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La donna nella storia sammarinese  

 

  Nel 1865, data del primo censimento di San Marino, le donne residenti in territorio erano 3.463 e rappresentavano il 49% della popolazione. Di tutte queste solo 257 erano qualificate come letterate, cioè sapevano leggere e scrivere, o quanto meno fare la loro firma, abilità all’epoca sufficiente per essere considerate alfabetizzate. 
La percentuale è tragicamente bassa, inferiore addirittura a quella italiana dello stesso periodo. C’è da sottolineare, però, che solo in anni recenti la Repubblica sammarinese è diventata più ricca dell’Italia, per cui l’elevato tasso di analfabetismo femminile, sicuro testimone della povertà drastica in cui il nostro paese si dibatteva all’epoca ed anche in precedenza, è imputabile a questo forte sottosviluppo che penalizzava senza dubbio più di tutti le donne, categoria più debole e inerme della società.  
Le signore in Repubblica, ovvero quelle che potevano permettersi un certo tenore di vita e un po’ di cultura, erano pochissime. La nostra storia poi non ci ha tramandato praticamente nessun nome di donna degno di memoria, segno certo di una totale marginalità delle nostre figure femminili del passato.  
D’altronde nel diritto sammarinese fin dalle epoche più remote la condizione della donna è equiparata a quella del minorenne, essendo poste sullo stesso piano la imbecillitas femminile e la inconsultatio del ragazzo ancora minorenne.  
La donna viveva sempre sotto la tutela di qualcuno: il padre, i parenti, il marito; non poteva gestire in proprio neppure i suoi beni personali. Gli statuti sammarinesi del Seicento, riprendendo ed ampliando concetti già codificati negli statuti precedenti, specificavano chiaramente che il marito aveva la facoltà di alienare i beni dotali della moglie senza che questa potesse praticamente intromettersi nell’operazione, o vi potesse intervenire solo marginalmente.  
Inoltre i gioielli, le vesti e gli altri ornamenti forniti dal marito alla moglie erano da considerarsi come dati a semplice uso, ma non donati. La vedova, nella successione del marito, aveva solo diritto alle vesti vedovili; gli alimenti poteva poi pretenderli soltanto in caso di assoluto bisogno; in presenza di figli maschi o di nipoti, le donne non erano ammesse alla successione intestata del padre o dell’avo paterno: avevano diritto solamente ad una congrua dote. Nel caso vi fosse stato scioglimento della comunione familiare, la donna aveva diritto a ricevere una quota dei beni prodotti dalla comunione stessa, purché avesse preso parte attivamente, ovvero lavorando, alla formazione di quel particolare capitale. Questa norma interessava soprattutto le famiglie contadine.  
Questo stato d’inferiorità sociale e politica rimane pressoché inalterato per tutta la storia di San Marino, attraversando anche l’intero Ottocento e la prima metà del Novecento. In una legge del 1882 ritroviamo ancora il parallelismo minori/donne; in una legge del 1884 si dice apertamente che, anche se maggiorenne, una donna aveva bisogno del consenso del marito per fare certe operazioni; in un’altra legge del 1914 riemerge l’equiparazione donne/minorenni, e così via. Nei primi anni ’50 di questo secolo la donna sammarinese inizia a rivendicare il diritto di voto, ma solo nel 1964 essa, per la prima volta nella storia della Repubblica, può esprimerlo ed inizia a vedere migliorata e parificata la sua situazione, miglioramento che è da considerarsi ancora in corso.  
Ovviamente fino ad anni vicini a noi la donna non aveva alcuna possibilità di fare una qualche carriera. La casa era il suo regno, ma anche il suo carcere; la spesa al mercato, le funzioni religiose,  qualche festa danzante sull’aia i suoi diversivi, una passeggiata, i suoi parchi e controllati momenti comunitari.  

Se altolocata o benestante si poteva permettere qualche rara rappresentazione teatrale, purché in compagnia di qualcuno, perché la donna sola, anche se ricca, era malvista e chiacchierata, ponendosi al di fuori dei ruoli tradizionali e socialmente ben accetti, anzi auspicabili, di figlia, moglie, madre.  
La solitudine, ovvero la non assunzione di uno dei ruoli enucleati, poneva la donna sotto i riflettori e alla mercé di ogni maldicenza, sport nazionale del Paese per lunghi secoli, da cui però anche oggi non ci siamo ancora di sicuro liberati.  
Spesso la solitudine era strettamente legata alla povertà ed induceva la malcapitata a mendicare, a prostituirsi o a dover accettare i lavori più umili ed umilianti, a rassegnarsi infine alle malignità della gente.  
Anche se una donna rimaneva vedova la sua vita spesso era grama, o oggetto di infinite maldicenze. La giovane, infatti, in genere non era mai in condizioni di solitudine assoluta, avendo quasi sempre una famiglia o un istituto cui rivolgersi. Inoltre aveva ancora tempo per sposarsi ed entrare in uno di quei ruoli in cui la società la voleva collocata. La vedova, invece, ormai sessualmente matura e disinibita, di solito non soggetta a particolari sorveglianze da parte di parenti o altri, libera di gestirsi gli orari e le mansioni a suo piacimento, poteva diventare oggetto di scherno e di soprusi all’interno della società, oltre che di attenzioni non ambite. Aveva sì la possibilità di ricorrere alla giustizia ordinaria per difendersi: ma la giustizia del passato, nell’esprimere i suoi verdetti, era molto attenta alle voci che circolavano libere, incontrollate e abbondanti per il paese, per cui spesso la vedova, che per consuetudine popolare e mentalità caratterizzante era creatura sospetta e chiacchieratissima, poteva dalla giustizia aspettarsi più danno che beneficio, più persecuzione che  comprensione.  
Anche le giovani, comunque, avevano i loro grossi problemi, soprattutto se non avevano famiglie di un certo peso, o almeno capaci di proteggerle socialmente ed economicamente. Il lavoro tipico della giovane bisognosa di lavorare per contribuire al bilancio familiare era l’andare a servizio fin da tenerissima età presso quelle case che potevano permettersi donne delle pulizie, sguattere, cameriere, inservienti o altro ancora.  
A volte queste famiglie erano signorili e moralmente corrette, per cui le ragazze vi lavoravano senza subire grossi problemi o ricatti; ma a volte no. Nel nostro passato, ricostruibile per l’argomento in esame soprattutto tramite gli atti processuali, non sono infrequenti i casi di ragazze giovanissime ingravidate da padroni o datori di lavoro che, potendole ricattare facilmente per via del bisogno e della povertà in cui erano immerse, pretendevano da loro tanti tipi di prestazioni, non solo quelle legate alle mansioni per cui venivano assunte.  
Queste giovani, inoltre, erano di sovente considerate le uniche colpevoli del fatto, non tanto di fronte alla legge, che aveva i mezzi per punire anche l’uomo, o quanto meno per porlo dinanzi alle sue responsabilità, quanto davanti al paese e all’ambiente di vita quotidiana, non certo teneri con le madri illegittime, considerate donne dal comportamento libertino che rappresentavano un vero e proprio oltraggio al pudore di tutta la comunità, una vergogna per tutti da perseguire, emarginare, nascondere.  
Una donna considerata degna di stima e di onore, infatti, cioè non chiacchierata e capace di comportarsi così come la società pretendeva, veniva tranquillamente accolta in tutte le case, mentre una donna su cui la comunità stava malignando ne era del tutto esclusa.  
La giovane troppo chiacchierata veniva frequentemente abbandonata anche dalla sua stessa famiglia, che era la prima a dover subire l’onta dell’accaduto e a portarne un marchio indelebile. Bisognava perciò che si nascondesse per non dare pubblico scandalo, spesso rimanendo relegata per mesi in casa propria, oppure andandosene per il suo destino fuori da San Marino, subendo tutte le conseguenze cui una giovane donna sola, quasi sempre senza denaro o con quelle poche monete che le venivano affidate proprio per togliere il disturbo e lo scandalo, poteva incontrare in un mondo dai tratti piuttosto rozzi e violenti.  
Se rimaneva nel paese era a suo rischio e pericolo, perché i suoi compaesani spesso non si limitavano a deriderla e schernirla, ma arrivavano ad usarle anche violenza fisica, spaventandola di notte e di giorno, tirandole sassi, ergendosi arbitrariamente a tutori della pubblica morale e della pubblica quiete, e altro ancora.  
I figli di queste disgraziate in genere subivano tutti un destino crudele, venendo “esposti”, cioè abbandonati alla loro sorte, o affidati anonimamente agli orfanotrofi, dove la barriera tra la vita e la morte era assai sottile e si registrava una mortalità elevatissima. Era alquanto raro che un figlio illegittimo venisse allevato dalla madre naturale.  
Atteggiamenti prepotenti o derisori il paese li aveva anche verso quelle donne che erano colpevoli solo di avere subito aggressioni o violenze. Mi è capitato una volta, durante i miei studi, d’imbattermi in un processo, definito “per adulterio”, intentato nel 1830 contro una donna del Borgo che se ne stava tranquillamente a letto, ammalata ed in stato di gravidanza avanzata, in compagnia solo dell’altro suo figlioletto. Essa era stata violentata da un amico del marito capitato nella sua dimora per caso e entratovi con una scusa quando l’amico era assente. Questa poveretta, prima di ottenere giustizia, fu obbligata a dimostrare di non essere stata la causa prima del rapporto sessuale, cioè di non aver sollecitato in qualche maniera l’azione del suo violentatore. Da qui il processo per presunto adulterio, accusa che, come poi fu, non poteva assolutamente reggere, soprattutto per le condizioni fisiche malandate della donna.  
La donna era l’essere debole della società maschilista del passato, per cui i soprusi a suo danno erano frequenti e legittimati da tutti, anche dalle stesse donne, da sempre tenute nell’ignoranza, o educate ad interpretare la vita secondo rigidi stereotipi di stampo conservatore. Infatti spesso erano proprio le donne le più esacerbate verso quelle loro simili che, per qualche motivo, si erano fatte una brutta fama.  
Le capacità fisiche e mentali femminili erano sempre e comunque considerate inferiori a quelle degli uomini, perciò le donne subivano mortificazioni e abusi di ogni tipo, non solo di natura fisica. Una prova ne è la diversa valutazione del loro lavoro, pagato in ogni circostanza molto meno di quello maschile.  
In passato la donna doveva lavorare come e più dell’uomo, soprattutto se apparteneva ai ceti più poveri. Solo le donne di famiglie benestanti o nobili potevano permettersi di fare del tutto le signore, o di limitarsi a lavoretti di poco peso, in genere aiutate da serve cui demandavano i lavori domestici più pesanti. Le donne di campagna, invece, avevano giornate colme d’impegni perché accanto ai lavori casalinghi, che comprendevano anche il filare, il tessere, il preparare il pane e il cibo e così via, erano impegnate molte ore nei campi a mietere, accudire gli animali e altro ancora.  
Fin da giovanissime le donne imparavano a fare simili lavori, ma anche ad andare a servizio presso altre famiglie quando avevano qualche ora a disposizione, dove, come si è detto, potevano essere soggette a maltrattamenti, violenze sessuali, vessazioni di ogni tipo. Nella pratica le serve erano poco più che schiave soggette a tutti gli umori dei padroni, perché il bisogno, la precarietà della loro situazione, accanto anche a culture che stimolavano la rassegnazione e la sottomissione totale, le facevano di frequente accettare tutto con pazienza ed in silenzio. D’altronde dalle loro famiglie non potevano aspettarsi grande aiuto o sostegno, visto che spesso erano proprio queste ad affidarle ancora bambine ai cosiddetti “signori” per ricavare qualche soldo in più, ma pure per liberarsi di bocche da sfamare.  
Le donne maggiormente bisognose arrivavano a fare anche mestieri molto più pesanti, traumatici e degradanti. Dal passato ci sono giunte numerose testimonianze di donne manovali, di donne che trasportavano pietre e operavano nelle cave, di donne che lavoravano con i muratori svolgendo in genere mansioni di facchinaggio. Non c’era insomma attività che fosse socialmente preclusa alle donne, perché le troviamo nelle bettole, nelle botteghe artigiane, sulle piazze dei mercati, a fare le “becchine” (metto questo termine tra virgolette perché il vocabolario non gli attribuisce il genere femminile), ed in altri luoghi di lavoro ancora. E’ chiaro che la voce popolare non apprezzava le donne che facevano i lavori di solito svolti dai maschi; però questo non frenava quelle donne che per un tozzo di pane, perché la paga spesso era una modesta mangiata e niente più, erano disposte a tutto, o venivano costrette a fare tutto.  
Le loro ricompense poi erano da fame e nettamente inferiori a quelle degli uomini. Da un documento del 1848 che ho potuto reperire, una disposizione votata all’interno del Consiglio, si evince che un capo muratore aveva diritto a percepire 25 baiocchi al giorno, un muratore semplice 20, un bracciante 15 ed una donna 8, cifre che non lasciano alcun dubbio sul valore che si dava alle prestazioni femminili.  
I loro lavori poi erano sempre i più umili, a parte poche eccezioni, come il mestiere di levatrice (o mammana) per esempio, che richiedeva donne esperte e con una qualche cultura pratica acquisita nel tempo, e che socialmente godevano di un po’ di considerazione in più delle altre. Un’altra occupazione tipicamente femminile che permetteva di guadagnare qualche spicciolo era quello di balia sia presso gli orfanotrofi, dove molte mamme illegittime si rifugiavano dopo essere state cacciate dal loro paese, sia presso quelle famiglie signorili dove erano  presenti neonati e bambini piccoli.  
Le donne spesso erano una grana per le famiglie per la dote di cui dovevano essere fornite al momento di sposarsi. Senza dote erano  poche quelle che potevano aspirare a crearsi una famiglia per conto proprio. Anche presso i ceti popolari la dote era un obbligo; però spesso diventava meramente simbolica, perché tra i popolani la povertà non permetteva di affidare alle giovani spose cifre di una qualche consistenza, o oggetti di un valore anche minimo.
A volte erano un problema anche perché rischiavano di frantumare il capitale familiare, che per cultura e per necessità non si doveva rischiare di spezzettare. Ecco che allora si aprivano le porte dei conventi, sempre pronti ad accogliere chi per convinzione, per costrizione o per miseria decideva di diventare sposa di Cristo, e di fuggire i mali ed i pericoli del mondo.  
A partire dal XVII secolo alcune famiglie sammarinesi benestanti istituirono elemosine dotali da affidare a fanciulle particolarmente bisognose  per aiutarle a maritarsi (la più importante era il cosiddetto “legato Belluzzi”, creato da questa famiglia nel 1622). Purtroppo, rispetto alle richieste che annualmente venivano presentate al Consiglio per ottenerlo, solo poche fanciulle, selezionate dietro suggerimento dei parroci e delle autorità politiche, potevano beneficiarne.  
La scelta in genere veniva fatta in base al bisogno e all’onorabilità della fanciulla, concetto chiave per godere del rispetto di tutti fino a qualche decennio fa. Se una fanciulla era degna di onore, cioè assolutamente al di sopra dei sospetti e delle maldicenze, e del tutto sottomessa alle rigide convenzioni e alle ferree regole comportamentali che la società imponeva alle donne, allora poteva sperare di essere prescelta; altrimenti il suo destino era quello di rimanersene zitella, e di vivere una vita solitaria e malsicura.  
Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento inizierà timidamente a formarsi una coscienza collettiva diversa nei confronti delle donne e dei comportamenti che dovevano coltivare per meritare il rispetto della gente e per non essere considerate di malaffare.  
Ugualmente sarà sempre in questo periodo che esse, con estrema lentezza e grande fatica, cominceranno ad uscire da quell’insieme di  stereotipi che da secoli determinavano i loro monolitici ruoli sociali. Non a caso proprio alla fine del XIX secolo iniziò a maturare tra pochi Sammarinesi particolarmente illuminati l’idea di fondare una Società di Mutuo Soccorso Femminile.

 

   La nascita della S.U.M.S. femminile

 

  L’ultimo ventennio dell’Ottocento rappresenta per San Marino un periodo basilare di cambiamento mentale, sociale e politico. In pratica succede che i Sammarinesi, dopo anni di diffusa povertà e di vita grama, godono di un prolungato momento di benessere e di lavoro, per un insieme di consistenti entrate straordinarie di cui lo Stato può disporre, con cui vengono attuati sostanziosi lavori sul territorio che consentono di dare occupazione in maniera continuativa alla sempre più ampia classe operaia del paese.
Questo improvviso innalzamento del tenore di vita di tutti permette di conseguire un insieme di migliorie di natura sociale e culturale, e la lenta uscita da una situazione di assoluta immobilità e di relativa chiusura verso l’esterno che era durata per secoli.
In quegli anni è tutta l’Italia che subisce un repentino balzo in avanti. San Marino riesce in parte a seguirla, così come ha finalmente la possibilità, proprio per merito del periodo favorevole, di far studiare presso gli istituti superiori e le università italiane diversi suoi giovani. Costoro, numerosi come non mai, una volta diplomati o laureati, importano in Repubblica nuovi ideali, nuovi concetti, nuovi modi di interpretare l’esistenza, nuovi progetti per il futuro: insomma la nuova cultura laica e sociale che stava imperversando in tutta Europa trovando numerosi seguaci proprio tra la gioventù.  
L’assistenzialismo mutualistico è figlio di questi tempi diversi e di questi personaggi entusiasti, che si dimostrano subito ostili alle culture datate e radicate, quelle cioè conservatrici, esclusivamente legate agli stereotipi del passato. Non a caso sarà un personaggio nuovo come il professor Pietro Franciosi, nuovo perché proveniente da una famiglia piccolo borghese che non faceva parte della storica oligarchia cultural-economica locale, da sempre ai vertici del paese, il caposaldo del mutualismo sammarinese e di questa cultura ribelle che saprà sconvolgere non poco la tranquilla vita patriarcale e provinciale a cui da sempre era abituata la Repubblica di San Marino.  
La Società di Mutuo Soccorso maschile, che inizia a nascere nella seconda metà degli anni sessanta dell’Ottocento, ma che verrà fondata ufficialmente solo nel 1876, sarà il primo parto di questa nuova cultura sociale, avversa alla concezione caritativa in auge, e favorevole a profonde trasformazioni in tutti i settori della società e della mentalità dominante. In particolare sarà strenua sostenitrice dell’associazionismo privato teso a combattere i problemi di natura sociale che lo Stato non riusciva ad affrontare adeguatamente, o almeno a fornirvi qualche risposta più concreta e incisiva.  
C’è da dire, poi, che i Sammarinesi erano sempre molto attenti a ciò che succedeva oltre confine, e da questo ovviamente suggestionabili. La trasformazione di cui si sta parlando, sebbene caratterizzata da aspetti anche peculiari e prettamente locali, si deve per larga parte allo spirito di emulazione che c’è sempre stato, a volte per necessità, a volte anche a sproposito, nei confronti di quello che stava succedendo in Italia.  
Per quanto concerne il mutualismo femminile sammarinese, successe praticamente lo stesso fenomeno. Infatti in Italia si costituirono numerose leghe femminili poco prima della nascita di quella sammarinese, precisamente nell’ultima decade dell’Ottocento, formate da maestre, impiegate e operaie, che ebbero contatti e caratteri comuni con le organizzazioni operaie maschili, ma che si distinsero per finalità e programmi autonomi. E’ evidente che questi gruppi fornirono l’ispirazione da cui prese avvio l’associazione sammarinese.  
La Lega per gli interessi femminili, per esempio, sorta a Milano nel 1893 su iniziativa di un gruppo per l’emancipazione femminile, tra cui diverse socialiste, indicava come obiettivi primari da raggiungere l’istituzione di una cassa di assicurazione per la maternità, la riforma degli istituti femminili di beneficenza, l’ammissione delle donne nei consigli di amministrazione delle opere pie, l’istruzione professionale per le figlie delle operaie, l’istituzione di corsi di istruzione e di perfezionamento per le lavoratrici e il miglioramento delle condizioni morali ed economiche delle maestre d’asilo, delle telegrafiste e delle telefoniste.  
Anche la Lega femminile torinese, creata poco dopo, iniziò ad operare con gli stessi intenti e con l’obiettivo primario di promuovere l’educazione scolastica femminile. Sull’esempio di queste Leghe, nel 1895 ne nacquero altre a Venezia, Roma, Napoli, Palermo, federandosi l’anno successivo attorno alla rivista  trimestrale “Vita femminile” edita dalle stesse Leghe.  
Elemento unificante delle leghe femminili d’ispirazione socialista fu l’attenzione per il miglioramento dell’istruzione delle donne. L’educazione era concepita sia come mezzo di emancipazione economica e sociale, sia come strumento indispensabile per opporsi ai valori della cultura dominante, in gran parte basati sul presupposto dell’inferiorità della donna, cultura che comunque non era ancora del tutto estranea neppure alla maggioranza dei socialisti e dei progressisti.  
A San Marino non vi poteva essere alla fine dell’Ottocento l’emancipazione presente a Milano, Torino e nelle altre grandi città italiane, né donne leader come qui era facile ritrovare. Da noi non vi erano donne impiegate, non vi erano fabbriche, per cui neppure donne operaie che vi lavoravano. Sappiamo con certezza che c’erano alcune maestre elementari, più che altro delle mestieranti, che insegnavano però esclusivamente nelle scuole rurali e che avevano un tasso modestissimo di cultura, spesso appena semialfabetizzato.  
Sappiamo pure che in questi anni erano emerse le prime istanze tra la popolazione per far accedere alla cultura anche le donne. L’apertura di una scuola femminile presso il Monastero di Santa Chiara, gestita dalla monache stesse che avevano l’obbligo d’istruire le fanciulle nella dottrina cristiana, nella lettura e scrittura, nelle prime operazioni di aritmetica, nel cucito e nei tipici lavori femminili, si ebbe solo nel 1870. Nel 1882 venne istituita una scuola analoga in Borgo, gestita con gli stessi programmi di quella di Città, però da una maestra laica al cui stipendio contribuiva lo Stato. Tuttavia per la dilagante povertà e per l’assenza dell’obbligo scolastico, il fenomeno dell’alfabetizzazione femminile rimase molto limitato e circoscritto, per cui la maggioranza delle donne continuò a lavorare nei campi, o a fare i mestieri di sempre, senza perciò potersi evolvere più di tanto.  
Non sussistevano dunque i presupposti perché a San Marino si sviluppasse un gruppo femminile emancipato e autonomamente proteso verso la conquista di migliori orizzonti.  
Non a caso non sono donne a ipotizzare la fondazione della Società di Mutuo Soccorso femminile locale, ma uomini, per la precisione il professor Gaetano Belloni e Edoardo Zani.   
Da noi le donne, così come gli uomini, in quegli anni avevano mediamente livelli culturali più arretrati di quelli che si potevano riscontrare in gran parte dell’Italia, per cui molte delle novità che pur vi furono dipesero esclusivamente da quello spirito di emulazione di cui si è detto, non da altro. Esistevano senza dubbio associazioni di donne a San Marino, di cui ci sono rimaste scarne tracce documentali, anche prima della Mutuo Soccorso femminile; ma erano esclusivamente gruppi di pie signore dedite all’assistenzialismo di stampo caritatevole e cristiano, senza alcuna connotazione di natura sociale e mutualistica.  
Ciononostante l’idea di costituire una società femminile ispirata da uno statuto che ricalcava quello della società maschile fu comunque un evento memorabile, chiaro segno dei tempi in cui è avvenuta la sua fondazione, e della volontà di mutare in qualche modo le logiche e le consuetudini di sempre. Siamo nel 1899, anno duro per la Repubblica, che aveva ormai smarrito la strada del benessere percorsa negli anni precedenti, e stava sempre più avviandosi verso momenti di difficoltà economica, sociale e politica.  
Proprio per questo, con sempre maggiore insistenza, si stava discutendo del bisogno di avviare una riforma tributaria capace di aumentare gli scarsi introiti dello Stato, e di colpire tutti sia direttamente che indirettamente, riforma rivoluzionaria per quegli anni e soprattutto per la mentalità sammarinese che ingenuamente, ma anche opportunisticamente, vedeva nell’aumento delle tasse un ridimensionamento di quella indipendenza di cui tutti da secoli andavano fieri.  
Ugualmente il locale piccolo gruppo socialista, all’epoca considerato come un pericolo grave per il mantenimento dell’ordine e delle tradizioni istituzionali e culturali, cominciava a manifestare i suoi iniziali timidi vagiti. Proprio nel 1899 presentò infatti alcune istanze d’arengo contro la riforma tributaria e a favore del suffragio universale, richieste che vengono storicamente considerate come i suoi primi passi nel mondo politico e sociale sammarinese.  
In pratica la Società femminile nacque in un momento di particolare effervescenza sociale, e di rivoluzionari progetti per il futuro, perché personaggi come Pietro Franciosi e Gino Giacomini, insieme ad altri più moderati o meno colti, stavano incominciando ad ipotizzare un graduale abbandono della dimensione politica e sociale in cui la Repubblica era immersa da tanto tempo, ed una sua trasformazione in base a logiche più moderne e consone ai tempi. Questi rari illuminati cominciarono anche a fare propaganda tra la popolazione per attirarne le simpatie e creare un movimento d’opinione in tal senso.  
E’ chiaro che la Società di Mutuo Soccorso femminile scaturì da tutte queste novità, e da un modo di pensare diverso che iniziava a vedere la donna sotto un’altra luce.  
Il discorso che pronunciò Franciosi il 2 settembre 1900 per inaugurare ufficialmente la Società, anche se già era operativa da un anno, è una precisa testimonianza di quello che si sta dicendo. 
Esaminiamolo attentamente.  
Dopo aver con enfasi esaltato l’iniziativa intrapresa dalle donne sammarinesi per suggellare il sentimento della previdenza e della scambievole assistenza, Franciosi si dimostra particolarmente soddisfatto che anche in Repubblica le signore avessero iniziato ad emanciparsi col promuovere il principio della solidarietà anche fra le donne sammarinesi. San Marino era privo di una vera e propria borghesia imprenditoriale, e questo incideva sull’emancipazione degli operai in genere, e delle donne in particolare perché, sempre secondo Franciosi, senza lavoro retribuito vi erano minori possibilità di acquisire quella cultura solidaristica cui la nuova Società femminile si stava votando, e che sarebbe stata indispensabile per fronteggiare i momenti tristi. Un altro aspetto positivo del nuovo raggruppamento poi era la sua dimensione di scuola costante di vera fratellanza, e sicuro esercizio di scambievole benevolenza e di generale unione.  
Inoltre, aggregandosi, le donne sammarinesi avevano maggiori possibilità di svolgere la loro missione, riguardo cui Franciosi aveva idee molto precise, in parte progressiste, in parte conservatrici, come d’altronde era tipico dei suoi tempi anche in chi si dichiarava riformista all’avanguardia. 
Per il professore la donna accanto agli eterni compiti di conservare e perpetuare la specie, aveva anche quello di contribuire col suo lavoro, quasi mai retribuito, al perfezionamento della società. E lo doveva fare svolgendo sempre al meglio i suoi ruoli usuali di sorella, figlia, madre, insieme a quelli di cittadina, di cultrice di ogni arte, d’ispiratrice dei più nobili sentimenti, d’eroina del dovere, di martire del sacrificio.  
Franciosi non ammetteva più che i compiti femminili fossero solo quelli che fin dall’antichità erano stati assegnati alle donne, ovvero di partorire l’uomo e di educarlo al bene. Egli invece era assertore della necessità che tutti gli uomini fossero uguali tra loro, per cui la donna non era da considerarsi un essere inferiore a nessuno né per qualità intellettuali, né per quelle morali. Questa secolare convinzione, che aveva mantenuto sempre le donne in soggezione rispetto all’uomo, era da ritenersi solamente causata da considerazioni di opportunismo economico – sociale e da nient’altro. Franciosi si schierava dunque con le teorie di sinistra più all’avanguardia per i tempi. Tuttavia questa presunta e teorica parità che sognava per il genere femminile doveva essere comunque vincolata a mansioni che egli considerava ancora indubitabilmente tipiche delle donne.  
Esse infatti dovevano comunque salvaguardare sempre la loro fisionomia di figlie, obbedendo e proteggendo i loro genitori; di sorelle, sempre pronte ad essere le prime amiche degli uomini di casa e ad infondere con la voce e il dolce sguardo sentimenti d’affetto e di pace; di amanti e di spose, collaborando a perfezionare la persona amata; di madre, considerato il compito primo di ogni donna, capace di educare il giovane a se stesso, alla famiglia, alla Società, alla Patria, a Dio. In questa veste la donna doveva sempre porsi come angelo tutelare della famiglia, come guida sicura, e come la più pura gioia dell’uomo il quale con tale scorta sente meno aridi i doveri e i dolori meno amari.  
Inoltre le signore dovevano approfondire ancor più quel tipico altruismo che le caratterizzava per natura, proseguendo nella loro opera di aiuto ai deboli, continuando ad impegnarsi a favore della pubblica beneficenza in cui si erano dimostrate sempre particolarmente abili, e adoperandosi per redimere intellettivamente e moralmente i giovani sammarinesi di cui dovevano essere la puntuale guida. Era opportuno poi che, essendo educatrici sociali e istintivamente dotate di buon senso e di bontà d’animo, le donne non si limitassero ad infondere nelle menti giovanili solo precetti di natura religiosa, ma anche quelli laici per favorire il vivere intellettuale e civile, sociale e politico.  
Come si può constatare, Franciosi non si sbilancia più di tanto nel sognare l’emancipazione femminile. Questa sua posizione di riformista ancora molto conservatore la si evince da quanto dice sul ruolo politico che le donne dovevano assumere all’interno della società sammarinese. Io non vi esorto, come taluni, a non impacciarvi direttamente o indirettamente della cosa pubblica – dichiarò alla sua platea -. Dovete giovare anzi nelle battaglie della vita, ed essere d’aiuto agli uomini che per lo più contraggono nelle contese politiche due gravi malattie: la febbre delle passioni, l’apatia e la spossatezza dello scoraggiamento. Gli affetti domestici e la soavità della donna possono e debbono informare a maggiore equità l’animo dei legislatori e dei governanti, poiché la vita umana dev’essere tutt’un’armonia. Così una saggia economia domestica ottenuta per cura di voi donne, può servire di norma a chi amministra il tesoro dello Stato.  
Franciosi è ancora assai vincolato a molti degli stereotipi con cui ai suoi tempi le donne venivano considerate e classificate socialmente. D’altra parte non dimentichiamoci che San Marino era un piccolo borgo selvaggio, di indole prettamente rurale e dall’analfabetismo elevatissimo, che non poteva, nel 1900, sognare per le donne chissà quale tipo di emancipazione, né impieghi di natura sociale e politica particolarmente all’avanguardia.
Franciosi stesso se ne accorge quando afferma che, secondo lui ma non secondo altri (tra cui il famoso antropologo Cesare Lombroso), le donne non erano per cervello e per intelligenza inferiori agli uomini, e che perciò col tempo avrebbero potuto dedicarsi a lavori e studi speciali diventando avvocatesse, medichesse, scienziate, letterate, maestre e telegrafiste, vincendo così i vecchi pregiudizi che le vincolavano all’ignoranza e soltanto a pochi mestieri di basso prestigio sociale. Solo che a San Marino non si erano sviluppati i tempi per simile emancipazione perché le donne erano rimaste deboli e fuori della vita vera, sicuramente molto più indietro delle loro sorelle latine, per cui dovevano mirare ancora a rafforzarsi in tutto ciò che predispone al ragionamento ed alla formazione del carattere, soprattutto coll’acquisire una soda e retta coltura intellettuale e morale, magari leggendo qualche libro di storia di più e qualche romanzo di meno, o ponendo un balocco di meno sul vostro tavolo, e un fiore di meno nelle vostre treccie per favorire con impegno più convinto la crescita economica della Mutuo Soccorso femminile.
Insomma per il professore la donna aveva tutto per potersi emancipare e tenere le veci dell’uomo mercé l’istruzione e il lavoro, purché si sforzasse di divenire meno timida, meno rassegnata, meno superstiziosa.
Franciosi, convinto della grave arretratezza in cui si trovava il mondo femminile della Repubblica, era quindi per un’emancipazione graduale della donna, che però doveva sforzarsi di uscire dal suo tipico frivolo modo di essere, o almeno dal modo di essere con cui il professore insieme a chissà quanti altri la vedevano, per acquisirne uno meno fatuo e quindi socialmente più utile.
Dalle sue parole traspare inoltre la convinzione che le donne non dovessero interessarsi più di tanto di politica, ma che dovessero prevalentemente raggiungere la parità nella condizione economica e nell’uguaglianza sociale dei sessi davanti la necessità della vita, collaborando anche col Mutuo Soccorso maschile per fornire al paese quei servizi sociali e umanitari di cui ormai si avvertiva gran bisogno.
In definitiva, il professore plaudiva all’iniziativa intrapresa, ma era della convinzione che a San Marino la situazione politica e sociale fosse troppo arretrata per sperare in un veloce miglioramento della condizione femminile. In effetti dai documenti pervenutici relativi agli anni successivi non sembra proprio che la donna sammarinese conquistasse chissà quali vette, né che la Mutuo Soccorso femminile avesse  una qualche importante incidenza all’interno della comunità.
Sfogliando il Titano, per esempio, che era l’organo dei riformisti sammarinesi, in questi anni puntiglioso informatore di tutte le vicende locali, anche minute, non è possibile trovare notizie relative alla Mutuo Soccorso femminile, né riguardanti sue attività, né sue riunioni, né altro, mentre sono sistematiche invece le informazioni sul Mutuo Soccorso maschile. Questo fatto permette lecitamente di dedurre che il gruppo femminile non avesse un’attività sistematica, o che fosse molto marginale e sotterranea, e perciò poco degna di attenzione.
Ma non è solo la Mutuo Soccorso femminile a essere snobbata dai numerosi documenti dell’epoca: è l’intera categoria delle donne a non ricevere attenzioni, in altre parole a non fare notizia. Ovviamente questo silenzio delle fonti fa capire che, nonostante le timide velleità dimostrate con il concepimento della nuova associazione femminile, le donne sammarinesi permanevano all’interno di quell’anonimato che da sempre le contraddistingueva. Erano cioè ancora gli “angeli del focolare”, le “regine della casa”, le madri, figlie e sorelle di cui ci parla Franciosi, ma niente più.
Alle donne i riformisti dell’epoca si rivolgono raramente. Non vi sono tracce di un qualche loro coinvolgimento nella battaglia pro – arengo che inizia dal 1902. Non vi sono tracce di una qualche volontà per interessarle ai nuovi dibattimenti sociali e politici che stavano infiammando il paese in questo vulcanico principio di secolo. Alle donne si parla pubblicamente poco, trattandole in genere ancora come esseri inferiori, come infanti incapaci di capire la complessità dei dibattimenti in corso, prigioniere di culture obsolete, dominate da superstizioni e timori dal sapore medievale.
Sono pochissimi i documenti degni di essere citati per capire qualcosa di più sulle donne in questi primi anni del secolo. Possiamo segnalare una conferenza pubblica del 1907 su Anita Garibaldi, idealizzata come simbolo di donna perfetta, svolta dalla signora Maria Toschi, moglie di un collaboratore italiano dei riformisti sammarinesi; una lettera aperta alle madri cattoliche dello stesso anno, scritta da Franciosi per istigare le donne ad istruire i figli con una robusta cultura laica, senza abbandonarli in convento alla mercé degli odiati preti; una polemica in Consiglio, sempre di quell’anno (scaturita dalla richiesta inoltrata da una decina di donne per l’edificazione di un nuovo lavatoio), tra coloro che volevano permettere anche alle signore di presentare istanze d’arengo, e chi invece non lo voleva reputandolo esclusivo compito dei capifamiglia maschi (alla fine saranno questi a spuntarla soprattutto perché si dimostrarono sfavorevoli alla rivoluzionaria innovazione anche parecchi democratici); del 1911 abbiamo un altro scritto di Franciosi, senz’altro il Sammarinese più sensibile al problema femminile, in cui vengono criticati i mariti che, pur essendo progressisti o socialisti, in casa non facevano nulla per innalzare il livello culturale delle loro donne, che rimaneva ovviamente bassissimo; del 1914 possediamo un altro articolo di Franciosi in cui le donne vengono pregate di non lamentarsi se i mariti versavano qualche denaro del loro stipendio alla società operaia cui appartenevano, anzi di stimolarli a farlo, perché erano soldi che fornivano qualche garanzia di sussistenza in caso di malattia o di mancanza di lavoro.
Degli anni successivi possediamo pochissimi accenni ai problemi femminili e alla necessità di stimolarne l’evoluzione sociale e culturale, segno che non ci si credeva più di tanto neppure da parte di coloro che all’epoca erano culturalmente i più all’avanguardia, ovvero i socialisti.
D’altronde il paese era troppo arretrato politicamente ed intellettualmente per ritenere prioritario un problema come quello femminile. Vi erano altre questioni ben più gravi da sistemare, prima fra tutte quella economica, vista la miseria che continuava a interessare più o meno tutta la cittadinanza.
Ma anche la questione politica, il bisogno di riforme istituzionali, l’esigenza di dare esecuzione ai dettati dell’arengo del 1906, per passare effettivamente da un sistema oligarchico ad uno democratico, la necessità di abbassare l’elevato tasso di analfabetismo, l’urgenza di creare nuovi lavori e nuove fonti di reddito, lo scoppio della 1a guerra mondiale, l’avvento del Fascismo, che non sarà certo favorevole a vedere la condizione femminile sotto ottiche diverse, ed altro ancora, tra cui non escluderei il limitato interesse ad evolversi delle stesse donne, troppo radicate nelle mentalità di sempre per sentire ancora in maniera pressante l’esigenza di perfezionare il loro stato sociale, sono fattori che rimandano alla seconda metà del nostro secolo l’inizio di un processo migliorativo per le donne sammarinesi, processo che sicuramente non è da considerarsi ultimato.
E’ chiaro che con questi presupposti la Società di Mutuo Soccorso femminile non aveva la reale possibilità di svilupparsi più di tanto, né soprattutto poteva essere fortemente incisiva a livello sociale. In effetti non possediamo quasi notizie di questi suoi primi anni di vita. Soprattutto non abbiamo informazioni relative alla sua attività dentro la società sammarinese, neppure dai giornali locali che sono una presenza costante e anche pettegola del periodo. Sappiamo che venne fondata con i proventi di una lotteria a premi organizzata nel giorno della sua inaugurazione, cioè quando Franciosi tenne il suo discorso (2 settembre 1900), e con qualche finanziamento a fondo perduto della Cassa di Risparmio. Sappiamo inoltre che al 31 dicembre 1913  aveva un attivo di 10.000 lire, investito in un libretto di risparmio, e 107 socie. Ma non sappiamo praticamente altro.
Vista la carenza di documenti di cui si è detto, fondamentale diventa lo “Statuto Regolamentare della Società Femminile di Mutuo Soccorso”, edito per la Tipografia P. Angeli nel 1899, per capire la logica e i motivi che determinarono la creazione di questo nuovo gruppo sammarinese.
La Società nacque avendo per principio la Fratellanza e per fine il Mutuo Soccorso, senza porsi ulteriori scopi al di là di questi. Essa si riprometteva di coadiuvare il benessere economico e morale della classe operaia, promovendo l’incremento dell’industria e aiutando con ogni suo mezzo tutte quelle istituzioni che saranno per essere vantaggiose alla classe medesima.
Le socie potevano essere “effettive”, se volevano godere delle sovvenzioni stabilite, versando una quota settimanale; “onorarie” se, pur versando la medesima quota, non avessero preteso le sovvenzioni; “benemerite” quelle che avessero versato nelle casse della Società cifre considerevoli, superiori cioè alle 100 lire.
Era retta da un Consiglio Direttivo composto da una presidentessa, dalla sua vice, da una segretaria con vice, da una cassiera, da due revisori, da dodici consiglieri, e dalle ricevitrici che potevano essere di numero variabile. Venivano elette dall’assemblea generale ogni anno. Il primo Consiglio risultò composto da: Maria Filippi, presidentessa, Saveria Bonelli, vice, Pina Bonelli, segretaria, Giuditta Simoncini, vice segretaria, Nazzarena Martelli, cassiera, Tilde Scaglione e Teodora Francesconi, revisori, Giacomina Para e Albina Casali, esattrici, più undici e non dodici consigliere (Ida Tonnini, Costanza Bonelli, Marietta Borbiconi, Anna Fattori, Tina Gori, Verdiana Grazia, Rossina Belloni, Anna Forcellini, Giuditta Simoncini, Gelina Belluzzi, Maria Giancecchi).
Ogni socia, dopo tre anni di iscrizione, nel caso di malattia superiore ai tre giorni di convalescenza, testimoniata sempre da certificato medico, e tale da rendere inabile a qualunque lavoro e alle faccende domestiche, aveva diritto ad un sussidio giornaliero. Si era però escluse da tale beneficio per il parto, per gl’incomodi provenienti dalle funzioni fisiologiche del sesso ed anche per la gestazione, perché il gruppo ancora non possedeva fondi a sufficienza per coprire tali forme di inabilità al lavoro.
Il sussidio consisteva in 50 centesimi al giorno per i primi sessanta giorni di malattia, e 25 per i due mesi successivi. Dopo tale lasso di tempo non si aveva più diritto a percepire nulla, se non dopo ulteriori sei mesi.
Si poteva essere espulse dalla Società quando si era insolventi nella quota d’iscrizione, quando si cercava di percepire il sussidio fraudolentemente, quando si subivano condanne penali per qualunque titolo infamante, quando si teneva vita dissoluta e pubblicamente disonesta, abbandonandosi all’ozio, all’accattonaggio e all’ubriachezza, a quei comportamenti, cioè, che, come in passato, continuavano ancora a fare la differenza tra una donna per bene e una donna di malaffare.
Informazioni tramandate oralmente ci testimoniano che la Società di Mutuo Soccorso Femminile ebbe in realtà anche in questi suoi primi avventurosi anni di vita una certa attività a favore delle socie, ma anche delle donne o ragazze più bisognose della Repubblica.
Si sa, per esempio, che venivano elargiti aiuti alle ragazze prive di mezzi che volevano sposarsi e necessitavano quindi di vesti o di un corredo minimo. Si sa pure che in caso di manifesto bisogno di qualcuno, la Società si prestava in tutte le maniere possibili per fornire qualche sostegno e conforto, non solo di natura economica.
D’altronde Franciosi aveva colto nel segno quando aveva parlato di naturale predisposizione delle donne all’aiuto caritatevole, al sostegno morale e alla benevolenza verso i bisognosi ed i sofferenti. In effetti, anche prima della costituzione della Mutuo Soccorso Femminile le donne sammarinesi svolgevano con convinzione e disinteressatamente lo stesso tipo di attività in Repubblica. E’ chiaro che ora, con un’organizzazione più capillare, regolamentata addirittura per statuto, quest’attività occulta ed anonima, di cui purtroppo non ci è rimasta alcuna traccia scritta con cui poterla ricostruire dettagliatamente, dovette essere anche più sistematica, incisiva e giovevole alla bisognosa comunità sammarinese, che sulla bontà d’animo e la filantropia delle donne aveva sempre fatto affidamento.
Se così non fosse, non si capirebbero i concreti motivi per cui la Società Mutuo Soccorso Femminile non sia scomparsa poco dopo la sua nascita, ma abbia avuto la forza e la caparbietà di giungere fino ad oggi per festeggiare il suo primo e sicuramente non ultimo centenario.

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