Nel ’99, in ricorrenza del
centenario della Mutuo Soccorso Femminile, ho avuto occasione di
interessarmi alla donna nella storia sammarinese e di scrivere un
testo in proposito, a cui rimando per ciò su cui non mi soffermerò
più di tanto stasera.
Infatti stasera non volevo ripetere gli stessi
argomenti, ma arricchire il discorso parlandovi più che altro di
figure umane vive del nostro passato. Infatti, senza fare discorsi
troppo accademici, preferisco in questa occasione parlarvi di un
tipo particolare di donna, la donna diciamo così deviante, la donna
considerata anormale, la donna di cui ci sono rimaste copiosissime
documentazioni grazie soprattutto agli archivi giudiziari.
Io ho incominciato già alcuni anni fa
ad esaminare i nostri archivi giudiziari, ricavandone notizie da cui
ho potuto elaborare anche libri abbastanza innovativi rispetto alla
nostra storiografia usuale. Gli atti criminali del passato sono una
fonte inesauribile di notizie, soprattutto per una categoria come la
donna, che di informazioni dal passato ce ne ha tramandate proprio
poche.
C’è un motivo ben preciso per questo: la donna nel
passato e fino a pochi anni fa, la brava donna, era la donna
silenziosa, la donna anonima, la donna emarginata, la donna succube
di qualcuno, del marito, del padre, del fratello, della famiglia.
Quindi una donna era tanto più da onorare quanto più stava zitta. E
questo abito sociale che essa doveva indossare con costanza ci porta
ad avere ovviamente pochi documenti e scarsi ragguagli sulle brave
donne. Praticamente non abbiamo una brava donna del passato più
remoto che sia rimasta nella nostra storia.
Possediamo invece tanti dati sulle “devianti”,
quelle che in passato non erano considerate brave donne, quelle cioè
che rispetto alla mentalità dominante erano considerate figure da
emarginare, donne da isolare o addirittura da perseguire penalmente.
Stasera cercherò di fornirvi ritratti di donne di
tale genere. Questo non significa che sono tutte donne cattive
quelle che vi presenterò, né che in passato le donne fossero tutte
da tribunale penale. Anzi, le vere donne cattive sono poche, almeno
quelle che ho potuto verificare io tramite i miei studi diretti o
indiretti. Ne ho conosciuta bene una, per la verità, su cui ho
scritto anche un racconto storico. Questa signora è protagonista di
un fatto accaduto in Borgo nel 1830. In questa vicenda lei è
l’amante di un uomo sposato, e insieme avvelenano la moglie ricca di
lui con l’arsenico sciolto nelle pietanze che le servivano. Lo fanno
in maniera maldestra tanto che il medico curante se ne accorge e li
denuncia all’autorità giudiziaria. Alla fine entrambi verranno
condannati a morte, pena che a lui verrà trasformata in seguito
nell’ergastolo, mentre lei riuscirà a fuggire prima di essere
arrestata.
Esaminando altri casi si evince che spesso le
donne sono vittime incolpevoli di persecuzioni giudiziarie. Anche
qui vi cito un esempio di un altro fatto che ho ritrovato nelle
carte processuali di quegli anni: una donna ammalata a letto,
incinta, con accanto il suo figlioletto piccolo, viene violentata da
un amico del marito entrato in casa con una scusa mentre il marito
non c’era Approfitta immediatamente della situazione per violentare
la donna, che naturalmente lo denuncia: tuttavia il procedimento
processuale viene avviato per adulterio, non per violenza carnale.
Si parte dal presupposto, insomma, che la donna avesse condotto in
tentazione l’uomo e quindi avesse provocato il tutto. Era talmente
evidente che non era stata lei la colpevole che il processo porta
alla condanna di lui, comunque questa era la mentalità del passato:
si partiva quasi sempre dal presupposto che la donna fosse la
colpevole, per cui molte donne considerate in passato ree erano in
realtà prevalentemente vittime.
Fatta questa premessa che mi sembra doverosa,
perché vi parlerò soprattutto di donne che hanno avuto a che fare
con la giustizia, e non vorrei trasmettere un’immagine distorta
della figura femminile del passato, farei partire questa nostra
chiacchierata proprio dal primo fondamentale documento della storia
sammarinese, documento a se stante, ma comunque documento
importantissimo per tanti motivi: la leggenda di San Marino.
Già qui troviamo due ritratti femminili e due
stereotipi tipici della donna del passato: uno positivo e uno
negativo. La leggenda penso sia ben conosciuta da tutti, per cui non
sto a riassumerla. E’ stata scritta agli inizi del decimo secolo, ed
è frutto di una tradizione orale, probabilmente molto precedente,
raccolta e redatta da un anonimo agiografo.
Una leggenda è un documento da esaminare sempre
con estrema circospezione, perché non nasce come documento
storiografico, ma come racconto piacevole, perché le leggende
venivano lette durante i riti sacri da quei pochi alfabetizzati che
vi erano.
Le leggende sono piene di cliché e di stereotipi,
così come succede per tanti nostri film odierni, che piacciono alle
masse perché hanno dentro un po’ di sesso, un po’ di violenza, un
lieto fine, ecc., ovvero messaggi che si vogliono ascoltare.
All’epoca i gusti degli uomini erano più o meno
gli stessi, quindi anche i generi letterari del periodo dovevano
sottostare a certi cliché. Per questo le leggende agiografiche, cioè
quelle legate ai santi, sono fatte più o meno tutte nella stessa
maniera. Tanto è vero che la donna che insegue Marino nella
leggenda, la sua presunta moglie, la troviamo come modello anche in
altre leggende riguardanti altri santi, quindi è uno stereotipo.
Però se una leggenda la si legge in maniera simbolica e in maniera
ermeneutica, riesce a dare grandi informazioni sull’epoca in cui è
stata scritta, sulla mentalità da cui è scaturita, sulla realtà
sociale di cui ci parla, sulle credenze dell’epoca, ecc.
Nella leggenda di San Marino ci vengono presentate
due donne: la famosa Donna Felicita o Felicissima, che insieme a
Marino è la vera responsabile della nostra dimensione statuale,
perché senza il suo dono non ci sarebbe lo Stato di San Marino, e
un’altra donna anonima, perché l’agiografo non le affida nemmeno un
nome, che è la presunta moglie di Marino, da cui lui era fuggito,
almeno stando al racconto di lei.
Per quanto si è detto prima, occorre leggere
simbolicamente queste due figure femminili: la donna persecutrice
dell’uomo è uno stereotipo che risale addirittura alle origini della
razza umana, ovvero ad Adamo ed Eva. Infatti Eva che induce in
tentazione Adamo con la famosa mela è un classico di una certa
cultura cattolica sessuofobica che vede la donna come tentatrice e
perenne pericolo per l’uomo. Naturalmente la cultura cattolica verso
le donne non è soltanto questa. Se noi andiamo ad esaminare le
figure femminili che ci sono nella Bibbia, troviamo anche altri tipi
di donne: donne forti, donne che in qualche maniera contribuiscono
alle vicende narrate nella Bibbia. Però troviamo anche la donna
tentatrice, una donna che non è altro che il demonio travestito con
abiti femminili. Ovviamente la donna anonima della leggenda si
richiama proprio a questo tipo di cliché.
Ma anche l’altra donna, la donna positiva, donna
Felicita, rispecchia un cliché. Infatti è una donna che diventa
positiva nel momento in cui dona all’uomo il suo patrimonio,
nell’istante in cui chiede perdono all’uomo, Marino in questo caso,
nell’attimo in cui si converte a quello che è la dottrina dell’uomo.
Se insomma leggiamo simbolicamente anche questa figura femminile,
ritroviamo la tipica donna che il passato, anche recente, voleva:
una donna che in qualche maniera fosse succube di qualcuno,
soprattutto di una figura maschile.
D’altra parte se noi andiamo a leggere i nostri
statuti o alcune leggi dei tempi passati, dal XIV al XX secolo,
troviamo che la donna è sempre equiparata all’infante; cioè la donna
è considerata come un bambino, quindi deve stare sotto l’ala
protettrice di qualcuno. Infatti la donna non può nemmeno alienare i
suoi beni personali senza l’autorizzazione del marito, del padre o
del fratello. Essa non è grado di fare niente senza il permesso di
una figura maschile. Ci sono leggi con questa logica lungo tutta la
nostra storia che arrivano fin dentro l’epoca fascista.
D’altra parte sappiamo bene che l’evoluzione
femminile, cioè il momento in cui la donna inizia a rivendicare i
suoi diritti politici e comincia a pretendere di essere parificata
all’uomo, a San Marino inizia dopo la caduta del Fascismo. Anzi,
direi anche successivamente: dopo il governo delle Sinistre che non
erano favorevoli alla parificazione della donna, negli anni ‘40/’50
e nemmeno in precedenza, perché essa veniva considerata pienamente
assoggettata al cattolicesimo, quindi alla Democrazia Cristiana.
Tornando indietro nel passato, perché non volevo
sfociare in tempi troppo vicini a noi, una donna doveva quindi avere
tali caratteristiche per essere considerata socialmente accettabile,
per cui grande importanza aveva per lei la riservatezza: per
esempio, non le era permesso uscire da sola di sera, non doveva
tenere comportamenti ambigui, equivoci o promiscui con i maschi,
perché subito proliferavano le chiacchiere che andavano ad incidere
sull’onore della persona, sia maschile che femminile.
La donna per essere onorata doveva essere dunque
anonima e riservata. La donna onorata era la donna ben accetta da
tutti, che veniva accolta nella famiglie, e con cui si poteva
chiacchierare tranquillamente senza paura di farsi notare. La donna
priva di onore era invece una donna che veniva emarginata: la prima
emarginazione era spesso proprio della sua stessa famiglia. Tante
volte mi sono imbattuto in casi di donne che sono rimaste incinte,
magari per violenza carnale: i primi ad accusarle o a emarginarle
erano spesso proprio i famigliari. Queste disgraziate
improvvisamente si trovavano prive di ogni tipo di protezione. Erano
donne disonorate, emarginate, spesso allontanate dal paese.
Clamoroso il caso delle donne occultate, come
venivano definite. I rapporti sessuali prematrimoniali erano
frequenti anche in passato, soprattutto nei ceti più poveri, quindi
ogni tanto capitava che qualcuna rimanesse incinta. Abbiamo la
certezza che pratiche di coito interrotto già esistevano a metà del
1700 a San Marino, quindi da quel momento in avanti c’è senza dubbio
una qualche forma di cultura della prevenzione, anche se non siamo
ovviamente alla contraccezione di stampo moderno.
Possiamo registrare moltissimi casi, tutti quelli
che finiscono in tribunale, di donne che rimangono incinte senza
essere sposate. Cosa succedeva a queste donne? L’iter era sempre più
o meno lo stesso, perché erano quasi sempre appartenenti ai ceti
poveri, mai ai ceti ricchi, per un motivo preciso: perché nei ceti
ricchi una donna era molto più controllata, non c’era mai
promiscuità tra donna e uomo, o comunque era raro.
Nei ceti poveri invece vi erano moltissimi casi di
donne che per necessità di sopravvivenza dovevano fare le contadine,
o le serve, o le manovali tra i muratori, o le becchine. Esistono
tipi femminili di ogni specie perché la donna dei ceti poveri, e
teniamo presente che a San Marino fino agli inizi del ‘900 l’80%
della popolazione era contadina e poverissima, era costretta a
vivere spesso in promiscuità. Soprattutto le serve erano costrette
ad andare via da casa giovanissime ed erano lasciate in balia dei
loro padroni, che potevano essere moralmente ineccepibili, ma che
potevano pretendere anche prestazioni sessuali pena il
licenziamento.
Cosa succedeva dunque se una donna rimaneva
incinta? Succedeva quasi sempre che venisse occultata.
L’occultamento serviva a nascondere il misfatto e a togliere lo
scandalo. In genere veniva nascosta fuori territorio, presso qualche
casolare di contadini che venivano pagati per questo. Ci sono vari
tipi di occultamento: l’occultamento pagato da colui che aveva
provocato il danno; l’occultamento indotto dal tribunale, perché il
tribunale stesso non di rado provvedeva a rimediare i soldi per
mandare queste donne a partorire lontano da sguardi indiscreti;
l’occultamento in cui la stessa donna in qualche modo cercava di
arrangiarsi per poter avere il figlio di nascosto. Ricordiamoci che
ciò dipendeva dal fatto che era assolutamente vietato l’aborto;
siamo in epoche di cultura rigidamente cattolica, quindi l’aborto
era in ogni caso proibito, per cui la donna doveva partorire, anche
se di solito, non potendo allevare suo figlio, lo abbandonava agli
enti dell’epoca. C’era infatti tutta una organizzazione per i
numerosi neonati abbandonati, organizzazione che prendeva avvio dal
cosiddetto bastardaro, che era colui che portava i bambini
abbandonati presso i brefotrofi. Da noi il più vicino era a Rimini.
Ovviamente abbandonare un bambino costava perché sia il bastardaro,
sia i passaggi successivi dovevano essere pagati. Questo in effetti
era il problema maggiore, non quello che succedeva alla donna,
perché per i ceti poveri erano cifre non sempre facilmente
rimediabili.
Entrati negli orfanotrofi questi bambini spesso
morivano nel primo anno di vita. A Rimini vi era una percentuale
circa dell’80% dei neonati che morivano entro il primo anno di vita.
Vi sono testimonianze anche di ospedali che avevano addirittura il
100% di mortalità nel primo anno di vita, perché i bambini morivano
di freddo, di fame o di malattie, essendo l’igiene estremamente
scarsa nelle epoche di cui stiamo parlando.
Che fine faceva in genere la madre? Se il paese
non aveva saputo niente del misfatto accadutole, poteva rientrare
nella sua vita normale, ma se invece si era venuto a conoscenza di
qualcosa, o aveva dei sospetti allora per questa donna si aprivano
vie molto più tortuose. La prima era la prostituzione, perché una
donna disonorata era una donna a cui non veniva concesso lavoro e
nemmeno troppa amicizia. Queste disgraziate spesso diventavano le
cosiddette casanolanti, donne che non possedevano niente ed
erano costrette a vivere in affitto in casa di qualcuno. Il nolo,
dai documenti che ci sono pervenuti, risulta spesso pagato con
prestazioni sessuali, con la prostituzione sistematica a beneficio
del padrone di casa. Le casanolanti sono la categoria più
disgraziata delle donne del passato, però se calcoliamo che l’80%
della gente a San Marino agli inizi del 900 viveva facendo i
contadini, cioè il mestiere più povero che ci fosse, capiamo bene
che il fenomeno delle serve/bambine doveva essere piuttosto
ricorrente, non tanto per i soldi che percepivano come paga, ma
soprattutto perché erano una bocca in meno da sfamare Ci sono
arrivati molti documenti sul problema, ma molti altri non ci sono
arrivati, probabilmente molti fatti non sono stati nemmeno
denunciati, molte cose non le sappiamo, anche se possiamo
immaginarle e possiamo andare statisticamente a determinare un
modello.
Le prostitute, visto che parliamo della
prostituzione, sono sicuramente presenti a San Marino fin dall’epoca
comunale. La prostituzione era tollerata, era anzi vista come una
valida alternativa alla sodomia, che era assolutamente
criminalizzata in questi secoli. Era tollerata purché le prostitute
non creassero scandalo: la parola chiave di tutto ciò di cui sto
parlando stasera è proprio “scandalo”. Come facevano a fare scandalo
le prostitute? Magari provocando qualche maschio: possediamo vari
documenti legati a duelli e ferimenti per una prostituta. Abbiamo
documenti anche di altro genere: per esempio alla fine del 1500 i
cappuccini fecero richiesta al Consiglio per avere un muro di cinta,
perché diverse prostitute andavano ad amoreggiare nei boschi intorno
al convento e disturbavano l’orazione. Questo era un altro modo di
dare scandalo, di ferire le coscienze dei tanti benpensanti, cioè
avere atteggiamenti di natura sessuale in pubblico.
La nostra storia è abbastanza statica per molti
secoli, fino alla seconda metà del 1800, per cui i casi che vi
porto, pur essendo del 1500, avrebbero potuto essere
indifferentemente anche dei secoli successivi. La caratteristica del
nostro passato, che ci ha portati ad essere tendenzialmente
conservatori come popolo, è proprio questa staticità. La nostra
storia ha degli alti e bassi da un punto di vista economico, perché
ci sono dei secoli, come il Quattrocento, più ricchi di altri, però
dal punto di vista della mentalità, della cultura, delle
istituzioni, delle normative in genere rimaniamo abbastanza
congelati e statici. D’altra parte sappiamo bene che gli Statuti del
Seicento hanno avuto peso determinante per lunghi secoli, tanto che
ancora oggi alcune nostre norme, soprattutto di natura
istituzionale, derivano proprio da loro.
Per continuare a parlare di questo argomento,
posso accennare ad una certa donna Oliva del Borgo che, nel 1552,
insieme a sua madre e alla sorella, venne espulsa dal territorio a
tempo indeterminato, o almeno fino al perdono del Consiglio. Nello
stesso anno venne espulsa anche una certa Maria Lombarda, sempre del
Borgo, che era una sede prediletta dalle prostitute perché vi si
svolgeva ogni settimana il mercato e periodicamente qualche fiera.
Altre espulsioni di prostitute le registriamo negli anni a seguire.
Nel 1585 vennero pubblicamente frustate due prostitute, la Cicerchia
e la Felicita, poi furono espulse perché comunque continuarono nel
loro mestiere.
Un altro caso interessante è quello della Pallotta
e di sua figlia Felicita, di cui ci dicono qualcosa gli Atti del
Consiglio:”Trovandosi a usar carnalmente con alcuno fuor di casa,
cioè negli orti, strade, o altrove, fossi usata senza indugio la
frusta e poi se non bastava l’espulsione”.
Le prostitute venivano sistematicamente espulse,
però in genere dopo rientravano in territorio, ovviamente se vi era
il perdono del Consiglio. Ben difficilmente potevano cessare le loro
pratiche, perché non avevano alternativa, non avevano altri lavori.
In passato, infatti, non erano tanti i mestieri a
cui le donne si potevano applicare, e le più povere si dovevano
adattare a quello che capitava. Per questo abbiamo la testimonianza
di molti casi di donne manovali che andavano a fare le braccianti
con i muratori, o altri casi di donne che svolgevano lavori pesanti
e degradanti. Anche la donna che faceva la contadina svolgeva
un’attività estremamente pesante. Altro lavoro tipico era quello di
serva. Giacoma delle Piagge era una di queste: essa dimorava in una
casa dei Begni per i quali faceva vari servizi, anche pesanti, come
trasportare l’acqua dalla cisterna del Pianello. E’ una donna che
era sempre alla fame, e che doveva anche prostituirsi a favore del
suo padrone per rimediare un tozzo di pane. Il suo mestiere però non
le basta per sopravvivere, tanto che deve chiedere anche
l’elemosina. In casa non ha nemmeno nulla con cui riscaldarsi la
sera, per cui spesso deve cercare la solidarietà di un’altra
casanolante che si chiama la Mazzochetta: insieme a volte rimediano
un pezzo di legno con cui riscaldarsi.
Caso analogo è quello della Caterina, che sconta
l’affitto lavorando e concedendosi al padrone Marcantonio.
Di casi simili ne abbiamo tanti altri, perché la
donna in genere, e soprattutto la donna sola, era l’anello debole
della società del passato, che era maschilista al 100%. Se una
donna, come ho detto prima, aveva una qualche protezione, non aveva
nulla da temere, ma se rimaneva sola, era puntualmente chiacchierata
e malvista perché era fuori dai ruoli abituali di madre, moglie e
figlia, quindi veniva perseguitata.
Anche intorno a questa emarginazione avrei tanti
casi di cui parlare: per esempio vi è una donna che si chiama Santa,
che vive a metà 700. E’ una vedova, ma anche le vedove subivano
spesso lo stesso tipo di persecuzione. Santa cerca di guadagnarsi la
vita vendendo ciambelle come ambulante nel mercato di Borgo, o dove
capitava. I giovani la perseguitano, le tirano continuamente sassi
ridendo, e lei dice in alcuni documenti che ci sono giunti:”Come se
io fossi donna di malavita o pazza”; invece era soltanto una donna
sola, una donna che non aveva chi la proteggeva.
Un altro caso, una vedova di 29 anni, una certa
Vittoria, nel 1758 entra in conflitto con un certo Giulio Cesare di
Borgo, che le aveva malmenato il bambino. Dalla diatriba che nasce
da lì in poi tra i due chi ha la peggio è proprio Vittoria, perché
Giulio Cesare comincia a perseguitarla spargendo veleni sul suo
conto, dicendo che tutte le sere vedeva qualcuno che entrava e
usciva dalla sua casa, etichettandola come donna di malaffare.
Invece poi altri testimoni diranno che non era vero nulla. Però
bastava questo per disonorare una donna e per farla emarginare dalla
comunità.
Un altro caso ancora, Elisabetta, detta la
Morbidina, di Montegiardino, una giovane vedova che per campare
faceva i servizi in casa di un vedovo di 68 anni. Costui ad un certo
punto comincia a prendersi delle libertà, ma lei è costretta a
lasciar fare perché altrimenti le saltava il lavoro, cosa che non si
poteva permettere. Il paese si accorge della tresca e comincia a
mormorare, soprattutto perché la grande differenza di età era
malvista. Alla fine lui va in galera perché il suo comportamento era
considerato socialmente riprovevole, ma lei viene marchiata
probabilmente per sempre.
Altro mestiere tipicamente femminile era quello di
mammana. Le mammane, ovvero le levatrici, erano donne estremamente
ben considerate dalla società. Fino all’800 e anche oltre a San
Marino chi aiuta le donne a partorire in genere non era il medico,
ma la levatrice, la mammana. Queste donne erano mestieranti, non
avevano studiato, ma avevano imparato il mestiere seguendo altre
mammane. Queste donne oltre che ben viste in paese erano usualmente
anche ben pagate, ovviamente dalle famiglie che se lo potevano
permettere, altrimenti venivano pagate in natura con cibo e prodotti
vari.
Altre figure ben viste, altre donne positive erano
le balie. C’erano tre tipi di balie: quelle per le famiglie ricche,
quelle per il ceto medio e quelle per i poveri. Le prime dovevano
avere certe caratteristiche anche fisiche, dovevano avere un bel
aspetto per non traumatizzare il bambino, perché stiamo parlando di
un periodo in cui la gente era anche fisicamente brutta, perché
malattie tipo il vaiolo, piuttosto frequente, o la cattiva
alimentazione segnavano il viso e debilitavano il corpo. Le balie
per le famiglie ricche erano ben pagate, però dovevano stare presso
la casa della famiglia per un anno, un anno e mezzo, ovvero il tempo
necessario per svezzare il bambino. Le balie invece per il ceto
medio stavano a casa propria, e i bambini venivano portati presso
loro, quindi guadagnavano di meno. Le balie per i poveri erano
quelle che andavano per pochi soldi presso gli orfanotrofi
soprattutto, perché gli orfanotrofi accoglievano tanti bambini
esposti, ovvero abbandonati, e dovevano nutrirli. In genere queste
balie provenivano da tutti i posti più poveri e dai monti, e
scendevano a Rimini, dove c’era il principale orfanotrofio della
zona, anche quotidianamente per svolgere la loro mansione per un
compenso che era molto basso, in genere la metà di quello di un
bracciante.
Posso anche parlarvi non solo di donne vittime, ma
anche di donne veramente cattive, come Giacoma l’Arrogante e
Giovanna la Bandita: della prima abbiamo notizie nel 1744 e della
seconda nel 1832. Sono infanticide e uccidono i loro neonati non
tanto per pura cattiveria, ma per disperazione dovuta all’estrema
miseria. Giacoma l’Arrogante partorisce in casa da sola, non ha
nessun aiuto, non ha nessuno, e in un gesto di totale smarrimento
strangola il neonato appena partorito.
Giovanna la bandita invece ha una storia un po’
complicata, perché si rifugia a San Marino da fuori confine
perseguitata dall’accusa di infanticidio. Qui diventa serva di una
famiglia per bene e ricca, ma rimane incinta da parte del padrone di
questa famiglia che la fa sposare al suo contadino, per togliere lo
scandalo. Alla fine partorisce, ma probabilmente uccide il bambino,
anche se dichiara che non lo aveva ammazzato, che era nato morto;
comunque lo seppellisce senza dire nulla a nessuno. La legge
dell’epoca non aveva grandi mezzi per confutare le informazioni
fornite dalla donna, per accusarla pienamente dell’infanticidio,
perché non c’era l’anagrafe e non occorreva registrare il bambino
appena nato. Non potendole dare la pena massima per l’impossibilità
di dimostrare che fosse un’assassina, viene sottoposta a tortura:
per tre giorni viene frustata nella piazza, mentre suo marito viene
inflitta una pena simbolica ma ugualmente faticosa: viene condannato
a sostituire il bue nel campo, ovvero a trascinare l’aratro. La
giustizia era anche molto concreta quella volta e scendeva a questi
livelli.
Le brave donne invece si sposavano, avevano figli
e una vita tranquilla. Però per farlo dovevano avere una dote; una
donna senza dote non poteva sposarsi. Qui posso fare anche qualche
cifra: si andava da un minimo di 30 scudi nei ceti bassi ad un
massimo di 1000 scudi per le donne benestanti. Si calcoli, per
capire il valore di queste cifre, che chi prendeva di più in quest’epoca
era il commissario della legge che prendeva 150 scudi all’anno,
ovvero 12 scudi circa al mese. 1000 scudi erano quindi una certa
cifra, ma era una dote indispensabile per sposare una figlia che
proveniva da una famiglia ricca e benestante.
Altre volte la dote veniva solo promessa, poi, non
potendola pagare, scoppiavano liti giudiziarie o anche di altra
natura tra genero e suocero: anche in questo caso, comunque, chi ci
rimetteva era di solito sempre la donna.
Volendo fare un esempio, possiamo parlare della
dote di Maria Antonia di Serravalle che nel 1775 prevedeva 63
bottoncini d’oro, 2 orecchini d’oro, 2 anelli, dei fili di granata
mescolati con perle false, 2 croci d’argento da collo, una spilla da
testa d’argento, 10 gonne e corsetti di vari colori, 5 busti e 15
fazzoletti da testa, uno scialle di seta rossa, 2 cuffie, 1 cuscino,
3 tovaglie, 13 salviette, e così via. Questo era una dote medio
bassa, una buona dote comunque.
Alcune famiglie abbienti di San Marino, per far
fronte all’impossibilità di molte ragazze o zitelle, come venivano
chiamate le giovani in età di marito, di avere una dote, istituirono
dei legati, di cui il più famoso era il legato Belluzzi, istituito
da Fabrizio Belluzzi nel 1622, che fornendo denaro alle più
bisognose permetteva a tante ragazze di sposarsi. Veniva assegnato
tutti gli anni, ed era una dote per tre zitelle che venivano scelte
dietro il parere del parroco e dei maggiorenti politici.
Molte famiglie abbienti per evitare di pagare doti
troppo elevate chiudevano le figlie in convento. I conventi del
passato sono quasi tutti dei ricettacoli di donne secondogenite
messe in convento per non spezzettare la proprietà, o di donne che
non potevano permettersi di pagare troppi scudi per la dote pur
appartenendo a famiglie abbienti. L’ingresso in convento non era
gratuito: nel nostro monastero delle clarisse ci volevano mediamente
3/400 scudi di dote per entrare. Però era sempre più conveniente che
pagarne 1000 per farle sposare; venivano fatti questi calcoli.
Erano però anche dei ricoveri per donne sole. La
stessa Lunardini fondatrice del Monastero delle Clarisse è colei che
porta tanti soldi per la costruzione di questo convento nel 17°
secolo. Lo fa nel momento in cui rimane orfana, quindi casca in
quella condizione di solitudine da cui bisognava assolutamente
fuggire perché altrimenti si era a rischio. Il convento fu una
risposta e un rifugio per molte donne sole in passato.
Veniamo ora brevemente ai divertimenti femminili
del passato, che non erano poi tanti. I riti religiosi, le messe
erano un momento di comunione nel vero senso della parola, momento
molto importante per le donne, soprattutto per quelle altolocate che
solitamente non potevano uscire più di tanto di casa. Per le donne
dei ceti più bassi il tipico modo di divertirsi era invece la
veglia, ovvero un momento in cui ci si ritrovava la sera per fare un
lavoro comunitario: gli uomini magari intrecciavano dei canestri, le
donne invece tessevano o facevano qualcos’altro. Queste veglie a
volte finivano con serate danzanti; qualcuno suonava poi si ballava;
erano momenti di divertimento semplice e popolare, ma erano anche
momenti in cui scoppiavano liti, risse, e partivano coltellate.
Anche qui vi parlerò di un caso concreto: nel 1866
scoppiò una rissa durante una di queste serate perché una bella
ragazza, Lucia, di circa 19 anni, sposata, si era recata a una di
queste veglie perché il marito era in emigrazione temporanea. A San
Marino la maggior parte della popolazione era contadina, e poteva
lavorare soltanto in certi mesi dell’anno, per cui nei mesi
invernali era costretta ad emigrare: andavano di solito a Roma, nel
Lazio o in Toscana a fare i braccianti o altri lavori. E’ quello a
cui è costretto il giovane marito di Lucia, ma lei vuole divertirsi
e si fa accompagnare dal fratello a questa veglia. Qui, però,
c’erano molti più uomini che donne, per cui lei ballò in
continuazione, fino alle tre di mattino. A un certo punto il
fratello decise però di portarla a casa perché, essendo sposata, non
doveva creare troppo scandalo. Ovviamente i giovani presenti non
furono d’accordo, per cui scoppiò una rissa gigantesca ed il
fratello venne ferito con una coltellata. Ovviamente abbiamo tante
notizie perché la vicenda andò a finire in tribunale.
Per concludere questa chiacchierata si può dire
che una lenta emancipazione femminile iniziò a San Marino nei primi
anni del Novecento. Il primo sciopero femminile locale fu del 1920,
quindi 30 anni dopo i primi scioperi femminili avvenuti in
Inghilterra, in America e in altri paesi. E’ lo sciopero delle donne
addette ad estirpare le erbacce nei campi coltivati.
La SUMS femminile, nata nel 1899, ha avuto un
grosso merito nell’aggregare le donne e nel contribuire alla loro
emancipazione. Prima c’erano alcune associazioni di pie donne che
portavano aiuto ai più bisognosi con spirito caritatevole cristiano.
La Mutuo Soccorso Femminile invece fu il primo grande momento di
associazionismo femminile nel senso moderno del termine, anche se
nasce per volontà di due uomini dell’ala riformista che a fine ‘800
cominciava a consolidarsi a San Marino.
In passato non era considerato importante per la
donna saper scrivere; in genere bastava che sapesse leggere, e
questa sola, quindi, le s’insegnava nei secoli scorsi. Non ci furono
scuole femminili a San Marino fino alla fine dell’ 800; c’era un
educandato presso il convento delle suore clarisse che dava
rudimentali istruzioni di natura linguistica, letteraria,
grammaticale, ma soprattutto istruiva le educande sul cucito, la
cucina ed i tipici lavori femminili.
Alla fine dell’800 cominciò a sorgere qualche
scuola che accettava anche le donne, però il fenomeno della
acculturazione femminile è molto lento: ci vorrà tutta la prima metà
del ‘900 per arrivare ad avere un numero importante di donne colte.
Nel 1865, anno del primo censimento sammarinese, su 7600 abitanti,
di cui la metà donne, solo 260 erano considerate donne “letterate”,
quindi un numero bassissimo.
La nostra è sempre stata una società contadina e
conservatrice che non dava valore a queste abilità: la donna per
essere brava doveva rientrare in quei ruoli che vi ho detto prima,
non era importante che sapesse leggere o scrivere.