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Il Ducato di Acquaviva

 Mi auguro che  il lettore di queste mie pagine sia indulgente e mi perdoni il titolo ad effetto che, con una certa dose d’ironia, ho voluto utilizzare.

In realtà il Castello sammarinese di Acquaviva non è mai stato un ducato, anche se le autorità della Repubblica di San Marino in passato hanno insignito ben due persone dell’appellativo di duca, proprio col predicato nobiliare “di Acquaviva”, per cui mi è sembrato giusto indicare fin dal titolo di questo mio breve saggio l’argomento di cui tratterò.

Veniamo ora ai fatti.

Fin dal lontano 1852 la repubblica sammarinese aveva creato una sua "Medaglia del merito militare", distinta in tre gradi, per gratificare cittadini e stranieri che le si fossero dimostrati particolarmente utili col prestarle servizi, fare ambascerie a suo vantaggio o altro ancora, meritevoli, insomma, di ricevere un simile riconoscimento onorifico[1].

Tale decorazione era stata ideata e donata a San Marino da un suo estimatore e amico toscano, il Duca di Bevilacqua. Dopo qualche anno però, precisamente nel 1857, egli si era reso conto che le autorità sammarinesi assegnavano la medaglia senza tener conto della sua caratteristica militare, per cui aveva pensato di fare omaggio alla Repubblica di una nuova onorificenza, legata al titolo di “cavaliere”, in quanto riteneva giusto che la decorazione del 1852 dovesse essere conferita soltanto per motivi militari.

Inoltre era del’avviso che così San Marino avesse «un più potente mezzo di eccitare la benemerenza», potendo «ritrarre indirettamente dei non lievi vantaggi morali e materiali da ciò»[2].  

Purtroppo nello stesso anno il Duca di Bevilacqua morì all’improvviso lasciando in sospeso il suo progetto, che comunque fu ben presto ripreso e sostenuto da un altro personaggio amico sia del defunto duca sia di San Marino: Oreste Brizi.

Costui il 6 ottobre 1857 scrisse alle autorità sammarinesi per sollecitarle a realizzare il nuovo ordine equestre, perché era «assai bizzarra, o meglio ridicola, una medaglia del Merito coll'epigrafe Anzianità, e perché non produce gli effetti che produrrebbe una decorazione di forma più graziosa epperciò più gradita, e meno comune coi tanti segni d'onore che oggigiorno veggonsi sul petto dei soldati di tutti i Paese»[3].

San Marino non doveva avere scrupoli a istituire un suo ordine equestre, sostenne ancora Brizi, in quanto tutti gli Stati civili disponevano delle loro onorificenze da poter distribuire: «Perché dunque non dee averne la Repubblica di San Marino, Stato sovrano quanto altri mai?».

Il governo sammarinese probabilmente aveva non pochi dubbi su tale novità, vista l’estrema cautela con cui sempre si muoveva quando emergeva qualche proposta innovativa, per cui non ascoltò le raccomandazioni del Brizi ignorando il suggerimento.

Anzi, per mantenersi in amicizia col Regno di Savoia in un momento storico particolarmente travagliato e pericoloso per la plurisecolare libertà di San Marino, viste le velleità espansionistiche di Vittorio Emanuele II sulla penisola italiana, elargì addirittura la sua medaglia militare al conte di Cavour e ad altri due alti personaggi della corte torinese[4].

I rappresentanti diplomatici sammarinesi iniziarono nondimeno a disapprovare sempre più la vecchia medaglia militare, e a chiedere un tipo di onorificenza più consona all’opera di captatio benevolentiae che cercavano di svolgere a livello internazionale a sostegno della piccola repubblica.

Nel 1857 una simile richiesta giunse alle autorità sammarinesi da parte del loro rappresentante diplomatico in Francia, che in quel momento era l’avvocato Filippo Canuti, il quale suggerì di rimpiazzare la decorazione in uso con una croce di ordine cavalleresco[5].

Questa sollecitazione creò inquietudine tra i governanti sammarinesi, convinti che l'istituzione di un ordine cavalleresco non risultasse consona alla dimensione repubblicana del loro paese e che fosse meglio conservare le usanze semplici e le tradizioni patriarcali di sempre.

I tempi, però, stavano cambiando in fretta; il mondo in cui San Marino era vissuto per secoli era inesorabilmente al tramonto e non più resuscitabile, per cui anche la mentalità del passato era tempo che lasciasse spazio a nuovi modi di concepire la realtà.

Nel 1859, in piena seconda guerra d’indipendenza, il nuovo rappresentante diplomatico a Parigi, conte Enrico D’Avigdor, scrisse:

«In vista delle circostanze che debbano verificarsi dopo la Guerra conviene di preparare anticipatamente tutti i mezzi di persuasione dei quali ciascuno Stato può servirsi. Fra quelli che la diplomazia usa sempre impiegare tengono un gran posto le decorazioni le quali lusingano l'amor proprio degli uomini, e soddisfano la loro ambizione. […] Bisogna riflettere che in appoggio della loro forza materiale gli altri Stati d'Europa hanno il denaro, le influenze di parentela, i ranghi, i gradi, le posizioni che possono dare, e i titoli. La nostra repubblica non ha che la sua modesta medaglia, mentre ignoro s'ella possa accordare titoli»[6].

Era quindi opportuno rendere più appariscente e pregevole la decorazione sammarinese così che si dimostrasse più allettante nell’eventualità che qualcuno la desiderasse, e particolarmente apprezzata dopo che fosse stata attribuita a potenziali amici e patrocinatori.

Ormai i governanti sammarinesi non potevano più sottovalutare simili richieste perché il rischio di essere inglobati dal regno sabaudo poteva divenire reale: il bisogno di aver dalla propria parte il maggior numero possibile di personaggi importanti a livello internazionale, dunque, era prioritario.

Il nuovo ordine equestre fu perciò rapidamente creato con cinque gradi di cavalierato (Cavalier Gran Croce, Cavalier Grand'Ufficiale, Cavalier Ufficial Maggiore, Cavalier Ufficiale e Cavaliere) ed il suo statuto approvato dal Consiglio Principe e Sovrano del 22 marzo 1860.

Da questo momento in poi i governanti di San Marino accantonarono i loro scrupoli d’indole repubblicana ed iniziarono a distribuire i titoli di cavaliere in base alle esigenze di natura diplomatica indotte dai tempi, ma anche, in qualche occasione, per ricompensare i doni e il denaro che giungevano, spesso in maniera cospicua, da estimatori italiani e non, perché la repubblica sammarinese, in questi anni in cui stava svolgendosi un fitto dibattito politico sul futuro dell’Italia, da molti era vista come un esempio a cui tendere.

La vera miniera d'oro, comunque, di cui la Repubblica poteva disporre in fretta era la concessione, oltre che dei titoli equestri, anche di quelli nobiliari. Chi instradò la Stato sammarinese lungo questa via fu sempre il conte D’Avigdor il quale, con lettera del gennaio 1861, chiese per sé il titolo di Duca d'Acquaviva come riconoscimento per i tanti servizi diplomatici e di altra natura svolti fin lì a favore della Repubblica in qualità di console presso la corte di Napoleone III[7].

Vi era già stata una richiesta analoga qualche anno prima da parte di un signore di Livorno che avrebbe voluto essere nominato Barone di Casole, ma il Consiglio l’aveva rigettata con sdegno perché considerata non confacente ad una costituzione repubblicana[8].

Nel frattempo, però, erano cambiati i tempi e, per necessità di cose, stava mutando la mentalità pauperistica e la morale passatista dei locali governanti, per cui la richiesta del console non venne immediatamente rigettata, suscitando invece un certo dibattito in Consiglio, anche se inizialmente prevalse la volontà di non istituire titoli nobiliari in aggiunta a quelli di cavaliere.

In una lettera inviata a D’Avigdor l'11 febbraio del 1861, la Reggenza comunicò che vi erano  da parte di parecchi consiglieri difficoltà e reticenze a conferirgli il titolo richiesto; gli chiedeva inoltre   di «fornire degli esempi di altre Repubbliche Democratiche aventi titoli Feudali»[9].   

D’Avigdor rispondeva risentito un mese dopo:

«Le onorifiche ricompense sono le uniche colle quali il Governo Sammarinese possa premiare i servigi che gli si rende, e quando i detti sono resi col disinteresse che porti, meritano qualche cosa eccezionevole. Non m'appartiene di fare panegirici, dell'operato mio per la Repubblica, ma appartiene meno ancora al Governo di San Marino, di non istimare dei sacrifici di tempo e di borsa, che niun'altro avrebbe fatto in mia vece, e ch'oggi giorno sommano senza esagerazione, ad una somma non minima dei 20.000 franchi. […]. In tutte le antiche repubbliche, eccezioni somiglianti hanno luogo, soprattutto quando trattasi del titolo di Duca, che è intieramente Italiano, o piuttosto dell'antica Roma, e che aveva esistenza molto prima delle feodali istituzioni. Non vi è Governo che non ricerchi rimmunire dei segnati serviggii, e pertanto, non vi è agente diplomatico, che operi sacrifizii, tali sono quelli che faccio giornalmente io medesimo, del tempo mio e della mia borsa, e che replico sono di tale importanza, che mi sarebbe difficile il continuarli, se in contraccambio non avessi la convinzione, che giustamente sono apprezzati a Sammarino. Del resto, un'eguale titolo non ha bisogno d'essere pubblicato, ed è sufficiente che siami conferito con diploma, purché attenda l'opportuno momento, per io parlarne senzacchè il governo di Sammarino, sia minimamente compromesso. Sembrami del resto che la condotta mia, fin qui, ha dovuto dar prova al Sovrano Consiglio Principe, che ben ho saputo aggiungere ad una sufficiente intelligenza, molta prudenza»[10].

Il momento storico era delicatissimo per la penisola italiana, e San Marino non poteva assolutamente permettersi il lusso di perdere il proprio rappresentante diplomatico in Francia, con l’incognita di rimanere senza contatti appropriati col suo grande protettore Napoleone III, in una fase in cui il regno piemontese stava sempre più estendendosi.

Furono perciò velocemente accantonati i preconcetti di natura repubblicana: il 21 aprile il Consiglio optò di accordare il titolo richiesto a D’Avigdor, a cui fu scritto un paio di giorni dopo per comunicargli che era stato promosso al grado di Cavalier Gran Croce dell'Ordine di San Marino, e che gli era stato conferito il titolo di Duca d'Acquaviva.

Vi era però una condizione, ovvero: «che la pubblicazione di tale atto straordinario e singolare e la spedizione del Diploma debba essere fatta nella circostanza solenne in cui la Repubblica potrà inaugurare la sua rappresentanza ufficiale presso la Corte di Torino»[11].

Il titolo veniva concesso, insomma, ma si chiedeva a D’Avigdor d’impegnarsi al massimo per reperire un valido rappresentante diplomatico sammarinese presso quella corte così da appianare le forti divergenze che in quel momento sussistevano con le autorità piemontesi.

Cavour, infatti, già tramite una lettera  accusatoria inviata alla Reggenza nel maggio 1860 aveva affermato che «i malviventi delle Romagne, ed i disertori del R.o Esercito trovano facile e sicuro asilo sul territorio di codesta Repubblica di S. Marino, e che non venendovi né invigilati né repressi, fanno liberamente scorrerie nei paesi confinanti, donde commessevi invasioni e reati, ritornano impunemente a ricettarsi nel dominio San Marinese. La stima che il Governo del Re professa per i Rettori di codesto libero paese, lo rende persuaso che tale abuso di ospitalità, avviene a loro insaputa, e contro alle loro intenzioni. Ma le S.S.V.V. Illme sentiranno, che per una parte la tutela che ci deve alla morale e quiete pubblica non consentirebbe al R.o Governo di rimanersi indifferente ad un fatto, da cui vengono minacciate le sostanze e le persone dei suoi sudditi, e che per altra parte la tolleranza, che continuassero a trovare sul territorio di S. Marino pubblici malfattori, non potrebbe a meno di nuocere alla riputazione della Repubblica, ed alle sue relazioni cogli Stati vicini. Ho pertanto intera fiducia, che fatte avvertite di questo stato di cose, le S.S.V.V.Illme vorranno prendere pronti e severi provvedimenti per andarvi al riparo, o niegando assolutamente l'ingresso sul territorio della Repubblica a malandrini e disertori, od almeno impedendoli rigorosamente, una volta che vi sieno penetrati, dall'uscirne a manomettere le proprietà dei paesi finittimi. Spero che i riscontri, che riceverò dalle S.S.V.V.Illme, daranno al Governo del Re piena sicurezza a questo riguardo»[12].

D’Avigdor rispose con varie lettere successive mostrandosi poco soddisfatto per il vincolo che gli era stato imposto, ma alla fine garantì che avrebbe cercato «il mezzo più prudente affinché la Repubblica sia rappresentata a Torino senza svegliare la suscettibilità del Re d'Italia»[13].

A questo punto il governo sammarinese si sentì rinfrancato, e scrisse l'11 maggio al suo diplomatico parigino per comunicargli i motivi delle difficoltà avute nel conferimento del titolo da lui richiesto:

«Il Generale Consiglio conosce da lungo tempo con quanto ardore Ella si adoperi costantemente pel benessere della nostra Repubblica; sa benissimo quanta sollecitudine Ella abbia posta in tutte le missioni che le vennero affidate; e dal passato traendo argomento per l'avvenire ha lui profonda convinzione, che in lei non verrà meno giammai l'interessamento che ha sempre preso per le cose nostre. Non poteva quindi supporre senza offesa alla propria coscienza e senza far torto a V.S.Illma, che Ella avesse mestieri di eccitamenti di forza alcuna per operare con tutta alacrità a vantaggio di questa Repubblica. Ma trattavasi di decretare un distintivo di onore non mai conferito in tanti secoli di politica esistenza, e trattavasi di creare un fatto tutto nuovo, e se non continuerà, certo poco adatto alle Costituzioni del Paese: era quindi necessario giustificare presso la posterità questo atto straordinario ed inusitato; bisognava che apparisse dai libri Consiliari che il Senatoconsulto venne fatto per una occasione solenne e faciente epoca nei Fasti Repubblicani, sì che i posteri non s'avvisassero di imitare questo esempio, né sorgesse in alcuno la speranza di conseguire simile onore se non all'occorrenza di avvenimenti al tutto straordinari e di natura conforme a quello onde nel verbale della Seduta Consiliare resta motivato il Senatoconsulto sopradetto. E poiché molto rare per non dire impossibili saranno le occasioni simili a quella in cui la Repubblica nostra verrà formalmente riconosciuta dal Re d'Italia, così ne sembra che da ciò si debba trarne un argomento di maggior decoro per V.S.Illma, la quale avrà conseguito un titolo d'onore che altri non potrà ottenere e che rimarrà nella famiglia di Lei come fatto eccezionale ed unico nella Storia Sammarinese, e come memoria di un avvenimento felicissimo per la Repubblica»[14].

In definitiva la Repubblica di San Marino conferiva tale titolo nobiliare in via del tutto eccezionale, con la quasi certezza che un simile fatto non sarebbe mai più capitato.

In realtà si era aperta una porta che in seguito si sarebbe dimostrata di difficile chiusura. Infatti D’Avigdor due anni dopo richiese un altro titolo, questa volta per una sua parente (Maria Carolina Payart de Fitz-Jamese), che fu nominata senza tante remore Duchessa di Faetano dal Consiglio del 7 dicembre 1863[15].

Nel 1865 vennero conferiti ad altri richiedenti i titoli di Conte di Montecchio, di Contessa di Fiorentino e di Duca di Casole; negli anni seguenti parecchie altre onorificenze ancora[16]

Diversi di questi titoli nobiliari furono assegnati per benemerenze e servizi resi a San Marino o per attirare le simpatie e la benevolenza di qualche altolocato personaggio del panorama politico internazionale, altri invece solo perché chi li riceveva era disposto a versare nelle casse pubbliche sammarinesi somme considerevoli.

Siamo ancora in un periodo storico in cui un’onorificenza e la qualifica di barone, conte, marchese, duca, ecc. permettevano spesso l’ingresso in ambienti politici e sociali elitari e assai riservati, per cui chi aveva qualche interesse specifico per richiedere simili titoli onorifici o magari solo motivi legati all’accrescimento del proprio blasone e prestigio personale, e se li poteva permettere economicamente, li rimediava procurandoseli presso gli Stati disposti a conferirli.

Nei primi anni ’60 dell’Ottocento, dunque, dopo che D’Avigdor aveva aperto la strada col suo titolo di Duca di Acquaviva, lo Stato sammarinese si rese conto che per far fronte ai nuovi grandi bisogni economici della piccola repubblica, gettata con l’unificazione del regno italiano ex abrupto in una dimensione politica, diplomatica e sociale molto più grande e articolata, e quindi anche più dispendiosa, di quella a cui era da secoli abituata, per rimediare in fretta denaro la via più rapida, più facile e più conveniente, perché i costi erano minimi rispetto ai profitti, era quella legata alla distribuzione delle onorificenze dietro versamento di cifre cospicue.  

All’epoca in realtà si preferiva parlare di omaggi, donativi, generosi regali da parte di chi ambiva ad un titolo sammarinese, piuttosto che di compravendita, perché in parecchi pensavano che simile pratica fosse immorale e pericolosa, nonché contraria alla sana tradizione pauperistica e patriarcale su cui San Marino si reggeva da secoli.

Il bisogno delle casse statali era tuttavia reale e incalzante, per cui, non essendoci al momento altre possibilità finanziarie per incrementarle prontamente, si accantonarono i pregiudizi d’indole repubblicana/tradizionalista e si cominciò a distribuirle senza troppe crisi di coscienza.

Nel maggio del 1866 il Consiglio giunse addirittura alla deliberazione che nessuna onorificenza dovesse essere conferita ad offerte inferiori alle 1.000 lire, cifra assai ragguardevole per l'epoca, visto che il medico primario della Repubblica, ovvero uno dei pochi funzionari locali che disponeva di uno stipendio piuttosto elevato, in quel periodo percepiva come retribuzione annua 1.500 lire.

Questi costi vennero negli anni seguenti ritoccati al rialzo, soprattutto quelli relativi ai titoli nobiliari, variando da  un prezzo minimo di 6/8.000 lire per un titolo di barone, alle 60.000 lire date dalla signora Maria Antonietta Andrè di Parigi per un titolo di duchessa. Con questi soldi si avviarono nel 1884 i lavori per edificare il nuovo Palazzo Pubblico[17].   

Chiariti i motivi per cui la Repubblica di San Marino è giunta a istituire e distribuire i titoli nobiliari, e il ruolo avuto in tutta l’operazione da D’Avigdor, è lecito chiedersi perché costui domandasse proprio il predicato nobiliare “d’Acquaviva” piuttosto che un altro, visto che tale nome per i sammarinesi si deve e si riferisce solo ad un luogo dove vi è una modesta sorgente d’acqua.

Si possono solo avanzare ipotesi in merito, perché egli non ha mai motivato per iscritto le cause della specificità della sua richiesta. Probabilmente lo fece perché tra tutti i toponimi presenti nella repubblica, Acquaviva era quello che più di tutti risultava altisonante e nobilitante.

Infatti già dal X secolo esisteva in Italia un’antica e potente famiglia nobile di conti e duchi (conti di San Flaviano e duchi di Atri,) che si chiamava proprio Acquaviva, forse proveniente dalla Baviera, che aveva acquisito parecchi domini nel napoletano, in Abruzzo e nelle Marche, diventando una delle maggiori casate del regno di Napoli.

Presentandosi come Duca di Acquaviva, D’Avigdor, che non doveva essere certamente personaggio morigerato[18], qualora si fosse proposto a qualcuno col suo nuovo titolo avrebbe potuto giocare sull’ambiguità facendo ipotizzare di essere un discendente diretto di questa antica e nobilissima famiglia, perché era assai improbabile che gli si chiedesse la reale provenienza del suo predicato.

D’altra parte il predicato nobiliare era importante quanto il titolo stesso, come risulta dalla storia del secondo alto titolato di Acquaviva: la contessa Ottilia Heyroth Wagener di Berlino, nominata Duchessa di Acquaviva nel 1876.

Questa ricca signora nel 1875 aveva chiesto ed ottenuto dal Consiglio di San Marino la possibilità di acquistare per 5.000 lire un podere nella parrocchia di Serravalle, precisamente in località denominata “Rancidello”.

Avanzando questa richiesta, la contessa si era dichiarata disponibile a versare 18.000 lire (lo stipendiato sammarinese con la paga più alta, ovvero il chirurgo, in quel momento percepiva 2.500 lire all’anno, un operaio meno di 4 lire al giorno) per il titolo di Duchessa di Rancidello[19].

Il Consiglio, vista la generosa offerta, non ebbe problemi a conferire il titolo richiesto, ma un anno dopo, in data 25 aprile, fu costretto a ridiscutere un’altra petizione da parte della Duchessa che «per evitare i motteggi e gli Epigrammi che si vanno facendo sulla parola Rancidello» domandava «la surrogazione di quel Predicato in quello di Acquaviva» offrendo ulteriori 2.000 lire.

Il Consiglio anche in questa occasione fu d’accordo nell’esaudire l’istanza della richiedente, per cui da ora in poi la signora Ottilia Heyroth Wagener, che tra i tanti omaggi fatti a San Marino donò anche la Statua della Libertà eretta sul Pianello e inaugurata il 30 settembre 1876, divenne ufficialmente la Duchessa di Acquaviva[20].

Il 2 ottobre 1876, dopo aver dimorato per qualche giorno a San Marino per poter essere presente all’inaugurazione della statua da lei regalata, nel tornarsene a Roma, dove abitualmente risiedeva, la Duchessa volle transitare per Acquaviva, curiosa escursione di cui abbiamo un’attenta cronaca grazie all’avvocato Felice Caivano-Schipani, che faceva parte del seguito della Wagener:

«Dopo percorse quelle ridentissime vie, che serpeggiano attorno i verdeggianti monti di S. Marino - ci dice tale resoconto - e da ove vedesi lontano lontano l’azzurro del mare, ed estatico riman lo sguardo nel rimirar quei feudi, qua e là coronati di castelli, e quei buroni, e quelle rocce, e quel fiume, s’arriva finalmente ad Acquaviva.

E’ questo un esteso ed ameno villaggio, sito al pendio di un alto monte.

Poche case rurali, il palazzo del Consigliere Masi, la casa parrocchiale e la Chiesa sonovi sparse.

Esso trae nome da una sorgente, che, da duro macigno, scaturisce limpidissima acqua, dalla quale grandi benefizi si potrebbero rilevare, bene usandola per la salute.

All’arrivo della nobile brigata - evviva la Duchessa - fu il grido di tutti quei buoni villici, aggruppati nel cortile della casa Masi, per dove la nobile Donna dovea passare. Tutte quelle amabili forosette, con la loro usuale cordialità, e con modi semplici ed ingenui presentarono la Duchessa di bei fiori. Anch’egli il Comm. Masi offrille un magnifico mazzetto, mentre invitavala a discendere dalla carrozza.

L’Arciprete di lì fu primo ad esserle presentato. Ei la pregò di largire qualche sussidio a quei poverelli e di far ultimare la costruzione di quel Cimitero, ed Ella promise di soddisfare tale desiderio di quei buoni abitanti.

Una colazione ebbe poi luogo, e fu profferta con gusto.

Anche questa volta il Dottore Valente improvvisò la canzone d’addio alla Repubblica, e con altro sonetto diè l’addio alla geniale Duchessa.

Propinò di poi un brindisi al Conte Belluzzi, il quale rispose gli del pari, e fece poi udire parecchi brani di alcune sue poesie, scritte interamente ad imitazione dantesca.

Intanto il Galletti, il Tonnini ed il Masi eransi recati sul fonte, per osservare da vicino quali restauri v’erano necessari. Al loro ritorno, e specialmente sulla richiesta del Masi, la Duchessa dichiarò di volere avvantaggiare le condizioni del villaggio, restaurando a sue spese quel fonte, da ricostruire a migliore forma, e dando al Cimitero la nuova affacciata.

Tra l’allegria e la beneficienza, erasi pure appressata l’ora della partenza, e fu giocoforza congedarsi. La Duchessa montò sul suo cocchio, salutata dagli – evviva – clamorosi di quel contado. Verso la disvolta della via che mena per Rimini, diè un altro saluto. Allora il Malpeli le rivolse il commovente ed affettuoso addio con questi versi:

Dunque n’andrai, o generosa Dama,

Da questa che ami tanto antica terra,

Di presto riaverti ardente brama,

Riconoscente il cor ‘ei pur rinserra.

A lodarti, o Gentil, mia lingua è grama,

E il mio pensiero si confonde ed erra.

Col core in man, con ogni affetto mio

Solo dirò – Sublime Donna, addio. –

Uno sventolar di fazzoletti fu continuato, finché la vista non si smarrì nello spazio. Dopo due ore erasi di già in Rimini»[21].

Partita la Duchessa, il piccolo villaggio di Acquaviva non esaurì le sue potenzialità nobilitanti: infatti nella seduta del Consiglio Principe e Sovrano del 12 settembre 1899, per la cifra di 9.000 lire, fu assegnato al cavalier Giuseppe Tanfani di Ancona l’altisonante titolo di Barone di Acquaviva[22].

 

 

[1] Tutta la vicenda è raccontata dettagliatamente in: V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, la Repubblica di San Marino nell’età della Destra Storica, San Marino 1994.

[2] Informazioni ricavate dalla lettera di Oreste Brizi del 6/10/1857 introduttiva al "Progetto di Statuto per la Stella d'Onore Sammarinese", contenuta in Archivio di Stato della RSM (ASRSM), Registri dei conferimenti di nobiltà, cittadinanza, ecc., b. 30-30/2.

[3] Ibid.

[4] ASRSM, Protocollo Generale del Carteggio della Reggenza, lettera del 7/11/1857.

[5] ASRSM, Carteggio della Reggenza, b.176, lett. n. 727.

[6] ASRSM, Carteggio della Reggenza, b. 177, lett. n. 334.

[7] ASRSM, Protocollo Generale del Carteggio della Reggenza, lettera del 17/1/1861.

[8] ASRSM, Carteggio della Reggenza, b.176, lett. n. 743.

[9] ASRSM, Protocollo Generale del Carteggio della Reggenza, lettera dell’11/2/1861.

[10] ASRSM, Protocollo Generale del Carteggio della Reggenza, lettera dell’11/3/1861.

[11] Ibid., lettera del 23/4/1861.

[12] ASRSM, Carteggio della Reggenza, b.178, lett. n. 32.

[13] ASRSM, Protocollo Generale del Carteggio della Reggenza, lettera n. 32.

[14] Ibid.,  lettera n. 38.

[15] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. PP,  n. 39, seduta del 7/12/1863.

[16] Si veda in proposito: V. Casali, I tempi di Palamede Malpeli, la Repubblica di San Marino nell’età della Destra Storica, cit.

 [17] Sull’argomento si veda: V.Casali, San Marino e il suo nuovo Palazzo Pubblico: storia di un'esigenza secolare, in La Repubblica di San Marino e i segni carducciani, San Marino 1993.

[18] Nel volume di F. Balsimelli, Storia delle rappresentanze diplomatiche e consolari della Repubblica di San Marino, Urbania 1975, è descritto quasi come un avventuriero.

[19] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. SS,  n. 41, seduta del 5/6/1875.

[20] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. SS,  n. 41, seduta del 25/4/1876.

[21] Informazioni ricavate dal volume di M. A. Bonelli, Un felice ritrovamento: la bella libertà, San Marino 1984.

[22] ASRSM, Atti del Consiglio Principe, vol. XX, n. 46, seduta del 12/9/1899.

 

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