La donna
nella storia sammarinese
Nel 1865, data del primo
censimento di San Marino, le donne residenti in territorio erano
3.463 e rappresentavano il 49% della popolazione. Di tutte queste
solo 257 erano qualificate come letterate, cioè sapevano
leggere e scrivere, o quanto meno fare la loro firma, abilità
all’epoca sufficiente per essere considerate alfabetizzate.
La percentuale è tragicamente bassa, inferiore addirittura a quella
italiana dello stesso periodo. C’è da sottolineare, però, che solo
in anni recenti la Repubblica sammarinese è diventata più ricca
dell’Italia, per cui l’elevato tasso di analfabetismo femminile,
sicuro testimone della povertà drastica in cui il nostro paese si
dibatteva all’epoca ed anche in precedenza, è imputabile a questo
forte sottosviluppo che penalizzava senza dubbio più di tutti le
donne, categoria più debole e inerme della società.
Le signore in Repubblica, ovvero quelle che potevano permettersi un
certo tenore di vita e un po’ di cultura, erano pochissime. La
nostra storia poi non ci ha tramandato praticamente nessun nome di
donna degno di memoria, segno certo di una totale marginalità delle
nostre figure femminili del passato.
D’altronde nel diritto sammarinese fin dalle epoche più remote la
condizione della donna è equiparata a quella del minorenne, essendo
poste sullo stesso piano la imbecillitas femminile e la
inconsultatio del ragazzo ancora minorenne.
La donna viveva sempre sotto la tutela di qualcuno: il padre, i
parenti, il marito; non poteva gestire in proprio neppure i suoi
beni personali. Gli statuti sammarinesi del Seicento, riprendendo ed
ampliando concetti già codificati negli statuti precedenti,
specificavano chiaramente che il marito aveva la facoltà di alienare
i beni dotali della moglie senza che questa potesse praticamente
intromettersi nell’operazione, o vi potesse intervenire solo
marginalmente.
Inoltre i gioielli, le vesti e gli altri ornamenti forniti dal
marito alla moglie erano da considerarsi come dati a semplice uso,
ma non donati. La vedova, nella successione del marito, aveva solo
diritto alle vesti vedovili; gli alimenti poteva poi pretenderli
soltanto in caso di assoluto bisogno; in presenza di figli maschi o
di nipoti, le donne non erano ammesse alla successione intestata del
padre o dell’avo paterno: avevano diritto solamente ad una congrua
dote. Nel caso vi fosse stato scioglimento della comunione
familiare, la donna aveva diritto a ricevere una quota dei beni
prodotti dalla comunione stessa, purché avesse preso parte
attivamente, ovvero lavorando, alla formazione di quel particolare
capitale. Questa norma interessava soprattutto le famiglie
contadine.
Questo stato d’inferiorità sociale e politica rimane pressoché
inalterato per tutta la storia di San Marino, attraversando anche
l’intero Ottocento e la prima metà del Novecento. In una legge del
1882 ritroviamo ancora il parallelismo minori/donne; in una legge
del 1884 si dice apertamente che, anche se maggiorenne, una donna
aveva bisogno del consenso del marito per fare certe operazioni; in
un’altra legge del 1914 riemerge l’equiparazione donne/minorenni, e
così via. Nei primi anni ’50 di questo secolo la donna sammarinese
inizia a rivendicare il diritto di voto, ma solo nel 1964 essa, per
la prima volta nella storia della Repubblica, può esprimerlo ed
inizia a vedere migliorata e parificata la sua situazione,
miglioramento che è da considerarsi ancora in corso.
Ovviamente fino ad anni vicini a noi la donna non aveva alcuna
possibilità di fare una qualche carriera. La casa era il suo regno,
ma anche il suo carcere; la spesa al mercato, le funzioni religiose,
qualche festa danzante sull’aia i suoi diversivi, una passeggiata, i
suoi parchi e controllati momenti comunitari.
Se altolocata o benestante si
poteva permettere qualche rara rappresentazione teatrale, purché in
compagnia di qualcuno, perché la donna sola, anche se ricca, era
malvista e chiacchierata, ponendosi al di fuori dei ruoli
tradizionali e socialmente ben accetti, anzi auspicabili, di figlia,
moglie, madre.
La solitudine, ovvero la non assunzione di uno dei ruoli enucleati,
poneva la donna sotto i riflettori e alla mercé di ogni maldicenza,
sport nazionale del Paese per lunghi secoli, da cui però anche oggi
non ci siamo ancora di sicuro liberati.
Spesso la solitudine era strettamente legata alla povertà ed
induceva la malcapitata a mendicare, a prostituirsi o a dover
accettare i lavori più umili ed umilianti, a rassegnarsi infine alle
malignità della gente.
Anche se una donna rimaneva vedova la sua vita spesso era grama, o
oggetto di infinite maldicenze. La giovane, infatti, in genere non
era mai in condizioni di solitudine assoluta, avendo quasi sempre
una famiglia o un istituto cui rivolgersi. Inoltre aveva ancora
tempo per sposarsi ed entrare in uno di quei ruoli in cui la società
la voleva collocata. La vedova, invece, ormai sessualmente matura e
disinibita, di solito non soggetta a particolari sorveglianze da
parte di parenti o altri, libera di gestirsi gli orari e le mansioni
a suo piacimento, poteva diventare oggetto di scherno e di soprusi
all’interno della società, oltre che di attenzioni non ambite. Aveva
sì la possibilità di ricorrere alla giustizia ordinaria per
difendersi: ma la giustizia del passato, nell’esprimere i suoi
verdetti, era molto attenta alle voci che circolavano libere,
incontrollate e abbondanti per il paese, per cui spesso la vedova,
che per consuetudine popolare e mentalità caratterizzante era
creatura sospetta e chiacchieratissima, poteva dalla giustizia
aspettarsi più danno che beneficio, più persecuzione che
comprensione.
Anche le giovani, comunque, avevano i loro grossi problemi,
soprattutto se non avevano famiglie di un certo peso, o almeno
capaci di proteggerle socialmente ed economicamente. Il lavoro
tipico della giovane bisognosa di lavorare per contribuire al
bilancio familiare era l’andare a servizio fin da tenerissima età
presso quelle case che potevano permettersi donne delle pulizie,
sguattere, cameriere, inservienti o altro ancora.
A volte queste famiglie erano signorili e moralmente corrette, per
cui le ragazze vi lavoravano senza subire grossi problemi o ricatti;
ma a volte no. Nel nostro passato, ricostruibile per l’argomento in
esame soprattutto tramite gli atti processuali, non sono infrequenti
i casi di ragazze giovanissime ingravidate da padroni o datori di
lavoro che, potendole ricattare facilmente per via del bisogno e
della povertà in cui erano immerse, pretendevano da loro tanti tipi
di prestazioni, non solo quelle legate alle mansioni per cui
venivano assunte.
Queste giovani, inoltre, erano di sovente considerate le uniche
colpevoli del fatto, non tanto di fronte alla legge, che aveva i
mezzi per punire anche l’uomo, o quanto meno per porlo dinanzi alle
sue responsabilità, quanto davanti al paese e all’ambiente di vita
quotidiana, non certo teneri con le madri illegittime, considerate
donne dal comportamento libertino che rappresentavano un vero e
proprio oltraggio al pudore di tutta la comunità, una vergogna per
tutti da perseguire, emarginare, nascondere.
Una donna considerata degna di stima e di onore, infatti, cioè non
chiacchierata e capace di comportarsi così come la società
pretendeva, veniva tranquillamente accolta in tutte le case, mentre
una donna su cui la comunità stava malignando ne era del tutto
esclusa.
La giovane troppo chiacchierata veniva frequentemente abbandonata
anche dalla sua stessa famiglia, che era la prima a dover subire
l’onta dell’accaduto e a portarne un marchio indelebile. Bisognava
perciò che si nascondesse per non dare pubblico scandalo, spesso
rimanendo relegata per mesi in casa propria, oppure andandosene per
il suo destino fuori da San Marino, subendo tutte le conseguenze cui
una giovane donna sola, quasi sempre senza denaro o con quelle poche
monete che le venivano affidate proprio per togliere il disturbo e
lo scandalo, poteva incontrare in un mondo dai tratti piuttosto
rozzi e violenti.
Se rimaneva nel paese era a suo rischio e pericolo, perché i suoi
compaesani spesso non si limitavano a deriderla e schernirla, ma
arrivavano ad usarle anche violenza fisica, spaventandola di notte e
di giorno, tirandole sassi, ergendosi arbitrariamente a tutori della
pubblica morale e della pubblica quiete, e altro ancora.
I figli di queste disgraziate in genere subivano tutti un destino
crudele, venendo “esposti”, cioè abbandonati alla loro sorte, o
affidati anonimamente agli orfanotrofi, dove la barriera tra la vita
e la morte era assai sottile e si registrava una mortalità
elevatissima. Era alquanto raro che un figlio illegittimo venisse
allevato dalla madre naturale.
Atteggiamenti prepotenti o derisori il paese li aveva anche verso
quelle donne che erano colpevoli solo di avere subito aggressioni o
violenze. Mi è capitato una volta, durante i miei studi,
d’imbattermi in un processo, definito “per adulterio”, intentato nel
1830 contro una donna del Borgo che se ne stava tranquillamente a
letto, ammalata ed in stato di gravidanza avanzata, in compagnia
solo dell’altro suo figlioletto. Essa era stata violentata da un
amico del marito capitato nella sua dimora per caso e entratovi con
una scusa quando l’amico era assente. Questa poveretta, prima di
ottenere giustizia, fu obbligata a dimostrare di non essere stata la
causa prima del rapporto sessuale, cioè di non aver sollecitato in
qualche maniera l’azione del suo violentatore. Da qui il processo
per presunto adulterio, accusa che, come poi fu, non poteva
assolutamente reggere, soprattutto per le condizioni fisiche
malandate della donna.
La donna era l’essere debole della società maschilista del passato,
per cui i soprusi a suo danno erano frequenti e legittimati da
tutti, anche dalle stesse donne, da sempre tenute nell’ignoranza, o
educate ad interpretare la vita secondo rigidi stereotipi di stampo
conservatore. Infatti spesso erano proprio le donne le più
esacerbate verso quelle loro simili che, per qualche motivo, si
erano fatte una brutta fama.
Le capacità fisiche e mentali femminili erano sempre e comunque
considerate inferiori a quelle degli uomini, perciò le donne
subivano mortificazioni e abusi di ogni tipo, non solo di natura
fisica. Una prova ne è la diversa valutazione del loro lavoro,
pagato in ogni circostanza molto meno di quello maschile.
In passato la donna doveva lavorare come e più dell’uomo,
soprattutto se apparteneva ai ceti più poveri. Solo le donne di
famiglie benestanti o nobili potevano permettersi di fare del tutto
le signore, o di limitarsi a lavoretti di poco peso, in genere
aiutate da serve cui demandavano i lavori domestici più pesanti. Le
donne di campagna, invece, avevano giornate colme d’impegni perché
accanto ai lavori casalinghi, che comprendevano anche il filare, il
tessere, il preparare il pane e il cibo e così via, erano impegnate
molte ore nei campi a mietere, accudire gli animali e altro ancora.
Fin da giovanissime le donne imparavano a fare simili lavori, ma
anche ad andare a servizio presso altre famiglie quando avevano
qualche ora a disposizione, dove, come si è detto, potevano essere
soggette a maltrattamenti, violenze sessuali, vessazioni di ogni
tipo. Nella pratica le serve erano poco più che schiave soggette a
tutti gli umori dei padroni, perché il bisogno, la precarietà della
loro situazione, accanto anche a culture che stimolavano la
rassegnazione e la sottomissione totale, le facevano di frequente
accettare tutto con pazienza ed in silenzio. D’altronde dalle loro
famiglie non potevano aspettarsi grande aiuto o sostegno, visto che
spesso erano proprio queste ad affidarle ancora bambine ai
cosiddetti “signori” per ricavare qualche soldo in più, ma pure per
liberarsi di bocche da sfamare.
Le donne maggiormente bisognose arrivavano a fare anche mestieri
molto più pesanti, traumatici e degradanti. Dal passato ci sono
giunte numerose testimonianze di donne manovali, di donne che
trasportavano pietre e operavano nelle cave, di donne che lavoravano
con i muratori svolgendo in genere mansioni di facchinaggio. Non
c’era insomma attività che fosse socialmente preclusa alle donne,
perché le troviamo nelle bettole, nelle botteghe artigiane, sulle
piazze dei mercati, a fare le “becchine” (metto questo termine tra
virgolette perché il vocabolario non gli attribuisce il genere
femminile), ed in altri luoghi di lavoro ancora. E’ chiaro che la
voce popolare non apprezzava le donne che facevano i lavori di
solito svolti dai maschi; però questo non frenava quelle donne che
per un tozzo di pane, perché la paga spesso era una modesta mangiata
e niente più, erano disposte a tutto, o venivano costrette a fare
tutto.
Le loro ricompense poi erano da fame e nettamente inferiori a quelle
degli uomini. Da un documento del 1848 che ho potuto reperire, una
disposizione votata all’interno del Consiglio, si evince che un capo
muratore aveva diritto a percepire 25 baiocchi al giorno, un
muratore semplice 20, un bracciante 15 ed una donna 8, cifre che non
lasciano alcun dubbio sul valore che si dava alle prestazioni
femminili.
I loro lavori poi erano sempre i più umili, a parte poche eccezioni,
come il mestiere di levatrice (o mammana) per esempio, che
richiedeva donne esperte e con una qualche cultura pratica acquisita
nel tempo, e che socialmente godevano di un po’ di considerazione in
più delle altre. Un’altra occupazione tipicamente femminile che
permetteva di guadagnare qualche spicciolo era quello di balia sia
presso gli orfanotrofi, dove molte mamme illegittime si rifugiavano
dopo essere state cacciate dal loro paese, sia presso quelle
famiglie signorili dove erano presenti neonati e bambini
piccoli.
Le donne spesso erano una grana per le famiglie per la dote di cui
dovevano essere fornite al momento di sposarsi. Senza dote erano
poche quelle che potevano aspirare a crearsi una famiglia per conto
proprio. Anche presso i ceti popolari la dote era un obbligo; però
spesso diventava meramente simbolica, perché tra i popolani la
povertà non permetteva di affidare alle giovani spose cifre di una
qualche consistenza, o oggetti di un valore anche minimo.
A volte erano un problema anche perché rischiavano di frantumare il
capitale familiare, che per cultura e per necessità non si doveva
rischiare di spezzettare. Ecco che allora si aprivano le porte dei
conventi, sempre pronti ad accogliere chi per convinzione, per
costrizione o per miseria decideva di diventare sposa di Cristo, e
di fuggire i mali ed i pericoli del mondo.
A partire dal XVII secolo alcune famiglie sammarinesi benestanti
istituirono elemosine dotali da affidare a fanciulle particolarmente
bisognose per aiutarle a maritarsi (la più importante era il
cosiddetto “legato Belluzzi”, creato da questa famiglia nel 1622).
Purtroppo, rispetto alle richieste che annualmente venivano
presentate al Consiglio per ottenerlo, solo poche fanciulle,
selezionate dietro suggerimento dei parroci e delle autorità
politiche, potevano beneficiarne.
La scelta in genere veniva fatta in base al bisogno e
all’onorabilità della fanciulla, concetto chiave per godere del
rispetto di tutti fino a qualche decennio fa. Se una fanciulla era
degna di onore, cioè assolutamente al di sopra dei sospetti e delle
maldicenze, e del tutto sottomessa alle rigide convenzioni e alle
ferree regole comportamentali che la società imponeva alle donne,
allora poteva sperare di essere prescelta; altrimenti il suo destino
era quello di rimanersene zitella, e di vivere una vita solitaria e
malsicura.
Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento inizierà timidamente a
formarsi una coscienza collettiva diversa nei confronti delle donne
e dei comportamenti che dovevano coltivare per meritare il rispetto
della gente e per non essere considerate di malaffare.
Ugualmente sarà sempre in questo periodo che esse, con estrema
lentezza e grande fatica, cominceranno ad uscire da quell’insieme di
stereotipi che da secoli determinavano i loro monolitici ruoli
sociali. Non a caso proprio alla fine del XIX secolo iniziò a
maturare tra pochi Sammarinesi particolarmente illuminati l’idea di
fondare una Società di Mutuo Soccorso Femminile.
La nascita della
S.U.M.S. femminile
L’ultimo ventennio
dell’Ottocento rappresenta per San Marino un periodo basilare di
cambiamento mentale, sociale e politico. In pratica succede che i
Sammarinesi, dopo anni di diffusa povertà e di vita grama, godono di
un prolungato momento di benessere e di lavoro, per un insieme di
consistenti entrate straordinarie di cui lo Stato può disporre, con
cui vengono attuati sostanziosi lavori sul territorio che consentono
di dare occupazione in maniera continuativa alla sempre più ampia
classe operaia del paese.
Questo improvviso innalzamento del tenore di vita di tutti permette
di conseguire un insieme di migliorie di natura sociale e culturale,
e la lenta uscita da una situazione di assoluta immobilità e di
relativa chiusura verso l’esterno che era durata per secoli.
In quegli anni è tutta l’Italia che subisce un repentino balzo in
avanti. San Marino riesce in parte a seguirla, così come ha
finalmente la possibilità, proprio per merito del periodo
favorevole, di far studiare presso gli istituti superiori e le
università italiane diversi suoi giovani. Costoro, numerosi come non
mai, una volta diplomati o laureati, importano in Repubblica nuovi
ideali, nuovi concetti, nuovi modi di interpretare l’esistenza,
nuovi progetti per il futuro: insomma la nuova cultura laica e
sociale che stava imperversando in tutta Europa trovando numerosi
seguaci proprio tra la gioventù.
L’assistenzialismo mutualistico è figlio di questi tempi diversi e
di questi personaggi entusiasti, che si dimostrano subito ostili
alle culture datate e radicate, quelle cioè conservatrici,
esclusivamente legate agli stereotipi del passato. Non a caso sarà
un personaggio nuovo come il professor Pietro Franciosi, nuovo
perché proveniente da una famiglia piccolo borghese che non faceva
parte della storica oligarchia cultural-economica locale, da sempre
ai vertici del paese, il caposaldo del mutualismo sammarinese e di
questa cultura ribelle che saprà sconvolgere non poco la tranquilla
vita patriarcale e provinciale a cui da sempre era abituata la
Repubblica di San Marino.
La Società di Mutuo Soccorso maschile, che inizia a nascere nella
seconda metà degli anni sessanta dell’Ottocento, ma che verrà
fondata ufficialmente solo nel 1876, sarà il primo parto di questa
nuova cultura sociale, avversa alla concezione caritativa in auge, e
favorevole a profonde trasformazioni in tutti i settori della
società e della mentalità dominante. In particolare sarà strenua
sostenitrice dell’associazionismo privato teso a combattere i
problemi di natura sociale che lo Stato non riusciva ad affrontare
adeguatamente, o almeno a fornirvi qualche risposta più concreta e
incisiva.
C’è da dire, poi, che i Sammarinesi erano sempre molto attenti a ciò
che succedeva oltre confine, e da questo ovviamente suggestionabili.
La trasformazione di cui si sta parlando, sebbene caratterizzata da
aspetti anche peculiari e prettamente locali, si deve per larga
parte allo spirito di emulazione che c’è sempre stato, a volte per
necessità, a volte anche a sproposito, nei confronti di quello che
stava succedendo in Italia.
Per quanto concerne il mutualismo femminile sammarinese, successe
praticamente lo stesso fenomeno. Infatti in Italia si costituirono
numerose leghe femminili poco prima della nascita di quella
sammarinese, precisamente nell’ultima decade dell’Ottocento, formate
da maestre, impiegate e operaie, che ebbero contatti e caratteri
comuni con le organizzazioni operaie maschili, ma che si distinsero
per finalità e programmi autonomi. E’ evidente che questi gruppi
fornirono l’ispirazione da cui prese avvio l’associazione
sammarinese.
La Lega per gli interessi femminili, per esempio, sorta a
Milano nel 1893 su iniziativa di un gruppo per l’emancipazione
femminile, tra cui diverse socialiste, indicava come obiettivi
primari da raggiungere l’istituzione di una cassa di assicurazione
per la maternità, la riforma degli istituti femminili di
beneficenza, l’ammissione delle donne nei consigli di
amministrazione delle opere pie, l’istruzione professionale per le
figlie delle operaie, l’istituzione di corsi di istruzione e di
perfezionamento per le lavoratrici e il miglioramento delle
condizioni morali ed economiche delle maestre d’asilo, delle
telegrafiste e delle telefoniste.
Anche la Lega femminile torinese, creata poco dopo, iniziò ad
operare con gli stessi intenti e con l’obiettivo primario di
promuovere l’educazione scolastica femminile. Sull’esempio di queste
Leghe, nel 1895 ne nacquero altre a Venezia, Roma, Napoli, Palermo,
federandosi l’anno successivo attorno alla rivista trimestrale
“Vita femminile” edita dalle stesse Leghe.
Elemento unificante delle leghe femminili d’ispirazione socialista
fu l’attenzione per il miglioramento dell’istruzione delle donne.
L’educazione era concepita sia come mezzo di emancipazione economica
e sociale, sia come strumento indispensabile per opporsi ai valori
della cultura dominante, in gran parte basati sul presupposto
dell’inferiorità della donna, cultura che comunque non era ancora
del tutto estranea neppure alla maggioranza dei socialisti e dei
progressisti.
A San Marino non vi poteva essere alla fine dell’Ottocento
l’emancipazione presente a Milano, Torino e nelle altre grandi città
italiane, né donne leader come qui era facile ritrovare. Da noi non
vi erano donne impiegate, non vi erano fabbriche, per cui neppure
donne operaie che vi lavoravano. Sappiamo con certezza che c’erano
alcune maestre elementari, più che altro delle mestieranti, che
insegnavano però esclusivamente nelle scuole rurali e che avevano un
tasso modestissimo di cultura, spesso appena semialfabetizzato.
Sappiamo pure che in questi anni erano emerse le prime istanze tra
la popolazione per far accedere alla cultura anche le donne.
L’apertura di una scuola femminile presso il Monastero di Santa
Chiara, gestita dalla monache stesse che avevano l’obbligo
d’istruire le fanciulle nella dottrina cristiana, nella lettura e
scrittura, nelle prime operazioni di aritmetica, nel cucito e nei
tipici lavori femminili, si ebbe solo nel 1870. Nel 1882 venne
istituita una scuola analoga in Borgo, gestita con gli stessi
programmi di quella di Città, però da una maestra laica al cui
stipendio contribuiva lo Stato. Tuttavia per la dilagante povertà e
per l’assenza dell’obbligo scolastico, il fenomeno
dell’alfabetizzazione femminile rimase molto limitato e
circoscritto, per cui la maggioranza delle donne continuò a lavorare
nei campi, o a fare i mestieri di sempre, senza perciò potersi
evolvere più di tanto.
Non sussistevano dunque i presupposti perché a San Marino si
sviluppasse un gruppo femminile emancipato e autonomamente proteso
verso la conquista di migliori orizzonti.
Non a caso non sono donne a ipotizzare la fondazione della Società
di Mutuo Soccorso femminile locale, ma uomini, per la precisione il
professor Gaetano Belloni e Edoardo Zani.
Da noi le donne, così come gli uomini, in quegli anni avevano
mediamente livelli culturali più arretrati di quelli che si potevano
riscontrare in gran parte dell’Italia, per cui molte delle novità
che pur vi furono dipesero esclusivamente da quello spirito di
emulazione di cui si è detto, non da altro. Esistevano senza dubbio
associazioni di donne a San Marino, di cui ci sono rimaste scarne
tracce documentali, anche prima della Mutuo Soccorso femminile; ma
erano esclusivamente gruppi di pie signore dedite
all’assistenzialismo di stampo caritatevole e cristiano, senza
alcuna connotazione di natura sociale e mutualistica.
Ciononostante l’idea di costituire una società femminile ispirata da
uno statuto che ricalcava quello della società maschile fu comunque
un evento memorabile, chiaro segno dei tempi in cui è avvenuta la
sua fondazione, e della volontà di mutare in qualche modo le logiche
e le consuetudini di sempre. Siamo nel 1899, anno duro per la
Repubblica, che aveva ormai smarrito la strada del benessere
percorsa negli anni precedenti, e stava sempre più avviandosi verso
momenti di difficoltà economica, sociale e politica.
Proprio per questo, con sempre maggiore insistenza, si stava
discutendo del bisogno di avviare una riforma tributaria capace di
aumentare gli scarsi introiti dello Stato, e di colpire tutti sia
direttamente che indirettamente, riforma rivoluzionaria per quegli
anni e soprattutto per la mentalità sammarinese che ingenuamente, ma
anche opportunisticamente, vedeva nell’aumento delle tasse un
ridimensionamento di quella indipendenza di cui tutti da secoli
andavano fieri.
Ugualmente il locale piccolo gruppo socialista, all’epoca
considerato come un pericolo grave per il mantenimento dell’ordine e
delle tradizioni istituzionali e culturali, cominciava a manifestare
i suoi iniziali timidi vagiti. Proprio nel 1899 presentò infatti
alcune istanze d’arengo contro la riforma tributaria e a favore del
suffragio universale, richieste che vengono storicamente considerate
come i suoi primi passi nel mondo politico e sociale sammarinese.
In pratica la Società femminile nacque in un momento di particolare
effervescenza sociale, e di rivoluzionari progetti per il futuro,
perché personaggi come Pietro Franciosi e Gino Giacomini, insieme ad
altri più moderati o meno colti, stavano incominciando ad ipotizzare
un graduale abbandono della dimensione politica e sociale in cui la
Repubblica era immersa da tanto tempo, ed una sua trasformazione in
base a logiche più moderne e consone ai tempi. Questi rari
illuminati cominciarono anche a fare propaganda tra la popolazione
per attirarne le simpatie e creare un movimento d’opinione in tal
senso.
E’ chiaro che la Società di Mutuo Soccorso femminile scaturì da
tutte queste novità, e da un modo di pensare diverso che iniziava a
vedere la donna sotto un’altra luce.
Il discorso che pronunciò Franciosi il 2 settembre 1900 per
inaugurare ufficialmente la Società, anche se già era operativa da
un anno, è una precisa testimonianza di quello che si sta dicendo.
Esaminiamolo attentamente.
Dopo aver con enfasi esaltato l’iniziativa intrapresa dalle donne
sammarinesi per suggellare il sentimento della previdenza e della
scambievole assistenza, Franciosi si dimostra particolarmente
soddisfatto che anche in Repubblica le signore avessero iniziato ad
emanciparsi col promuovere il principio della solidarietà anche
fra le donne sammarinesi. San Marino era privo di una vera e
propria borghesia imprenditoriale, e questo incideva
sull’emancipazione degli operai in genere, e delle donne in
particolare perché, sempre secondo Franciosi, senza lavoro
retribuito vi erano minori possibilità di acquisire quella cultura
solidaristica cui la nuova Società femminile si stava votando, e che
sarebbe stata indispensabile per fronteggiare i momenti tristi. Un
altro aspetto positivo del nuovo raggruppamento poi era la sua
dimensione di scuola costante di vera fratellanza, e
sicuro esercizio di scambievole benevolenza e di generale unione.
Inoltre, aggregandosi, le donne sammarinesi avevano maggiori
possibilità di svolgere la loro missione, riguardo cui Franciosi
aveva idee molto precise, in parte progressiste, in parte
conservatrici, come d’altronde era tipico dei suoi tempi anche in
chi si dichiarava riformista all’avanguardia.
Per il professore la donna accanto agli eterni compiti di conservare
e perpetuare la specie, aveva anche quello di contribuire col suo
lavoro, quasi mai retribuito, al perfezionamento della società. E lo
doveva fare svolgendo sempre al meglio i suoi ruoli usuali di
sorella, figlia, madre, insieme a quelli di cittadina, di
cultrice di ogni arte, d’ispiratrice dei più nobili sentimenti,
d’eroina del dovere, di martire del sacrificio.
Franciosi non ammetteva più che i compiti femminili fossero solo
quelli che fin dall’antichità erano stati assegnati alle donne,
ovvero di partorire l’uomo e di educarlo al bene. Egli invece era
assertore della necessità che tutti gli uomini fossero uguali tra
loro, per cui la donna non era da considerarsi un essere inferiore a
nessuno né per qualità intellettuali, né per quelle morali. Questa
secolare convinzione, che aveva mantenuto sempre le donne in
soggezione rispetto all’uomo, era da ritenersi solamente causata da
considerazioni di opportunismo economico – sociale e da
nient’altro. Franciosi si schierava dunque con le teorie di sinistra
più all’avanguardia per i tempi. Tuttavia questa presunta e teorica
parità che sognava per il genere femminile doveva essere comunque
vincolata a mansioni che egli considerava ancora indubitabilmente
tipiche delle donne.
Esse infatti dovevano comunque salvaguardare sempre la loro
fisionomia di figlie, obbedendo e proteggendo i loro
genitori; di sorelle, sempre pronte ad essere le prime amiche
degli uomini di casa e ad infondere con la voce e il dolce
sguardo sentimenti d’affetto e di pace; di amanti e di
spose, collaborando a perfezionare la persona amata; di madre,
considerato il compito primo di ogni donna, capace di educare il
giovane a se stesso, alla famiglia, alla Società, alla Patria, a
Dio. In questa veste la donna doveva sempre porsi come angelo
tutelare della famiglia, come guida sicura, e come la
più pura gioia dell’uomo il quale con tale scorta sente meno aridi i
doveri e i dolori meno amari.
Inoltre le signore dovevano approfondire ancor più quel tipico
altruismo che le caratterizzava per natura, proseguendo nella loro
opera di aiuto ai deboli, continuando ad impegnarsi a favore della
pubblica beneficenza in cui si erano dimostrate sempre
particolarmente abili, e adoperandosi per redimere intellettivamente
e moralmente i giovani sammarinesi di cui dovevano essere la
puntuale guida. Era opportuno poi che, essendo educatrici sociali e
istintivamente dotate di buon senso e di bontà d’animo, le donne non
si limitassero ad infondere nelle menti giovanili solo precetti di
natura religiosa, ma anche quelli laici per favorire il vivere
intellettuale e civile, sociale e politico.
Come si può constatare, Franciosi non si sbilancia più di tanto
nel sognare l’emancipazione femminile. Questa sua posizione di
riformista ancora molto conservatore la si evince da quanto dice sul
ruolo politico che le donne dovevano assumere all’interno della
società sammarinese. Io non vi esorto, come taluni, a non
impacciarvi direttamente o indirettamente della cosa pubblica –
dichiarò alla sua platea -. Dovete giovare anzi nelle battaglie
della vita, ed essere d’aiuto agli uomini che per lo più contraggono
nelle contese politiche due gravi malattie: la febbre delle
passioni, l’apatia e la spossatezza dello scoraggiamento. Gli
affetti domestici e la soavità della donna possono e debbono
informare a maggiore equità l’animo dei legislatori e dei
governanti, poiché la vita umana dev’essere tutt’un’armonia. Così
una saggia economia domestica ottenuta per cura di voi donne, può
servire di norma a chi amministra il tesoro dello Stato.
Franciosi è ancora assai vincolato a molti degli stereotipi con
cui ai suoi tempi le donne venivano considerate e classificate
socialmente. D’altra parte non dimentichiamoci che San Marino era un
piccolo borgo selvaggio, di indole prettamente rurale e
dall’analfabetismo elevatissimo, che non poteva, nel 1900, sognare
per le donne chissà quale tipo di emancipazione, né impieghi di
natura sociale e politica particolarmente all’avanguardia.
Franciosi stesso se ne accorge quando afferma che, secondo lui ma
non secondo altri (tra cui il famoso antropologo Cesare Lombroso),
le donne non erano per cervello e per intelligenza inferiori agli
uomini, e che perciò col tempo avrebbero potuto dedicarsi a
lavori e studi speciali diventando avvocatesse, medichesse,
scienziate, letterate, maestre e telegrafiste, vincendo così i
vecchi pregiudizi che le vincolavano all’ignoranza e soltanto a
pochi mestieri di basso prestigio sociale. Solo che a San Marino non
si erano sviluppati i tempi per simile emancipazione perché le donne
erano rimaste deboli e fuori della vita vera,
sicuramente molto più indietro delle loro sorelle latine, per
cui dovevano mirare ancora a rafforzarsi in tutto ciò che
predispone al ragionamento ed alla formazione del carattere,
soprattutto coll’acquisire una soda e retta coltura intellettuale
e morale, magari leggendo qualche libro di storia di più e
qualche romanzo di meno, o ponendo un balocco di meno sul
vostro tavolo, e un fiore di meno nelle vostre treccie
per favorire con impegno più convinto la crescita economica della
Mutuo Soccorso femminile.
Insomma per il professore la donna aveva tutto per potersi
emancipare e tenere le veci dell’uomo mercé l’istruzione e il
lavoro, purché si sforzasse di divenire meno timida, meno
rassegnata, meno superstiziosa.
Franciosi, convinto della grave arretratezza in cui si trovava
il mondo femminile della Repubblica, era quindi per un’emancipazione
graduale della donna, che però doveva sforzarsi di uscire dal suo
tipico frivolo modo di essere, o almeno dal modo di essere con cui
il professore insieme a chissà quanti altri la vedevano, per
acquisirne uno meno fatuo e quindi socialmente più utile.
Dalle sue parole traspare inoltre la convinzione che le donne non
dovessero interessarsi più di tanto di politica, ma che dovessero
prevalentemente raggiungere la parità nella condizione economica
e nell’uguaglianza sociale dei sessi davanti la necessità
della vita, collaborando anche col Mutuo Soccorso maschile per
fornire al paese quei servizi sociali e umanitari di cui ormai si
avvertiva gran bisogno.
In definitiva, il professore plaudiva all’iniziativa intrapresa, ma
era della convinzione che a San Marino la situazione politica e
sociale fosse troppo arretrata per sperare in un veloce
miglioramento della condizione femminile. In effetti dai documenti
pervenutici relativi agli anni successivi non sembra proprio che la
donna sammarinese conquistasse chissà quali vette, né che la Mutuo
Soccorso femminile avesse una qualche importante incidenza
all’interno della comunità.
Sfogliando il Titano, per esempio, che era l’organo dei
riformisti sammarinesi, in questi anni puntiglioso informatore di
tutte le vicende locali, anche minute, non è possibile trovare
notizie relative alla Mutuo Soccorso femminile, né riguardanti sue
attività, né sue riunioni, né altro, mentre sono sistematiche invece
le informazioni sul Mutuo Soccorso maschile. Questo fatto permette
lecitamente di dedurre che il gruppo femminile non avesse
un’attività sistematica, o che fosse molto marginale e sotterranea,
e perciò poco degna di attenzione.
Ma non è solo la Mutuo Soccorso femminile a essere snobbata dai
numerosi documenti dell’epoca: è l’intera categoria delle donne a
non ricevere attenzioni, in altre parole a non fare notizia.
Ovviamente questo silenzio delle fonti fa capire che, nonostante le
timide velleità dimostrate con il concepimento della nuova
associazione femminile, le donne sammarinesi permanevano all’interno
di quell’anonimato che da sempre le contraddistingueva. Erano cioè
ancora gli “angeli del focolare”, le “regine della casa”, le madri,
figlie e sorelle di cui ci parla Franciosi, ma niente più.
Alle donne i riformisti dell’epoca si rivolgono raramente. Non vi
sono tracce di un qualche loro coinvolgimento nella battaglia pro –
arengo che inizia dal 1902. Non vi sono tracce di una qualche
volontà per interessarle ai nuovi dibattimenti sociali e politici
che stavano infiammando il paese in questo vulcanico principio di
secolo. Alle donne si parla pubblicamente poco, trattandole in
genere ancora come esseri inferiori, come infanti incapaci di capire
la complessità dei dibattimenti in corso, prigioniere di culture
obsolete, dominate da superstizioni e timori dal sapore medievale.
Sono pochissimi i documenti degni di essere citati per capire
qualcosa di più sulle donne in questi primi anni del secolo.
Possiamo segnalare una conferenza pubblica del 1907 su Anita
Garibaldi, idealizzata come simbolo di donna perfetta, svolta dalla
signora Maria Toschi, moglie di un collaboratore italiano dei
riformisti sammarinesi; una lettera aperta alle madri cattoliche
dello stesso anno, scritta da Franciosi per istigare le donne ad
istruire i figli con una robusta cultura laica, senza abbandonarli
in convento alla mercé degli odiati preti; una polemica in
Consiglio, sempre di quell’anno (scaturita dalla richiesta inoltrata
da una decina di donne per l’edificazione di un nuovo lavatoio), tra
coloro che volevano permettere anche alle signore di presentare
istanze d’arengo, e chi invece non lo voleva reputandolo esclusivo
compito dei capifamiglia maschi (alla fine saranno questi a
spuntarla soprattutto perché si dimostrarono sfavorevoli alla
rivoluzionaria innovazione anche parecchi democratici); del 1911
abbiamo un altro scritto di Franciosi, senz’altro il Sammarinese più
sensibile al problema femminile, in cui vengono criticati i mariti
che, pur essendo progressisti o socialisti, in casa non facevano
nulla per innalzare il livello culturale delle loro donne, che
rimaneva ovviamente bassissimo; del 1914 possediamo un altro
articolo di Franciosi in cui le donne vengono pregate di non
lamentarsi se i mariti versavano qualche denaro del loro stipendio
alla società operaia cui appartenevano, anzi di stimolarli a farlo,
perché erano soldi che fornivano qualche garanzia di sussistenza in
caso di malattia o di mancanza di lavoro.
Degli anni successivi possediamo pochissimi accenni ai problemi
femminili e alla necessità di stimolarne l’evoluzione sociale e
culturale, segno che non ci si credeva più di tanto neppure da parte
di coloro che all’epoca erano culturalmente i più all’avanguardia,
ovvero i socialisti.
D’altronde il paese era troppo arretrato politicamente ed
intellettualmente per ritenere prioritario un problema come quello
femminile. Vi erano altre questioni ben più gravi da sistemare,
prima fra tutte quella economica, vista la miseria che continuava a
interessare più o meno tutta la cittadinanza.
Ma anche la questione politica, il bisogno di riforme istituzionali,
l’esigenza di dare esecuzione ai dettati dell’arengo del 1906, per
passare effettivamente da un sistema oligarchico ad uno democratico,
la necessità di abbassare l’elevato tasso di analfabetismo,
l’urgenza di creare nuovi lavori e nuove fonti di reddito, lo
scoppio della 1a guerra mondiale, l’avvento del Fascismo,
che non sarà certo favorevole a vedere la condizione femminile sotto
ottiche diverse, ed altro ancora, tra cui non escluderei il limitato
interesse ad evolversi delle stesse donne, troppo radicate nelle
mentalità di sempre per sentire ancora in maniera pressante
l’esigenza di perfezionare il loro stato sociale, sono fattori che
rimandano alla seconda metà del nostro secolo l’inizio di un
processo migliorativo per le donne sammarinesi, processo che
sicuramente non è da considerarsi ultimato.
E’ chiaro che con questi presupposti la Società di Mutuo Soccorso
femminile non aveva la reale possibilità di svilupparsi più di
tanto, né soprattutto poteva essere fortemente incisiva a livello
sociale. In effetti non possediamo quasi notizie di questi suoi
primi anni di vita. Soprattutto non abbiamo informazioni relative
alla sua attività dentro la società sammarinese, neppure dai
giornali locali che sono una presenza costante e anche pettegola del
periodo. Sappiamo che venne fondata con i proventi di una lotteria a
premi organizzata nel giorno della sua inaugurazione, cioè quando
Franciosi tenne il suo discorso (2 settembre 1900), e con qualche
finanziamento a fondo perduto della Cassa di Risparmio. Sappiamo
inoltre che al 31 dicembre 1913 aveva un attivo di 10.000
lire, investito in un libretto di risparmio, e 107 socie. Ma non
sappiamo praticamente altro.
Vista la carenza di documenti di cui si è detto, fondamentale
diventa lo “Statuto Regolamentare della Società Femminile di Mutuo
Soccorso”, edito per la Tipografia P. Angeli nel 1899, per capire la
logica e i motivi che determinarono la creazione di questo nuovo
gruppo sammarinese.
La Società nacque avendo per principio la Fratellanza e per fine
il Mutuo Soccorso, senza porsi ulteriori scopi al di là di
questi. Essa si riprometteva di coadiuvare il benessere economico
e morale della classe operaia, promovendo l’incremento
dell’industria e aiutando con ogni suo mezzo tutte quelle
istituzioni che saranno per essere vantaggiose alla classe medesima.
Le socie potevano essere “effettive”, se volevano godere delle
sovvenzioni stabilite, versando una quota settimanale; “onorarie”
se, pur versando la medesima quota, non avessero preteso le
sovvenzioni; “benemerite” quelle che avessero versato nelle casse
della Società cifre considerevoli, superiori cioè alle 100 lire.
Era retta da un Consiglio Direttivo composto da una presidentessa,
dalla sua vice, da una segretaria con vice, da una cassiera, da due
revisori, da dodici consiglieri, e dalle ricevitrici che potevano
essere di numero variabile. Venivano elette dall’assemblea generale
ogni anno. Il primo Consiglio risultò composto da: Maria Filippi,
presidentessa, Saveria Bonelli, vice, Pina Bonelli, segretaria,
Giuditta Simoncini, vice segretaria, Nazzarena Martelli, cassiera,
Tilde Scaglione e Teodora Francesconi, revisori, Giacomina Para e
Albina Casali, esattrici, più undici e non dodici consigliere (Ida
Tonnini, Costanza Bonelli, Marietta Borbiconi, Anna Fattori, Tina
Gori, Verdiana Grazia, Rossina Belloni, Anna Forcellini, Giuditta
Simoncini, Gelina Belluzzi, Maria Giancecchi).
Ogni socia, dopo tre anni di iscrizione, nel caso di malattia
superiore ai tre giorni di convalescenza, testimoniata sempre da
certificato medico, e tale da rendere inabile a qualunque lavoro
e alle faccende domestiche, aveva diritto ad un sussidio
giornaliero. Si era però escluse da tale beneficio per il parto,
per gl’incomodi provenienti dalle funzioni fisiologiche del sesso ed
anche per la gestazione, perché il gruppo ancora non possedeva
fondi a sufficienza per coprire tali forme di inabilità al lavoro.
Il sussidio consisteva in 50 centesimi al giorno per i primi
sessanta giorni di malattia, e 25 per i due mesi successivi. Dopo
tale lasso di tempo non si aveva più diritto a percepire nulla, se
non dopo ulteriori sei mesi.
Si poteva essere espulse dalla Società quando si era insolventi
nella quota d’iscrizione, quando si cercava di percepire il sussidio
fraudolentemente, quando si subivano condanne penali per
qualunque titolo infamante, quando si teneva vita dissoluta e
pubblicamente disonesta, abbandonandosi all’ozio,
all’accattonaggio e all’ubriachezza, a quei comportamenti, cioè,
che, come in passato, continuavano ancora a fare la differenza tra
una donna per bene e una donna di malaffare.
Informazioni tramandate oralmente ci testimoniano che la Società di
Mutuo Soccorso Femminile ebbe in realtà anche in questi suoi primi
avventurosi anni di vita una certa attività a favore delle socie, ma
anche delle donne o ragazze più bisognose della Repubblica.
Si sa, per esempio, che venivano elargiti aiuti alle ragazze prive
di mezzi che volevano sposarsi e necessitavano quindi di vesti o di
un corredo minimo. Si sa pure che in caso di manifesto bisogno di
qualcuno, la Società si prestava in tutte le maniere possibili per
fornire qualche sostegno e conforto, non solo di natura economica.
D’altronde Franciosi aveva colto nel segno quando aveva parlato di
naturale predisposizione delle donne all’aiuto caritatevole, al
sostegno morale e alla benevolenza verso i bisognosi ed i
sofferenti. In effetti, anche prima della costituzione della Mutuo
Soccorso Femminile le donne sammarinesi svolgevano con convinzione e
disinteressatamente lo stesso tipo di attività in Repubblica. E’
chiaro che ora, con un’organizzazione più capillare, regolamentata
addirittura per statuto, quest’attività occulta ed anonima, di cui
purtroppo non ci è rimasta alcuna traccia scritta con cui poterla
ricostruire dettagliatamente, dovette essere anche più sistematica,
incisiva e giovevole alla bisognosa comunità sammarinese, che sulla
bontà d’animo e la filantropia delle donne aveva sempre fatto
affidamento.
Se così non fosse, non si capirebbero i concreti motivi per cui la
Società Mutuo Soccorso Femminile non sia scomparsa poco dopo la sua
nascita, ma abbia avuto la forza e la caparbietà di giungere fino ad
oggi per festeggiare il suo primo e sicuramente non ultimo
centenario. |