Diego
Anni fa ero docente di materie letterarie nella scuola media e,
quando veniva il momento d’insegnare in una terza, ovvero un anno sì
e un anno no, m'industriavo per fornire ai ragazzi qualche
conoscenza semplice, ma esaustiva per la loro età, sul vasto
patrimonio letterario italiano, soprattutto sulla poliedrica
produzione di fine Ottocento e del secolo successivo.
Ovviamente non si può pretendere che a quell’età i ragazzi capiscano
in profondità e minuziosamente la ricchezza di un Manzoni, il crudo
mondo di un Verga, le turbolenze dell’animo di Montale, Quasimodo o
di altri creatori della nostra letteratura, messaggeri di mondi
complessi, infiniti e pieni di sfumature, che il più delle volte
anche i grandi sono in grado di cogliere solo in parte.
Non si devono però nemmeno sottovalutare le vaste potenzialità dei
ragazzini, ancora piccoli, sì, ma dannatamente sensibili dentro
(molto più della maggioranza degli adulti, ormai tragicamente
disincantati), e apertissimi a tutte le novità per loro attraenti e
degne di curiosità.
Fondamentale per un buon insegnante, secondo il mio parere, è
proprio la capacità che deve possedere, o di cui si deve dotare in
fretta, di saper conciliare l’interesse dei suoi studenti con quanto
desidera e prova ad insegnare loro.
La letteratura, dunque, se non appesantita da sterile nozionismo o
resa astrusa da voli eccessivamente alti, può essere assai
stimolante e coinvolgente anche per i preadolescenti.
Verso la metà dell’anno scolastico, eravamo, mi sembra, nel 1999, la
classe stava affrontando l’ermetismo, cavallo di battaglia di
qualunque insegnante d’italiano che si rispetti, perché argomento
pieno di fascino per tutti, anche per i giovani.
Dopo aver studiato vari autori ermetici, giungiamo un bel giorno ad
analizzare “Mattina” (M’illumino d’immenso) di Giuseppe Ungaretti,
senz’altro la lirica più essenziale del Novecento, ma anche la più
famosa.
Spiegato il senso profondo offerto dalle poche parole che la
compongono, l’inno alla gioia che contiene, la difficoltà di
comprendere chi ne sia il soggetto (l’autore o la mattina stessa), e
tutto ciò che si può affibbiare come interpretazione ai quattro
vocaboli da cui è animata, ho deciso di assegnare ai ragazzi come compito
a casa la realizzazione di una poesia ermetica, quindi scritta con
sobrietà lessicale, in cui dovevano però esprimere non luminosità e
letizia, ma tristezza e malinconia.
Sapevo che per alcuni era un compito ostico. Ogni classe ben
strutturata, infatti, ha al suo interno cime elevate, in genere
sempre all’altezza, e valli infossate, in genere sempre sprofondate,
con tante pianure abili a sopravvivere a qualunque calamità
didattica ideata dalla mente perversa e demoniaca del docente di
turno.
Anche quella mia ormai remota III F era fatta così, per cui sapevo
che la maggior parte dei suoi campioni poteva fornire qualcosa di
decente, pochi qualcosa di alto, alcuni solo qualche infimo e agghiacciante
arzigogolo.
Tutti però sapevano che se non volevano vedere il prof. Casali (io)
far fiamme dalle narici, e scagliare schizzi di veleno come un cobra
sputatore negli occhi del malcapitato, dovevano sforzarsi di
produrre qualcosa di esclusivamente loro, per quanto raccapricciante
potesse dimostrarsi.
Non ho mai accettato un “non ce l’ho fatta”, mentre ho sempre
apprezzato un “c’ho provato, ma ho fatto un disastro”: sui disastri
qualcosa si può ricostruire, sul nulla, nulla.
Dopo qualche giorno, arriva il momento di verificare cosa avevano
fatto i ragazzi. Uno ad uno li faccio alzare dal banco, leggere
quanto composto, commentare il loro scritto, prendere parte da
protagonisti ad eventuali discussioni suscitate nella classe dai
loro lavori.
Chiaramente alcune cime avevano prodotto cose anche egregie, spesso
ben al di là delle mie aspettative, le pianure se l’erano cavata,
alcune valli pure, altre (poche) no, ma tutti avevano svolto, o
almeno tentato di svolgere, il compito assegnato.
A un certo punto tocca a Diego leggere il suo componimento.
Diego era un ragazzino come ce ne sono in tutte le classi: buono,
semplice, dallo sguardo dolce, capace di seguirti con quella tipica
espressione di chi sembra pendere dalle tue labbra, e cogliere al
volo tutto ciò che dici, di chi pare brami nutrirsi dell’intera
cultura dell’universo, per dimostrarsi poi invece uno che chissà
dov’era quando parlavi, forse sulla luna, o magari solo nel giardino
di casa sua a giocare idealmente con un pallone.
Diego era fatalmente una valle, verde, tranquilla, piena di
uccellini cinguettanti, fiori profumati, caprioli brucanti, fiumi
placidi, così lontana dalle cime da non provare per loro nessuna
invidia, anzi: proprio soddisfatta di stare dov’era.
Dipanato il suo foglio stropicciato e grigiastro (difficilmente le
valli ti presentano fogli stirati e candidi), legge caparbio a voce
alta e senza tentennamenti: “Mi oscuro d’esiguo”!
Mi oscuro d’esiguo??? Cosa vuol dire mi oscuro d’esiguo? Tutti a
guardarci smarriti come se a parlarci fosse stato uno sceso da Alfa
Centauri, non il nostro Diego…
Poi all’improvviso le nebbie del suo tragico ermetismo, tanto
ermetico da poter essere forse classificato come iperermetismo, o
postermetismo, o avanguardia ermetica, o quel diavolo che volete, si
sciolsero gradualmente…
Diego, che si era trovato a dover svolgere da solo un compito per
lui arduo, che temeva di vedere il prof. Casali far fiamme dalle
narici, e scagliare schizzi di veleno come un cobra sputatore, che
non era cima, e nemmeno pianura, ma doveva e voleva ad ogni costo
svolgere al meglio il lavoro assegnatogli, non si era perso d’animo,
ma, preso il suo bel dizionario dei sinonimi e contrari, aveva
svolto scrupolosa ricerca per scovare le parole più adatte ad
esprimere la tristezza e la malinconia che gli erano state
richieste.
Così aveva trovato che “m’illumino” poteva essere trasformato
correttamente in “mi oscuro”, mentre “d’immenso” poteva diventare
“di piccolo”, “di minuto”, “di modesto”, “di limitato”, “d’esiguo”…
ecco, “d’esiguo”…: “d’esiguo” suonava proprio bene!
Alla fine aveva in tal modo partorito “Mi oscuro d’esiguo”, cioè una
pagina memorabile di neoletteratura scolastica piena di presunta
tristezza e malinconia, che mi ha dato, al contrario, uno dei
ricordi più belli e giocondi della mia vita tra i ragazzi.
Naturalmente non ho potuto far altro che dargli un bel voto.
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