Il Comune
Il periodo comunale riveste nella
storia di San Marino un’importanza basilare, perché è senz’altro
durante il suo svolgimento che la piccola comunità sorta all’ombra
di un monastero e sotto la protezione della sua Guaita, sempre che
si possa dare piena credibilità ai pochissimi documenti rimastici
prima del XII/XIII secolo, venne assumendo con gradualità una
dimensione autonoma e sovrana.
Come è noto, i liberi comuni sorsero
gradualmente per cause e concause di vario genere; nacquero in
particolare quando i loro abitanti, liberandosi parzialmente o
totalmente dai poteri forti che li
dominavano in precedenza (papa o imperatore), giunsero alla volontà
di costituirsi in corpo politico ed amministrativo unitario, con
propri magistrati, rappresentanti politici e leggi. Elementi
fondamentali costitutivi del comune medioevale sono quindi:
-
una comunità di persone;
-
un territorio determinato su cui
abitare, spesso in espansione;
-
leggi scritte con cui autogestirsi,
comunemente chiamate "statuti";
-
un insieme di magistrati e
funzionari pubblici preposti al governo della comunità.
Quando si hanno queste
caratteristiche a San Marino? La risposta è abbastanza facile: nella
seconda metà del XIII secolo, quando i documenti rimastici, più
abbondanti che in precedenza, ci parlano delle prime norme
statutarie locali, dei primi magistrati e dei primi organismi
politici preposti alla gestione del paese.
In precedenza non sappiamo come la
comunità si reggesse. E’ stato ipotizzato che fosse l’abate del
locale monastero il suo capo carismatico e politico, e che si sia
poi passati ad una gestione più articolata e laica del paese. Questo
passaggio, sempre che sia effettivamente accaduto nel modo
ipotizzato, deve essere stato lentissimo ed aver richiesto secoli,
per cui non è possibile conoscere con precisione tutta la sua
evoluzione, né quando è giunto a conclusione.
Vi sono comunque tracce che lasciano
pensare che già nel 951 vi fosse sul monte Titano un importante
struttura che preannunciava il futuro comune, ovvero una
Plebs, una pieve. E' di quest'anno
infatti, precisamente del 26 settembre, un documento, il cosiddetto
Privilegio di Berengario II, che risulta redatto nella Pieve
di San Marino. Non si sa con assoluta certezza se questa pieve fosse
sul Titano, perché di pievi intestate a San Marino ve n'erano altre
anche nelle vicinanze, tuttavia è possibile. L'esistenza di una
pieve testimonierebbe la presenza sul monte di una popolazione
abbastanza numerosa, quindi di una comunità ben più articolata, con
una coscienza unitaria più marcata e con una fisionomia giuridica
assai più certa di quella raccolta attorno al monastero. L'esistenza
di questa pieve è poi confermata da altri documenti dell'XI e XII
secolo.
Senza dubbio una figura
politicamente importante per i Sammarinesi di questo periodo era il
vescovo del Montefeltro, quasi certamente il signore feudale di
tutta la zona. In effetti in un documento dell'aprile del 1253
vengono per la prima volta menzionati gli statuti sammarinesi, segno
inconfondibile che l'ordinamento comunale si stava ormai
consolidando, ma da altri documenti dello stesso periodo si capisce
che il vescovo era ancora una figura fondamentale e vincolante della
realtà politica e sociale sammarinese, tanto che ancora nel 1268
aveva la facoltà di modificare o annullare da solo le leggi degli
statuti.
Negli anni successivi, però, per
merito della situazione storica del suo circondario in continua
evoluzione, San Marino subì una trasformazione interna diventando da
guelfo ghibellino, e stringendo un’alleanza che diventerà via
via sempre più vincolante con i conti di
Urbino, filoimperiali e ovviamente ghibellini. Questa nuova, potente
amicizia indusse San Marino ad appoggiare sempre più la politica
filoghibellina e a svincolarsi dal
dominio vescovile. Esiste un documento del 1277 che permette di
capire come il comune sammarinese cercasse di estromettere il
vescovo dal centro fortificato permutando alcune sue case qui
situate con altre poste in una zona all’esterno delle mura.
San Marino rimase ghibellino fino al
1295, data in cui il conte Guido da Montefeltro decise di ritirarsi
dalla politica determinando un ritorno sotto la protezione papale
dei suoi eredi. Negli ultimissimi anni del '200 San Marino per
questo motivo risulta essere il luogo dove si raccoglievano le
decime in favore della Santa Sede, e il suo arciprete fungeva da
esattore del legato papale.
Sempre alla fine del ‘200 il vescovo
del Montefeltro tornò ad avanzare pretese sul comune sammarinese,
tanto che nel 1296 la Santa Sede incaricò Raniero, abate del
monastero di Valle Sant'Anastasio, di verificare, attraverso
indagine processuale, se San Marino avesse dovuto pagare il tributo
al podestà del Montefeltro, un funzionario del vescovo, oppure
no. Grazie all’esame di una quindicina
di testimonianze di residenti, si giunse alla conclusione che San
Marino per consuetudine antichissima, risalente secondo alcuni
testimoni addirittura alla concessione fatta da Donna Felicissima al
santo fondatore, non aveva obblighi tributari nei confronti di
chicchessia, quindi doveva essere considerato una terra
indipendente.
Questo documento, per quanto ingenuo
ed in molti aspetti frutto di una metodologia processuale
grossolana, è comunque assai importante essendo il primo che ci è
pervenuto in cui sussiste la testimonianza indubbia della volontà
autonomista del comune di San Marino. D’altronde sappiamo da un
documento del 1243 che il comune sammarinese aveva ai suoi vertici
due Consoli (Filippo da Sterpeto e
Oddone di Scarito), che sono
testimonianza di un processo di autogoverno ormai avviato. Il
vescovo, tuttavia, non era ancora divenuto una figura politica
estranea alla realtà sammarinese, anche se i suoi poteri stavano
rapidamente tramontando.
Tra la fine del '200 e gli inizi del
'300, grazie al lavoro di dodici giuristi, vennero redatti gli
statuti del comune, i primi che ci sono giunti, anche se in parte
incompleti. Anche in documenti precedenti sono menzionate norme
statutarie locali, tuttavia non sappiamo con sicurezza se
effettivamente esistesse un codice di leggi precedente a quello
citato, perchè non è stato conservato, o se fossero solo alcune
norme sparse.
Nel '300 San Marino proseguì nella
sua lenta lotta per affrancarsi dai poteri politici che fino ad
allora lo avevano vincolato, partecipando alle battaglie che
coinvolgevano la sua zona geografica, stringendo alleanze con chi lo
poteva aiutare, continuando ad ampliare gradualmente il suo
territorio tramite acquisti, come avvenne per
Casole e Teglio venduti ai
sammarinesi da Taddeo, conte di Montefeltro e Urbino, nel 1253 per
400 lire ravennate, o per sottomissione
spontanea. Nei primissimi anni del secolo vi fu la ripresa di una
politica filoghibellina da parte
sammarinese, fatto che determinò forti tensioni con il partito
filoguelfo. Un'importante testimonianza
di ciò è un episodio che si verificò nel 1303: il vescovo aveva
inviato a San Marino qualche suo ambasciatore per svolgere una
missione a suo vantaggio; alcuni sammarinesi, probabilmente
ghibellini, di certo avversi al vescovo, li catturarono, occuparono
la rocca, e qui li tennero prigionieri. Alla fine gli autori del
misfatto vennero puniti e gli ambasciatori liberati, tuttavia
l’episodio è testimonianza dell’esistenza in territorio sammarinese
di fazioni tra loro politicamente nemiche, favorevoli o contrarie
all’ingerenza dell’autorità clericale.
Nel corso del Trecento prevalse
sicuramente la fazione ostile al vescovo, cioè quella ghibellina, e
si strinsero sempre più vincoli di amicizia e di alleanza militare
con i conti ghibellini del Montefeltro, signori di Urbino, in
particolare quando costoro ripresero a guerreggiare contro le armate
guelfe. Quest'alleanza si dimostrerà basilare per la storia futura
del comune sammarinese, perché i Montefeltro, per disporre di una
potente avanguardia contro i loro nemici storici, i
Malatesta di Rimini, si dimostreranno
sempre i grandi protettori e consiglieri di San Marino.
Per premunirsi contro eventuali
pericoli di sottomissione da parte di un signore, comunque, nel 1317
il Consiglio vietò esplicitamente a qualunque nobile o potente di
acquistare case e terreni all'interno delle mura del castello.
Questo fa chiaramente capire quanta fosse vivo il timore di
diventare un dominio personale di qualche potente. Tale disposizione
probabilmente significa che già in questi anni i rapporti con i loro
nuovi alleati di Urbino erano divenuti assai fitti e consistenti,
per cui non si voleva rischiare di trovarseli stabilmente in casa
propria, com'era successo ai tempi in cui il vescovo aveva dimora
nella parte fortificata del paese, e dover in seguito affrontare
grossi problemi per espellerli.
E’ chiaro, però, che la signoria di
Urbino sovrastava come ricchezza e potenza il comune sammarinese,
quindi anche se accettiamo la tesi di una qualche autonomia favorita
e permessa dai conti feltreschi per
motivi strategici e politici, possiamo facilmente intuire che una
certa sudditanza dei più deboli nei confronti dei più forti, come
sarà palese nei secoli successivi, dovesse esserci fin da questo
periodo, forse però meno oppressiva, soprattutto da un punto di
vista fiscale, di quella che pretendevano di imporre le autorità
clericali.
D'altra parte sappiamo che nel 1318
papa Giovanni XXII scriveva al Rettore di Romagna affinché
obbligasse Federico da Montefeltro a restituire San Marino alla
Chiesa Feretrana, quasi fosse una sua
proprietà personale, così come è noto che nel 1319 il conte Federico
teneva a San Marino il suo vicario, un certo
Giovagnoli, episodi indiscutibili di una concreta ingerenza
dei Montefeltro all’interno del comune di San Marino, anche se ben
tollerata dai Sammarinesi perché non possediamo testimonianze di
ribellioni nei confronti degli urbinati,
considerati invece sempre amici.
Negli stessi anni accanto a questa
politica autonomista tesa ad estromettere qualsiasi potere
straniero, San Marino sviluppò la sua estensione territoriale
stipulando soprattutto enfiteusi (affitti) con i feudatari vicini ai
suoi confini per ampliare sempre più la sua disponibilità di spazio
e terra. Questa prassi è documentata da un atto del 1308 che ci è
rimasto tra Gregorio, abate di S. Gregorio in Conca, e Guido di
Uberto di San Marino, e da un documento del 1320 in cui è
testimoniata l'ammissione alla piena cittadinanza di S. Marino di
molti uomini del Castello di Busignano
coi loro beni e terre.
Sempre del 1320, con data 16
settembre, possediamo un altro interessante documento, una pace tra
Benvenuto vescovo del Montefeltro e i sammarinesi, che fa capire
come negli anni precedenti fossero avvenute aspre battaglie tra
questi due contendenti, e come San Marino fosse riuscito a
conquistare diverse terre vescovili. Dallo stesso documento si
capisce comunque che il vescovo deteneva ancora un certo potere
sulla comunità sammarinese.
Infatti sempre nello stesso anno il
comune di Rimini, gestito e controllato dalla famiglia dei
Malatesta, inviò ambasciatori al papa,
che già da diversi anni risiedeva ad Avignone in Francia, affinché
disponesse che San Marino venisse loro ceduto dal vescovo del
Montefeltro in cambio di altre terre, e ciò per toglierlo
dall’ingerenza dei Montefeltro, storici nemici dei
Malatesta. Papa Giovanni XXII diede
disposizioni al Rettore di Romagna affinché s'interessasse della
faccenda. Nonostante che il comune sammarinese fosse probabilmente
ormai del tutto ghibellino, dunque, da questo documento emerge che
sia il suo castello, sia la sua rocca venivano considerate come
appartenenti ancora al vescovo feretrano.
Comunque l'intercessione del Papa non determinò mutamenti rispetto
alla situazione preesistente; anzi, anche dopo la morte violenta di
Federico di Urbino, avvenuta nel 1322 durante una sollevazione, San
Marino rimase fedele e soggetta ai suoi alleati tanto da fornire
rifugio al conte Speranza che rischiava di fare un’identica brutta
fine.
Approfittando dei guai della
famiglia dei Montefeltro, Rimini tentò ancora di portare con la
forza San Marino sotto il suo dominio, senza però riuscirvi. Il 2
ottobre del 1322 si giunse a una pacificazione e vennero stipulati
patti tra Rimini e San Marino, patti molto amichevoli e vantaggiosi
per i Sammarinesi, segno certo della volontà dei
Malatesta di mantenere buoni rapporti
con confinanti all’epoca agguerriti e dunque temibili. In cambio
della sua amicizia Rimini chiedeva però che San Marino non desse più
rifugio ai suoi nemici ed ai nemici della Chiesa. Pretendeva cioè
l'abbandono di quella politica filoghibellina
e filomontefeltrana tenuta fino ad
allora, e come conseguenza il ritorno ad un'alleanza con i guelfi,
eventualmente contro i ghibellini ed i Montefeltro.
Non sappiamo che esiti immediati
abbia dato questa pace; probabilmente pochi visto che nel 1324 si
sentì il bisogno di sottoscrivere un altro trattato di pace.
E' probabile che negli stessi anni
Rimini continuasse ancora nella sua opera diretta a togliere San
Marino dalle mani del vescovo del Montefeltro; tuttavia nel 1325 il
Rettore di Romagna giunse alla conclusione che era preferibile non
consegnare un luogo così strategicamente importante ai
Malatesta, ma di lasciarlo sotto la
formale tutela e autorità della chiesa di Montefeltro.
In definitiva possiamo senz'altro
asserire che l'affermarsi di due potenti signorie tra loro in lotta
ai confini sammarinesi ha permesso al comune di San Marino
d'impostare un intelligente gioco basato sul mantenimento di un
equilibrio politico tra le parti che piano
piano gli ha consentito di godere di una relativa
indipendenza verso entrambi, anche se occorre dire che Urbino ha per
secoli esercitato un peso molto maggiore di Rimini sulle direttive
politiche sammarinesi.
Negli anni successivi il comune
sammarinese visse un periodo di relativa tranquillità, e poté
impegnarsi maggiormente a definire meglio con le comunità limitrofe
i suoi confini, e ad integrare e aggiornare i suoi statuti.
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