Lo sviluppo della
cultura risorgimentale a San Marino
La Repubblica di San Marino è stata sempre fortemente immersa nella
cultura, nelle consuetudini e nelle peculiarità sociali dell’area
geografica in cui nei secoli si è sviluppata come enclave.
Tuttavia alcune sue caratteristiche mentali di fondo, vere e proprie
categorie kantiane del modo di pensare del sammarinese medio, come,
per esempio, il concetto di libertas, che da secoli viene
esaltato e manifestato in ogni occasione possibile, o la fede
viscerale nel leggendario santo fondatore dal triplice volto
(mistico, politico, lavoratore), o, a partire dal XV secolo, il
concetto di repubblica e, di conseguenza, quello di repubblicano e
di democratico, si sono frequentemente combinate con le istanze
ideologiche e politiche importate dal circondario.
Anche la cultura risorgimentale, pervenuta ai sammarinesi
dall’esterno dei loro confini, soprattutto come prodotto importato
dai tanti rifugiati nascostisi sul suolo del piccolo Stato, ma anche
dai rari studenti locali che cercavano di diplomarsi o laurearsi
negli istituti della penisola italiana, venne plasmata e corroborata
da elementi e istanze autoctone già esistenti in precedenza.
Il momento in cui tale cultura iniziò a germinare fu senz’altro il
periodo napoleonico, che per San Marino ebbe avvio nel 1797. Nel
febbraio di quell’anno, infatti, i Reggenti dovettero intraprendere
rapporti con l’armata napoleonica, ormai padrona di tutto il
circondario, per cercare di preservare la mitica indipendenza del
loro paese.
I francesi, per buona sorte dei sammarinesi, videro nella piccola
Repubblica un esempio che non poteva essere annichilito proprio da
loro, acclamatori di quel modello politico, per cui optarono di
preservarla e di rispettarla fornendole poi chiari segni di stima ed
amicizia. Inoltre donarono molto di più: il primo riconoscimento
ufficiale e internazionale della dimensione statale della vetusta
Repubblica.
«Questa
è la prima volta che, distinti dalla turba vile dei servi, abbiamo
ricevuto un onore che era riserbato alla vostra grande Nazione di
conferirci»,
scrisse la Reggenza al comando francese il 12 febbraio 1797.
Infatti Roma non aveva mai accettato le velleità indipendentistiche
dello Stato sammarinese, considerandolo, invece, un semplice suo
feudo che godeva di qualche privilegio generosamente concesso nel
tempo, come sottolineerà in un suo testo edito proprio durante il
periodo risorgimentale Carlo Fea, un alto funzionario pontificio.
L’avventura del Bonaparte fu temporanea, tuttavia dopo la sua caduta
e lo smantellamento di quanto aveva creato in Europa, l’essere stati
«distinti
dalla turba vile dei servi»
ebbe un notevole peso sulla mentalità dei sammarinesi, ora ancor più
convinti del loro diritto a considerarsi autonomi. I rapporti con
lo Stato Pontificio si fecero per tale motivo sempre più
conflittuali, anche perché il suolo sammarinese diventò rifugio
frequente ed abituale dei fuoriusciti politici, in fuga dai
fallimenti dei vari moti risorgimentali, che divenivano così
bandiere viventi dell’indipendenza della Repubblica e del suo
diritto di dar rifugio a chiunque.
E’ bene inoltre evidenziare che gli ideali illuministi importati dai
francesi incisero profondamente su un gruppo di giovani locali, che
iniziarono un’opera di contestazione nei confronti dei governanti
sammarinesi giungendo addirittura a minacciare di dar fuoco al
Palazzo Pubblico con tutti i consiglieri al suo interno.
La protesta si sviluppò soprattutto perché il Consiglio Principe e
Sovrano della Repubblica, il suo massimo organo politico, dal 1600
scaturiva da cooptazione, per cui nei secoli era divenuto
prettamente oligarchico e retto sempre dalle stesse famiglie, che
poi si erano anche auto nobilitate.
Ai tempi di Napoleone e durante l’epoca risorgimentale San Marino
era dunque più una repubblica di nome che di fatto: questo aveva già
determinato contestazioni interne nei confronti del governo nel
1737, addirittura con velleità da parte di qualche oppositore di
voler riconvocare l’antico Arengo dei capifamiglia non più riunito
dal 1571, dando in tal modo il pretesto al cardinale Giulio Alberoni
per l’invasione attuata nel 1739.
Nel giugno del 1797 riemerse una polemica con aspetti in parte
analoghi: un gruppo di giovani avanzò reclami e contestazioni al
Consiglio, insieme alla richiesta di abolire la nobiltà, ritenuta
assurda in una realtà repubblicana.
La vicenda durò qualche mese senza portare a nulla se non alla
persecuzione e incarcerazione dei contestatori. Tuttavia, sebbene
questo episodio rimanesse circoscritto a pochi individui e debba
ritenersi solo prerisorgimentale, è interessante perché contiene al
suo interno quegli elementi di polemica e contestazione tipicamente
locali che ritroveremo anche durante le turbolenze risorgimentali e
fino all’Arengo del 1906: in particolare l’ostilità verso i nobili,
ovvero gli oligarchi che dominavano la politica sammarinese, e il
desiderio di ripristinare l’Arengo dei capifamiglia per rifare le
regole politiche e ristrutturare il Consiglio in maniera più
democratica e consona alla tradizione repubblicana del passato.
Passando ora ad esaminare gli anni risorgimentali, va rilevato che
anche San Marino fu indotto a interessarsi ai problemi ideologici e
politici del periodo a partire dai moti del 1820-21 perché, col loro
fallimento, vari rivoltosi si nascosero all’interno dei confini
sammarinesi per salvarsi.
Qui trovarono facile scampo in quanto San Marino non aveva un
sistema di vigilanza accurato attorno ai propri confini, né al loro
interno, ed anche perché potevano contare sull’ospitalità di molti
residenti, disinteressata o no che fosse.
Le autorità sammarinesi si dimostravano tolleranti coi rifugiati
che, se non recavano disturbo o fastidi, potevano sostare sul suolo
sammarinese a loro discrezione, a meno che altri Stati non ne
chiedessero l’estradizione per reati documentati. In questo caso,
per non doverli catturare e consegnare, il più delle volte si
preferiva avvisarli di lasciare il territorio per tempo. Diversi
rifugiati giunsero addirittura ad accasarsi in Repubblica sposando
donne del posto.
Tali comportamenti garantisti nei confronti di questi individui non
erano affatto graditi a Roma, che all’interno del territorio
sammarinese poteva contare sempre su anonimi, ma convinti
sostenitori, i cosiddetti “sussurroni”, come venivano definiti
all’epoca.
Proprio da qualcuno di questi nel 1823 venne spedito al papa un
“libello infamatorio”, pieno di accuse velenose verso San Marino,
dipinto enfaticamente come un
«nido
di perversi fuggiaschi delittuosi e ribelli; salvezza di rei che
pagano la locale autorità»;
dove vi era «perenne
disordine nell’amministrazione pubblica, miscredenza e irreligione,
ove covansi gli odi, le frodi ed il mal costume, ove
l’insubordinazione è la guida dei prepotenti cittadini, che sotto
simbolo d’indipendenza tramandano l’uno all’altro il comando».
L’oscuro autore alla fine chiedeva espressamente l’inglobamento
della Repubblica nello Stato Pontificio, pensiero da sempre
accarezzato dal papato che, non a caso, fece dare alle stampe nel
1834 il volume di Fea di cui si è detto, dal titolo privo di
qualunque ambiguità.
La situazione in seguito si normalizzò, ma col fallimento dei moti
del 1830/31 e dello Stato delle Province Unite che si era instaurato
per un certo periodo nell’Emilia Romagna, il suolo sammarinese
divenne nuovamente un nascondiglio per molti rivoltosi.
Soprattutto Borgo Maggiore era un rifugio prediletto e assai
frequentato perché sede di mercato settimanale e periodicamente di
importanti fiere, nonché luogo in cui vi erano locande, camere,
botteghe e possibilità di sopravvivenza per chi doveva starsene
lontano da casa a lungo, e dove si poteva più facilmente venire a
conoscenza delle novità che accadevano nel mondo.
I profughi, entrando in contatto con persone e gioventù del luogo,
divenivano un naturale veicolo d’informazione per tutti, ma anche di
condizionamento per chi rimaneva affascinato dagli ideali e dalle
aspirazioni che li animavano.
Non a caso furono proprio alcuni giovani di Borgo Maggiore coloro
che aderirono con maggior slancio ai moti risorgimentali, e anche
con tragico fanatismo, come si dirà fra breve.
In effetti una lettera del 17 aprile 1831, scritta dal secondo
Reggente, Biagio Martelli, al primo, Lodovico Belluzzi, ci permette
d’intuire quanto l’influenza culturale da parte dei profughi stesse
cominciando ad incidere sulla gioventù locale.
Martelli riferiva che un gruppo di borghigiani si era con lui
lamentato perché non gradiva
«i
complotti e le adunanze che si fanno in Città e in Borgo fra i
paesani e i forestieri, tanto nelle case che sulle strade o piazze
parlando contro il S. Padre e le Truppe Tedesche».
Inoltre costoro ce l’avevano con Bartolomeo Borghesi, il famoso
numismatico di Savignano rifugiatosi per motivi politici a San
Marino fin dal 1821, considerato
«causa
vivente dei disordini e dei mali costumi introdotti in Repubblica»,
per di più corruttore della gioventù. Si dimostravano ostili pure
nei confronti di Francesco Parenti Righi, giovane farmacista locale,
definito «ribelle
della Patria»
perché aveva «preso
le armi contro il S. Padre».
Dalla stessa lettera si evince che altri giovani avevano preso parte
ai moti romagnoli, senza però che ne vengano definiti numero e nome.
Sempre del 1831 è un’interessante indagine giudiziaria aperta dal
commissario delle legge sammarinese per appurare se fosse vero che
erano state fabbricate a San Marino, e poi vendute ai rivoltosi,
3.000 cartucce per armi da fuoco, che proprio Borghesi avrebbe
fornito a qualcuno. Alla fine, però, l’indagine non approdò a nulla
di concreto, ma alcuni testimoni tra quelli interrogati per scoprire
i fatti confermarono che vi era malanimo dei borghigiani verso i
rifugiati, per le idee che stavano divulgando, e qualche individuo
locale bollato come fanatico.
Nel periodo, inoltre, pare si stesse tramando di costituire in loco
un gruppo affiliato alla Giovine Italia di Mazzini, che in San
Marino vedeva un sito ideale sia da un punto di vista
propagandistico, sia geografico, perché posizionato al centro della
penisola italiana. Tale notizia, tuttavia, è scarsamente documentata
e avrebbe necessità di ulteriori indagini.
Altri segni di questa nascente cultura risorgimentale tra i
sammarinesi sono rintracciabili in maniera sporadica, ma crescente
per gli anni seguenti.
Nel 1832 il parroco di Serravalle giunse a istigare dal pulpito i
suoi fedeli contro i liberali rifugiati sul suolo sammarinese e i
loro amici locali.
Sempre nello stesso anno le autorità pontificie scrissero a quelle
sammarinesi una lettera minacciosa affinché i rifugiati affiliati
alla Giovine Italia nascosti in territorio venissero immediatamente
espulsi. Lettere simili sono ricorrenti nel periodo, ma in genere
conseguivano solo l’effetto di tenere in fibrillazione per un certo
periodo le autorità sammarinesi, perché i rifugiati per un motivo o
un altro riuscivano quasi sempre ad evitare di essere consegnati ai
gendarmi del papa.
Nell’agosto del 1834 Domenico Maria Belzoppi, destinato a divenire
un importante politico locale (sarà colui che come Reggente
accoglierà Garibaldi nel giorno del suo scampo a San Marino), venne
arrestato in territorio pontificio e incarcerato per sei mesi perché
accusato di essere un cospiratore, membro di una setta segreta, in
quanto addosso gli fu ritrovato un documento di indole liberale.
Negli anni seguenti si tornò ad una certa calma, anche se nel
periodo crebbe il fascino verso gli ideali risorgimentali da parte
di altri sammarinesi. Infatti nel 1845 tredici giovani furono
presenti ai moti di Rimini capeggiati da Pietro Renzi. I loro nomi
ci sono noti perché vennero obbligati dalla Reggenza a giustificare
la loro partecipazione dinanzi al commissario della legge
sammarinese.
Altri, di cui sono pervenute solo flebili testimonianze, all’epoca
rimasero invece ignoti.
Nel 1846 questi giovani avevano ormai normalizzato la loro
situazione con le autorità repubblicane, mentre ancora con quelle
pontificie sussistevano dissidi e pericolo di arresto.
Anche per i moti di Rimini del ’45 pare che si fabbricassero
cartucce in Borgo da parte di Giuseppe Pasqui, fratello maggiore di
Luigi di cui si dirà fra breve.
Nel 1848 parteciparono sicuramente alla prima guerra d’indipendenza
18 sammarinesi. Altri nominativi ancora li conosciamo come presenti
ai moti del 1849 e all’esperienza della Repubblica Romana.
La documentazione storica che ci è pervenuta permette di capire che
fino a questo momento i ribelli sammarinesi combattevano per l’unità
d’Italia alla stessa stregua dei loro cugini italiani senza velleità
riformatrici localistiche. Il 19 marzo 1848, tuttavia, ovvero appena
cinque giorni dopo la pubblicazione del nuovo statuto dello Stato
Pontificio, venne dato alle stampe un opuscolo intitolato Riforme
e miglioramenti necessari ed indispensabili per la successiva morale
politica esistenza della Repubblica Di San Marino la più antica di
Europa, da cui risulta evidente che la nuova effervescenza
culturale di indole risorgimentale si era ormai congiunta alle
istanze legate ai problemi materiali della società sammarinese.
Aldo Garosci liquida tale documento come
«strampalato»,
tuttavia non si può essere pienamente d’accordo con un giudizio così
sommario se si esaminano le polemiche e i dissensi tipici della
società sammarinese dei decenni precedenti.
Infatti buona parte delle 51 richieste contenute al suo interno non
sono affatto bizzarre, perché se può essere vero che alcune
scaturirono dalla pura fantasia degli anonimi autori, e poche altre
dalla cultura risorgimentale del momento, in particolare dalle
teorie di Gioberti, per la maggior parte, invece, erano legate al
malessere della società sammarinese e riprendevano nella loro logica
istanze e contestazioni già emerse nel 1737, nel 1797, nel 1823.
Anche nell’opuscolo in esame i mali sammarinesi erano imputati a un
sistema politico oligarchico, a una gestione sociale elitaria, alla
nobiltà, all’esigenza, che si farà sempre più forte e pressante
nella seconda metà dell’Ottocento, di uscire dalla dimensione rurale
e isolata in cui da secoli San Marino si trovava, così da potersi
modernizzare secondo le nuove spinte politiche e sociali che stavano
circolando.
Diverse di tali richieste, come quella legata alla volontà di
tornare ad un sistema costituzionale più democratico e alla riunione
periodica dell’Arengo dei capifamiglia, o di rendere trasparenti i
bilanci dello Stato, discendevano da quella tradizione latente di
mentalità repubblicana e riformista che già aveva fornito più volte
segni di sé in precedenza.
Riguardo alle istanze prettamente risorgimentali, il documento si
limitava a sollecitare la creazione di un corpo di militi
sammarinesi da mettere a disposizione di Pio IX, e a controllare
l’ingresso in territorio dei rifugiati politici per verificare chi
fosse degno di rimanere e chi no.
Le restanti richieste, invece, nascevano dalla volontà di migliorare
tangibilmente la gestione politica e la situazione sociale della
Repubblica.
Il momento in cui la cultura risorgimentale raggiunse il suo apice
tra i sammarinesi fu dopo il 31 luglio del 1849, giorno dello scampo
di Garibaldi e della sua armata sul territorio della Repubblica
mentre erano in fuga dal crollo della Repubblica Romana.
La vicenda è nota e fin troppo decantata, per cui rimando alla
lettura dei testi già citati. Meno noto è che tra i legionari
garibaldini militavano anche alcuni sammarinesi, tra cui quel Luigi
Pasqui che ho già menzionato, e l’amico Marino Giovannarini, i cui
nomi sono entrati nella storia locale perché nel 1853, in un giorno
senz’altro non scelto a caso, cioè il 14 luglio, tramite un agguato
dal chiaro sapore politico e sovversivo, uccisero con un colpo di
arma da fuoco il Segretario Generale di San Marino, ovvero colui
che, tramite incarico a vita, ne era l’esponente politico di spicco
sedendo sempre ai vertici del piccolo Stato.
Non mi è possibile in questa sede entrare nei dettagli
dell’omicidio, per cui rimando al libro che ho scritto in proposito.
In sintesi si può dire, comunque, che, dopo l’episodio garibaldino,
la Santa Sede era divenuta sempre più intollerante verso la
Repubblica, accusata di essere troppo indulgente e protettiva con
rivoluzionari e rifugiati, quasi di parteggiare per loro.
Il 25 giugno del 1851 per tali motivi inviò entro i confini
sammarinesi i suoi gendarmi insieme a 3.000 soldati austriaci alla
caccia dei 400 rifugiati che ipotizzava dimorassero al loro interno.
In realtà ne vennero catturati solo 35 perché di più non ve n’erano,
ma i modi spicci ed arroganti usati con la popolazione lasciarono
strascichi velenosi e forti malumori.
Inoltre gli animi dei giovani liberali locali, amici degli arrestati
e convinti che i governanti fossero stati troppo arrendevoli e
sottomessi verso i papalini, rimasero surriscaldati e bramosi di
vendetta.
Già un anno prima lo studente Giacomo Martelli, che sarà implicato
nel delitto Bonelli e in altri due delitti successivi legati in
qualche modo a questo, aveva scritto una lunga lettera accusatoria
verso i governanti in cui, elencando tutti i mali della Repubblica,
più o meno sempre gli stessi già indicati dai documenti citati,
affermava perentoriamente:
«La
Gioventù è stanca ormai di vedersi accasciata sotto il peso di
questo tiranno giogo. Conosce cosa in se (sic) racchiude il nome di
Repubblica. Ha separato (…) i lupi e le volpi dagli agnelli e dalle
colombe. E guai, guai a voi se non ponete riparo!».
Martelli era un mazziniano convinto, e lo rimarrà anche dopo essersi
laureato in legge e dopo l’unificazione italiana, tanto da impaurire
le stesse autorità del nuovo regno per le riunioni sospette che
organizzava presso la sua abitazione con vari mazziniani del
circondario reputati pericolosi.
Il pauperismo e la dimensione dimessa e arcaica del paese, la
fisionomia oligarchica/nobiliare assunta dai suoi principali
governanti, la latente mentalità democratica legata alla memoria
repubblicana ereditata dalla tradizione culturale del passato, gli
infiammanti ideali politici risorgimentali, tra cui quelli
mazziniani, facili da assurgere a modello culturale per chi già
viveva in un paese che si definiva repubblica, si miscelarono tra
loro fino ad esplodere nell’assassinio di Giambattista Bonelli,
senza dubbio il fatto più eclatante accaduto a San Marino durante il
Risorgimento e per causa del Risorgimento.
Ma non finì con questo delitto. Dopo l’omicidio del Segretario di
Stato, le tensioni di natura politica tra sammarinesi progressisti e
quelli conservatori si acuirono determinando scontri, astiose
diatribe e ben altri due omicidi: il 14 marzo 1854 venne
accoltellato e ucciso in pieno giorno, a due passi da casa sua, il
giovane neolaureato Gaetano Angeli, membro di un’importante famiglia
nobile di San Marino, il quale da tempo si trovava in forte attrito
con vari suoi coetanei in quanto non aveva abbracciato gli ideali
risorgimentali e riformisti.
Il 26 agosto, sempre del 1854, venne invece ammazzato sulla piazza
del Borgo, in pieno pomeriggio, il dottor Annibale Lazzarini, medico
condotto di Città e circondario, figura malvista da diversi giovani
per le accuse loro rivolte e gli atteggiamenti aggressivi e
insolenti da lui assunti verso chi sospettava di essere schierato
con coloro che volevano sovvertire l’ordine sociale.
La nuova cultura politica, frammischiatasi agli odi personali e ai
desideri di vendetta, facili a svilupparsi in una società minuscola
come quella sammarinese, nonché l’intolleranza per una situazione
sociale ritenuta obsoleta, e per una dimensione
oligarchica/nobiliare considerata capovolta rispetto alla mitica
tradizione repubblicana di San Marino, alla fine avevano determinato
tre omicidi, tutti legati ai nuovi ideali riformisti del momento,
anche se il delitto Bonelli possiede una fisionomia politica e
simbolica senza dubbio più marcata degli altri.
Ben difficilmente vi sarebbero stati tali delitti se non si fosse
sviluppata tra un gruppo sparuto, ma molto deciso e arrabbiato, di
giovani sammarinesi, sostenuti dai rifugiati in territorio, una
cultura progressista e radicale d’ispirazione risorgimentale,
soprattutto mazziniana.
Comunque il 1854 fu l’anno in cui la drasticità di tale cultura
raggiunse il suo apice. Negli anni seguenti le acque si calmarono e
le tensioni di cui si è detto si spensero gradualmente.
La Repubblica di San Marino, a cui giungeranno, dopo gli anni
risorgimentali, da tanti italiani e stranieri doni e lodi come
modello politico ideale, si avviò lentamente e con grande fatica,
per le sue endemiche carenze economiche e sociali, sulla strada
delle riforme grazie agli stimoli e alle periodiche contestazioni da
parte dei gruppuscoli politici di indole repubblicana, anarchica e
socialista in qualche modo generati dal dibattito culturale
risorgimentale.
Furono questi gruppi che indussero le autorità sammarinesi alla
convocazione dell’Arengo del 1906, altro fenomeno storico nato
dall’amalgama di input culturali italiani ed internazionali e
cultura repubblicana prettamente locale.
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