengo del 1906 e congelamento istituzionale, op. cit.

[11] Sull’argomento si veda V. Casali, Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, op. cit., pp. 136-137.

 

 

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