Il Ducato di Acquaviva
Mi
auguro che il lettore di queste mie pagine sia indulgente e mi
perdoni il titolo ad effetto che, con una certa dose d’ironia, ho
voluto utilizzare.
In
realtà il Castello sammarinese di Acquaviva non è mai stato un
ducato, anche se le autorità della Repubblica di San Marino in
passato hanno insignito ben due persone dell’appellativo di duca,
proprio col predicato nobiliare “di Acquaviva”, per cui mi è
sembrato giusto indicare fin dal titolo di questo mio breve saggio
l’argomento di cui tratterò.
Veniamo ora ai fatti.
Fin
dal lontano 1852 la repubblica sammarinese aveva creato una sua
"Medaglia del merito militare", distinta in tre gradi, per
gratificare cittadini e stranieri che le si fossero dimostrati
particolarmente utili col prestarle servizi, fare ambascerie a suo
vantaggio o altro ancora, meritevoli, insomma, di ricevere un simile
riconoscimento onorifico.
Tale
decorazione era stata ideata e donata a San Marino da un suo
estimatore e amico toscano, il Duca di Bevilacqua. Dopo qualche anno
però, precisamente nel 1857, egli si era reso conto che le autorità
sammarinesi assegnavano la medaglia senza tener conto della sua
caratteristica militare, per cui aveva pensato di fare omaggio alla
Repubblica di una nuova onorificenza, legata al titolo di
“cavaliere”, in quanto riteneva giusto che la decorazione del 1852
dovesse essere conferita soltanto per motivi militari.
Inoltre era del’avviso che così San Marino avesse «un più potente
mezzo di eccitare la benemerenza», potendo «ritrarre indirettamente
dei non lievi vantaggi morali e materiali da ciò».
Purtroppo nello stesso anno il Duca di Bevilacqua morì
all’improvviso lasciando in sospeso il suo progetto, che comunque fu
ben presto ripreso e sostenuto da un altro personaggio amico sia del
defunto duca sia di San Marino: Oreste Brizi.
Costui il 6 ottobre 1857 scrisse alle autorità sammarinesi per
sollecitarle a realizzare il nuovo ordine equestre, perché era
«assai bizzarra, o meglio ridicola, una medaglia del Merito coll'epigrafe
Anzianità, e perché non produce gli effetti che produrrebbe una
decorazione di forma più graziosa epperciò più gradita, e meno
comune coi tanti segni d'onore che oggigiorno veggonsi sul petto dei
soldati di tutti i Paese».
San
Marino non doveva avere scrupoli a istituire un suo ordine equestre,
sostenne ancora Brizi, in quanto tutti gli Stati civili disponevano
delle loro onorificenze da poter distribuire: «Perché dunque non dee
averne la Repubblica di San Marino, Stato sovrano quanto altri
mai?».
Il
governo sammarinese probabilmente aveva non pochi dubbi su tale
novità, vista l’estrema cautela con cui sempre si muoveva quando
emergeva qualche proposta innovativa, per cui non ascoltò le
raccomandazioni del Brizi ignorando il suggerimento.
Anzi, per mantenersi in amicizia col Regno di Savoia in un momento
storico particolarmente travagliato e pericoloso per la
plurisecolare libertà di San Marino, viste le velleità
espansionistiche di Vittorio Emanuele II sulla penisola italiana,
elargì addirittura la sua medaglia militare al conte di Cavour e ad
altri due alti personaggi della corte torinese.
I
rappresentanti diplomatici sammarinesi iniziarono nondimeno a
disapprovare sempre più la vecchia medaglia militare, e a chiedere
un tipo di onorificenza più consona all’opera di captatio
benevolentiae che cercavano di svolgere a livello internazionale
a sostegno della piccola repubblica.
Nel
1857 una simile richiesta giunse alle autorità sammarinesi da parte
del loro rappresentante diplomatico in Francia, che in quel momento
era l’avvocato Filippo Canuti, il quale suggerì di rimpiazzare la
decorazione in uso con una croce di ordine cavalleresco.
Questa sollecitazione creò inquietudine tra i governanti
sammarinesi, convinti che l'istituzione di un ordine cavalleresco
non risultasse consona alla dimensione repubblicana del loro paese e
che fosse meglio conservare le usanze semplici e le tradizioni
patriarcali di sempre.
I
tempi, però, stavano cambiando in fretta; il mondo in cui San Marino
era vissuto per secoli era inesorabilmente al tramonto e non più
resuscitabile, per cui anche la mentalità del passato era tempo che
lasciasse spazio a nuovi modi di concepire la realtà.
Nel
1859, in piena seconda guerra d’indipendenza, il nuovo
rappresentante diplomatico a Parigi, conte Enrico D’Avigdor,
scrisse:
«In
vista delle circostanze che debbano verificarsi dopo la Guerra
conviene di preparare anticipatamente tutti i mezzi di persuasione
dei quali ciascuno Stato può servirsi. Fra quelli che la diplomazia
usa sempre impiegare tengono un gran posto le decorazioni le quali
lusingano l'amor proprio degli uomini, e soddisfano la loro
ambizione. […] Bisogna riflettere che in appoggio della loro forza
materiale gli altri Stati d'Europa hanno il denaro, le influenze di
parentela, i ranghi, i gradi, le posizioni che possono dare, e i
titoli. La nostra repubblica non ha che la sua modesta medaglia,
mentre ignoro s'ella possa accordare titoli».
Era
quindi opportuno rendere più appariscente e pregevole la decorazione
sammarinese così che si dimostrasse più allettante nell’eventualità
che qualcuno la desiderasse, e particolarmente apprezzata dopo che
fosse stata attribuita a potenziali amici e patrocinatori.
Ormai i governanti sammarinesi non potevano più sottovalutare simili
richieste perché il rischio di essere inglobati dal regno sabaudo
poteva divenire reale: il bisogno di aver dalla propria parte il
maggior numero possibile di personaggi importanti a livello
internazionale, dunque, era prioritario.
Il
nuovo ordine equestre fu perciò rapidamente creato con cinque gradi
di cavalierato (Cavalier Gran Croce, Cavalier Grand'Ufficiale,
Cavalier Ufficial Maggiore, Cavalier Ufficiale e Cavaliere) ed il
suo statuto approvato dal Consiglio Principe e Sovrano del 22 marzo
1860.
Da
questo momento in poi i governanti di San Marino accantonarono i
loro scrupoli d’indole repubblicana ed iniziarono a distribuire i
titoli di cavaliere in base alle esigenze di natura diplomatica
indotte dai tempi, ma anche, in qualche occasione, per ricompensare
i doni e il denaro che giungevano, spesso in maniera cospicua, da
estimatori italiani e non, perché la repubblica sammarinese, in
questi anni in cui stava svolgendosi un fitto dibattito politico sul
futuro dell’Italia, da molti era vista come un esempio a cui
tendere.
La
vera miniera d'oro, comunque, di cui la Repubblica poteva disporre
in fretta era la concessione, oltre che dei titoli equestri, anche
di quelli nobiliari. Chi instradò la Stato sammarinese lungo questa
via fu sempre il conte D’Avigdor il quale, con lettera del gennaio
1861, chiese per sé il titolo di Duca d'Acquaviva come
riconoscimento per i tanti servizi diplomatici e di altra natura
svolti fin lì a favore della Repubblica in qualità di console presso
la corte di Napoleone III.
Vi
era già stata una richiesta analoga qualche anno prima da parte di
un signore di Livorno che avrebbe voluto essere nominato Barone di
Casole, ma il Consiglio l’aveva rigettata con sdegno perché
considerata non confacente ad una costituzione repubblicana.
Nel
frattempo, però, erano cambiati i tempi e, per necessità di cose,
stava mutando la mentalità pauperistica e la morale passatista dei
locali governanti, per cui la richiesta del console non venne
immediatamente rigettata, suscitando invece un certo dibattito in
Consiglio, anche se inizialmente prevalse la volontà di non
istituire titoli nobiliari in aggiunta a quelli di cavaliere.
In
una lettera inviata a D’Avigdor l'11 febbraio del 1861, la Reggenza
comunicò che vi erano da parte di parecchi consiglieri difficoltà e
reticenze a conferirgli il titolo richiesto; gli chiedeva inoltre
di «fornire degli esempi di altre Repubbliche Democratiche aventi
titoli Feudali».
D’Avigdor rispondeva risentito un mese dopo:
«Le
onorifiche ricompense sono le uniche colle quali il Governo
Sammarinese possa premiare i servigi che gli si rende, e quando i
detti sono resi col disinteresse che porti, meritano qualche cosa
eccezionevole. Non m'appartiene di fare panegirici, dell'operato mio
per la Repubblica, ma appartiene meno ancora al Governo di San
Marino, di non istimare dei sacrifici di tempo e di borsa, che niun'altro
avrebbe fatto in mia vece, e ch'oggi giorno sommano senza
esagerazione, ad una somma non minima dei 20.000 franchi. […]. In
tutte le antiche repubbliche, eccezioni somiglianti hanno luogo,
soprattutto quando trattasi del titolo di Duca, che è intieramente
Italiano, o piuttosto dell'antica Roma, e che aveva esistenza molto
prima delle feodali istituzioni. Non vi è Governo che non ricerchi
rimmunire dei segnati serviggii, e pertanto, non vi è agente
diplomatico, che operi sacrifizii, tali sono quelli che faccio
giornalmente io medesimo, del tempo mio e della mia borsa, e che
replico sono di tale importanza, che mi sarebbe difficile il
continuarli, se in contraccambio non avessi la convinzione, che
giustamente sono apprezzati a Sammarino. Del resto, un'eguale titolo
non ha bisogno d'essere pubblicato, ed è sufficiente che siami
conferito con diploma, purché attenda l'opportuno momento, per io
parlarne senzacchè il governo di Sammarino, sia minimamente
compromesso. Sembrami del resto che la condotta mia, fin qui, ha
dovuto dar prova al Sovrano Consiglio Principe, che ben ho saputo
aggiungere ad una sufficiente intelligenza, molta prudenza».
Il
momento storico era delicatissimo per la penisola italiana, e San
Marino non poteva assolutamente permettersi il lusso di perdere il
proprio rappresentante diplomatico in Francia, con l’incognita di
rimanere senza contatti appropriati col suo grande protettore
Napoleone III, in una fase in cui il regno piemontese stava sempre
più estendendosi.
Furono perciò velocemente accantonati i preconcetti di natura
repubblicana: il 21 aprile il Consiglio optò di accordare il titolo
richiesto a D’Avigdor, a cui fu scritto un paio di giorni dopo per
comunicargli che era stato promosso al grado di Cavalier Gran Croce
dell'Ordine di San Marino, e che gli era stato conferito il titolo
di Duca d'Acquaviva.
Vi
era però una condizione, ovvero: «che la pubblicazione di tale atto
straordinario e singolare e la spedizione del Diploma debba essere
fatta nella circostanza solenne in cui la Repubblica potrà
inaugurare la sua rappresentanza ufficiale presso la Corte di
Torino».
Il
titolo veniva concesso, insomma, ma si chiedeva a D’Avigdor
d’impegnarsi al massimo per reperire un valido rappresentante
diplomatico sammarinese presso quella corte così da appianare le
forti divergenze che in quel momento sussistevano con le autorità
piemontesi.
Cavour, infatti, già tramite una lettera accusatoria inviata alla
Reggenza nel maggio 1860 aveva affermato che «i malviventi delle
Romagne, ed i disertori del R.o Esercito trovano facile e sicuro
asilo sul territorio di codesta Repubblica di S. Marino, e che non
venendovi né invigilati né repressi, fanno liberamente scorrerie nei
paesi confinanti, donde commessevi invasioni e reati, ritornano
impunemente a ricettarsi nel dominio San Marinese. La stima che il
Governo del Re professa per i Rettori di codesto libero paese, lo
rende persuaso che tale abuso di ospitalità, avviene a loro
insaputa, e contro alle loro intenzioni. Ma le S.S.V.V. Illme
sentiranno, che per una parte la tutela che ci deve alla morale e
quiete pubblica non consentirebbe al R.o Governo di rimanersi
indifferente ad un fatto, da cui vengono minacciate le sostanze e le
persone dei suoi sudditi, e che per altra parte la tolleranza, che
continuassero a trovare sul territorio di S. Marino pubblici
malfattori, non potrebbe a meno di nuocere alla riputazione della
Repubblica, ed alle sue relazioni cogli Stati vicini. Ho pertanto
intera fiducia, che fatte avvertite di questo stato di cose, le
S.S.V.V.Illme vorranno prendere pronti e severi provvedimenti per
andarvi al riparo, o niegando assolutamente l'ingresso sul
territorio della Repubblica a malandrini e disertori, od almeno
impedendoli rigorosamente, una volta che vi sieno penetrati,
dall'uscirne a manomettere le proprietà dei paesi finittimi. Spero
che i riscontri, che riceverò dalle S.S.V.V.Illme, daranno al
Governo del Re piena sicurezza a questo riguardo».
D’Avigdor
rispose con varie lettere successive mostrandosi poco soddisfatto
per il vincolo che gli era stato imposto, ma alla fine garantì che
avrebbe cercato «il mezzo più prudente affinché la Repubblica sia
rappresentata a Torino senza svegliare la suscettibilità del Re
d'Italia».
A
questo punto il governo sammarinese si sentì rinfrancato, e scrisse
l'11 maggio al suo diplomatico parigino per comunicargli i motivi
delle difficoltà avute nel conferimento del titolo da lui richiesto:
«Il
Generale Consiglio conosce da lungo tempo con quanto ardore Ella si
adoperi costantemente pel benessere della nostra Repubblica; sa
benissimo quanta sollecitudine Ella abbia posta in tutte le missioni
che le vennero affidate; e dal passato traendo argomento per
l'avvenire ha lui profonda convinzione, che in lei non verrà meno
giammai l'interessamento che ha sempre preso per le cose nostre. Non
poteva quindi supporre senza offesa alla propria coscienza e senza
far torto a V.S.Illma, che Ella avesse mestieri di eccitamenti di
forza alcuna per operare con tutta alacrità a vantaggio di questa
Repubblica. Ma trattavasi di decretare un distintivo di onore non
mai conferito in tanti secoli di politica esistenza, e trattavasi di
creare un fatto tutto nuovo, e se non continuerà, certo poco adatto
alle Costituzioni del Paese: era quindi necessario giustificare
presso la posterità questo atto straordinario ed inusitato;
bisognava che apparisse dai libri Consiliari che il Senatoconsulto
venne fatto per una occasione solenne e faciente epoca nei Fasti
Repubblicani, sì che i posteri non s'avvisassero di imitare questo
esempio, né sorgesse in alcuno la speranza di conseguire simile
onore se non all'occorrenza di avvenimenti al tutto straordinari e
di natura conforme a quello onde nel verbale della Seduta Consiliare
resta motivato il Senatoconsulto sopradetto. E poiché molto rare per
non dire impossibili saranno le occasioni simili a quella in cui la
Repubblica nostra verrà formalmente riconosciuta dal Re d'Italia,
così ne sembra che da ciò si debba trarne un argomento di maggior
decoro per V.S.Illma, la quale avrà conseguito un titolo d'onore che
altri non potrà ottenere e che rimarrà nella famiglia di Lei come
fatto eccezionale ed unico nella Storia Sammarinese, e come memoria
di un avvenimento felicissimo per la Repubblica».
In
definitiva la Repubblica di San Marino conferiva tale titolo
nobiliare in via del tutto eccezionale, con la quasi certezza che un
simile fatto non sarebbe mai più capitato.
In
realtà si era aperta una porta che in seguito si sarebbe dimostrata
di difficile chiusura. Infatti D’Avigdor due anni dopo richiese un
altro titolo, questa volta per una sua parente (Maria Carolina
Payart de Fitz-Jamese), che fu nominata senza tante remore Duchessa
di Faetano dal Consiglio del 7 dicembre 1863.
Nel
1865 vennero conferiti ad altri richiedenti i titoli di Conte di
Montecchio, di Contessa di Fiorentino e di Duca di Casole; negli
anni seguenti parecchie altre onorificenze ancora.
Diversi di questi titoli nobiliari furono assegnati per benemerenze
e servizi resi a San Marino o per attirare le simpatie e la
benevolenza di qualche altolocato personaggio del panorama politico
internazionale, altri invece solo perché chi li riceveva era
disposto a versare nelle casse pubbliche sammarinesi somme
considerevoli.
Siamo ancora in un periodo storico in cui un’onorificenza e la
qualifica di barone, conte, marchese, duca, ecc. permettevano spesso
l’ingresso in ambienti politici e sociali elitari e assai riservati,
per cui chi aveva qualche interesse specifico per richiedere simili
titoli onorifici o magari solo motivi legati all’accrescimento del
proprio blasone e prestigio personale, e se li poteva permettere
economicamente, li rimediava procurandoseli presso gli Stati
disposti a conferirli.
Nei
primi anni ’60 dell’Ottocento, dunque, dopo che D’Avigdor aveva
aperto la strada col suo titolo di Duca di Acquaviva, lo Stato
sammarinese si rese conto che per far fronte ai nuovi grandi bisogni
economici della piccola repubblica, gettata con l’unificazione del
regno italiano ex abrupto in una dimensione politica, diplomatica e
sociale molto più grande e articolata, e quindi anche più
dispendiosa, di quella a cui era da secoli abituata, per rimediare
in fretta denaro la via più rapida, più facile e più conveniente,
perché i costi erano minimi rispetto ai profitti, era quella legata
alla distribuzione delle onorificenze dietro versamento di cifre
cospicue.
All’epoca in realtà si preferiva parlare di omaggi, donativi,
generosi regali da parte di chi ambiva ad un titolo sammarinese,
piuttosto che di compravendita, perché in parecchi pensavano che
simile pratica fosse immorale e pericolosa, nonché contraria alla
sana tradizione pauperistica e patriarcale su cui San Marino si
reggeva da secoli.
Il
bisogno delle casse statali era tuttavia reale e incalzante, per
cui, non essendoci al momento altre possibilità finanziarie per
incrementarle prontamente, si accantonarono i pregiudizi d’indole
repubblicana/tradizionalista e si cominciò a distribuirle senza
troppe crisi di coscienza.
Nel maggio del 1866 il Consiglio giunse addirittura
alla deliberazione che nessuna onorificenza dovesse essere conferita
ad offerte inferiori alle 1.000 lire, cifra assai ragguardevole per
l'epoca, visto che il medico primario della Repubblica, ovvero uno
dei pochi funzionari locali che disponeva di uno stipendio piuttosto
elevato, in quel periodo percepiva come retribuzione annua 1.500
lire.
Questi costi vennero negli anni seguenti ritoccati al rialzo,
soprattutto quelli relativi ai titoli nobiliari, variando da un
prezzo minimo di 6/8.000 lire per un titolo di barone, alle 60.000
lire date dalla signora Maria Antonietta Andrè di Parigi per un
titolo di duchessa. Con questi soldi si avviarono nel 1884 i lavori
per edificare il nuovo Palazzo Pubblico.
Chiariti i motivi per cui la Repubblica di San Marino è giunta a
istituire e distribuire i titoli nobiliari, e il ruolo avuto in
tutta l’operazione da D’Avigdor, è lecito chiedersi perché costui
domandasse proprio il predicato nobiliare “d’Acquaviva” piuttosto
che un altro, visto che tale nome per i sammarinesi si deve e si
riferisce solo ad un luogo dove vi è una modesta sorgente d’acqua.
Si
possono solo avanzare ipotesi in merito, perché egli non ha mai
motivato per iscritto le cause della specificità della sua
richiesta. Probabilmente lo fece perché tra tutti i toponimi
presenti nella repubblica, Acquaviva era quello che più di tutti
risultava altisonante e nobilitante.
Infatti già dal X secolo esisteva in Italia un’antica e potente
famiglia nobile di conti e duchi (conti di San Flaviano e duchi di
Atri,) che si chiamava proprio Acquaviva, forse proveniente dalla
Baviera, che aveva acquisito parecchi domini nel napoletano, in
Abruzzo e nelle Marche, diventando una delle maggiori casate del
regno di Napoli.
Presentandosi come Duca di Acquaviva, D’Avigdor, che non doveva
essere certamente personaggio morigerato,
qualora si fosse proposto a qualcuno col suo nuovo titolo avrebbe
potuto giocare sull’ambiguità facendo ipotizzare di essere un
discendente diretto di questa antica e nobilissima famiglia, perché
era assai improbabile che gli si chiedesse la reale provenienza del
suo predicato.
D’altra parte il predicato nobiliare era importante quanto il titolo
stesso, come risulta dalla storia del secondo alto titolato di
Acquaviva: la contessa Ottilia Heyroth Wagener di Berlino, nominata
Duchessa di Acquaviva nel 1876.
Questa ricca signora nel 1875 aveva chiesto ed ottenuto dal
Consiglio di San Marino la possibilità di acquistare per 5.000 lire
un podere nella parrocchia di Serravalle, precisamente in località
denominata “Rancidello”.
Avanzando questa richiesta, la contessa si era dichiarata
disponibile a versare 18.000 lire (lo stipendiato sammarinese con la
paga più alta, ovvero il chirurgo, in quel momento percepiva 2.500
lire all’anno, un operaio meno di 4 lire al giorno) per il titolo di
Duchessa di Rancidello.
Il
Consiglio, vista la generosa offerta, non ebbe problemi a conferire
il titolo richiesto, ma un anno dopo, in data 25 aprile, fu
costretto a ridiscutere un’altra petizione da parte della Duchessa
che «per evitare i motteggi e gli Epigrammi che si vanno facendo
sulla parola Rancidello» domandava «la surrogazione di quel
Predicato in quello di Acquaviva» offrendo ulteriori 2.000 lire.
Il
Consiglio anche in questa occasione fu d’accordo nell’esaudire
l’istanza della richiedente, per cui da ora in poi la signora
Ottilia Heyroth Wagener, che tra i tanti omaggi fatti a San Marino
donò anche la Statua della Libertà eretta sul Pianello e inaugurata
il 30 settembre 1876, divenne ufficialmente la Duchessa di Acquaviva.
Il 2
ottobre 1876, dopo aver dimorato per qualche giorno a San Marino per
poter essere presente all’inaugurazione della statua da lei
regalata, nel tornarsene a Roma, dove abitualmente risiedeva, la
Duchessa volle transitare per Acquaviva, curiosa escursione di cui
abbiamo un’attenta cronaca grazie all’avvocato Felice
Caivano-Schipani, che faceva parte del seguito della Wagener:
«Dopo percorse quelle ridentissime vie, che serpeggiano attorno i
verdeggianti monti di S. Marino - ci dice tale resoconto - e da ove
vedesi lontano lontano l’azzurro del mare, ed estatico riman lo
sguardo nel rimirar quei feudi, qua e là coronati di castelli, e
quei buroni, e quelle rocce, e quel fiume, s’arriva finalmente ad
Acquaviva.
E’
questo un esteso ed ameno villaggio, sito al pendio di un alto
monte.
Poche case rurali, il palazzo del Consigliere Masi, la casa
parrocchiale e la Chiesa sonovi sparse.
Esso
trae nome da una sorgente, che, da duro macigno, scaturisce
limpidissima acqua, dalla quale grandi benefizi si potrebbero
rilevare, bene usandola per la salute.
All’arrivo della nobile brigata - evviva la Duchessa - fu il grido
di tutti quei buoni villici, aggruppati nel cortile della casa Masi,
per dove la nobile Donna dovea passare. Tutte quelle amabili
forosette, con la loro usuale cordialità, e con modi semplici ed
ingenui presentarono la Duchessa di bei fiori. Anch’egli il Comm.
Masi offrille un magnifico mazzetto, mentre invitavala a discendere
dalla carrozza.
L’Arciprete di lì fu primo ad esserle presentato. Ei la pregò di
largire qualche sussidio a quei poverelli e di far ultimare la
costruzione di quel Cimitero, ed Ella promise di soddisfare tale
desiderio di quei buoni abitanti.
Una
colazione ebbe poi luogo, e fu profferta con gusto.
Anche questa volta il Dottore Valente improvvisò la canzone d’addio
alla Repubblica, e con altro sonetto diè l’addio alla geniale
Duchessa.
Propinò di poi un brindisi al Conte Belluzzi, il quale rispose gli
del pari, e fece poi udire parecchi brani di alcune sue poesie,
scritte interamente ad imitazione dantesca.
Intanto il Galletti, il Tonnini ed il Masi eransi recati sul fonte,
per osservare da vicino quali restauri v’erano necessari. Al loro
ritorno, e specialmente sulla richiesta del Masi, la Duchessa
dichiarò di volere avvantaggiare le condizioni del villaggio,
restaurando a sue spese quel fonte, da ricostruire a migliore forma,
e dando al Cimitero la nuova affacciata.
Tra
l’allegria e la beneficienza, erasi pure appressata l’ora della
partenza, e fu giocoforza congedarsi. La Duchessa montò sul suo
cocchio, salutata dagli – evviva – clamorosi di quel contado. Verso
la disvolta della via che mena per Rimini, diè un altro saluto.
Allora il Malpeli le rivolse il commovente ed affettuoso addio con
questi versi:
Dunque n’andrai, o generosa Dama,
Da
questa che ami tanto antica terra,
Di
presto riaverti ardente brama,
Riconoscente il cor ‘ei pur rinserra.
A
lodarti, o Gentil, mia lingua è grama,
E il
mio pensiero si confonde ed erra.
Col
core in man, con ogni affetto mio
Solo
dirò – Sublime Donna, addio. –
Uno
sventolar di fazzoletti fu continuato, finché la vista non si smarrì
nello spazio. Dopo due ore erasi di già in Rimini».
Partita la Duchessa, il piccolo villaggio di Acquaviva non esaurì le
sue potenzialità nobilitanti: infatti nella seduta del Consiglio
Principe e Sovrano del 12 settembre 1899, per la cifra di 9.000
lire, fu assegnato al cavalier Giuseppe Tanfani di Ancona
l’altisonante titolo di Barone di Acquaviva.
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