Pagina Iniziale

 

 Propaganda dialettale, religiosa, maccheronica del primo socialismo sammarinese

       

Comunicare con gli altri, manifestare in modo preciso ed incontestabile il proprio pensiero, cercare di far comprendere pienamente la posizione che si vuol sostenere, il concetto che si vuole esplicitare, la teoresi di cui si è convinti, non è  sempre facile e immediato.
     
     Lo sanno bene gl’insegnanti, che tutti i giorni sbattono il naso contro il problema di farsi capire da chi sta loro di fronte, di comunicare qualcosa di nuovo ai loro uditori. Lo sa bene la filosofia, che da secoli è alla ricerca del linguaggio chiaro e distinto, capace di esprimere senza alcuna ambiguità ciò che si vuol dire. L’hanno soprattutto provato sulla loro pelle tutti coloro che hanno cercato prima di pensare qualcosa di innovativo rispetto ai pensieri di sempre (pensare è prima di tutto trovar le parole giuste e comprensibili per cercar di comunicare qualcosa di sensato e convincente a se stessi), poi di divulgarlo agli altri.
            A volte è una questione di registri linguistici. Se si vogliono spiegare o chiarire concetti a chi ne è pienamente o parzialmente a digiuno, occorre trovare i registri linguistici giusti: adeguati, cioè, alle aspettative intellettuali, ai mezzi lessicali e logici del potenziale fruitore del messaggio; capaci, inoltre, d’insinuarsi aggressivamente nei suoi stereotipi mentali che, come tanti anticorpi, sono sempre pronti ad avversare i nuovi concetti, le nuove parole, quasi fossero virus pericolosi. 
            Le difficoltà maggiori che si riscontrano per pensare e dire qualcosa di nuovo risiedono proprio nelle parole che non ci sono o che non sono sempre appropriate.
            Queste difficoltà furono le stesse contro cui cozzarono i riformisti sammarinesi d’inizio secolo per far capire alle locali masse analfabete i loro scopi ed i loro messaggi politici e sociali innovativi, nonché i motivi della battaglia che avevano intrapreso e che volevano portare avanti.
            Come spiegare ad un contadino zoticone e barrocciaio, asserragliato nel suo mondo ingenuo e nelle sue parole di sempre, nel suo credo elementare e mummificato, concetti come suffragio universale, oligarchia, democrazia, referendum, eguaglianza e altro ancora? Come dirgli che la cultura cattolica, l’esclusiva forma di sapere di cui frequentemente era in possesso, era solo uno dei tanti modi d’interpretare l’esistenza, non l’unico? Come smuoverlo dalle sue certezze granitiche ed immutabili, anche se arcaiche e superate, che così bene lo avviluppavano e proteggevano?
            Non era faccenda di poco conto, visto il tasso elevatissimo di analfabetismo esistente a San Marino. Si scelsero prevalentemente due strade: la sistematica propaganda orale nei singoli Castelli rurali, e la divulgazione di scritti elaborati con il linguaggio e le cadenze cui erano abituati i popolani, testi che ovviamente venivano divulgati a voce alta da quei pochi che sapevano leggere, ma che, utilizzando registri lessicali appropriati e di estrema semplicità, erano capaci d’insinuare nelle teste alcune di quelle parole nuove che si volevano diffondere. Il dialetto locale fu perciò uno strumento molto usato per divulgare, tra il serio e il faceto, ciò che si voleva affermare.
            Un’altra tecnica idiomatica ampiamente sfruttata, a San Marino come in Italia, fu quella legata invece al linguaggio di tipo religioso e moraleggiante, usato per parlare ai popolani con i codici lessicali cui erano più abituati, ma anche per suscitare una vera e propria adesione mistica/religiosa alla causa riformista. Tra i documenti lasciatici dal primo socialismo sammarinese, non ho reperito esempi di “orazioni dell’operaio” come quelle che circolavano tra i lavoratori italiani fin dagli anni ’80 dell’Ottocento
[1], tuttavia altri messaggi di stampo religioso sì, come i decaloghi che si riportano più avanti.
            Ho preferito non fornire traduzioni dei testi dialettali, scritti prevalentemente da Gino Zani e Gino Giacomini, per non rischiare di snaturare l’immediatezza del loro contenuto. Vi è invece qualche sintetica spiegazione di natura storica per agevolare la comprensione dei messaggi che si volevano fornire.
            Le prime tre poesie vennero scritte a ridosso dell’Arengo del 25 marzo 1906. Tutte e tre sono ipercritiche verso il governo sammarinese, accusato di aver scialacquato le risorse economiche del paese, di aver lasciato la gente in condizioni esistenziali pessime e di tollerare ancora consuetudini obsolete come la nobiltà, per nulla confacente ad una repubblica. Ovviamente sono le polemiche tipiche del momento storico, che hanno provocato montagne di altri tipi di documenti. La novità è data dalla forma poetica dialettale. 

 

 La stetua de Pianel

 

Vdiv sta dona? Quand un dè

l'era viva, corpo di Giuda!

proprie viva, che u si vdeva

che bel pet ed ceccia cruda

sotta 'l squemi ch'ui bateva;

e là aveva cert uciòn

che davera un ià nisciòn.

Mo sti nobil, vdid, iaveva

una fema acsè birbona,

corpo d'Giuda! ch'i la vdeva.

Rimirand sta bela dona

sa cert tetti pini d'lat...

i cmenzò sucè cme mat.

Soccia ogge soccia dmen,

soccia te che me ho suced...

i l'ardòss ch' pareva un chen,

e luielt i s'è ingrasèd:

i l'ardoss rugnosa e sfnida

come un Giobb, pora sgrazida!

Un bel giorne la puvrétta

la durmiva in bona fèda,

quand ii fec una burletta,

Sangue d'Giuda! un pò saléda:

dri de cul ii fec bel bel

un palaz come un castel.

E sò dentra ui fec e nid

una masa d'brotta genta,

un pò birb, un pò sgrazid,

ed un pò sporce ed pulenta;

e i cmenzò un cialamel

che un s'è mai sentid l'uguèl.

Iv sentid sò in cima i tétt

quand i soffia e i mgnaula i gat?

e is da dri se pel tott drett

baroffandse cme tent mat?

Quand luielt i discuteva

ma stel bestj i s'asarmieva.

Lia, sentend tott che rumor

e tott ch'iurle sò at cla tena,

la ciapè tent i dulor

ch'la a' la fec at la sutena:

tre dè dopp i l'ha truveda,

come ch'a vdid, pietrificheda.

                          Un Vilen

(da Il Titano, anno III, n° 18, 24/12/1905)

 

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La nosta Repòblica

 

L'è na vecia incarugnida

secca come un bacalà,

meza morta d'fema e sfnida

che mi chen la fa pietà;

mo la vò parè na sgnora

abitand un palazòn

pin d'pituri e d'iscriziòn

tent ad dentra quent ad fora,

e mantnend me su servizie

curtigen, prit e milizie.

 

Per ste dri m'èl su sureli

ch'el n'ha gnint cui venga mench,

la z'dà e blèt sò m'el mascéli

e s'la stoppa la s'fa i fiench;

 

la s'è messa e soracul

e un bel pét artificièl

com el mascri d'carnevèl;

e da tòtt chi pore fiul,

ch'ià na fema ch'in sta drétt,

la s'fa fè pézz e merlétt.

 

Se el mudandi li jamenca

lan li ha miga da fe veda!

se la vesta lan è bienca

cus importle quand l'è d'seda?

 

Cus importle, sangue d'giuda!

se de pèn lan nà mez'oncia?

E s'l'è secca cme na stloncia

la nà miga d'andè nuda!

Basta avè la casa forta:

s'un gn'è gnint, quest un importa.

 

Per mantniz acsè a la mei

e no viva a si suspir,

per dè pen mi su burdei

arleved senza mistir

e cresciud at l'ignurenza

per timor ch'i vlezz cmandè,

l'ha invented un cert merchè

che rimpesc ma tott la penza:

la vend croci am quei ch'in n'ha

e comendi in quantità.

 

Li la fa cme gli Eminenzi

quand i vend el divuzion

e i fa smerc degl'indulgenzi

per campè da gran sgnuròn.

Mo la s'sent proprie ste mel!

per paura d'vle murì

la s'è fata costruvì

un chempsent monumentèl;

e, spendend l'ultme baioch,

s'la n'è morta, ui è mench poch.

 

E la trema sta sgrazida

per paura d'andè dla:

no, no, vecia incarugnida,

secca come un bacalà:

nòn avem sotta sta scorza

ed vilen un ottim cor:

at darem e nost vigor,

at darem la nosta forza,

at farem ragaza, e béla

corpo d'giuda! cme na stéla.

                         E vilen

(da Il Titano, anno IV, n° 1, 29/1/1906)

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Una Spasigeda Notturna

 

Dop tent secol San Marèn

che sbadieva so tla Piva,

l'eltra nota e pensò ben,

mentre e popul e dormiva,

d'andè fe una spasigeda.

Us vestè s'na bienca vesta,

us metè la vecia testa

sora 'l spali ben tacheda,

e dondland dinquà e dinlà

e scapò per la cità.

 

Figurev e su stupor

quand e fò giò se Pianel!

Ui bateva dentra e cor,

che parea propri un martel:

"Bel palaz! porca paletta!

l'è più bel ch'ne la mi Piva;

bela stetua! la per viva,

la per proprie ed cherna scelta.

Accidenti i mi fiulèn

i sarà pin ed quatren!"

Tut giuliv us frigò 'l men,

e ridend per allegria,

zuppicand, purett, pien pien

us aviò giò per la via,

Quand e fò me nov luged

l'arvanzò enca più cuntent,

e guardand e monument

che daventi ià inalzed,

ut i fec un surisètt

e un inchin, cavandse e brett.

 

Buona sera, buona sera

vec amigh repubblichen,

cum tla passe a là a Caprera

sotta e guerne d'iitalien?

Garibaldi ui did n'uceda:

"Pore vec!" ui rispondè:

"Me a stag ben cum starè te;

mo la tera ch'em bagneda

se nost sangue e se sudor

la sta mel: la ia i dulor."

 

San Maren un i badò

m'el paroli de su amigh,

e la streda e seguitò

per e su paes antigh;

e vest tòtt quèll ch'u iè d'bel

e teetre in costruziòn,

e la mura de stradòn,

e la mura de macel,

e ginesie ed e liceo

e culeg ed e museo.

 

Ma tra tent bel robi reri

una cosa ui did pensir:

per el scoli elementeri,

l'istitud d'erti e mestir

un truveva un fabriched;

mentre e vdeva dognitent

un palaz ch'l'era un convènt

pin ed notle magnapched;

l'acquedot un e troveva,

me 'l canteni l'iabundeva.

 

E cmenzeva a dubitè

del richezzi dla su genta,

quand e sent da lelt caschè

un ves d'roba un pò puzlenta;

us tirò sobte più in là

esclamand: "Che pulizia!

Sangue d'Giuda, quest an vria

ch'fòs profum ed nobiltà:

a boncont a voi andè

e Palaz a visitè."

 

E l'andid. "L'entrò la porta

e salè che bel scalòn,

o l'avrè la casa forta;

mo un trovò gnenca un valòn.

Us sentè i cavèll drizè:

pore vec! us rabiò tent

che am scumett, se un era sent

us meteva a bestemiè,

e per veda cum ch'las sia

e va giò in segreteria.

 

Quan e lèss tòtt i verbel

che e cunseglie l'eva fat,

us sentè proprie vni mel,

e l'urlò "mo iè dvent mat?

 

Ah! pulpetti! i mi quatrèn

e e restent is l'è magned!

Ah! che rugle d'aguzèn!

Ch'ui ciapas na cagarela

chl'hai pulèss enca la pela!

 

E fugend e vest Pelò

un bel chen da cuntadèn

sa la coda arvolta in sò,

se pel long fina sel trèn.

 

"Chen" ui dess: "chen, vèn a qua:

Crest e vo che ianimèl

i sia tòtt', tòtt quent uguel:

Me at decret la nobiltà!"

E dètt quest, sobte e spariva,

pore sent! dentra tla Piva.

                  Un Vilen

(da Il Titano, anno IV, n°2, 18/2/1906)

 

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Ad arengo avvenuto, Il Titano continuò a pubblicare saltuariamente poesiole in dialetto, soprattutto per bersagliare personaggi invisi ai riformisti, ma anche per continuare nelle polemiche di sempre. Si accentuarono sempre più i toni anticlericali, perché era opinione comune tra i riformisti più oltranzisti che la laicizzazione dello Stato fosse il secondo passo da fare dopo la conquista del suffragio elettorale periodico.

 

 

E CALDARON

 

C'era una volta...Oh, non crediate mica

che quest la si' 'na papola o 'na fola!

Nun dubitè, av dagh la mi' parola

che quel che dico non è storia antica.

 

Un Caldaio riempito a gran fatica,

ch'l'aveva da servi per 'na famiola,

per via ch'u jera a lè la s'ciumarola

restò pulito in men che non si dica.

 

E sapete chi fè si bel servizio?

chi s'died premura d'fe' sta pulizia?

quelli di guardia, gente di giudizio,

 

omne che d'religion i n'eva tenta,

che il Calderone, quella gente pia,

i l'eva ciap per l'ebie d'l'aqua senta.

                                   OGNI

(da Il Titano, anno IV, n° 17,  16/12/06)

 

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Macchie....e Macchiette Consigliari

(Coppia zoologica)

 

Accoppiati nel nome e nella fede,

e provenient tutt dò d'na stessa stala,

el pigori e i sumar d'sotta la Vala

li voller del Governo nella sede.

 

L'uno, compreso del suo stato, siede

omil e scot, ma ch'l'elt e fa da spala

alla Congrega stolta che non cede,

e us sbat cme zocca ch'la si resta a gala.

 

E dai a bagajè con tent ardor

di leggi, di trattati e di decreti

com us parlass ed vachi o d'salbador...

 

Quist, quist l'è i cervell fen, i mi' burdej!?

Zucche devote, consacrate ai preti,

testi che e gatt ui na magned del mej!!

 

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L'Armigero

 

Con un pass da sulded, dret u s'avenza

qual se gridasse all'inimico: Moia!

S'apposta sulla scranna\- angue de bboia!

che d'la pavura lu l'è propri senza.

 

Avdendle tent canid per la credenza

(quella però che riempie l'epa crola)

quelch vilen arguend ch'ul fass s'la voia

gli fece di Divina provvidenza.

 

Li died  vintidò pali e il mess t'che sid,

uomo di cappa e spada e d'sagrestia,

se cervell t'l'intesten, l'ingegn ti pid.

 

Eccolo là, sergent d'l'Oligarchia:

Fianch dest! Spallarm! puntat! e grida ardid

si Suzalesta ui vo un po' d'enerzia.

                                       L'uomo che ride

(Il Titano, anno V, n° 3, 5/2/1907)

 

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GIUDA ISCARIOTA

 

Tanto gentile e tanto onesto pare

quand t'l'incontre per strada e ch'ut saluta;

ut pér un Crest, tott scot, a bocca muta

e gli occhi ch'ià pavura di guardare.

 

Come un romeo lo sentirai laudare

da certa genta si stess pann vestuta,

ma credme l'è una maschera venuta

la figura di Giuda qui a mostrare.

 

Us mostra acsè impostor che bast tul mira

negli occhi per veder riflesso il cuore

d'un gagliot traditor ch'us po' dè a prova.

 

Sentle che zcorr: e per che d'bocca us mova

un veleno sottil...ma pien d'amore

ch'l'appesta per fin l'eria ch'us respira.

                                            Dente

(da Il Titano, a.V, n° 5, 3/3/07)

 

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Una bella risposta

 

Tel primm seduti de Cunseglie arnov

i membri sì spartir in due sezioni

a destra asini, pecore e volponi,

a mancèna tott quj dè guerne nov.

 

Quand'ecco che dagli alti seggioloni

ed destra du ch'sè mess tott e vecc cov,

un cunsiglir, cun steva ben, us mov

e si siede di contro ai parrucconi.

 

A psì capì che cias ch'ielt a te veda

un caso tal stupefacente e strano;

isdied a fè un bisbei cun s'po mai creda.

 

Onde quel tal pacato disse: Piano!

nu gurdè già du ch'am so mess da seda

che non ragiono mai col deretano!!

                    L'uomo che ride

(Il Titano, a. V, n° 8/9, 1-5-07)

 

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La Comare

 

Cuj sia la nev o ch'bata e sol leon,

li la camena e gira che te gira,

sla spotla in testa e sla su vesta nira,

e la cmenza ben prest, prima d'clazion

 

Per truvè come li quelca pitira

la va tel cisi a fè el su divozion,

la scapa, la s'aferma a ogni purton,

la ciachera, la s'sbatt e via cla tira.

 

Ch'sa fala? La difend l'Oligarchia

comessa - viagiator - propagandesta

da la matena vers l'avemaria.

 

La mett su el doni contra i sucialesta,

la dà na mena ma la polizia

e e su pez d'paradis acse l'aquesta!

                      L'uomo che ride

(Il Titano, a. V, n° 10, 17-5-07)

 

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Il 4 agosto del 1907 accadde un grave parapiglio tra alcuni turisti capitati a San Marino a bordo della loro auto e un frate sammarinese, aiutato da diversi fedeli che lo stavano seguendo in una processione da Città a Borgo. In pratica l’automobile si era intruffolata in mezzo alla processione suscitando le ire dei presenti e un diverbio che ben presto degenerò in rissa. Alcuni dei presenti cominciarono a tirare sassi contro la macchina: questo diede il pretesto al Titano, iconoclasta per vocazione, di rinfocolare la polemica anticlericale, che da tempo stava fomentando, tramite parecchi articoli sul fatto e la seguente gustosa poesia dialettale.

 

  La piogia miracolosa

 

Ades, sgnor Sucialesta melcuntent,

an dirid piò che i prit iè fanfaron?

Masa d'bublott! Pruved mo s'a sid bon

ed fe piova vuielt tott i mument!

 

I prit a s'un manded ed pagament,

sa quatre tocc suned m'e campanon

s'un oremus e un sent in prucession

i fa piova, perdio! cme iacident.

 

E sti elt giorne a vdrid che pien pianen,

basta ch'i porta un Crest antigh a spas,

i farà piova lasagni pen e vén.

 

Intént un fret ch'là mez quintel ed gras

e na bocca ch'per quella de delfen

là fat piova, indvined? un rugle d'sas!

 

Precisament! Un fret ed Valdragon,

un bel fret in cuncet ed santità,

purtand una madona in prucission

là fat piova sasedi in quantità.

 

E e guerne invece d'dei la nubiltà

invece ed decretei tent ed curdon,

e guarnac là cumess l'infamità

d'fel ciuda come un ledre tla priscion.

 

Guerne d'brighent, perdina! e preputent,

che sfida gli ongi di conservator,

e l'ingabia un minestre de signor!

 

E bastaria per dimustré c'lé un sént

veda che prega l'aqua, e bev e ven,

che dmanda la pulenta, e magna e grén.

                          E vilèn che prutesta

(Il Titano, anno V., n° 15 – 16, 18/8/1907)

 

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    Un’altra grande battaglia combattuta dopo l’arengo fu quella per creare Leghe operaie con cui contrastare lo strapotere del padronato. Non fu scontro facile, perché gli operai spesso temevano di poter subire ricatti e vendette, qualora si fossero aggregati tra loro per rivendicare diritti. La seguente poesia rappresenta una delle tante istigazioni all’associazionismo. 

 

La Lega

 

Vliv ch'a la degga? A sem un mocc d'marmoti

nuielt ch'a lavuram per i padron:

a vlem mazé, squarte a vlem fe 'l boti

e la féma la c' cheva i pantalon!

Vliv ch' al ripeta? s'an furmam na lega,

i nost padron, proprie luielt, ic frega.

 

Precisament, ic frega! Oltre che e grén

i vo avé la su perta dla pulenta,

e te rusga la gianda, por vilén.

Mo la gianda perdio! lan ce cuntenta,

e a farem lega: mo, per carità!

ch'un sia quella de pret s'la nubiltà.

 

E pret e dis: “oremus et papettam

intercedente Sancta nobiltate

habemus anca nos una servettam

et una pancia plena gravitate.

vuletis cunservar pan et salame?

facite lega cun sacerdos. Ame."

 

La nubiltà la disc: Credo ed adoro

il dio quattrino in grande quantità:

cos m'inportle di patria, di decoro?

cosa contla m'i spred la nubiltà?

I fiul i bossa casa? i vo i quatren?

pret ven a qua, avlem fe lega insen.

 

E ià fat lega. Li, liberalota

la va tla cisa a fe 'l su divozion:

lu che creda sulament a tla pagnota,

e disc la messa, acse per prufesion:

e nun a penza svuida, por vilén,

a stam da veda e po a sbatem el men.

                      e Vilen che prutesta

(Il Titano, a.V, n° 17, 3/9/1907)

 

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Quando nel 1908/1909 i cattolici sammarinesi iniziarono a raggrupparsi per contrastare politicamente le forze riformiste, Il Titano cominciò a bersagliarli con continui sfottò e roventi provocazioni. Il Somarino era il nome attribuito al loro giornale (che in realtà si chiamava San Marino), e  la Scuciarela era il soprannome assegnato al loro gruppo. In compenso i cattolici chiamavano Tetano il Titano, alimentando ovviamente polemiche infinite e terribilmente acide.

 

E Stemma dla Scuciarela

 

E stemma i là decis tun'adunanza

fata na dmenga sera in Sagrestia

e presiedeva un fret d'Santa Maria

che da un quelch rosp l'ha eredited la penza.

 

L'è un stemma pitured acsé pursia

da un cert dutor sora na paranenza:

un stemma nov e pin ed stravaghenza

che porta scrett giù sotta, avemaria.

 

Avemaria, deh' madre dei signori

fa ch' venga un acident mi liberel

e aumenta i prit, i capucen, el sori!

 

Avemaria: fa crescia l'ignurenza

fa che i cervell i nascia senza sel

e i scuciarell i sguaza at l'abundanza!

 

Sopra lo stemma inveci dla curona

e caplen ui ha mes la sua beretta

ornata di una piccola crocetta

longa tre pelme sla misura bona.

 

Ogni mont l'ha la coscia per turretta

sa tre ladron ch'jncioda na madona;

e invec dla quercia, oh sangue dla mi nona!

ji ha caced la pelma benedetta.

 

E cuntorne l'è fat sa un armiston

ed stinch ed sent, ed mocle benedétt,

smuclador e ermi et chesa et bizocon,

 

tutta roba, us capesc, per i purett,

eccetued la penna che am queldon

la serva per fe zero ti librett!

                              E Vilen

(Il Titano,a. VII, n° 11, 6/6/1909)

 

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Dai del Bot....

 

O burdel cus cu jé d'nov?

La galena l'ha fat l'ov;

la l'ha fat per tott i'aloc

a vdirem sl'è fresch o cioc,

e la s' sgola da l'alter

per ciamev tott te puler.

Ma tui ment, l'è una galena

piò d'na volpa tresta e fena,

nira ed cor e nira ed vesta,

nir la coda e nir la cresta....

Sa vlid scioi st'indvinarela

dài de bot t'la scuciarela.

 

Ià pianted na società

fra campagna, Borg, Cità,

fand inscim un armiston

fra puvrett e fra padron,

operai, casnulent,

vagabond, birbun, budghent,

sfrutador e bagaren,

mest si povre cuntaden;

e sta genta ed tott i sit

jè cmanded da fret e prit,

Bertol cort mestre ed capela....

Dài del bot t' la scuciarela.

 

Ià pensed sti clerichel:

"la butega la va mel,

s'an truvam un espedient

d' fe cuntrast ma st'el curent

ch'el travolg totta la tera;

e vdirid che sera - sera

se sti zocch ed cuntaden

i si sveggia pien pianen,

i evra i occ, ui ven la vèsta

i dà ment mi sucialèsta,

penza nosta bona nota

uc fugg via la pagnota!

uc si svoida la budela...

Dài del bot t' la scuciarela.

   

Per fe in mod che lo intenda

e che in s' cheva ades la benda,

per no fe che lor is stoffa

ed vle viva a t' la so moffa,

lavurè per dl' elta genta

per un pcon schers ed pulenta,

cuvris d' debit ed dulor

per mantì i prit e i sgnor,

andè fura per e mond

a prufet di vagabond...

imbrujamie, fammie creda

ch' lè in pericol la su feda!

La truveda la jè bela...

Dài del bot t' la scuciarela!

 

Si capesc i su dirett,

at salut, nun a sem frett;

i s'arvolta, is prella, ic lascia,

i c'incioda la ganascia;

si dà ascol mi democratich

uc ven mench e nost spilatic.

Sa st' progres, sta civiltà

la repobblica s'arfà,

e l'è fnida la cucagna,

piò un se cmanda, piò un se magna,

donca gemma per finzion

chi cumbatt la religion,

ui vnirà la tremarela...

Dài del bot t' la scuciarela.

 

Ech perché jà stes la reda!

per tradì la bona feda

di puvrett e di cristien,

d'ioperai e di vilen,

che credend difenda el cis,

Gesù Crest, e paradis,

is dà contra ma lor stess,

contra i propri su interess,

contra quì che me puvret

cun ha pen e cun ha tet,

il cunseglia per su ben

d' migliurè e su disten.

Questa, questa la jè bela...

Dài del bot t' la scuciarela.

 

Guardè mo mi capuriun!

ai cnuscid, jè vecc vulpun!

nu tni ment ch'is bat e pet

quand i s'elza o chi va let.

Tni po d'occ ma sti caplen

ch'in po tena a post el men;

st'iarcipret e sti prior

ch'is fa bel de vost sudor,

ch'is fa fura, si su vizie,

la capela e e benefizie.

Iv prumet e mond ed là,

lor intent i god a qua

se sudor dla vosta pela

Dài del bot t' la scuciarela!

 

Guardei dentra i mi burdei,

guardei dentra ben e mei,

prima ed to qualunque impegn,

perché cert e bel disegn

che carezza sta gentaia,

l'è d'ardusgia ed nov t'la paia

la repobblica e ti stracc,

d' strenggla ben ed mettie e lacc,

d'intontila, ed toi e fied,

d'agranfiè e guerne e sted

per piumbec ed piò te scur.

Sted all'erta, tui po' dur,

e a balè la padvanela,

dài del bot t' la scuciarela.

 

Ded un sguerd mi libre antigh,

a vdirid che i piò nemigh

ed sta nosta indipendenza,

qui ch' cià tnud i pid s' la penza

lè sted proprie i papalen,

pezz d' canaji, malandren.

U jè sted quelch dun d' pietà

ch' u cià arded la libertà,

mo quant loti, quant bachen

sa chi vescuv feretren,

quant dulor e quant magon

em pased per cl'Alberon

ch' l'era vnud per fecc la pela...

Dài del bot t' la scuciarela.

 

Prit s' la vesta o si calzon,

tott d' na raza, tott birbon;

penzi pini, ozios e recch

chi vo viva a spal de mecch.

Lor i disg: a sem fradell!

Già, cme i lup inscim s'iagnell.

Vo te pgnat avid a moll

na ciavata e lor un poll;

vo a sgubed tott la giorneda

e l'è un ches s'avid la pieda,

lor invec i dorma e i magna,

sa do ave i s' la sgavagna,

e s' ià voia da sfughes

ientra dentra at tott el ches:

o la moi o la surela....

Dài del bot t' la scuciarela.

 

Prit e fret iv ten ti lacc,

l'è i vost sberr, i vost spauracc;

lor in nom de padreterne,

iè padrun d'la vosta vida,

iv fa piangia e iv po' fe rida.

Pena ned iv ten tel meni,

a crescid mel su suteni,

iv ten sotta la cunfusion,

in ve lascia in abandon

gnenca quand a vlid to moj,

e quand'enca a vla vlid coj

iv cumpagna t'la barela...

Dài del bot t' la scuciarela!

 

E l'è propri sta rubacia

d' prit ed fret che jà la facia

d' dis ministre de Signor,

lor ozios e sfrutador?

Operai e cuntaden,

de cor bon, de cervel fen

avrid iocc, alzed la menta,

respingid lunten sta genta

ch' la cospira contre ed vò.

Rispondii che e bon Gesò

la pridghed, l'ha alzed la vosg

l'ha sufert, l'è anded s'la crosg,

per v lè j'omne tott uguel,

per cumbata i clerichel

de su temp; e sl'arvives

ogi giorne e pò che vdes

quii chi s'disg su servitor

ste d' la perta de signor,

truffè e popol sa j ingan,

derubel tott i dè dl'an,

inoridid a tenta vesta

us metria si sucialesta.

Vliv chi fnescia sta pasquela?

Dài del bot t' la scuciarela.

               Marcantonio Cicerchia

(Il Titano, a.VII, n° 6, 11/4/1909)

 

*********

Nadél

 

A m'arcord com'un sogn, quand da burdel

l'ariveva 'ste dè, oh che cuntent!

Che belezza la nota de Nadèl,

se ciel steled e sa che soffie d'vent.

 

E vniva giò dla capa de camen

bel bel un son d'campena lent e fioch

ch'l'e anunzieva la vnuda de Bamben

e lè gl'aiola e fiamegeva e zoch.

 

Avleva ben ma che burdel purett,

s'el gambi nudi e sla camisgia sola,

ned a sla paia e sotta un miser tett,

per dì ma tott una bona parola.

 

O falignem biunden, inutilment

te mned la frosta contra i merchent trest;

anca el cisi buteghi ogi l'è dvent

e it vend anca ma te, povre mi Crest.

 

Ogni altèr l'è un bancon e t'el navedi

i t'ha espost l'istes che un badarel...

Svegte, Gesò, e dai degl'elt frustedi

se t'viv ancora adovra e manganel.

 

Ma te tzi mort! Un dè cut vens la voia

ed dì che l'omne iera uguel fra lor

it mis in croscia come t'foss un boia,

it fec morì inscim se malfator.

 

L'è storia vecia, set! Chi t'fec de mel

e fo i prit, gentacia sempre tresta;

ades tu ni si piò, i cherichel

i fa vendetta contra i sucialesta,...

 

L'è mezanota, e giò per e camen

e ven n'invit d'un son d'campena fioch,

e tira e vent, e e nasc Gesò bamben,

ma me an me mov, a stagh vicina e zoch.

 

E vdend el loccli ch'el va so bel bel,

a pens m'un mond cus magna e cus lavora

e cl'è una fola stopida e Nadèl

che e Redentor oh l'ha da nascia ancora!

                              Marcantonio Cicerchia

(Il Titano, a. VII, n° 23-24/12/1909)

 

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Il Titano puntualmente pubblicava pezzi scritti in italiano maccheronico per prendere in giro il linguaggio grossolano e rozzo dei contadini. Servivano comunque sempre per trasmettere messaggi di qualche tipo. I brani riportati, uno in dialetto, uno in “italiano”, ne sono un chiaro esempio.

 

 

Lettera perduta

 

      Lustrissimo Sinnior Formighino

 

Che mi scusi la cosa di tornarci a scocciare cuelle parolaccie, come dicce la plebbe dei ignoranti, ma dacci e dacci colle bogliate che un vomo sii pure prodente col suvo decoro si stuffa da buono e ci gira la capelina tanto di dire si vadi alle mane e chi tavo tavo. Mo a me mi pare che questa gnorgula non si possi tolerare e arvanzi indigesto di pensare che la bobba di tutti i arversati soccialisti patroni spotici in govverno non si venghi a un ripparo per dirci basta. Ci pare lei, che era tanto rabiato per via che non ce levono messo su in consillio, dove non è più soprano che adesso ci fa la figura di un casanolante che puol darci il popolo la via di correre come si vol dire per San Michele?

Ci dico pertamente il mio pensare che mi avevo fatto di una raggione per via di dire che da un bel pezzuolino non ci erono più cuei vascelli colla piazza che inciurlavano col strilare il Tittano, che anche la Catarnina tutto quel vittoperio delle situzioni ci arbaltava il stommaco. Inveci, mo che, non ci basta ai soccialisti e nartici che è gente porsìa, di aver scadnacciato la porta della tribuna che ci vanno tutti e si vede sgagnolare quel poco docato di quel buscio, che ce lo arvanzo nella penna per via che è della nostra banda. Ai screianzati galliotti ci viene in testa di pensare di armandare fuori il Tittano che è il spavento del paiese, per andare avanti del proggresso che si vede era mellio quando che la gente andavano coi bricchi e adesso quel indiavolato autonobbile passa come una sfrombla e ci bisogna di farci il seggno della santa croce. Che adesso anche cuella che lì lanno sgata e anche il Sinniore santissimo, mi ci perdoni di biastimare non sta lì con la testa di ponire questo vittoperio. Donca li dirò che il giogo è bello fina clè corto che cuando si slunga non vale più quello, e a me mi porta un bel sconturbo. E per via che ci viene in casa don Birlone, che ci piace di dire il rosario colla mia Catarnina che là una voce che fa bel odire, e lui tutte le serate ci ha vollia di gamogne e ci dà sotto; accosì tun bel punto che la mia mollie si badurlava col fuso ci dice tutto in una volta: il duve di staltro mese i soccialisti ci mettono fuori il Tittano. La Cattarnina dà un stolzo dove diventa come una parananza di boccato che stava per albaltarsi colla caregga, io arvanzo senza sospiro colla testa che mi fava un formento inveci che don Birlone orlava come un sesso laceto laceto, che poi non cera dove la Cattarnina per via dei bannioli in quel sito dei di dietro che lè una parolaccia con rispetto parlando, laveva in cammera e presi la lume col stopina che leva messo colla cappa del camino e avolti andetti per le scale che loro aveva pazienza di arvanzare nel buglio, e don Birlone non à pavura che cià i argnoni boni.

Mo che si persuvada che le sgrazie non viene mai sole e ci deve cappitare tre diffila, che difatti col vento che fava, per via della corsa, mi ci smorcia la lume e mi ci dovei andarci a tastone e quando artornai colle scale mi sguilla il piede e faccio un straccio di ragolo che mi lascio una bella bergnoccola che dalla pavura facci delle pernacchie con una gagaccia che mai di più. Cuando Dio volse che la mia Catarnina ansava e anche don Birlone che ci è molto atacato e quando rivai a pieciare il fulminante viddi che lui ci fava i sghitoli che si vede che lè un modo di farci artornare i spiriti.

Basta; il barlummo di dire le cose si radannaranno lè una cosa che nonsi armedia, dove si vede che la baghinnara continua e lè una fotta con questa sporchizzia del Tittano che vol vedere scorgati i vuomini governanti del passato che anno costodito la repubblica con polizzia colla cuale lo riverischo e che stii bene lei e suva familia.

devot.mo

Marc'Antonio Cicerchia

antico milite della guardia di Roccha

 

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Lettra perduda

 

Illustresme Mingon,

 

at mand dò righ

per risponda al paroli tu me scrett

se foi de prit ch’ie dvent tu grand amigh’.

 

Perdonme tent s’iè nir ‘sti dò fuiett,

perché a iò scret se quere de mi calder,

la sola scrivania per i puvrett;

 

de rest am face curagg, sor profesor,

che per quant nir, in sarà mai bafed

cme i liberel che ià cambied culor…

 

Se sta partida an vlem spreché piò e fied;

vnemma piotost te merit dla quistion

e vdemma un po’ chi è ch’se piò spurched

 

me a scriva ridend qualch gras sfrudon

quelca fresa inocenta de dialett,

o te a pasè, Minghin, da mascaron;

a difenda tott quel ch’ia fatt, ch’ia dett,

tott el benfati di tu bel cumper

che fra quelch giorne j’anderà a gamb rett

 

a sustnì tott i scandol, tott j’afer

tent brott e  sporch che e mond inter us lagna

e chi cia mand se gozz di pcun amer;

 

a fe da avuched ma’ sta cucagna,

ch’la ardot e nostt paes un mocc et stracc,

e sbata el pelmi ma’ ste magna – magna;

 

fe d'meni ed pid per insaldè piò i lacc

chi ten lighed e popol d'San Maren,

cerché che e guerne us trova ed piò tl'impacc

 

e avè la facia fresca ed dì che e vlen

l'è per nun midicena ch'fa guarì,

e che una fosa ed stabie l'è un giarden;

 

tott e fraidomm e fangh avlè sustnì,

e 'sta baraca fraida ch'la fa cecch...

questa sè ch'lè, Mingon, 'na purcari

 

E nu ven a fe scrupol a mi mecch

de mi zcorra inocent e naturel

che t'fè cme e bò che dess cornud me brecch.

 

Me a degh la verità e an fac de mel;

sa l'avess fat avria un segiulon

e d'la cucagna a sarì sted me pel;

 

invec a stag cuntent fra zòcchi e mlon

che l'iè cresciudi sa la stessa smenta

ed cert cunsir, dutor, Minghin, Mingon...

 

Con ciò at salut e am degh

                          MAGNAPULENTA

(Il Titano, anno IV, n°5, 18 marzo 1906)

 

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    Un altro tipo di messaggio era quello di stampo musicale, di cui ci sono rimasti in realtà pochissimi esempi. Questo che si riporta, legato alle forti polemiche che scaturirono per il primo anniversario dell’arengo tra socialisti e riformisti moderati, è senz'altro degno di essere riedito.

 

Inno della...profanazione

(sull'aria di Funikulì Funikulà)

 

A solo - O popolo gentil Sammarinese,

che è questo qua? - Coro - Che è questo qua?

A solo - L'Arringo con il prete è un crimenlese,

è una viltà. - Coro - E' una viltà.

 

A solo - Ma dunque fino a quando canzonato

restar vuoi tu? - Coro - Restar vuoi tu?

A solo - Non t'han quattrocent'anni ammaestrato?

Che vuoi di più? - Coro - Che vuoi di più?

 

Coro - Su dormienti, alfine ci destiamo,

su dormienti, alfine gli occhi apriamo

in contro al sol de l'avvenir,

di vera libertà glorioso il sol risplenderà.

 

A solo - Ti han sempre maltrattato, quei Signori,

quale un somier - Coro - Quale un somier.

A solo - Da ogni potere t'han tenuto fuori

solo a veder. - Coro - Solo a veder.

 

A solo - Ma dunque fino a quando ecc. ecc.

 

A solo - Ed hai veduto quante birbonate

seppero oprar. - Coro - Seppero oprar.

 

A solo - Lasciar le casse pubbliche vuotate

del Gran Bazar. - Coro - Del Gran Bazar.

 

A solo - Ma dunque fino a quando ecc. ecc.

 

A solo - Ora che sei padrone diventato

del tuo destin. - Coro - Del tuo destin.

 

A solo - Da preti e gesuiti accarezzato

sei qual bambin. - Coro - Sei qual bambin.

 

A solo - Non ti curar di lor ma guarda e passa;

sono impostor. - Coro - Sono impostor,

 

A solo - Vorrebbero imbrogliare la matassa,

castrarti ancor. - Coro - Castrarti ancor.

 

Coro - Su dormienti ecc. ecc.

 

A solo - Per tua sfortuna ancora i contadini

sanno ingannar. - Coro - Sanno ingannar.

 

A solo - Si lasciano castrare i poverini

senza belar. - Coro - Senza belar.

 

A solo - Ma del progresso il fiotto onnipotente

li sveglierà. - Coro - Li sveglierà.

 

A solo - E nel cervello anch'essi un raggio ardente

di luce avran. - Coro - di luce avran.

 

Coro - Allor redento, popolo sovrano,

sul Titano libero sarai

da preti e forcaiuol.

Di vera libertà splenderà il sol.

                              Af.

(volantino del 1907)

 

*********

 

Come si è già anticipato, il primo socialismo ebbe velleità di natura mistica/religiosa, tanto che, accanto alle orazioni dell’operaio, circolavano in Italia un’infinità di decaloghi per contadini, per i lavoratori delle diverse categorie, per socialisti, per le donne operaie, e altro ancora. Anche il socialismo nostrano ci ha lasciato svariati esempi di questa particolare forma propagandistica.

 

I 7 peccati elettorali

 

1.        Rimanere a casa e disinteressarsi delle elezioni, dall'esito delle quali dipende il bene del paese.

2.       Cedere alle sollecitazioni di coloro che combattono all'oscuro e battono la campagna per far trionfare il nome di qualche loro padrone.

3.       Compilare di proprio capriccio la lista senza riflettere che in tale maniera i voti vanno dispersi oppure vanno a vantaggio dei meno adatti dell'una o dell'altra lista.

4.       Votare per simpatia od antipatia personale anziché considerare gli intendimenti, il valore, il carattere dell'una o dell'altra lista.

5.       Cambiare qualche nome dalla lista popolare e mandare così qualche voto a favore degli avversari.

6.       Dimenticare la data solenne del 25 marzo che è gloria del Comitato Pro Arringo e negare a questo la propria fiducia costringendolo a cessare l'opera iniziata per il bene supremo della Repubblica.

7.       e più grave peccato: Rimandare in Consiglio gli uomini che col disordine permanente, coi favoritismi, colle spese inutili, con privilegi assurdi, colla babilonia amministrativa, cogli scandali d'ogni genere e d'ogni colore, col negare ciecamente i diritti che spettano al popolo, hanno condotto la Repubblica sull'orlo di quell'abisso verso il quale ritornerebbe senza dubbio, se riuscissero trionfanti nell'urna.

                           (Il Titano, anno IV, n°10, 3/6/1906)

 

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I Comandamenti per l’Organizzato

 

1.        Non credere che la tua Lega sia stata creata solo per lo sciopero; piuttosto ricordati sempre che ha altri compiti da soddisfare.

2.       Non dire che la tua Lega non vale nulla, soltanto perché le tue idee non trovano subito o non trovano sempre favore.

3.       Non aspettarti che il tuo salario cresca subito e di molto, appena avrai pagato per qualche tempo i tuoi contributi alla Lega.

4.       Non metterti in testa di poter ottenere altri salari se paghi tenui contributi, perché solo a quelli che hanno sarà dato, e con quote basse le casse sociali restano povere e le organizzazioni impotenti.

5.       Non dire: “Anche senza di me l’assemblea avrà luogo ugualmente”, perché in verità ti dico che se ogni socio pensasse come te, la Lega non starebbe in piedi.

6.       Non andartene dall’assemblea prima della fine.

7.       Non parlare troppo e a sproposito nelle assemblee. Ricordati che anche nelle più belle opere di musica ci sono delle pause.

8.       Non dirti “organizzato” se non comperi un giornale socialista tutti i giorni e se non leggi il tuo giornale professionale da cima a fondo. Non acquistare giornali capitalisti finché i giornali operai lottano per la loro esistenza.

9.       Non trascurare i libri e gli scritti che ti possono illuminare sulle questioni sociali e sui problemi di classe, e quelli che possono coltivare il tuo spirito come lavoratore e come uomo, per leggere in cambio delle storie inventate, senza capo né coda, e stupide come la balena di Giona.

10.    Usa moderatamente di bevande alcooliche e non frequentare, brillo come Noé, le assemblee: giovi meglio alla buona causa se ne resti lontano quando sei in quello stato.

                                            (Il Titano, anno V, n°24, 31/12/1907)

 

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I Comandamenti dell'elettore proletario

 

1.        Tu sei il servo dei servi, ma il giorno delle elezioni puoi diventare, se vuoi, il padrone dei tuoi padroni.

2.       Non aver paura delle idee nuove; abbi solo paura delle idee cattive.

3.       L'idea di conquistare per tutti gli uomini la libertà, la giustizia ed il benessere non può essere un'idea cattiva. Se sei veramente cristiano, tu devi anzi amarla, difenderla, propugnarla con tutta l'anima tua, perché essa è appunto l'idea di Cristo, l'essenza del cristianesimo.

4.       Non diffidare del Socialismo che vuole la libertà, la giustizia ed il benessere per tutti: diffida invece di coloro che ne parlano male senza sapere che cosa sia.

5.       Se sei lavoratore, hai l'obbligo sacrosanto di votare per il vantaggio della classe lavoratrice, perché questo è anche il vantaggio tuo e della tua famiglia. Chi non vota non è cittadino: e chi non vota il miglior Consigliere è un cattivo cittadino.

6.       Il miglior Consigliere è quello che ti viene proposto e raccomandato non già dal partito dei ricchi, dei tuoi padroni, dei tuoi sfruttatori, ma dal partito dei poveri, dei tuoi fratelli di lavoro che conoscono bene le tue condizioni e i tuoi bisogni, perché anch'essi vivono come te.

7.       Non votare per il candidato dei signori e dei preti, perché tu non sei né signore né prete, ed i signori ed i preti hanno interessi diametralmente contrari ai tuoi.

8.       Non vendere il tuo voto. Quelli che ti pagano nel giorno delle elezioni vogliono ubbriacarti perché tu non conosca i tuoi amici e voti contro il tuo interesse.

9.       Se qualcuno ti domanda o anche ti minaccia per farti votare in un modo piuttosto che in un altro, tu non devi ubbidire. Sta zitto e vota secondo la tua coscienza.

10.    Ricordati sempre che IL VOTO E' SEGRETO. Nessuno vede che nome scrivi o fai scrivere e nessuno può riconoscere la tua scheda in mezzo ad altre cento.

(Il Titano, a. VII, n° 12, 13/6/1909)

 

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Decalogo già adottato in molte scuole italiane
in luogo del Catechismo

 

1.        Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro per tutta la vita.

2.       Ama lo studio che è pane della mente; e sii grato a chi l'insegna.

3.       Onora le persone buone; rispetta tutti; non curvarti a nessuno.

4.       Più che il rimprovero altrui, temi quello della tua coscienza.

5.       Non odiare, non offendere, non vendicarti mai; difendi il tuo diritto e non rassegnarti alla prepotenza.

6.       Non commettere bassezze, viltà: difendi i deboli.

7.       Ricordati che i beni della vita sono frutti del lavoro; goderne senza far nulla è come rubare il pane a chi lavora.

8.       Osserva e medita per conoscere la verità; non credere ciò che ripugna alla ragione.

9.       Ama la patria, odia la guerra che è avanzo di barbarie.

10.    Augura il giorno in cui il lavoro affratellerà tutti gli uomini e, cadute le barriere fra le nazioni, la pace, colle su' candide ali, sorriderà nel mondo.

 

(Il Titano, anno VII, n° 15, 22/8/1909. Un decalogo simile è presente anche sul Titano del 5/2/1904, anno I, n° 11)

 

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Atto di fede del contadino

 

Ho fede che verrà il giorno in cui i miei compagni non lavoreranno più un numero di ore maggiore di quelle del bue.

Ho fede che di quelle carni che vedo nascere e crescere sotto i miei occhi e per virtù del mio lavoro, verrà tempo che sulla tavola dei miei figli ve ne sarà continuamente come v'è oggi sulla tavola del ricco ozioso che nemmeno sa come si conservano i buoi.

Ho fede che tempo verrà in cui le genti potranno uscire dalla lurida affumicata e umida stamberga, per alloggiare in luoghi dove il nome di casa, non sia una sanguinosa ironia.

Ho fede che l'aratro non renderà più storti, gobbi e quasi ridicoli i miei compagni di lavoro, quando la macchina invece di far da krumira, per virtù della scienza e della solidarietà umana, sarà divenuta l'amico e il solievo della dura fatica.

Ho fede che dai casolari dispersi per la vasta campagna, ai figli miei sarà dato di poter andare alla scuola ad imparare ciò che a me fu negato.

Ho fede che la giustizia verrà mediante la forza di tutti i lavoratori uniti in un sol fascio sotto la bandiera socialista.

                                                                                                                             E Vilen

(Il Titano, anno VIII, n° 50, 11/12/1910)

 

 

[1] Le più famose 14 preghiere vennero raccolte in un opuscolo edito a Milano nel 1881. Per dare un esempio concreto di queste orazioni, si riporta il Pater:
“O socialismo, che da tempo mi sei promesso, non tardare più oltre; venga il regno tuo, che stabilisca l’eguaglianza e la giustizia per tutta la terra. Dammi il frutto del mio lavoro – più non permettere che il mio padrone mi tolga il pane che io produco – e non costringermi alla miseria, ma liberami dalla schiavitù. E’ tempo!” cfr. Le orazioni dell’operaio, Milano, La Plebe, 1881. Le altre preghiere erano: Il segno della croce, Ave, Credo, Atto di Fede, Atto di speranza, Atto di carità, L’Amor del prossimo, Stabat Mater, Il Perdono, L’Eguaglianza, Le lamentazioni del Parìa, La Redenzione.

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