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 Conferenza sulle donne emarginate
giugno 2002

 

Nel ’99, in ricorrenza del centenario della Mutuo Soccorso Femminile, ho avuto occasione di interessarmi alla donna nella storia sammarinese e di scrivere un testo in proposito, a cui rimando per ciò su cui non mi soffermerò più di tanto stasera.

Infatti stasera non volevo ripetere gli stessi argomenti, ma arricchire il discorso parlandovi più che altro di figure umane vive del nostro passato. Infatti, senza fare discorsi troppo accademici, preferisco in questa occasione parlarvi di un tipo particolare di donna, la donna diciamo così deviante, la donna considerata anormale, la donna di cui ci sono rimaste copiosissime documentazioni grazie soprattutto agli archivi giudiziari.

Io ho incominciato già alcuni anni fa ad esaminare i nostri archivi giudiziari, ricavandone notizie da cui ho potuto elaborare anche libri abbastanza innovativi rispetto alla nostra storiografia usuale. Gli atti criminali del passato sono una fonte inesauribile di notizie, soprattutto per una categoria come la donna, che di informazioni dal passato ce ne ha tramandate proprio poche.

C’è un motivo ben preciso per questo: la donna nel passato e fino a pochi anni fa, la brava donna, era la donna silenziosa, la donna anonima, la donna emarginata, la donna succube di qualcuno, del marito, del padre, del fratello, della famiglia. Quindi una donna era tanto più da onorare quanto più stava zitta. E questo abito sociale che essa doveva indossare con costanza ci porta ad avere ovviamente pochi documenti e scarsi ragguagli sulle brave donne. Praticamente non abbiamo una brava donna del passato più remoto che sia rimasta nella nostra storia.

Possediamo invece tanti dati sulle “devianti”, quelle che in passato non erano considerate brave donne, quelle cioè che rispetto alla mentalità dominante erano considerate figure da emarginare, donne da isolare o addirittura da perseguire penalmente.

Stasera cercherò di fornirvi ritratti di donne di tale genere. Questo non significa che sono tutte donne cattive quelle che vi presenterò, né che in passato le donne fossero tutte da tribunale penale. Anzi, le vere donne cattive sono poche, almeno quelle che ho potuto verificare io tramite i miei studi diretti o indiretti. Ne ho conosciuta bene una, per la verità, su cui ho scritto anche un racconto storico. Questa signora è protagonista di un fatto accaduto in Borgo nel 1830. In questa vicenda lei è l’amante di un uomo sposato, e insieme avvelenano la moglie ricca di lui con l’arsenico sciolto nelle pietanze che le servivano. Lo fanno in maniera maldestra tanto che il medico curante se ne accorge e li denuncia all’autorità giudiziaria. Alla fine entrambi verranno condannati a morte, pena che a lui verrà trasformata in seguito nell’ergastolo, mentre lei riuscirà a fuggire prima di essere arrestata.

Esaminando altri casi si evince che spesso le donne sono vittime incolpevoli di persecuzioni giudiziarie. Anche qui vi cito un esempio di un altro fatto che ho ritrovato nelle carte processuali di quegli anni: una donna ammalata a letto, incinta, con accanto il suo figlioletto piccolo, viene violentata da un amico del marito entrato in casa con una scusa mentre il marito non c’era Approfitta immediatamente della situazione per violentare la donna, che naturalmente lo denuncia: tuttavia il procedimento processuale viene avviato per adulterio, non per violenza carnale. Si parte dal presupposto, insomma, che la donna avesse condotto in tentazione l’uomo e quindi avesse provocato il tutto. Era talmente evidente che non era stata lei la colpevole che il processo porta alla condanna di lui, comunque questa era la mentalità del passato: si partiva quasi sempre dal presupposto che la donna fosse la colpevole, per cui molte donne considerate in passato ree erano in realtà prevalentemente vittime.

Fatta questa premessa che mi sembra doverosa, perché vi parlerò soprattutto di donne che hanno avuto a che fare con la giustizia, e non vorrei trasmettere un’immagine distorta della figura femminile del passato, farei partire questa nostra chiacchierata proprio dal primo fondamentale documento della storia sammarinese, documento a se stante, ma comunque documento importantissimo per tanti motivi: la leggenda di San Marino.

Già qui troviamo due ritratti femminili e due stereotipi tipici della donna del passato: uno positivo e uno negativo. La leggenda penso sia ben conosciuta da tutti, per cui non sto a riassumerla. E’ stata scritta agli inizi del decimo secolo, ed è frutto di una tradizione orale, probabilmente molto precedente, raccolta e redatta da un anonimo agiografo.

Una leggenda è un documento da esaminare sempre con estrema circospezione, perché non nasce come documento storiografico, ma come racconto piacevole, perché le leggende venivano lette durante i riti sacri da quei pochi alfabetizzati che vi erano.

Le leggende sono piene di cliché e di stereotipi, così come succede per tanti nostri film odierni, che piacciono alle masse perché hanno dentro un po’ di sesso, un po’ di violenza, un lieto fine, ecc., ovvero messaggi che si vogliono ascoltare.

All’epoca i gusti degli uomini erano più o meno gli stessi, quindi anche i generi letterari del periodo dovevano sottostare a certi cliché. Per questo le leggende agiografiche, cioè quelle legate ai santi, sono fatte più o meno tutte nella stessa maniera. Tanto è vero che la donna che insegue Marino nella leggenda, la sua presunta moglie, la troviamo come modello anche in altre leggende riguardanti altri santi, quindi è uno stereotipo. Però se una leggenda la si legge in maniera simbolica e in maniera ermeneutica, riesce a dare grandi informazioni sull’epoca in cui è stata scritta, sulla mentalità da cui è scaturita, sulla realtà sociale di cui ci parla, sulle credenze dell’epoca, ecc.

Nella leggenda di San Marino ci vengono presentate due donne: la famosa Donna Felicita o Felicissima, che insieme a Marino è la vera responsabile della nostra dimensione statuale, perché senza il suo dono non ci sarebbe lo Stato di San Marino, e un’altra donna anonima, perché l’agiografo non le affida nemmeno un nome, che è la presunta moglie di Marino, da cui lui era fuggito, almeno stando al racconto di lei.

Per quanto si è detto prima, occorre leggere simbolicamente queste due figure femminili: la donna persecutrice dell’uomo è uno stereotipo che risale addirittura alle origini della razza umana, ovvero ad Adamo ed Eva. Infatti Eva che induce in tentazione Adamo con la famosa mela è un classico di una certa cultura cattolica sessuofobica che vede la donna come tentatrice e perenne pericolo per l’uomo. Naturalmente la cultura cattolica verso le donne non è soltanto questa. Se noi andiamo ad esaminare le figure femminili che ci sono nella Bibbia, troviamo anche altri tipi di donne: donne forti, donne che in qualche maniera contribuiscono alle vicende narrate nella Bibbia. Però troviamo anche la donna tentatrice, una donna che non è altro che il demonio travestito con abiti femminili. Ovviamente la donna anonima della leggenda si richiama proprio a questo tipo di cliché.

Ma anche l’altra donna, la donna positiva, donna Felicita, rispecchia un cliché. Infatti è una donna che diventa positiva nel momento in cui dona all’uomo il suo patrimonio, nell’istante in cui chiede perdono all’uomo, Marino in questo caso, nell’attimo in cui si converte a quello che è la dottrina dell’uomo. Se insomma leggiamo simbolicamente anche questa figura femminile, ritroviamo la tipica donna che il passato, anche recente, voleva: una donna che in qualche maniera fosse succube di qualcuno, soprattutto di una figura maschile.

D’altra parte se noi andiamo a leggere i nostri statuti o alcune leggi dei tempi passati, dal XIV al XX secolo, troviamo che la donna è sempre equiparata all’infante; cioè la donna è considerata come un bambino, quindi deve stare sotto l’ala protettrice di qualcuno. Infatti la donna non può nemmeno alienare i suoi beni personali senza l’autorizzazione del marito, del padre o del fratello. Essa non è grado di fare niente senza il permesso di una figura maschile. Ci sono leggi con questa logica lungo tutta la nostra storia che arrivano fin dentro l’epoca fascista.

D’altra parte sappiamo bene che l’evoluzione femminile, cioè il momento in cui la donna inizia a rivendicare i suoi diritti politici e comincia a pretendere di essere parificata all’uomo, a San Marino inizia dopo la caduta del Fascismo. Anzi, direi anche successivamente: dopo il governo delle Sinistre che non erano favorevoli alla parificazione della donna, negli anni ‘40/’50 e nemmeno in precedenza, perché essa veniva considerata pienamente assoggettata al cattolicesimo, quindi alla Democrazia Cristiana.

Tornando indietro nel passato, perché non volevo sfociare in tempi troppo vicini a noi, una donna doveva quindi avere tali caratteristiche per essere considerata socialmente accettabile, per cui grande importanza aveva per lei la riservatezza: per esempio, non le era permesso uscire da sola di sera, non doveva tenere comportamenti ambigui, equivoci o promiscui con i maschi, perché subito proliferavano le chiacchiere che andavano ad incidere sull’onore della persona, sia maschile che femminile.

La donna per essere onorata doveva essere dunque anonima e riservata. La donna onorata era la donna ben accetta da tutti, che veniva accolta nella famiglie, e con cui si poteva chiacchierare tranquillamente senza paura di farsi notare. La donna priva di onore era invece una donna che veniva emarginata: la prima emarginazione era spesso proprio della sua stessa famiglia. Tante volte mi sono imbattuto in casi di donne che sono rimaste incinte, magari per violenza carnale: i primi ad accusarle o a emarginarle erano spesso proprio i famigliari. Queste disgraziate improvvisamente si trovavano prive di ogni tipo di protezione. Erano donne disonorate, emarginate, spesso allontanate dal paese.

Clamoroso il caso delle donne occultate, come venivano definite. I rapporti sessuali prematrimoniali erano frequenti anche in passato, soprattutto nei ceti più poveri, quindi ogni tanto capitava che qualcuna rimanesse incinta. Abbiamo la certezza che pratiche di coito interrotto già esistevano a metà del 1700 a San Marino, quindi da quel momento in avanti c’è senza dubbio una qualche forma di cultura della prevenzione, anche se non siamo ovviamente alla contraccezione di stampo moderno.

Possiamo registrare moltissimi casi, tutti quelli che finiscono in tribunale, di donne che rimangono incinte senza essere sposate. Cosa succedeva a queste donne? L’iter era sempre più o meno lo stesso, perché erano quasi sempre appartenenti ai ceti poveri, mai ai ceti ricchi, per un motivo preciso: perché nei ceti ricchi una donna era molto più controllata, non c’era mai promiscuità tra donna e uomo, o comunque era raro.

Nei ceti poveri invece vi erano moltissimi casi di donne che per necessità di sopravvivenza dovevano fare le contadine, o le serve, o le manovali tra i muratori, o le becchine. Esistono tipi femminili di ogni specie perché la donna dei ceti poveri, e teniamo presente che a San Marino fino agli inizi del ‘900 l’80% della popolazione era contadina e poverissima, era costretta a vivere spesso in promiscuità. Soprattutto le serve erano costrette ad andare via da casa giovanissime ed erano lasciate in balia dei loro padroni, che potevano essere moralmente ineccepibili, ma che potevano pretendere anche prestazioni sessuali pena il licenziamento.

Cosa succedeva dunque se una donna rimaneva incinta? Succedeva quasi sempre che venisse occultata. L’occultamento serviva a nascondere il misfatto e a togliere lo scandalo. In genere veniva nascosta fuori territorio, presso qualche casolare di contadini che venivano pagati per questo. Ci sono vari tipi di occultamento: l’occultamento pagato da colui che aveva provocato il danno; l’occultamento indotto dal tribunale, perché il tribunale stesso non di rado provvedeva a rimediare i soldi per mandare queste donne a partorire lontano da sguardi indiscreti; l’occultamento in cui la stessa donna in qualche modo cercava di arrangiarsi per poter avere il figlio di nascosto. Ricordiamoci che ciò dipendeva dal fatto che era assolutamente vietato l’aborto; siamo in epoche di cultura rigidamente cattolica, quindi l’aborto era in ogni caso proibito, per cui la donna doveva partorire, anche se di solito, non potendo allevare suo figlio, lo abbandonava agli enti dell’epoca. C’era infatti tutta una organizzazione per i numerosi neonati abbandonati, organizzazione che prendeva avvio dal cosiddetto bastardaro, che era colui che portava i bambini abbandonati presso i brefotrofi. Da noi il più vicino era a Rimini. Ovviamente abbandonare un bambino costava perché sia il bastardaro, sia i passaggi successivi dovevano essere pagati. Questo in effetti era il problema maggiore, non quello che succedeva alla donna, perché per i ceti poveri erano cifre non sempre facilmente rimediabili.

Entrati negli orfanotrofi questi bambini spesso morivano nel primo anno di vita. A Rimini vi era una percentuale circa dell’80% dei neonati che morivano entro il primo anno di vita. Vi sono testimonianze anche di ospedali che avevano addirittura il 100% di mortalità nel primo anno di vita, perché i bambini morivano di freddo, di fame o di malattie, essendo l’igiene estremamente scarsa nelle epoche di cui stiamo parlando.

Che fine faceva in genere la madre? Se il paese non aveva saputo niente del misfatto accadutole, poteva rientrare nella sua vita normale, ma se invece si era venuto a conoscenza di qualcosa, o aveva dei sospetti allora per questa donna si aprivano vie molto più tortuose. La prima era la prostituzione, perché una donna disonorata era una donna a cui non veniva concesso lavoro e nemmeno troppa amicizia. Queste disgraziate spesso diventavano le cosiddette casanolanti, donne che non possedevano niente ed erano costrette a vivere in affitto in casa di qualcuno. Il nolo, dai documenti che ci sono pervenuti, risulta spesso pagato con prestazioni sessuali, con la prostituzione sistematica a beneficio del padrone di casa. Le casanolanti sono la categoria più disgraziata delle donne del passato, però se calcoliamo che l’80% della gente a San Marino agli inizi del 900 viveva facendo i contadini, cioè il mestiere più povero che ci fosse, capiamo bene che il fenomeno delle serve/bambine doveva essere piuttosto ricorrente, non tanto per i soldi che percepivano come paga, ma soprattutto perché erano una bocca in meno da sfamare Ci sono arrivati molti documenti sul problema, ma molti altri non ci sono arrivati, probabilmente molti fatti non sono stati nemmeno denunciati, molte cose non le sappiamo, anche se possiamo immaginarle e possiamo andare statisticamente a determinare un modello.

Le prostitute, visto che parliamo della prostituzione, sono sicuramente presenti a San Marino fin dall’epoca comunale. La prostituzione era tollerata, era anzi vista come una valida alternativa alla sodomia, che era assolutamente criminalizzata in questi secoli. Era tollerata purché le prostitute non creassero scandalo: la parola chiave di tutto ciò di cui sto parlando stasera è proprio “scandalo”. Come facevano a fare scandalo le prostitute? Magari provocando qualche maschio: possediamo vari documenti legati a duelli e ferimenti per una prostituta. Abbiamo documenti anche di altro genere: per esempio alla fine del 1500 i cappuccini fecero richiesta al Consiglio per avere un muro di cinta, perché diverse prostitute andavano ad amoreggiare nei boschi intorno al convento e disturbavano l’orazione. Questo era un altro modo di dare scandalo, di ferire le coscienze dei tanti benpensanti, cioè avere atteggiamenti di natura sessuale in pubblico.

La nostra storia è abbastanza statica per molti secoli, fino alla seconda metà del 1800, per cui i casi che vi porto, pur essendo del 1500, avrebbero potuto essere indifferentemente anche dei secoli successivi. La caratteristica del nostro passato, che ci ha portati ad essere tendenzialmente conservatori come popolo, è proprio questa staticità. La nostra storia ha degli alti e bassi da un punto di vista economico, perché ci sono dei secoli, come il Quattrocento, più ricchi di altri, però dal punto di vista della mentalità, della cultura, delle istituzioni, delle normative in genere rimaniamo abbastanza congelati e statici. D’altra parte sappiamo bene che gli Statuti del Seicento hanno avuto peso determinante per lunghi secoli, tanto che ancora oggi alcune nostre norme, soprattutto di natura istituzionale, derivano proprio da loro.

Per continuare a parlare di questo argomento, posso accennare ad una certa donna Oliva del Borgo che, nel 1552, insieme a sua madre e alla sorella, venne espulsa dal territorio a tempo indeterminato, o almeno fino al perdono del Consiglio. Nello stesso anno venne espulsa anche una certa Maria Lombarda, sempre del Borgo, che era una sede prediletta dalle prostitute perché vi si svolgeva ogni settimana il mercato e periodicamente qualche fiera. Altre espulsioni di prostitute le registriamo negli anni a seguire. Nel 1585 vennero pubblicamente frustate due prostitute, la Cicerchia e la Felicita, poi furono espulse perché comunque continuarono nel loro mestiere.

Un altro caso interessante è quello della Pallotta e di sua figlia Felicita, di cui ci dicono qualcosa gli Atti del Consiglio:”Trovandosi a usar carnalmente con alcuno fuor di casa, cioè negli orti, strade, o altrove, fossi usata senza indugio la frusta e poi se non bastava l’espulsione”.

Le prostitute venivano sistematicamente espulse, però in genere dopo rientravano in territorio, ovviamente se vi era il perdono del Consiglio. Ben difficilmente potevano cessare le loro pratiche, perché non avevano alternativa, non avevano altri lavori.

In passato, infatti, non erano tanti i mestieri a cui le donne si potevano applicare, e le più povere si dovevano adattare a quello che capitava. Per questo abbiamo la testimonianza di molti casi di donne manovali che andavano a fare le braccianti con i muratori, o altri casi di donne che svolgevano lavori pesanti e degradanti. Anche la donna che faceva la contadina svolgeva un’attività estremamente pesante. Altro lavoro tipico era quello di serva. Giacoma delle Piagge era una di queste: essa dimorava in una casa dei Begni per i quali faceva vari servizi, anche pesanti, come trasportare l’acqua dalla cisterna del Pianello. E’ una donna che era sempre alla fame, e che doveva anche prostituirsi a favore del suo padrone per rimediare un tozzo di pane. Il suo mestiere però non le basta per sopravvivere, tanto che deve chiedere anche l’elemosina. In casa non ha nemmeno nulla con cui riscaldarsi la sera, per cui spesso deve cercare la solidarietà di un’altra casanolante che si chiama la Mazzochetta: insieme a volte rimediano un pezzo di legno con cui riscaldarsi.

Caso analogo è quello della Caterina, che sconta l’affitto lavorando e concedendosi al padrone Marcantonio.

Di casi simili ne abbiamo tanti altri, perché la donna in genere, e soprattutto la donna sola, era l’anello debole della società del passato, che era maschilista al 100%. Se una donna, come ho detto prima, aveva una qualche protezione, non aveva nulla da temere, ma se rimaneva sola, era puntualmente chiacchierata e malvista perché era fuori dai ruoli abituali di madre, moglie e figlia, quindi veniva perseguitata.

Anche intorno a questa emarginazione avrei tanti casi di cui parlare: per esempio vi è una donna che si chiama Santa, che vive a metà 700. E’ una vedova, ma anche le vedove subivano spesso lo stesso tipo di persecuzione. Santa cerca di guadagnarsi la vita vendendo ciambelle come ambulante nel mercato di Borgo, o dove capitava. I giovani la perseguitano, le tirano continuamente sassi ridendo, e lei dice in alcuni documenti che ci sono giunti:”Come se io fossi donna di malavita o pazza”; invece era soltanto una donna sola, una donna che non aveva chi la proteggeva.

Un altro caso, una vedova di 29 anni, una certa Vittoria, nel 1758 entra in conflitto con un certo Giulio Cesare di Borgo, che le aveva malmenato il bambino. Dalla diatriba che nasce da lì in poi tra i due chi ha la peggio è proprio Vittoria, perché Giulio Cesare comincia a perseguitarla spargendo veleni sul suo conto, dicendo che tutte le sere vedeva qualcuno che entrava e usciva dalla sua casa, etichettandola come donna di malaffare. Invece poi altri testimoni diranno che non era vero nulla. Però bastava questo per disonorare una donna e per farla emarginare dalla comunità.

Un altro caso ancora, Elisabetta, detta la Morbidina, di Montegiardino, una giovane vedova che per campare faceva i servizi in casa di un vedovo di 68 anni. Costui ad un certo punto comincia a prendersi delle libertà, ma lei è costretta a lasciar fare perché altrimenti le saltava il lavoro, cosa che non si poteva permettere. Il paese si accorge della tresca e comincia a mormorare, soprattutto perché la grande differenza di età era malvista. Alla fine lui va in galera perché il suo comportamento era considerato socialmente riprovevole, ma lei viene marchiata probabilmente per sempre.

Altro mestiere tipicamente femminile era quello di mammana. Le mammane, ovvero le levatrici, erano donne estremamente ben considerate dalla società. Fino all’800 e anche oltre a San Marino chi aiuta le donne a partorire in genere non era il medico, ma la levatrice, la mammana. Queste donne erano mestieranti, non avevano studiato, ma avevano imparato il mestiere seguendo altre mammane. Queste donne oltre che ben viste in paese erano usualmente anche ben pagate, ovviamente dalle famiglie che se lo potevano permettere, altrimenti venivano pagate in natura con cibo e prodotti vari.

Altre figure ben viste, altre donne positive erano le balie. C’erano tre tipi di balie: quelle per le famiglie ricche, quelle per il ceto medio e quelle per i poveri. Le prime dovevano avere certe caratteristiche anche fisiche, dovevano avere un bel aspetto per non traumatizzare il bambino, perché stiamo parlando di un periodo in cui la gente era anche fisicamente brutta, perché malattie tipo il vaiolo, piuttosto frequente, o la cattiva alimentazione segnavano il viso e debilitavano il corpo. Le balie per le famiglie ricche erano ben pagate, però dovevano stare presso la casa della famiglia per un anno, un anno e mezzo, ovvero il tempo necessario per svezzare il bambino. Le balie invece per il ceto medio stavano a casa propria, e i bambini venivano portati presso loro, quindi guadagnavano di meno. Le balie per i poveri erano quelle che andavano per pochi soldi presso gli orfanotrofi soprattutto, perché gli orfanotrofi accoglievano tanti bambini esposti, ovvero abbandonati, e dovevano nutrirli. In genere queste balie provenivano da tutti i posti più poveri e dai monti, e scendevano a Rimini, dove c’era il principale orfanotrofio della zona, anche quotidianamente per svolgere la loro mansione per un compenso che era molto basso, in genere la metà di quello di un bracciante.

Posso anche parlarvi non solo di donne vittime, ma anche di donne veramente cattive, come Giacoma l’Arrogante e Giovanna la Bandita: della prima abbiamo notizie nel 1744 e della seconda nel 1832. Sono infanticide e uccidono i loro neonati non tanto per pura cattiveria, ma per disperazione dovuta all’estrema miseria. Giacoma l’Arrogante partorisce in casa da sola, non ha nessun aiuto, non ha nessuno, e in un gesto di totale smarrimento strangola il neonato appena partorito.

Giovanna la bandita invece ha una storia un po’ complicata, perché si rifugia a San Marino da fuori confine perseguitata dall’accusa di infanticidio. Qui diventa serva di una famiglia per bene e ricca, ma rimane incinta da parte del padrone di questa famiglia che la fa sposare al suo contadino, per togliere lo scandalo. Alla fine partorisce, ma probabilmente uccide il bambino, anche se dichiara che non lo aveva ammazzato, che era nato morto; comunque lo seppellisce senza dire nulla a nessuno. La legge dell’epoca non aveva grandi mezzi per confutare le informazioni fornite dalla donna, per accusarla pienamente dell’infanticidio, perché non c’era l’anagrafe e non occorreva registrare il bambino appena nato. Non potendole dare la pena massima per l’impossibilità di dimostrare che fosse un’assassina, viene sottoposta a tortura: per tre giorni viene frustata nella piazza, mentre suo marito viene inflitta una pena simbolica ma ugualmente faticosa: viene condannato a sostituire il bue nel campo, ovvero a trascinare l’aratro. La giustizia era anche molto concreta quella volta e scendeva a questi livelli.

Le brave donne invece si sposavano, avevano figli e una vita tranquilla. Però per farlo dovevano avere una dote; una donna senza dote non poteva sposarsi. Qui posso fare anche qualche cifra: si andava da un minimo di 30 scudi nei ceti bassi ad un massimo di 1000 scudi per le donne benestanti. Si calcoli, per capire il valore di queste cifre, che chi prendeva di più in quest’epoca era il commissario della legge che prendeva 150 scudi all’anno, ovvero 12 scudi circa al mese. 1000 scudi erano quindi una certa cifra, ma era una dote indispensabile per sposare una figlia che proveniva da una famiglia ricca e benestante.

Altre volte la dote veniva solo promessa, poi, non potendola pagare, scoppiavano liti giudiziarie o anche di altra natura tra genero e suocero: anche in questo caso, comunque, chi ci rimetteva era di solito sempre la donna.

Volendo fare un esempio, possiamo parlare della dote di Maria Antonia di Serravalle che nel 1775 prevedeva 63 bottoncini d’oro, 2 orecchini d’oro, 2 anelli, dei fili di granata mescolati con perle false, 2 croci d’argento da collo, una spilla da testa d’argento, 10 gonne e corsetti di vari colori, 5 busti e 15 fazzoletti da testa, uno scialle di seta rossa, 2 cuffie, 1 cuscino, 3 tovaglie, 13 salviette, e così via. Questo era una dote medio bassa, una buona dote comunque.

Alcune famiglie abbienti di San Marino, per far fronte all’impossibilità di molte ragazze o zitelle, come venivano chiamate le giovani in età di marito, di avere una dote, istituirono dei legati, di cui il più famoso era il legato Belluzzi, istituito da Fabrizio Belluzzi nel 1622, che fornendo denaro alle più bisognose permetteva a tante ragazze di sposarsi. Veniva assegnato tutti gli anni, ed era una dote per tre zitelle che venivano scelte dietro il parere del parroco e dei maggiorenti politici.

Molte famiglie abbienti per evitare di pagare doti troppo elevate chiudevano le figlie in convento. I conventi del passato sono quasi tutti dei ricettacoli di donne secondogenite messe in convento per non spezzettare la proprietà, o di donne che non potevano permettersi di pagare troppi scudi per la dote pur appartenendo a famiglie abbienti. L’ingresso in convento non era gratuito: nel nostro monastero delle clarisse ci volevano mediamente 3/400 scudi di dote per entrare. Però era sempre più conveniente che pagarne 1000 per farle sposare; venivano fatti questi calcoli.

Erano però anche dei ricoveri per donne sole. La stessa Lunardini fondatrice del Monastero delle Clarisse è colei che porta tanti soldi per la costruzione di questo convento nel 17° secolo. Lo fa nel momento in cui rimane orfana, quindi casca in quella condizione di solitudine da cui bisognava assolutamente fuggire perché altrimenti si era a rischio. Il convento fu una risposta e un rifugio per molte donne sole in passato.

Veniamo ora brevemente ai divertimenti femminili del passato, che non erano poi tanti. I riti religiosi, le messe erano un momento di comunione nel vero senso della parola, momento molto importante per le donne, soprattutto per quelle altolocate che solitamente non potevano uscire più di tanto di casa. Per le donne dei ceti più bassi il tipico modo di divertirsi era invece la veglia, ovvero un momento in cui ci si ritrovava la sera per fare un lavoro comunitario: gli uomini magari intrecciavano dei canestri, le donne invece tessevano o facevano qualcos’altro. Queste veglie a volte finivano con serate danzanti; qualcuno suonava poi si ballava; erano momenti di divertimento semplice e popolare, ma erano anche momenti in cui scoppiavano liti, risse, e partivano coltellate.

Anche qui vi parlerò di un caso concreto: nel 1866 scoppiò una rissa durante una di queste serate perché una bella ragazza, Lucia, di circa 19 anni, sposata, si era recata a una di queste veglie perché il marito era in emigrazione temporanea. A San Marino la maggior parte della popolazione era contadina, e poteva lavorare soltanto in certi mesi dell’anno, per cui nei mesi invernali era costretta ad emigrare: andavano di solito a Roma, nel Lazio o in Toscana a fare i braccianti o altri lavori. E’ quello a cui è costretto il giovane marito di Lucia, ma lei vuole divertirsi e si fa accompagnare dal fratello a questa veglia. Qui, però, c’erano molti più uomini che donne, per cui lei ballò in continuazione, fino alle tre di mattino. A un certo punto il fratello decise però di portarla a casa perché, essendo sposata, non doveva creare troppo scandalo. Ovviamente i giovani presenti non furono d’accordo, per cui scoppiò una rissa gigantesca ed il fratello venne ferito con una coltellata. Ovviamente abbiamo tante notizie perché la vicenda andò a finire in tribunale.

Per concludere questa chiacchierata si può dire che una lenta emancipazione femminile iniziò a San Marino nei primi anni del Novecento. Il primo sciopero femminile locale fu del 1920, quindi 30 anni dopo i primi scioperi femminili avvenuti in Inghilterra, in America e in altri paesi. E’ lo sciopero delle donne addette ad estirpare le erbacce nei campi coltivati.

La SUMS femminile, nata nel 1899, ha avuto un grosso merito nell’aggregare le donne e nel contribuire alla loro emancipazione. Prima c’erano alcune associazioni di pie donne che portavano aiuto ai più bisognosi con spirito caritatevole cristiano. La Mutuo Soccorso Femminile invece fu il primo grande momento di associazionismo femminile nel senso moderno del termine, anche se nasce per volontà di due uomini dell’ala riformista che a fine ‘800 cominciava a consolidarsi a San Marino.

In passato non era considerato importante per la donna saper scrivere; in genere bastava che sapesse leggere, e questa sola, quindi, le s’insegnava nei secoli scorsi. Non ci furono scuole femminili a San Marino fino alla fine dell’ 800; c’era un educandato presso il convento delle suore clarisse che dava rudimentali istruzioni di natura linguistica, letteraria, grammaticale, ma soprattutto istruiva le educande sul cucito, la cucina ed i tipici lavori femminili.

Alla fine dell’800 cominciò a sorgere qualche scuola che accettava anche le donne, però il fenomeno della acculturazione femminile è molto lento: ci vorrà tutta la prima metà del ‘900 per arrivare ad avere un numero importante di donne colte. Nel 1865, anno del primo censimento sammarinese, su 7600 abitanti, di cui la metà donne, solo 260 erano considerate donne “letterate”, quindi un numero bassissimo.

La nostra è sempre stata una società contadina e conservatrice che non dava valore a queste abilità: la donna per essere brava doveva rientrare in quei ruoli che vi ho detto prima, non era importante che sapesse leggere o scrivere.

 

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