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Il Comune

 

 

Il periodo comunale riveste nella storia di San Marino un’importanza basilare, perché è senz’altro durante il suo svolgimento che la piccola comunità sorta all’ombra di un monastero e sotto la protezione della sua Guaita, sempre che si possa dare piena credibilità ai pochissimi documenti rimastici prima del XII/XIII secolo, venne assumendo con gradualità una dimensione autonoma e sovrana.

Come è noto, i liberi comuni sorsero gradualmente per cause e concause di vario genere; nacquero in particolare quando i loro abitanti, liberandosi parzialmente o totalmente dai poteri forti che li dominavano in precedenza (papa o imperatore), giunsero alla volontà di costituirsi in corpo politico ed amministrativo unitario, con propri magistrati, rappresentanti politici e leggi. Elementi fondamentali costitutivi del comune medioevale sono quindi:

  1. una comunità di persone;

  2. un territorio determinato su cui abitare, spesso in espansione;

  3. leggi scritte con cui autogestirsi, comunemente chiamate "statuti";

  4. un insieme di magistrati e funzionari pubblici preposti al governo della comunità.

Quando si hanno queste caratteristiche a San Marino? La risposta è abbastanza facile: nella seconda metà del XIII secolo, quando i documenti rimastici, più abbondanti che in precedenza, ci parlano delle prime norme statutarie locali, dei primi magistrati e dei primi organismi politici preposti alla gestione del paese.

In precedenza non sappiamo come la comunità si reggesse. E’ stato ipotizzato che fosse l’abate del locale monastero il suo capo carismatico e politico, e che si sia poi passati ad una gestione più articolata e laica del paese. Questo passaggio, sempre che sia effettivamente accaduto nel modo ipotizzato, deve essere stato lentissimo ed aver richiesto secoli, per cui non è possibile conoscere con precisione tutta la sua evoluzione, né quando è giunto a conclusione.

Vi sono comunque tracce che lasciano pensare che già nel 951 vi fosse sul monte Titano un importante struttura che preannunciava il futuro comune, ovvero una Plebs, una pieve. E' di quest'anno infatti, precisamente del 26 settembre, un documento, il cosiddetto Privilegio di Berengario II, che risulta redatto nella Pieve di San Marino. Non si sa con assoluta certezza se questa pieve fosse sul Titano, perché di pievi intestate a San Marino ve n'erano altre anche nelle vicinanze, tuttavia è possibile. L'esistenza di una pieve testimonierebbe la presenza sul monte di una popolazione abbastanza numerosa, quindi di una comunità ben più articolata, con una coscienza unitaria più marcata e con una fisionomia giuridica assai più certa di quella raccolta attorno al monastero. L'esistenza di questa pieve è poi confermata da altri documenti dell'XI e XII secolo.

Senza dubbio una figura politicamente importante per i Sammarinesi di questo periodo era il vescovo del Montefeltro, quasi certamente il signore feudale di tutta la zona. In effetti in un documento dell'aprile del 1253 vengono per la prima volta menzionati gli statuti sammarinesi, segno inconfondibile che l'ordinamento comunale si stava ormai consolidando, ma da altri documenti dello stesso periodo si capisce che il vescovo era ancora una figura fondamentale e vincolante della realtà politica e sociale sammarinese, tanto che ancora nel 1268 aveva la facoltà di modificare o annullare da solo le leggi degli statuti.

Negli anni successivi, però, per merito della situazione storica del suo circondario in continua evoluzione, San Marino subì una trasformazione interna diventando da guelfo ghibellino, e stringendo un’alleanza che diventerà via via sempre più vincolante con i conti di Urbino, filoimperiali e ovviamente ghibellini. Questa nuova, potente amicizia indusse San Marino ad appoggiare sempre più la politica filoghibellina e a svincolarsi dal dominio vescovile. Esiste un documento del 1277 che permette di capire come il comune sammarinese cercasse di estromettere il vescovo dal centro fortificato permutando alcune sue case qui situate con altre poste in una zona all’esterno delle mura.

San Marino rimase ghibellino fino al 1295, data in cui il conte Guido da Montefeltro decise di ritirarsi dalla politica determinando un ritorno sotto la protezione papale dei suoi eredi. Negli ultimissimi anni del '200 San Marino per questo motivo risulta essere il luogo dove si raccoglievano le decime in favore della Santa Sede, e il suo arciprete fungeva da esattore del legato papale.

Sempre alla fine del ‘200 il vescovo del Montefeltro tornò ad avanzare pretese sul comune sammarinese, tanto che nel 1296 la Santa Sede incaricò Raniero, abate del monastero di Valle Sant'Anastasio, di verificare, attraverso indagine processuale, se San Marino avesse dovuto pagare il tributo al podestà del Montefeltro, un funzionario del vescovo, oppure no. Grazie all’esame di una quindicina di testimonianze di residenti, si giunse alla conclusione che San Marino per consuetudine antichissima, risalente secondo alcuni testimoni addirittura alla concessione fatta da Donna Felicissima al santo fondatore, non aveva obblighi tributari nei confronti di chicchessia, quindi doveva essere considerato una terra indipendente.

Questo documento, per quanto ingenuo ed in molti aspetti frutto di una metodologia processuale grossolana, è comunque assai importante essendo il primo che ci è pervenuto in cui sussiste la testimonianza indubbia della volontà autonomista del comune di San Marino. D’altronde sappiamo da un documento del 1243 che il comune sammarinese aveva ai suoi vertici due Consoli (Filippo da Sterpeto e Oddone di Scarito), che sono testimonianza di un processo di autogoverno ormai avviato.  Il vescovo, tuttavia, non era ancora divenuto una figura politica estranea alla realtà sammarinese, anche se i suoi poteri stavano rapidamente tramontando.

Tra la fine del '200 e gli inizi del '300, grazie al lavoro di dodici giuristi, vennero redatti gli statuti del comune, i primi che ci sono giunti, anche se in parte incompleti. Anche in documenti precedenti sono menzionate norme statutarie locali, tuttavia non sappiamo con sicurezza se effettivamente esistesse un codice di leggi precedente a quello citato, perchè non è stato conservato, o se fossero solo alcune norme sparse. 

Nel '300 San Marino proseguì nella sua lenta lotta per affrancarsi dai poteri politici che fino ad allora lo avevano vincolato, partecipando alle battaglie che coinvolgevano la sua zona geografica, stringendo alleanze con chi lo poteva aiutare, continuando ad ampliare gradualmente il suo territorio tramite acquisti, come avvenne per Casole e Teglio venduti ai sammarinesi da Taddeo, conte di Montefeltro e Urbino, nel 1253 per 400 lire ravennate, o per sottomissione spontanea. Nei primissimi anni del secolo vi fu la ripresa di una politica filoghibellina da parte sammarinese, fatto che determinò forti tensioni con il partito filoguelfo. Un'importante testimonianza di ciò è un episodio che si verificò nel 1303: il vescovo aveva inviato a San Marino qualche suo ambasciatore per svolgere una missione a suo vantaggio; alcuni sammarinesi, probabilmente ghibellini, di certo avversi al vescovo, li catturarono, occuparono la rocca, e qui li tennero prigionieri. Alla fine gli autori del misfatto vennero puniti e gli ambasciatori liberati, tuttavia l’episodio è testimonianza dell’esistenza in territorio sammarinese di fazioni tra loro politicamente nemiche, favorevoli o contrarie all’ingerenza dell’autorità clericale.

Nel corso del Trecento prevalse sicuramente la fazione ostile al vescovo, cioè quella ghibellina, e si strinsero sempre più vincoli di amicizia e di alleanza militare con i conti ghibellini del Montefeltro, signori di Urbino, in particolare quando costoro ripresero a guerreggiare contro le armate guelfe. Quest'alleanza si dimostrerà basilare per la storia futura del comune sammarinese, perché i Montefeltro, per disporre di una potente avanguardia contro i loro nemici storici, i Malatesta di Rimini, si dimostreranno sempre i grandi protettori e consiglieri di San Marino.

Per premunirsi contro eventuali pericoli di sottomissione da parte di un signore, comunque, nel 1317 il Consiglio vietò esplicitamente a qualunque nobile o potente di acquistare case e terreni all'interno delle mura del castello. Questo fa chiaramente capire quanta fosse vivo il timore di diventare un dominio personale di qualche potente. Tale disposizione probabilmente significa che già in questi anni i rapporti con i loro nuovi alleati di Urbino erano divenuti assai fitti e consistenti, per cui non si voleva rischiare di trovarseli stabilmente in casa propria, com'era successo ai tempi in cui il vescovo aveva dimora nella parte fortificata del paese, e dover in seguito affrontare grossi problemi per espellerli.

E’ chiaro, però, che la signoria di Urbino sovrastava come ricchezza e potenza il comune sammarinese, quindi anche se accettiamo la tesi di una qualche autonomia favorita e permessa dai conti feltreschi per motivi strategici e politici, possiamo facilmente intuire che una certa sudditanza dei più deboli nei confronti dei più forti, come sarà palese nei secoli successivi, dovesse esserci fin da questo periodo, forse però meno oppressiva, soprattutto da un punto di vista fiscale, di quella che pretendevano di imporre le autorità clericali.

D'altra parte sappiamo che nel 1318 papa Giovanni XXII scriveva al Rettore di Romagna affinché obbligasse Federico da Montefeltro a restituire San Marino alla Chiesa Feretrana, quasi fosse una sua proprietà personale, così come è noto che nel 1319 il conte Federico teneva a San Marino il suo vicario, un certo Giovagnoli, episodi indiscutibili di una concreta ingerenza dei Montefeltro all’interno del comune di San Marino, anche se ben tollerata dai Sammarinesi perché non possediamo testimonianze di ribellioni nei confronti degli urbinati, considerati invece sempre amici. 

Negli stessi anni accanto a questa politica autonomista tesa ad estromettere qualsiasi potere straniero, San Marino sviluppò la sua estensione territoriale stipulando soprattutto enfiteusi (affitti) con i feudatari vicini ai suoi confini per ampliare sempre più la sua disponibilità di spazio e terra. Questa prassi è documentata da un atto del 1308 che ci è rimasto tra Gregorio, abate di S. Gregorio in Conca, e Guido di Uberto di San Marino, e da un documento del 1320 in cui è testimoniata l'ammissione alla piena cittadinanza di S. Marino di molti uomini del Castello di Busignano coi loro beni e terre.

Sempre del 1320, con data 16 settembre, possediamo un altro interessante documento, una pace tra Benvenuto vescovo del Montefeltro e i sammarinesi, che fa capire come negli anni precedenti fossero avvenute aspre battaglie tra questi due contendenti, e come San Marino fosse riuscito a conquistare diverse terre vescovili. Dallo stesso documento si capisce comunque che il vescovo deteneva ancora un certo potere sulla comunità sammarinese.

Infatti sempre nello stesso anno il comune di Rimini, gestito e controllato dalla famiglia dei Malatesta, inviò ambasciatori al papa, che già da diversi anni risiedeva ad Avignone in Francia, affinché disponesse che San Marino venisse loro ceduto dal vescovo del Montefeltro in cambio di altre terre, e ciò per toglierlo dall’ingerenza dei Montefeltro, storici nemici dei Malatesta. Papa Giovanni XXII diede disposizioni al Rettore di Romagna affinché s'interessasse della faccenda. Nonostante che il comune sammarinese fosse probabilmente ormai del tutto ghibellino, dunque, da questo documento emerge che sia il suo castello, sia la sua rocca venivano considerate come appartenenti ancora al vescovo feretrano. Comunque l'intercessione del Papa non determinò mutamenti rispetto alla situazione preesistente; anzi, anche dopo la morte violenta di Federico di Urbino, avvenuta nel 1322 durante una sollevazione, San Marino rimase fedele e soggetta ai suoi alleati tanto da fornire rifugio al conte Speranza che rischiava di fare un’identica brutta fine.

Approfittando dei guai della famiglia dei Montefeltro, Rimini tentò ancora di portare con la forza San Marino sotto il suo dominio, senza però riuscirvi. Il 2 ottobre del 1322 si giunse a una pacificazione e vennero stipulati patti tra Rimini e San Marino, patti molto amichevoli e vantaggiosi per i Sammarinesi, segno certo della volontà dei Malatesta di mantenere buoni rapporti con confinanti all’epoca agguerriti e dunque temibili. In cambio della sua amicizia Rimini chiedeva però che San Marino non desse più rifugio ai suoi nemici ed ai nemici della Chiesa. Pretendeva cioè l'abbandono di quella politica filoghibellina e filomontefeltrana tenuta fino ad allora, e come conseguenza il ritorno ad un'alleanza con i guelfi, eventualmente contro i ghibellini ed i Montefeltro.

Non sappiamo che esiti immediati abbia dato questa pace; probabilmente pochi visto che nel 1324 si sentì il bisogno di sottoscrivere un altro trattato di pace.

E' probabile che negli stessi anni Rimini continuasse ancora nella sua opera diretta a togliere San Marino dalle mani del vescovo del Montefeltro; tuttavia nel 1325 il Rettore di Romagna giunse alla conclusione che era preferibile non consegnare un luogo così strategicamente importante ai Malatesta, ma di lasciarlo sotto la formale tutela e autorità della chiesa di Montefeltro.

In definitiva possiamo senz'altro asserire che l'affermarsi di due potenti signorie tra loro in lotta ai confini sammarinesi ha permesso al comune di San Marino d'impostare un intelligente gioco basato sul mantenimento di un equilibrio politico tra le parti che piano piano gli ha consentito di godere di una relativa indipendenza verso entrambi, anche se occorre dire che Urbino ha per secoli esercitato un peso molto maggiore di Rimini sulle direttive politiche sammarinesi.

Negli anni successivi il comune sammarinese visse un periodo di relativa tranquillità, e poté impegnarsi maggiormente a definire meglio con le comunità limitrofe i suoi confini, e ad integrare e aggiornare i suoi statuti.  

 

 

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