Colpi di Stato o colpi di mano?
Nella storia del Novecento sammarinese ogni tanto qualcuno strilla
al “colpo di Stato”. Anche recentemente è successo più volte,
sebbene quelli più sbandierati siano
senz’altro il presunto colpo di Stato perpetrato ai danni del regime
fascista il 28 luglio del 1943, e quelli altrettanto presunti
avvenuti coi cosiddetti fatti di Rovereta del 1957.
Furono davvero colpi di Stato o solo colpi di mano?
Rispondere significa entrare nell’ambito del diritto e anche della
filosofia della storia, quindi in campi dove l’interpretazione non
può mai essere assolutamente oggettiva. Tuttavia qualcuno tempo fa
mi ha posto la domanda, per cui cercherò di fornire un mio parere
ben sapendo che ciò che dirò non convincerà tutti e magari farà
storcere anche qualche naso.
Partiamo col definire “colpo di Stato”: i dizionari di politica e di
diritto lo spiegano come “categoria metagiuridica”, cioè che va al
di là del diritto. In sintesi vi è colpo di Stato quando viene
mutato il sistema politico tramite modalità diverse da quelle
legali, con la presa di potere attraverso metodi non conformi alla
legge, ovvero determinando una “rottura costituzionale”. Questa può
avvenire sia utilizzando eserciti e polizia, cioè coercitivamente,
sia senza violenze e repressioni.
Storicamente è anche accaduto più volte che qualcuno è andato al
potere in modo lecito, poi ha macchinato per rimanervi attuando la
“rottura costituzionale” grazie alla forza politica di cui poteva
disporre dal ruolo assunto. E’ il caso di Napoleone III, per fare un
esempio, eletto presidente della Francia nel 1848, ma trasformatosi
in imperatore in pochi anni grazie ad alcuni plebisciti ben
pilotati, e a leggi mirate che hanno mutato la costituzione francese
che gli aveva consentito di assumere la presidenza.
E’ pure il caso di Hitler, eletto con regolari elezioni nel 1932, ma
abile a trasformarsi rapidamente nel feroce dittatore che tutti
conoscono abolendo il sistema democratico.
E’ il caso anche di Mussolini, asceso al potere dopo la Marcia su
Roma, e grazie ai favori e alle simpatie della casa regnante, il
quale instaurò il suo regime totalitario dopo il delitto Matteotti e
il famoso discorso esposto in parlamento il 3 gennaio 1925.
Questi episodi storici possono considerarsi golpe oppure no? In
tutti e tre vi è stata rottura costituzionale? Si sono, insomma,
alterate forzosamente le regole per compiere veri colpi di Stato e
creare poteri politici non previsti dalla normativa precedente?
Per me e per tanti assolutamente sì, ma altri, i nostalgici,
senz’altro la pensano in modo diverso avendo del concetto in esame
tutt’altra idea.
Invece con colpo di mano in genere s’intende un’azione energica,
rapida e spregiudicata, non illegale o di rottura costituzionale,
tesa a raggiungere in fretta uno scopo o un obiettivo, sfruttando la
sorpresa di chi non era preparato a contrastarla.
Anche questa metodologia è ben presente negli esempi fatti, iniziati
come colpi di mano, ma divenuti poi colpi di Stato.
Esaminiamo ora i casi sammarinesi del ’43 e del ‘57.
Dopo aver saputo dell’arresto del duce avvenuto il 25 luglio 1943,
tra il 26 e il 27 gli antifascisti sammarinesi, che fino a quel
momento erano rimasti in ombra per paura di persecuzioni, decisero
di convocare una manifestazione popolare all’interno del Teatro
Concordia di Borgo per la mattina del 28 luglio. Quest’assemblea,
molto partecipata, stilò una mozione da presentare ai Reggenti per
chiedere l’immediato scioglimento del Consiglio e l’istituzione di
un governo provvisorio.
Così fu: la Reggenza, per la pressione insistente e decisa a cui
venne sottoposta, non poté far altro che esaudire le richieste degli
antifascisti e creare un esecutivo composto da 20 membri, divenuti
in seguito 30, per giungere a elezioni politiche.
Vi fu violenza? Fisica certamente no, dialettica è assai probabile,
comunque i Reggenti non ebbero alternative, visto ciò che stava
succedendo in Italia, anche se in molti sopravviveva ancora la
speranza, presumibilmente la certezza, che l’avventura fascista non
fosse terminata.
Furono convocate elezioni per il 5 settembre ripristinando la legge
elettorale di stampo proporzionale del 1920 che i fascisti avevano
sostituito nel 1926 con una legge di tipo maggioritario. La legge
del ’20 era nata da un accordo tra socialisti e popolari, quindi da
un’ampia maggioranza consigliare, e aveva dato vita all’agone
elettorale tra partiti che, nonostante le critiche di ieri e anche
di oggi da parte di qualcuno, rappresentava la prosecuzione del
percorso democratico iniziato con l’Arengo del 1906. Inoltre seguiva
la medesima logica della nuova legge elettorale varata in Italia
l’anno prima.
Il Consiglio, con questa normativa, divenne rinnovabile ogni quattro
anni, furono introdotte norme che regolamentavano le modalità di
presentazione delle liste dei candidati, e altro ancora.
Le prime elezioni che si svolsero con questa legge avvennero il 14
novembre del 1920, e videro il confronto fra socialisti, popolari e
un terzo partito, l’Unione Democratica Sammarinese, nato per
l’occasione. Il Consiglio che ne scaturì fu gestito solo da popolari
e unionisti, perché i 18 consiglieri socialisti eletti, delusissimi
di non aver ottenuto da soli la maggioranza, e assolutamente
contrari ad allearsi a partiti che non la pensavano come loro, si
dimisero in blocco.
Tra il ’22 e il ’23 anche a San Marino vi fu l’ascesa al potere del
fascismo, molto supportato dal fascismo riminese e del circondario,
con le stesse metodologie facinorose ormai ampiamente sperimentate
sul suolo del Regno. Intimorendo e perseguitando gli avversari, in
breve tempo divenne il gruppo politico dominante.
Nel ’23 il Consiglio fu sciolto per indire elezioni anticipate.
All’elettorato fu presentata una lista unica, il “Blocco
patriottico”, composta da 29 fascisti, nove unionisti, e venti
popolari. L’afflusso alle urne fu minimo (1.484 votanti su 4.184
aventi diritto), ma alla fine il risultato che si voleva conseguire
lo si ottenne pienamente, perché il nuovo Consiglio risultò formato
solo da membri ostili alla Sinistra e alla cultura operaia e
democratica che propugnava.
Colpo di Stato? Colpo di mano?
Nessuno aveva esplicitamente vietato a socialisti e comunisti di
presentare una loro lista alle elezioni, ma implicitamente sì. Gli
atti di violenza, ormai ben documentati,
gli attacchi sistematici della “Penna Fascista” di Rimini, il clima
oppressivo del momento storico, il concreto pericolo di violenti
scorribande dei fascisti dei dintorni facevano sì che fosse
una follia per chiunque presentarsi candidato all’ombra di
una bandiera rossa o in nome dell’Internazionale Socialista.
Se s’impedisce in qualunque maniera a un raggruppamento politico di
prendere parte a una competizione teoricamente democratica, si ha
secondo me una “rottura costituzionale”, e le elezioni devono
considerarsi falsate. La risposta alla domanda da cui sono partito
diventa quindi ovvia.
Ma procediamo.
Il fascismo per continuare a fornirsi una patina di democraticità
organizzò negli anni successivi altre elezioni cambiando, come si è
detto, legge elettorale. La legge maggioritaria varata nel ’26
permise a chi otteneva il maggior numero di voti di assicurarsi la
maggioranza consigliare con 46 seggi; la durata della legislatura fu
portata a sei anni; il corpo elettorale fu ristretto ai soli
capifamiglia, ai laureati, agli appartenenti alla milizia, e a chi
aveva un certo reddito; i seggi che
durante la legislazione rimanevano per qualche motivo vacanti
venivano ricoperti tramite cooptazione.
Con questa legge si svolsero le elezioni nel ’26, nel ’32 e nel ’38,
sempre con presentazione di un’unica lista. Furono ovviamente
plebiscitarie: nel ’26 la lista conseguì 2.444 voti su 2.445 votanti
(un voto fu nullo), nel ’32 ricevette 2.573 voti su altrettanti
votanti, nel ‘ 38 i voti conquistati “democraticamente” furono 2.916
su altrettanti votanti.
In quale sistema realmente democratico le votazioni non registrano
neppure un voto contrario? I nostalgici del ventennio (ce ne sono
ancora in giro) sicuramente diranno che questi risultati dimostrano
la validità del regime al potere e l’assoluto consenso popolare di
cui godeva.
Comprovano invece che quando si parla di colpo di Stato del 28
luglio 1943, bisogna prima guardare a quanto accaduto negli anni
precedenti.
Non dico che San Marino potesse avere un altro tipo di governo,
visto il giogo che opprimeva l’Italia. La nostra è sempre stata una
libertà condizionata, per cui pensare che negli anni in esame
potesse stare ai vertici della Repubblica un Consiglio non fascista,
magari con componenti rosse al suo interno, significa cadere nella
“fantastoria” o comunque sognare ad occhi aperti.
Tuttavia nemmeno è possibile affermare, come più volte è stato fatto
in passato, ma anche di recente, che il Consiglio fascista del
ventennio scaturisse da elezioni regolari, e che il suo scioglimento
forzoso sia da ritenersi a tutti gli effetti un colpo di Stato
perché non aveva perso la sua maggioranza per l’esplicito
pronunciamento della cittadinanza, per cui la Reggenza non poteva
dichiararlo decaduto.
Una simile tesi chiude gli occhi sul fatto che il Consiglio, eletto
con le metodologie di cui si è detto, era composto solo da fascisti
o filofascisti, quindi non si sarebbe mai suicidato se non dietro
pressioni forti degli antifascisti, che avevano tutto il diritto di
ribellarsi dall’esterno del parlamento sammarinese, e neppure
avrebbe convocato elezioni regolari.
Il diritto di ribellione al regime derivava direttamente da quanto
scritto dal padre del liberalismo e della democrazia moderna,
l’inglese John Locke vissuto nel XVII secolo, che tra i diritti
fondamentali dell’uomo (alla vita, alla salute, alla proprietà) dava
particolare risalto al diritto alla libertà: se un tiranno, un
principe, un governo limita questo diritto, ribellarsi è logico e
lecito.
Paradossalmente se il fascismo non avesse svolto periodiche
elezioni, si poteva parlare di “rottura costituzionale”, quindi di
colpo di Stato da parte degli antifascisti, perché vi sarebbe stata
di certo un’altra normativa che avrebbe avallato la sua detenzione
del potere senza dover ricorrere a consultazioni elettorali.
Se però si vuole rimanere al potere in maniera formalmente
democratica, bisogna rispettare l’insieme delle regole della
democrazia, soprattutto uguaglianza tra tutti e libertà di
partecipazione alla vita sociale e politica senza il timore di
patire angherie.
Ritengo quindi il 28 luglio del 1943 al massimo un colpo di mano,
non di Stato.
Veniamo ora al 1957.
Le elezioni del 5 settembre 1943 si svolsero con una sola lista dei
candidati concordata fra le forze antifasciste, escludendo chi
durante il ventennio aveva avuto ruoli politici importanti, ma pure
i comunisti perché la situazione politica italiana era ancora poco
definita. Anche in questo caso possiamo dire che non furono
pienamente democratiche, ma troppi erano i livori nei confronti del
regime appena accantonato perché si giungesse subito a quella pace
sociale che i più moderati tra gli antifascisti avrebbero voluto.
Verso i comunisti permanevano invece forti diffidenze da parte di
tutti coloro che temevano la cultura di sinistra e quanto promosso
dal 1918 in poi dal bolscevismo.
Il nuovo Consiglio, composto in modo sostanzialmente paritario da
un’area
conservatrice/moderata e da una progressista/moderata, si riunì la
prima volta il 16 settembre, ma operò per poco tempo, perché agli
inizi di ottobre giunsero sul Titano nazisti e repubblichini. Per
non subire guai da costoro, si dovettero coinvolgere nuovamente
nella gestione del potere alcuni gerarchi del governo precedente
creando un Consiglio provvisorio ristretto.
Non sto a dilungarmi su quanto accaduto in seguito, già raccontato
da più voci. Mi limito a dire che, giunti gli alleati in Repubblica
un anno dopo, il Consiglio eletto nel ’43 riprese pienamente le sue
funzioni, ma solo per qualche mese, perché i comunisti in accordo
coi socialisti cominciarono a contestarlo ritenendolo non del tutto
rappresentativo delle forze sociali che la Repubblica aveva in quel
momento.
Scelta la strada delle elezioni anticipate, svolte nel marzo del
’45, vi parteciparono due coalizioni: il Comitato della Libertà, di
centrosinistra, e l’Unione Democratica Sammarinese di centrodestra.
I vecchi gerarchi fascisti vennero accantonati, processati,
condannati, in parte imprigionati per qualche tempo.
Le elezioni videro la vittoria del Comitato che ottenne 40
consiglieri, e la formazione di una maggioranza composta
prevalentemente da socialisti e comunisti. Subito scoppiarono
polemiche col mondo cattolico, che nei comunisti vedeva dei senzadio
bramosi di scristianizzare la società, coi possidenti, timorosi
dell’abolizione della proprietà privata, e dal ’48 in poi col
governo De Gasperi e la Democrazia Cristiana sia italiana che
locale, nata nel periodo.
Si era in piena Guerra Fredda tra Est e Ovest, e l’Occidente
guardava con forte sospetto San Marino, che rappresentava una realtà
politica marginale e insignificante nel panorama politico
internazionale, dotata però di una forte carica simbolica, essendo
lo Stato, la Repubblica, più antica del mondo, non un semplice
comune italiano. Inoltre si temeva che divenisse un avamposto
bolscevico, possibile testa di ponte di altri rischiosi esperimenti
comunisti occidentali.
Gli anni dal ’48 al ’57 furono pieni di sgambetti e boicottaggi da
parte dell’Italia e dell’Occidente in genere, e San Marino dovette
barcamenarsi come poté per tirare avanti, perché economicamente fu
sempre in agonia. Provò ad aprire un casinò dal ’49, ma l’Italia
brigò finché non si dovette
chiuderlo un paio di anni dopo. Non gli fu permesso di partecipare
al Piano Marshall. Il canone doganale, che rappresentava una
cospicua parte del suo bilancio, gli veniva centellinato, e
l’inflazione galoppante di questi anni lo erodeva senza sosta. La
situazione finanziaria andò di male in peggio, ma nel contempo
aumentò la forza del partito comunista sammarinese che nelle
elezioni del ’55 vide 19 suoi membri entrare in Consiglio. Questo
significava che quasi un terzo dell’elettorato sammarinese era
comunista, fatto che preoccupava sempre più l’Italia e l’Occidente.
Occorre dire poi che certi comportamenti un po’ troppo decisi del
governo socialcomunista, interpretati dai suoi antagonisti come
totalitari, insieme all’apertura diplomatica sempre più marcata
verso Est (nel ’54 con l’Ungheria, nel ’56 direttamente con l’URSS)
per cercare quel supporto economico che l’Ovest non voleva fornire,
fecero precipitare la situazione. Nel partito socialista sammarinese
tra il 1955 e il 1956 avvennero due scissioni con la fuoriuscita di
tesserati e consiglieri ormai avversi all’alleanza con i comunisti.
Nel settembre del ’57 in Consiglio si giunse ad una parità tra
maggioranza e opposizione con 30 consiglieri per parte, una
situazione insomma di stallo, finché anche dal partito comunista vi
fu la fuoriuscita di un suo consigliere che aderì all’opposizione. I
numeri s’invertirono: ora i socialcomunisti avevano 29 consiglieri,
e i loro oppositori 31.
A San Marino ieri come oggi chi fa 31 in Consiglio, in qualunque
modo lo faccia, purché non siano certe, documentabili e denunciabili
azioni perseguibili penalmente, ha il diritto di assumere il governo
del paese, a prescindere dai principi morali, ideologici e politici
che vengono infranti e ripudiati.
I socialcomunisti, all’epoca estremamente ferrei nel loro credo, non
accettarono il “ribaltone”, come lo chiameremmo oggi, e si
persuasero che la nuova maggioranza fosse divenuta tale tramite
inghippi, raggiri e tradimenti sponsorizzati dall’Occidente, Italia
e USA in primis, che avevano compreso, grazie alle elezioni del ’51
e soprattutto del ’55, quanto fosse impossibile erodere l’elettorato
socialcomunista, da sempre sostenuto e votato dal vasto mondo degli
operai e dei lavoratori.
Questo convincimento e i tanti anni di sistematico e puntiglioso
ostruzionismo al loro governo e al paese fecero saltare i nervi
all’esecutivo che di conseguenza agì più d’impeto che con
ponderatezza: il 19 settembre, giorno in cui doveva riunirsi il
Consiglio, che in base allo statuto secentesco, ancora fondamentale
per il sistema costituzionale locale, ma anche secondo la più
recente legge numero 15 del 24 marzo 1945, che aveva riformato il
sistema di nomina dei Reggenti, sarebbe stato valido con qualunque
numero di presenti, quindi anche meno di 31, perché doveva nominare
la nuova Reggenza, diede ordine di sbarrare le porte d’ingresso del
Palazzo Pubblico essendo certo che in quell’occasione vi sarebbe
stata la nomina di una coppia di Reggenti figlia della nuova
maggioranza, che così sarebbe entrata in carica ufficialmente.
Si motivò l’azione sostenendo che non esisteva più il Consiglio,
quindi occorreva andare a nuove elezioni politiche. Infatti i
socialcomunisti avevano presentato le dimissioni di tutti i membri
della loro maggioranza, anche di coloro che ne erano usciti nei mesi
precedenti. Questo fu possibile perché era prassi farle firmare in
bianco a inizio legislatura, e tenerle a disposizione
nell’eventualità fosse accaduto ciò che in effetti avvenne. I
dissidenti, però, in giugno sia in Consiglio che direttamente alla
Reggenza avevano dichiarato di non riconoscere più i documenti
firmati precedentemente in bianco, qualora fossero stati utilizzati
dal governo per qualche scopo.
Il punto è proprio questo: che valore avevano quei documenti poi
impiegati come dimissioni anche dei dissidenti? Legalmente nessuno:
erano una sorta di promessa mancata e rinnegata più di due mesi
prima che fossero usati per dichiarare sciolto il Consiglio.
Potevano invece avere un valore morale, proprio perché
rappresentavano un impegno politico non mantenuto. I dissidenti
tuttavia non consideravano la loro azione immorale, ma salvifica,
vista la situazione economicamente drammatica in cui versava il
paese. Pensavano che il loro “ribaltone” fosse un imperativo
categorico per far tornare in vita il paese, perché l’Occidente
avrebbe sicuramente continuato nella sua azione di strangolamento
finanziario della Repubblica “rossa”, mentre sarebbe stato ben lieto
di aiutare un governo senza comunisti.
A chi dare ragione? Ai socialcomunisti che avevano continuamente
visto ostacolato in tutte le maniere il loro agire, o ai loro
avversari che macchinando con Italia, USA e Occidente volevano
abbattere una maggioranza regolarmente eletta, ma ritenuta in quel
momento il male assoluto per il paese per colpa della sua componente
comunista?
Ho già più volte detto, suscitando fulmini e intemperie su di me da
entrambi i fronti, cosa che probabilmente si ripeterà, che a mio
parere ognuno aveva un po’ di ragione, ma anche un po’ di torto. I
socialcomunisti avrebbero dovuto avere la possibilità di governare
senza tanti sgambetti, perché l’elettorato era dalla loro parte,
anche se a San Marino la storia contemporanea insegna che chi sta al
governo ha più possibilità di rimanerci di chi aspira ad andarvi.
Se non avesse avuto tutti gli ostacoli che gli furono frapposti, se
avesse potuto beneficiare del Piano Marshall e delle simpatie
dell’Occidente, il paese si sarebbe ripreso in fretta dalla crisi in
cui era stato posto dalla guerra, e dal fatto che l’Italia l’aveva
tragicamente persa.
Purtroppo non ebbe aiuti. Si era in piena Guerra Fredda, e gli
aspetti ideologici, profondamente dominati dalla “red scare” e dalla
“dottrina Truman”, avevano un peso cultural/politico che noi
difficilmente possiamo intendere del tutto. Non l’hanno compreso
nemmeno i governanti dell’epoca che, in nome dei tanti secoli di
vita della Repubblica e della sua storia, conosciuta purtroppo solo
nei suoi aspetti più apologetici e gloriosi come veniva insegnata in
epoca fascista, dell’essere stati eletti tramite suffragio a cui
tutte le componenti politiche avevano preso parte, della mitica
libertà perpetua e di altro ancora non riuscirono a focalizzare del
tutto il problema culturale che in quegli anni imperversava
condizionando in profondità le mentalità e i livori politici.
La nostra storia offre molteplici esempi di quanto sia sempre stata
condizionata la libertà sammarinese dalla sua piccola dimensione di
Stato/enclave di cui nei secoli ha dovuto periodicamente pagare il
fio: con lo Stato Pontificio, con i Montefeltro, con i Malatesta,
con Napoleone, col Regno e poi la Repubblica italiana.
“Non si sta in paradiso a dispetto dei santi”, recita un antico
modo di dire: ugualmente non si può stare in Italia a dispetto del
governo italiano, o in Occidente a dispetto dell’Occidente stesso.
Non è acquiescenza la mia, ma solo realismo politico, triste, se
vogliamo, ma molto concreto.
L’errore di fondo dei socialcomunisti fu l’incomprensione di tutto
questo, e la convinzione che l’antica democrazia di cui si vantava
il paese fosse piena garanzia della sua irreprensibilità politica, e
che i tanti secoli di vita della Repubblica, vissuti in genere in
buona armonia con le altre realtà politiche, rappresentassero
un’ulteriore garanzia rassicurante e incontestabile.
Occorre inoltre dire che compito precipuo di ogni buon governo è
quello di realizzare il bene massimo per il proprio Stato. Se non vi
riesce deve aver la forza di farsi da parte, anche se i suoi
fallimenti non dipendono solo da lui.
E i suoi avversari? Dalle elezioni del ’49 in poi le avevano provate
tutte per andare al potere, ma senza esito, perché la società era
prevalentemente operaia, e gli operai, a cui il lavoro in patria era
garantito dalla politica del “pieno impiego”,
mentre gli emigranti lo trovavano grazie a convenzioni fatte
dall’esecutivo con gli Stati dove si recavano, in maggior parte
votavano socialisti o comunisti.
Fondamentale per salire ai vertici del paese furono tre defezioni:
nel ’55 fuoriusciti del partito socialista diedero vita al
raggruppamento socialdemocratico; tra il ’56 e ’57 altri fuoriusciti
socialisti crearono il partito socialista indipendente, sempre
d’ispirazione socialdemocratica; nel ’57 un comunista uscì dal suo
partito per aderire alla minoranza. Il suo apporto fu indispensabile
per raggiungere il numero di 31 consiglieri, ovvero la maggioranza.
Perché queste defezioni? Se ne sono dette tante dal ’57 in poi, con
accuse di tradimento, di essersi lasciati comperare, di aver
truffato l’elettorato, di corruzione e altro ancora. Penalmente non
è mai stato dimostrato nulla a carico di nessuno, per cui, senza
documentazione adeguata, tutte le accuse diventano mere opinioni
personali dettate da congetture, risentimento e possibilità
verosimili, ma inverificabili.
Riguardo al tradimento verso l’elettorato, molto diffuso ovunque
tanto che è stato coniato anche un neologismo per specificarlo, cioè
“scilipotismo”, ho già detto che nella nostra legislazione un
consigliere può essere eletto in una lista, rinnegare poi il suo
gruppo e aderire ad altri partiti senza decadere dal suo ruolo, a
meno che non lo decida spontaneamente.
Sono sempre stato in disaccordo con questa prassi, mentre i politici
la continuano senza remore, per cui chi nel ’57 ha rinnegato la sua
appartenenza partitica precedente lo ha fatto senza incorrere in
nulla di illegale. Ugualmente aveva il diritto, anche in questo caso
senza commettere alcun reato, di sconfessare i documenti in bianco
firmati in precedenza.
Al limite i dissidenti dovevano fare i conti con la propria
coscienza, ma non fu difficile farli, vista la situazione
economicamente drammatica in cui il paese versava dopo anni di
boicottaggi e ostruzionismi. “Primum vivere, deinde philosophari”,
fu il loro aforisma; ovvero prima dell’ideologia viene la vita
concreta: se la prima inficia la seconda, bisogna saperla
accantonare.
La loro ascesa al potere è da considerarsi, secondo me, solo un
machiavellico colpo di mano, non un colpo di Stato. D’altronde il
primo opuscolo edito dall’ex maggioranza di sinistra per raccontare
i fatti fu proprio intitolato: “L’attentato alla libertà del popolo
e alla indipendenza della Repubblica di San Marino – Cronaca
commentata di un colpo di mano”.
Discorso diverso è da farsi per quanto combinato dai socialcomunisti
il 19 settembre, ovvero la chiusura delle porte del Palazzo
Pubblico, e l’impedimento dell’accesso al suo interno dei
consiglieri. Fu un avvenimento mai successo prima e che non accadde
più in seguito. Direi quindi che ci sono gli estremi di una “rottura
costituzionale” perché non fu verificato in concreto se davvero il
Consiglio non esistesse più, ma solo contando le lettere di
dimissioni di cui alcune precedentemente disconosciute.
Aggravante poi è il fatto che in quel giorno si doveva eleggere la
nuova coppia di Reggenti, quindi anche se il Consiglio non avesse
raggiunto la maggioranza di 31 presenti che lo avrebbe reso valido,
si doveva dare la possibilità comunque ai consiglieri di entrare nel
Palazzo, perché i nuovi Reggenti per statuto e per legge andavano
eletti a prescindere dal numero dei presenti.
Questa forzatura ha poi determinato il prolungamento arbitrario del
mandato della Reggenza non deciso dal Consiglio, minoritario o
maggioritario che fosse.
Colpo di Stato, quindi? Per me ancora una volta no. Mi si potrà
accusare di buonismo, ma un colpo di Stato è tale se i golpisti
agiscono per assumere istantaneamente il potere, non per richiedere
elezioni anticipate, come preteso dalla vecchia maggioranza che le
fissò per il 3 novembre.
Vi fu, dunque, rottura costituzionale, ma senza presa del potere in
quanto le elezioni non si svolsero. Più che un colpo di Stato,
quanto accaduto il 19 settembre mi sembra più un “colpo di testa”
causato da emotività e rabbia per i tanti ostacoli e tiri mancini
subiti dai socialcomunisti nei dodici anni in cui hanno retto il
paese fino a quel fatale numero 31 raggiunto dagli avversari.
Il governo “rosso” l’11 ottobre comunicò alla popolazione tramite
manifesto che, pur sentendosi dalla parte della ragione e di essere
vittima di un sopruso, cedeva il potere nell’interesse del paese e
della pace sociale. Tre giorni dopo il nuovo esecutivo s’insediava
nel Palazzo Pubblico e iniziavano anni di polemiche e dissidi che, a
quanto pare, ancor’oggi non si sono del tutto assopiti.
In Annuario della Scuola Secondaria Superiore n. XLVI, a.s. 2018
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