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Ferme restando tutte le altre norme Statutarie
ovvero
Arengo del 1906 e congelamento istituzionale 

di Verter Casali
 

(Pubblicato sull'Annuario delle Scuole Superiori di San Marino del 2006)

 

E’ ormai trascorso un secolo da quel 25 marzo 1906 in cui i capifamiglia sammarinesi tornarono a riunirsi in assemblea, dopo secoli di assoluta e silente sottomissione al Consiglio Principe e Sovrano, per decidere se attuare o no parziali riforme al loro sistema parlamentare, nominato dal XVI secolo in poi per cooptazione.

Tale evento portò, come è ben risaputo, al rinnovo periodico del Consiglio tramite regolari elezioni.

Quel momento è stato da lì in poi, salvo rarissime voci discordi, esaltato e magnificato con tutti gli aggettivi più glorificanti del vocabolario, tanto che oggi, a distanza di cento anni, a molti, a troppi sammarinesi ronzano in testa solo l’enfasi e l’apologia dell’arengo, cioè il suo mito, gli elementi insomma più superficiali e patinati, più semplici da sapere e ricordare, mentre si è perso di vista la sua sostanza, la sua realtà più intima e complessa.

L’arengo del 1906, infatti, rappresenta sì un fenomeno politico straordinario che ha condizionato tutta la politica sammarinese successiva; fu davvero una bella vittoria degna di enfasi e di fiumi di retorica, ma fu soprattutto una vittoria mutilata, per usare una definizione di altri, un successo assai parziale rispetto alle velleità per cui tutto il movimento che lo aveva inventato e determinato si era dato da fare. 

Ma veniamo a spiegare un’affermazione così forte e controcorrente. Prima però un rapido
accenno  ai suoi antefatti e alle cause che lo hanno determinato.
[1]

L’arengo era l’antica assemblea dei capifamiglia della comunità sammarinese, e in epoca basso medievale assumeva le decisioni politiche più importanti, probabilmente sotto la supervisione del vescovo del Montefeltro che gestiva, in nome di Roma, la zona geografica in cui era collocato anche il territorio sammarinese.

Crescendo nel tempo il comune e la sua popolazione, si sentì l’esigenza di utilizzare organi politici meno numerosi, quindi più facili da convocare e consultare (Consiglio dei LX, Consiglio dei XII), per cui gradualmente l’arengo venne accantonato, pur senza mai essere soppresso ufficialmente.

Le ultime sue convocazioni, non come governo effettivo del paese, ma con mere funzioni di corpo elettorale preposto al rinnovo di una parte del Consiglio, si verificarono nel corso della seconda metà del XVI secolo, poi venne semplicemente lasciato in disparte (un po’ come sarebbe successo da lì a poco agli Stati Generali in Francia), fatto che permise al Consiglio di diventare sempre più chiuso ed oligarchico in quanto non più giudicato e rinnovato dal popolo.

In certi momenti di agitazione sociale, o comunque politicamente e socialmente critici, vi furono istanze più o meno ufficiali da parte di qualcuno per ripristinarlo, come nel 1738, nel 1797, nel 1848, nel 1853, segno certo che i sammarinesi più colti e conoscitori degli statuti secenteschi, con cui erano stati decurtati i poteri dell’assemblea dei capifamiglia, avevano ancora la consapevolezza della sua latente potenzialità. La convocazione dell’arengo, tuttavia, non spettava al popolo, ma doveva passare per legge attraverso Consiglio e Reggenza, che si guardarono bene, ovviamente, di adunarlo.

Nella seconda metà dell’Ottocento si svilupparono in Italia e conseguentemente anche a San Marino nuove istanze culturali e politiche impazienti di abbandonare le logiche più elitarie ed aristocratiche di gestione del potere. Le masse operaie e popolari, grazie soprattutto a giovani intellettuali “illuminati” e riformisti che le sobillavano, presero sempre più coscienza della loro possibile forza e dei diritti che potevano rivendicare. Nacquero organizzazioni e partiti desiderosi di dar vita a nuove ere sociali dove la gente semplice, gli operai e le masse in genere potessero essere protagoniste del proprio destino, e non più schiave di aristocratici, ottimati o caste privilegiate.

Anche nella repubblica sammarinese successe qualcosa di simile, e le prime timide rivendicazioni tese a chiedere il suffragio universale, l’abolizione dei ceti in cui ancora era divisa la popolazione sammarinese (nobili, terrieri, villici), alcune riforme economiche e fiscali per appianare il deficit dello Stato, che negli ultimi anni del Novecento stava aumentando per le eccessive spese fatte (in primis il palazzo del governo, inaugurato nel 1894 e costato più di 300.000 lire, cifra immensa per le modeste casse pubbliche dell’epoca), si allacciarono piano piano alla richiesta di riconvocare un arengo, organismo statutario, come si è detto, mai abolito, ma in letargo dal 1571.

Sebbene da più parti sorgessero richieste di innovazioni all’interno della società sammarinese, fino ai primi anni del XX secolo il variegato movimento riformista locale, composto da minuscoli nuclei di socialisti, repubblicani, liberali, non riuscì a trovare unità d’intenti nella battaglia riformista che tutti costoro sognavano, anche se con sfumature molto diverse tra loro.

La frammentazione dei riformisti ovviamente giovò ai loro avversari, ovvero i cosiddetti conservatori, membri dell’oligarchia dominante, passatisti e in genere eredi di quell’oligarchia terriera che da secoli deteneva il potere effettivo sulla piccola repubblica. Costoro, perennemente succubi del motto Aut sit uti est, aut non sit, (o rimanete come siete o non sarete), temevano di perdere col loro dominio sulla comunità, che naturalmente portava prestigio e potere, anche la mitica libertà della Repubblica, legata secondo la loro logica, ma come vedremo non solo loro, totalmente al sistema istituzionale oligarchico in vigore, sistema addirittura considerato sacro e consacrato dal santo fondatore in persona.

Questi, in estrema sintesi, gli antefatti dell’arengo e gli schieramenti che si fronteggiavano pro o contro le riforme. La situazione rimase in stallo fino al 6 aprile 1902 quando accadde un fatto nuovo: tre consiglieri riformisti (Telemaco Martelli, Remo Giacomini, Ignazio Grazia) presentarono un’istanza al Consiglio con cui richiedevano l’istituzione del referendum per poter consultare la popolazione su problemi specifici o leggi particolari. Tale domanda nasceva dal fatto che anche in Italia si stava parlando di istituire il referendum, ma soprattutto da una nuova legge tributaria a cui da tempo si stava pensando (e si stava lavorando) per pareggiare il deficitario bilancio dello Stato sammarinese. Nella seduta consigliare del 24 settembre 1901, infatti, Remo Giacomini dichiarò che, prima di applicare nuove tasse, sarebbe stato opportuno fare un referendum con cui chiedere l’opinione del popolo, visto che alla fine sarebbe stato proprio questo a subire le conseguenze maggiori e materiali dalla riforma tributaria.

I tre riformisti erano inoltre dell’avviso che “solo con la partecipazione del popolo alla vita pubblica si potrà avere un governo veramente forte, libero e civile, che abolisca i privilegi, gli abusi e le immoralità”. Questa partecipazione era permessa anche dagli statuti in vigore, i quali dicevano che il popolo come arengo semestrale poteva interloquire con il Consiglio: ora avrebbe potuto farlo tramite l’istituto del referendum, inteso come assemblea obbligatoria dei capifamiglia a cui sottoporre tutti i decreti e le nuove leggi. Esso sarebbe stato “scuola di moralità” per il popolo che, coinvolto in maniera diretta nella gestione del paese, sarebbe gradualmente cresciuto nella sua cultura politica e sociale.[2]

La richiesta di referendum dei tre riformisti creò un certo scompiglio tra i consiglieri, che decisero di richiedere un parere autorevole sul problema ad alcuni giuristi italiani amici e consulenti della Repubblica, in particolare a Pietro Ellero, grande estimatore di San Marino e personaggio all’epoca considerato un luminare delle scienze giuridiche.

Questo atto, insieme ovviamente alla situazione sociale ed economica in cui versava il paese, fu in pratica l’inizio di tutta la faccenda che determinò l’arengo del 1906.

Il 10 giugno 1902 Ellero inviò il suo parere sulla questione che gli era stata formulata. Disse che il sistema istituzionale sammarinese era da reputarsi in effetti aristocratico in quanto il Consiglio era nominato per cooptazione; per tale motivo consigliava di concedere qualche cauta riforma, perché temeva che la costituzione potesse essere giudicata “vieta e retriva e offrire il fianco agli attacchi interni ed esterni, se non la si riaccostasse con tutta la maggior prudenza, lentezza e circospezione alla fonte democratica, dond’era sorta, e non la si richiamasse così alle sue origini”.

La Repubblica doveva stare però assai attenta nel riformare, perché la sua esistenza dipendeva solo dal fatto che fosse “una singolarità storica prodigiosamente sopravvissuta”, che poteva continuare la sua esistenza solo grazie alla “probità e la saviezza del suo governo, la concordia e l’attaccamento de’ suoi abitanti e le simpatie stesse degli estranei verso una sì veneranda reliquia vivente del passato”.

Nonostante la grande avvedutezza con cui veniva consigliato di procedere, bisognava comunque frenare l’impeto della protesta popolare per evitare che diventasse puramente demagogica, quindi pericolosa e sovversiva.

Il giurista suggeriva di mantenere i tre ordini in cui era diviso il sistema parlamentare locale senza renderlo elettivo, e di restituire al popolo radunato in arengo la potestà legislativa, facendogli avallare o respingere, tramite un semplice sì o no, le leggi elaborate e proposte dal Consiglio. “Di tal guisa la costituzione di San Marino riprodurrebbe in futuro (sublime auspicio) presso che negli analoghi termini la romana costituzione ne’ tempi suoi più gloriosi: ai due Consoli o Capitani Reggenti la potestà direttiva ed esecutiva, al Senato o Consiglio Principe la potestà statuale in istretto senso, ed ai Comizi od arringo la potestà essenzialmente deliberativa o statuiva”.

Ellero produsse anche una bozza di legge a sostegno delle sue teorie in cui era previsto che:

 

·        le leggi e i trattati per entrare in vigore dovevano avere il consenso dell’arengo (sì o no senza emendamenti),

·        l’assemblea doveva essere costituita da tutti i maggiorenni,

·        sarebbe stata convocata ordinariamente ogni sei mesi o straordinariamente quando si voleva, con un preavviso di almeno nove giorni e dopo la pubblicazione delle leggi da esaminare,

·        poteva stare in riunione per un massimo di sei ore diurne consecutive, e in seguito  essere aggiornata ad altra data,

·        era presieduta dai Reggenti,

·        potevano parlare a favore o contro le proposte in discussione non più di tre oratori pro e tre contro, massimo per un quarto d’ora ciascuno,

·        i membri votavano per palle bianche o nere,

·        alla fine il commissario della legge valutava e rendeva pubblico il risultato, che così diventava ufficialmente legge.

 

In sintesi Ellero consigliava di fare come riforma, che lui paradossalmente reputava cauta, il ripristino dell’arengo come assemblea a cui far gestire praticamente tutto il potere su San Marino. Che tale assemblea fosse gigantesca e probabilmente ingestibile, perchè costituita non solo dai capifamiglia, che comunque già da soli erano centinaia e centinaia, ma addirittura anche dai maggiorenni, per lui non era evidentemente un problema.

I governanti sammarinesi, senza dubbio allarmati da una ipotesi tanto sconvolgente, proprio per essere prudenti al massimo, com’erano per natura, ma anche per il timore di dar vita a chissà quali sconquassi, sottoposero il parere Ellero ad altri insigni giuristi:

 

  • Giuseppe Brini aderì acriticamente a quanto detto da Ellero e allo schema di legge. Disse in più che i sammarinesi dovevano stare molto attenti “sopra tutto dall’affrontare più che una provvisione e riforma ad una volta”, e a non toccare assolutamente il Consiglio nei suoi poteri e nella sua conformazione.
  • Cesare Baudana Vaccolini affermò che “Alla repubblica, benché aristocratica ed anzi oligarchica, può tranquillamente concedersi il referendum in tutte le materie legislative, escluse quelle riguardanti l’attuale Costituzione politica dello Stato, senza la quale esclusione, necessaria per ragione di ordine pubblico, il popolo potrebbe assumere i caratteri di Costituente sì da condurre alla rivoluzione” e perdere la sua leggendaria libertà. Si dovevano anche escludere secondo lui anche altri tipi di decreti e provvedimenti amministrativi. Poi occorreva una commissione di 10 cittadini scelti per competenze e cultura per ammettere il referendum “con particolare raccomandazione di provocare il plebiscito con parsimonia”. La domanda di referendum doveva essere presentata da un minimo di 12 cittadini e le sue deliberazioni avrebbero avuto valore solo con i 2/3 dei votanti.
  • Diego Tafani non osteggiò il parere, ma volle sottolineare che: “Tre sono, a parer mio, le ragioni di vita della Repubblica di S. Marino: il suo minuscolo territorio; la sua venerabilità per una esistenza millenaria; la forma oligarchica e patriarcale del suo Governo, non atta a generare o fomentare divisioni interne, passioni e ire di parte”. Concluse il suo pensiero col motto che si è già riportato: Aut sit uti est, aut non sit.
  • Giacomo Reggiani fu l’unica voce veramente contraria al parere Ellero. Disse: “La costituzione sammarinese è del tutto democratica, in quanto che niuna classe di cittadini resta esclusa dalla eleggibilità ». Il Consiglio era numeroso, dunque altamente rappresentativo, inoltre non era prudente restituire al popolo radunato in arengo troppi poteri. Bastava mantenere in vita l’arengo semestrale con le sue funzioni di sempre. Concluse: “Faccio voti che lo Stato non si metta per una via già sperimentata scabrosa e piena di pericoli, e che continui per il sentiero tanto saggiamente tracciato dai maggiori, in cui sta forse la ragione della sua meravigliosa esistenza ultramillenaria”.
  • Nino Tamassia accettò senza appunti, anzi con grandi complimenti, il parere e lo schema di legge Ellero; si raccomandò solo di rendere obbligatoria la partecipazione all’arengo prevedendo una multa per gli assenti.
  • Gaspare Finali si dichiarò d’accordo con Ellero sottolineando che era saggio fare qualche riforma. Aggiunse che “conservare, innovando a proposito, e non servire principii, senza tener conto della tradizione e del fatto esistente, parmi sia buon concetto politico”.
  • Torquato Giannini, commissario della legge sammarinese, si limitò a dire che l’arengo era la naturale assemblea referendaria del paese, anche se il referendum a suo parere era un istituto molto discusso e controverso che presupponeva inoltre una maggioranza di cittadini letterati, condizione che a San Marino non c’era (in effetti all’epoca circa il 70% della popolazione era analfabeta).

 

Questi pareri ovviamente entusiasmarono i tre consiglieri che avevano avanzato la petizione, perchè ottenevano dalle parole dei consulenti molto più di quanto potevano sperare;  spaventarono però moltissimo i conservatori, ben rappresentati da Federico Gozi, ostile a qualsiasi mutamento costituzionale, e da Domenico Fattori, che il 5 ottobre 1902 disse, durante una seduta del Consiglio, che un ritorno all’arengo avrebbe provocato gli stessi problemi per cui era stato accantonato secoli prima:

“In un governo popolare è molto facile il sorgere ed il cozzare dei partiti aspiranti alla prevalenza, e quindi molto facile la discordia, che è madre di danni e di mali incalcolabili in ogni Stato, e che nel nostro condurrebbe a certa ruina” e alla perdita della perpetua libertà.

“Procuriamo di non meritare le maledizioni dei nostri figliuoli, per non aver saputo custodire e conservare il prezioso deposito di libertà, che ci venne affidato dai nostri maggiori”.[3]

Nonostante i timori dei conservatori, ci sono giunte anche alcune lettere private inviate ad Onofrio Fattori, uno degli ottimati dell’epoca, da alcuni dei consulenti interpellati, lettere in cui la raccomandazione di concedere comunque qualche riforma era pressante:

“Grande avvedutezza (a certi segni del tempo) saper prendere un’animosa risoluzione, quando sarebbe un atto meditato e spontaneo, piuttosto che subire l’imposizione delle circostanze, quando diverrebbe un atto precipitoso e forzato”, scrisse Ellero a Fattori il 26 giugno 1902.

In un’altra sua corrispondenza del 30 luglio, in cui si dimostrava particolarmente risentito per le critiche mosse al suo parere da Pietro Franciosi e altri riformisti sammarinesi, disse:

“Dal suddetto opuscolo e da altre pubblicazioni congeneri apprendo che lo screzio costì è forte ed avvelenato (sia pure che acceso e ostentato da pochi scontenti) e che si discute oggi non soltanto il governo, ma la stessa forma politica nella maniera più irriverente e scortese (…). Se ciò avesse a continuare o ad aggravarsi, la discordia entro e la disistima fuori non tarderebbero a spuntare e sovrasterebbe senz’altro il pericolo (badino bene, io veggo le cose da lungi) di un intervento provocato o meno. Devono adunque gli uni ritirarsi subito dai mali passi, ma anche gli altri emendare pur subito quanto vi fosse di poco corretto nell’amministrazione pubblica; e se anche cessasse l’attuale fermento, fare a tempo buon viso ad una democrazia temperata, per non essere poi travolti (come il resto d’Italia) da una demagogia torbida e grossolana, quale l’odierno socialismo”.

Lo stesso concetto venne ulteriormente ribadito in un’altra lettera del 15 settembre:

“Una cosa, di cui io temo e su cui richiamo la Sua maggiore attenzione ora e poi, si è, che la classe dirigente della Repubblica, sedandosi l’odierno movimento, si cullasse nella funesta illusione di non doverne più far nulla. No: attui pure la democratica riforma, secondo che le par meglio; ma in qualche modo l’attui, perché la questione ora impegnata è di quelle, che, se non si risolvono a tempo e per bene, sopraffanno e travolgono (…). E non tema essa la vita fervida e rifluente nel popolo, giacché le stesse plebi sono (contro il generale errore) di natura loro fin troppo conservativa (…). Basta saper fare, e anzi tutto aver fiducia in quelle e non discostarsene e non ripudiarle e non lasciarle inviperire e dementare da’ soliti verbivendoli: mentre del resto, s’essa non è più un grado di assumere il patronato, molto meno sarà in grado di sostenere il suo monopolio”.

Anche Nino Tamassia tenne una corrispondenza privata con Fattori. La prima lettera che può essere interessante per il discorso che si sta svolgendo è del 12 settembre, sempre del 1902, con cui Tamassia precisava che i poteri dell’arengo dovessero essere ben regolamentati affinché non superassero “quel giusto limite, al di là del quale la baraonda democratica incomincia”. “Io sono liberale sì, ma anche conservatore in regno ed in repubblica. Nel caso di maggiori aggravi fiscali, di riforme civili (per es. matrimonio civile, divorzio, ricerca della paternità), l’Arringo può dare il suo voto. E così dicasi nel caso di riforme amministrative; ma mi guarderei bene di proporre che le riforme costituzionali siano affidate alla piazza! San Marino resiste e resisterà così com’è, se no avrà la sorte di tanti altri Stati rosi dalla mania oclocratica. Su ciò è bene essere espliciti (…). La Reggenza nella sua saviezza deve pensare all’avvenire della Repubblica. Pensare, dico, che certe forme reggono come sono, alterate si dissolvono! Che se il partito conservatore per ora credesse (e sarebbe il meglio) di studiare più pacatamente la cosa, prima di fare un passo o un salto nel buio, io ne sarei lieto”.

In un’altra lettera del 18 settembre Tamassia disse che comunque l’arengo sarebbe stato utile a San Marino, pur con poteri limitati, come “sfiatatore a certe velleità che salgono anche sulle vostre rupi”.

“La cosa principale è ora questa, rendere intangibile la costituzione, anche aggiungendo l’arringo limitato (…). Che se davvero tutto il nostro buon popolo lascia sgolare a loro posta quei tre o quattro vociferatori di pseudo-libertà, il Governo ha la miglior prova che la riforma è così urgente (…) e S. Marino tirerà avanti da sé senza intoppi. Grande difficoltà è questa, caro amico, di difendere la libertà dai…liberali, a S. Marino e nel resto della patria”.[4]

Non solo tra i conservatori vi erano voci contrarie al referendum, ma anche tra i riformisti. Pietro Franciosi, una delle principali menti del movimento riformatore, disse che, per quanto apprezzasse l’intento nobile che sottostava alla riforma, la vedeva impossibile “in un regime chiuso, che non disponeva di mandanti e di mandatari”; “prima di mettere in atto sì potente Istituto esser d’uopo ricostituire fra noi una forma di Governo rappresentativo con definito mandato pei governanti da parte dei governati, perché il Referendum esige una via d’uscita in caso di ripetute rejezioni, e non può affatto applicarsi ad un Governo che non conosce la sovranità popolare”.[5]

Prima si doveva ottenere il suffragio universale, poi si poteva pensare ad istituire il referendum: questa in sintesi l’opinione di parecchi riformisti, soprattutto di indole socialista, che già da anni stavano spingendo per rendere elettivo il Consiglio tramite periodiche votazioni, prima riforma che si agognava e pretendeva.

Dopo aver raccolto tutti i pareri, la questione tornò in Consiglio per una decisione ufficiale: nella seduta dell’otto novembre 1902 il parlamento sammarinese per 29 voti contrari e solo 5 favorevoli respinse la petizione a favore del referendum, e con essa qualunque velleità riformista espressa dai sammarinesi e dai giuristi consultati. Il motivo fu che San Marino non aveva bisogno di istituire il referendum perché disponeva già dell’arengo che poteva essere utilizzato con tale veste.

Il responso del Consiglio provocò grande delusione tra i riformisti, ma nello stesso tempo inculcò nei loro animi una rabbia nuova e più convinta contro i governanti, visti come uomini congelati in logiche obsolete, più interessati al mantenimento dei loro privilegi che non all’evoluzione politica e sociale del paese. Nei primi mesi del 1903 questa nuova rabbia indusse i riformisti delle diverse tendenze ad incontrarsi per trovare una strategia comune con cui muoversi. Nacque così l’Associazione Democratica Sammarinese che il 15 marzo divulgò un suo fin troppo corposo programma in cui erano previste numerose riforme, ovvero:

 

  1. Sovranità popolare. Restaurazione dell’arengo. Applicazione del referendum. Elezione periodiche dei consiglieri.
  2. Democratizzazione dello Stato. Soppressione dei ceti. Separazione dello Stato dalla Chiesa.
  3. Abolizione della vendita delle onorificenze.
  4. Riordinamento dell’amministrazione dello Stato e amministrazioni affini. Istituzione di pubblici controlli. Ufficio tecnico. Organico e cassa pensioni per gli impiegati.
  5. Consolidamento del bilancio dello Stato. Economie. Imposta unica e progressiva. Conversione in favore dello Stato dei beni degli Enti morali ecclesiastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a elementare. Istituzione di scuole popolari, di patronati e refezioni scolastiche.
  6. Concessione dei lavori pubblici ad associazioni cooperative operaie.
  7. Riforma della legislazione civile e penale in quelle parti che più non si adattano alle necessità giuridiche del paese e riordinamento dell’amministrazione della giustizia.
  8. Trasformazione della pubblica beneficenza, rendendola più rispondente alla solidarietà e dignità umana. Istituzione di asili per orfani e per fanciulli abbandonati.
  9. Sviluppo della pubblica igiene.

 

Pur nell’ottica di una conservazione del passato, dunque, per non sconvolgere tutto il sistema istituzionale sammarinese e impaurire troppo la gente, l’Associazione Democratica al punto 1 del suo programma aveva collocato le riforme che per lei erano minime ed indispensabili per fornire al paese una fisionomia istituzionale più consona ai tempi.

Il 1° aprile per divulgare le sue idee l’Associazione pubblicò il primo numero de “Il Titano”, un periodico che sarà molto importante come veicolo di comunicazione con i sammarinesi. Il 5 dello stesso mese l’Associazione inoltrò una petizione al Consiglio affinché si convocasse un arengo per mettere mano alla questione finanziaria del paese, ovvero al problema dei nuovi tributi che si volevano imporre con la riforma fiscale in cantiere, e alla questione politica.

L’arengo che veniva richiesto era un’assemblea deliberante dove esaminare le questioni all’ordine del giorno non attraverso un semplice sì o no, cioè come un referendum, ma con la sua logica antica di assemblea somma del paese in cui discutere i problemi in maniera dialettica. “Si restituisca dunque al popolo la sua antica podestà sovrana e sia dai Signori Capitani Reggenti convocato l’Arringo Generale, perché ivi i capi di famiglia provvedano, come stimeranno più conveniente alle difficoltà presenti e ad un assetto migliore della cosa pubblica”.

L’istanza fu discussa e respinta con la motivazione che solo all’arengo spettasse la facoltà di accantonare il Consiglio e di sostituirsi ad esso. Ovviamente se l’arengo non veniva convocato, era un pericolo che non si sarebbe mai corso.

Negli anni successivi accaddero altri fatti, scandali e polemiche che fecero aumentare il malcontento verso il governo in carica, e l’adesione popolare alla causa riformista. Agli inizi del 1905 Pietro Franciosi puntualizzò la posizione riformista all’interno di un suo saggio in cui sottolineava la necessità da parte riformista di impegnarsi “con la speranza di ridar vita, in un giorno non lontano, ad un popolo che si formò con la libertà e che poscia rimase indietro nel volgere dei secoli. Oltre la nostra costituzione comunale ci stimola a ripristinare e definitivamente conseguire una forma di governo elettivo il trionfo dei diritti dell’uomo, quale conquista dei tempi moderni, ed il presente moto proletario che può effettuare ogni nuova organizzazione solo a mezzo della sovranità vera imprescrivibile e inalienabile di tutti i cittadini, e non d’una data classe né d’un limitato numero di essi”.[6]

L’Europa stava evolvendosi, ma a San Marino le cose erano immobilizzate perché i più erano legati ancora a schemi mentali vecchi. I riformisti d’altra parte non avevano idee chiare né unità di intenti. “Rimarrà forza a sì minuscolo Stato di progredire malgrado l’uno ostacolo o di non correre a precipizio per desiderio del nuovo?” Da qui il bisogno di un arengo. “E’ dovere dello storico, di qualunque valore esso sia, rilevare i difetti d’un vecchio organismo politico, e se può, proporre il modo per mitigarli e correggerli”. C’era stata fin lì troppa apologia storica: “Il concetto esagerato della nostra avita libertà ci ha resi timidi e cauti all’eccesso, togliendoci fuori da molti luoghi d’azione, nei quali il governo chiuso ha accampato i suoi diritti”.

Il programma da perseguire era:

1.      rispetto geloso alle libertà costituzionali esistenti;

2.      allargamento della vita politica nel popolo perché finisca d’essere l’inconscio pupillo;

3.      rimaneggiamento ed aumento prudente delle nostre imposte fondato sulla progressione moderna e sulla limitazione delle spese;

4.      sviluppo d’educazione popolare nel più largo senso della parola.

“Buona politica è quella soltanto che s’inspira alle leggi d’un giusto equilibrio fra gl’interessi delle varie classi opportunamente interpretati, quella che sinceramente cerca e può raggiungere il bene pubblico”.

I problemi sammarinesi potevano risolversi attraverso “l’arengo rimesso nella totale sua funzione” che avrebbe fornito “stabilità e moto, conservazione e progresso, unità e varietà, autorità e libertà, centralità e diffusione”, ed avrebbe implicato “capitale e lavoro, plebe e popolo colto, città e campagna, azione concentrica ed eccentrica, giure comune e giure privato e via dicendo”.

L’arengo che Franciosi ipotizzava poteva essere un’ “Assemblea nazionale” da adunarsi con le formalità del passato. “Con l’intervento del popolo sovrano si legalizza tutto e si effettua tutto senza paura e senza ambage. Non solo il problema della libertà, ma quelli della finanza, dell’istruzione, dei rapporti fra Stato e lavoro, fra Stato e chiesa, fra Stato e famiglia richiedono l’ingresso al governo attivo di una classe nuova, a base di eleggibilità e di responsabilità”. Bisognava rinnovare uomini e idee: “la potenza creatrice risiede nei popoli e non nei governi stazionarii, e perché fu sempre dal popolo che nacquero tutti i progressi e tutte le iniziative”. Era vero che tramite elezioni era possibile che non tutti i migliori venissero votati, ma questo era un problema di educazione del popolo, che poteva diventare edotto solo facendosi protagonista della sua dimensione politica.

Non bisognava poi stupirsi di ritornare al passato per modernizzarsi perché “il ritorno al passato, dopo un periodo d’involuzione, non è che un fenomeno progressivo e perfettamente fisiologico dell’evoluzione stessa; purché detto ritorno abbia per carattere alcune modificazioni conformi alle conquiste dell’umanità nella sua vita secolare”.

Con l’arengo poteva essere instaurato un governo a democrazia diretta e vi si poteva applicare il referendum, il diritto d’iniziativa (promuovere leggi) e il diritto di revisione (riforma della costituzione) ogni volta che sarebbe stato necessario o voluto. Il potere esecutivo sarebbe stato affidato a persone di fiducia scelte in parte dall’arengo e in parte dal Consiglio per un periodo determinato scindendo i due poteri fondamentali dello Stato che erano invece uniti. “Il governo non dev’essere se non l’amministratore secondo i voleri del popolo, ed agire quindi conformemente a quanto il popolo stesso o i suoi rappresentanti gli indicano”. Il Consiglio doveva rinnovarsi ogni anno o due di un terzo dei suoi componenti. Col governo a democrazia diretta si evitava il pericolo di creare una classe politica chiusa e specialistica: “La maggioranza deciderebbe di tutto: dal mutamento della costituzione alla votazione d’un lavoro pubblico, dall’apertura di una scuola alla introduzione d’una nuova imposta, da un provvedimento amministrativo ad una legge di polizia”. 

L’arengo avrebbe dovuto adunarsi “nel modo più semplice una volta l’anno per delegare un terzo di Consiglieri eletti in proporzione all’aggregato civile degli Otto Centri, perché ciascuno di essi ha diritto (non escluso il contado che dovrà sobbarcarsi ai maggiori pesi) d’un dato numero di Consiglieri, in misura dell’aumentata popolazione, con piena responsabilità nei medesimi del proprio operato; e seguiti ad adunarsi una volta ogni sei mesi per attivare gli altri diritti suesposti. Si ritorni così alla costituzione classica in modo che il nostro regime, senza copiar troppo dal moderno, ridiventi un ente vasto ed eccelso, continuo e perenne, superiore agli individui e ai partiti, e si collochi in sì cospicua e serena altezza da sembrar più divino che umano, come ai tempi del glorioso periodo comunale. Da esso emani il Consiglio dei LX coi poteri: legislativo ed amministrativo, ed il Congresso di stato col potere esecutivo; e dal Consiglio dei LX venga affidato il potere giudiziario ai tre giudici forestieri ed al Consiglio dei XII composto da persone a modo e per bene; e siano eletti col solito costume ogni sei mesi i due Capitani Reggenti per l’ufficio di presidenza e per prender parte al potere esecutivo. Non si faccia più confusione di funzioni, né unione di poteri”.

“Ho troppa fiducia nel vero e nel nuovo popolo sammarinese perché io debba dubitare che il nostro piccolo Stato non sia capace di perfezione in base all’antico e in armonia col moderno”.

“Così ho sciolto ancora una volta il debito di figlio; e se dai contemporanei non meriterò ascolto, mi sentirò abbastanza premiato di vivere unito col pensiero alle prossime generazioni, della cui repubblica mi son già fatto cittadino, esultando fin da questo momento della futura felicità”.

Franciosi si curò anche di elaborare un insieme di norme per rendere operativo l’arengo:

 

Norme per la formazione di articoli aggiuntivi ai patrii Statuti

 

L'Arengo, convocato secondo le antiche costumanze, dovrebbe innanzi tutto adunarsi in seduta preparatoria per la verifica dei poteri. Prenderanno parte alla prima seduta solo quei cittadini, muniti di documento dell' ufficio di Stato Civile, che potranno chiaramente dimostrare di essere capi di famiglia. Essi poi decideranno in maggioranza se intendessero di allargare il diritto elettorale anche agli altri cittadini maggiorenni e non interdetti.

Saranno valide le sedute d' Arengo in 1a Convocazione con la presenza della metà più uno degli aventi diritto, e in 2a  con la presenza di un terzo dei medesimi. - L' Arengo eserciterà la prima sovranità della Repubblica con la semplice facoltà elettorale a mezzo del voto e continuerà ad esercitare i suoi diritti statutari - di petizione, d'accusa e d’interloquire nei pubblici negozi; diritti facilmente trasformabili nel diritto d’iniziativa, nel referendum e nel diritto di revisione. - La maggioranza relativa dei voti sarà quella che regolerà le elezioni fatte con schede contrassegnate da un sigillo dello Stato e verificate da apposita Commissione di scrutinio. In tal modo dal­l' Arengo emanerà tutto intero per la prima volta il potere legislativo e l'esecutivo, e in seguito ogni anno un terzo tanto dell'uno quanto dell'altra. Il potere giudiziario sarà pure affidato temporaneamente, ma per elezione a mezzo membri costituenti il potere legislativo. - I tre poteri dovranno essere separati  rigorosamente nelle persone e nelle funzioni. ‑ Il Consiglio dei LX formerà il potere legislativo ed                              

amministrativo ad un tempo. Esso sarà il Parlamento e il supremo organo finanziario della Repubblica. - Rinnovato per un terzo all' anno dall’Arengo, i suoi membri dovranno avere 25 anni compiuti e, potranno essere rieletti quando decadono dalla carica. - Le sedute Consigliari saranno valide con la metà più uno dei presenti e saranno pubbliche. - Per l' elezione dei LX Consiglieri la Repubblica sarà divisa in otto circoscrizioni territoriali (quante sono le attuali Parrocchie), ciascuna delle quali ne eleggerà un dato numero in proporzione alla propria popolazione. Saranno esclusi a far parte del Consiglio dei LX

a) Gli ecclesiastici e i ministri dei culti che hanno giurisdizione o cura d' anime;

b) Coloro che coprono i primi uffici amministrativi della Repubblica;

c) Coloro che hanno liti o vertenze coll’ente governo;

d) Gli assuntori dei servizi pubblici.

Al Consiglio dei LX spetterà la nomina semestrale dei due Reggenti col divieto triennale per una successiva elezione; il diritto di grazia; il dovere di discutere, approvando o respingendo, le varie petizioni d' interesse pubblico e privato che gli venissero presentate da qualsiasi cittadino; la formazione dei Bilanci ; l'elezione, fuori del proprio seno, d' una Commis­sione detta del Bilancio per l'esecuzione dei conti preventivi; l'esecuzione dei rapporti ufficiali e dei trattati cogli Stati esteri; l'obbligo di far rispet­tare la costituzione e di far mantenere l'ordine pubblico; l'alta sorveglianza sulle opere idrauliche, sull' arginatura delle acque, sulla manutenzione delle strade e dei boschi, sull' esercizio delle poste, dei telegrafi e telefoni, della caccia, delle scuole, della sanità pubblica e igiene, delle professioni liberali, del commercio, dell' industria e degli Istituti di credito; la legislazione dei lavoro; il diritto di batter moneta e di emettere valori di banca, di adot­tare pesi e misure, di far fabbricare polveri piriche, di espellere dal ter­ritorio i forastieri pericolosi per la pace pubblica.

- Esso Consiglio poi è in obbligo, in omaggio ai diritti singolari e collettivi di ciascuno o di vari dei suoi membri, di dare sfogo o di far svolgere interrogazioni, interpel­lanze ed inchieste per sorvegliare sempre più le pubbliche amministrazioni e le funzioni dello Stato, e per vigilare sopratutto sul potere esecutivo. Col diritto d' interrogazione tenderà ad ottenere da uno dei Reggenti notizie che chiariscano qualche dubbio o giustifichi qualche azione del potere ese­cutivo; col diritto d'interpellanza sottoporrà a discussione l'operato della Reggenza e dell'intero Congresso di Stato o potere esecutivo, e provocherà un ordine del giorno che approvi o disapprovi, il medesimo operato ; col diritto d' inchiesta si metterà in condizioni d' assumere direttamente, a mezzo di speciale Commissione di sua piena fiducia, quelle informazioni che riterrà opportune di ricevere per determinato obbietto; col variare del quale varieranno le maniere d' inchieste che potranno trasformarsi anche in giu­diziarie. - La Reggenza e l'intero potere esecutivo non potranno mai opporsi o non accettare tali funzioni ispettive, e neppure dimettersi in caso di risultati a loro sfavorevoli. Solo il Consiglio dei LX potrà dichiarare dimesso chiunque dei rappresentanti del potere esecutivo, che per ragioni di pubblica, e privata moralità lo meritasse, e si riserberà sempre il diritto del Sindacato a potere scaduto secondo le norme dello Statuto.

Il potere esecutivo sarà esercitato dal Congresso di Stato, composto di Cinque Membri di nomina dell’Arengo. Essi non potranno far parte del Consiglio dei LX, ma godranno delle medesime prerogative dei componenti detto Consiglio. Faranno parte del Congresso di Stato i due Reggenti con quelle qualifiche con cui fanno parte del Consiglio dei LX. I membri del Congresso non possono occupare nessun ufficio od impiego di ordine amministrativo tanto nel Governo quanto negli Istituti direttamente subalterni, né essere assuntori di appalti di lavori e di servizi pubblici.

Il potere giudiziario sarà affidato per un tempo determinato dal Consiglio dei LX (senza che dal medesimo n’abbia a subire influenza) ad un Giudice di Pace o Conciliatore paesano, ad un Commissario della Legge o Giudice istruttore forastiero dimorante, in Repubblica, ad un Giudice di 1a istanza e ad Giudice d'appello forestieri e dimoranti anche in Italia, e infine al Consiglio dei XII, per la 3a  istanza, o Cassazione, composto di cittadini probi e non facenti parte del Consiglio dei LX né del Congresso di Stato. Detti Giudici o singoli o collettivi dovranno essere totalmente indipendenti da qualsiasi altra sovranità.

Altri principii Informatori per le nuove riforme Costituzionali saranno: libertà di stampa, di commercio e d'industria; inviolabilità della libertà di credenza e di coscienza; libertà di riunione e d’associazione; divieto d'arresto arbitrario per debiti o per altro, e di sottrazione ai giudici naturali; istituzione dei giurì per le controversie politiche; acquisto della cittadinanza attiva a 20 anni per tutti i non interdetti per condanne di reato comune; conferimento di cittadinanza ai forastieri di buona condotta aventi possessi in Repubblica o quivi dimoranti da un decennio; diritto d' iniziativa con istanza firmata da tre cittadini; diritto di revisione della Costituzione su dimanda di 200 cittadini attivi; referendum popolare su qualunque legge di natura non urgente quando sia domandato da 100 cittadini attivi: elezione periodica per parte del Consiglio dei LX dei pubblici ufficiali ed impiegati, in modo da evitare ogni casta burocratica, pericolo immanente in uno Stato repubblicano”.

 

Come si può constatare, le idee sull’arengo avevano assunto una dimensione ben precisa: esso era prevalentemente considerato come corpo elettorale della Repubblica, preposto a rinnovare per intero il Consiglio la prima volta che si sarebbe radunato, poi per un terzo ogni anno successivo. Una sua funzione importante, secondo questa ipotesi, era quella della nomina dei cinque membri del Congresso di Stato, che doveva assumere la funzione di organo detentore del potere esecutivo. Altre facoltà dell’arengo erano il diritto d’iniziativa, che poteva essere promosso da istanza di tre soli cittadini, di referendum su qualunque legge, che doveva essere richiesto da un minimo di 100 cittadini, e di revisione della costituzione, che doveva essere domandata da un minimo di 200 cittadini.

Anche “Il Titano” volle dire la sua sull’arengo, in quanto non riteneva che esso dovesse essere ripristinato secondo le idee dell’Ellero, ma secondo quelle di Franciosi: “Certo è che se si dovesse richiamare in vita l’Arringo per imporgli una funzione legislativa, vale a dire radunare per tutte le bisogne dello Stato i capi famiglia all’aperto (…) noi cadremmo in un errore, e rinnoveremmo su larga scala gli inconvenienti che furono cagione della caduta dell’Arringo. La vita patriarcale dei nostri antichi, la semplicità delle funzioni governative, amministrative e statali potevano anche permettere il retto e regolare funzionamento dell’Arringo. Ma oggi che la popolazione è cresciuta e le funzioni pubbliche si sono variamente accresciute, un’assemblea di parecchie centinaia di cittadini non farebbe buona prova se si radunerebbe a stento sol quando fosse mossa da una necessità collettiva d’interesse eccezionale”. Invece l’arengo, composto da tutti i maggiorenni non interdetti e non solo dai capifamiglia, doveva essere restaurato solo temporaneamente, con “la funzione elettorale e i diritti di revisione, d’iniziativa, di voto da esercitarsi a mezzo del referendum; e che dopo stabilite le basi costituzionali del governo rappresentativo, rimetta a questo le funzioni legislative”.[7]

Il dibattito sull’arengo divenne più fitto alla fine del 1905, perché nel mese di settembre sette consiglieri di indole riformista si dimisero dal Consiglio motivando il loro eclatante gesto col dire che all’interno di un parlamento simile nessuna riforma in senso democratico avrebbe potuto avere successo. Il 1° ottobre i consiglieri dimissionari s’incontrarono con altri rappresentanti del riformismo sammarinese e fondarono il “Comitato provvisorio pro – Arringo”, poi convocarono un’assemblea pubblica per il 29 dello stesso mese in cui esaminare insieme ai cittadini il da farsi. L’assemblea ebbe notevole successo e grande partecipazione di pubblico. Terminò con un ordine del giorno in cui si creavano due commissioni (una per studiare le modalità di convocazione dell’arengo ed una di propaganda a suo favore) e con cui s’invitava il Consiglio a “cedere il proprio mandato convocando l’Arringo”. L’idea emersa durante il dibattito al suo interno fu quella di utilizzare l’arengo come corpo elettorale, ma anche con “la facoltà di controllare gli atti di generale interesse”.[8]

Il 15 novembre il Comitato promotore dell’arengo si riunì “per tracciare una via netta, chiara, precisa per essere seguita sia dagli adetti (sic) alla propaganda, sia da quelli adetti allo studio, per evitare così possibili confusioni e contradizioni (sic) dannosissime, uno essendo lo scopo una dovendo essere l’azione”. L’ordine del giorno che ne emerse diceva: “Il comitato pro-Arringo, ritenuto necessario di restituire al popolo l’esercizio diretto della propria sovranità e opportuno di riaccostare la costituzione vigente alla fonte democratica donde è sorta, ritenuto altresì che il vero sovrano della Repubblica è l’Arringo dei padri-famiglia, e considerato la necessità di estendere i diritti a questi spettanti, anche ai Sammarinesi maggiorenni, giudica urgente la convocazione dell’Arringo per statuire:

  1. La nomina dei membri del Consiglio Generale;
  2. La temporaneità del mandato di questi;
  3. La partecipazione all’Arringo di tutti i Sammarinesi maggiorenni e non interdetti.

Il Comitato inoltre ritiene che costituito il nuovo Consiglio Generale pro-tempore debbono presentemente rimanere al Consiglio ed all’Arringo le attribuzioni consuetudinarie e statutarie, le quali a suo tempo, dopo più maturo esame, con prudenza e circospezione saranno ravvicinate e conformate al movimento incessante della civiltà ed ai bisogni del paese.

Per la propaganda, il comitato invita quanti ne sono incaricati, di adoprarsi anche per ottenere l’assenso dei padri-famiglia ad aggregarsi in arringo tutti i Sammarinesi maggiorenni: per lo studio opina, doversi i commissari nominati, attenere alle linee generali approvate in questo ordine del giorno”.

Il 16 novembre il Consiglio decise di concedere l’arengo convocandolo in tempi brevi, ma non specificati, “secondo le norme statutarie”. La convocazione era vaga e frutto delle forti pressioni a cui era sottoposto il parlamento sammarinese in quei mesi, ma lasciava aperte tutte le ipotesi sul modo di tenere l’assemblea dei capifamiglia. Prevaleva tra i consiglieri conservatori la logica di dover mutare il minimo indispensabile, sempre per non far perire la Repubblica, e di creare un’assemblea non allargata ai maggiorenni, perché lo statuto non lo prevedeva, e non lasciata nella piena libertà di esprimere tutto ciò che avrebbe potuto e voluto.

Il consigliere Michetti, per fare un esempio, disse che San Marino doveva mantenersi fedele alla sua tradizione politica, altrimenti avrebbe perso “col suo carattere storico, anche il diritto di essere”. “L’esercizio della sovranità popolare abbia un ambito limitato; che in altre parole, il consiglierato funzioni a vita e che il popolo possa solo nominare i consiglieri quando qualche posto o per morte o per altro venga a rendersi vacante”.

Domenico Gozi sostenne che l’arengo doveva essere convocato solo dopo averlo ben regolamentato, ovviamente per evitare che le cose potessero sfuggire di mano a chi lo gestiva, e dopo aver espresso un voto di fiducia sul Consiglio, “mancando il quale lo stesso Arringo provvederà secondo il proprio desiderio all’elezione dei consiglieri”.

I naturali timori dei politici sammarinesi continuavano poi ad essere fortemente alimentati anche dai consulenti di cui San Marino si avvaleva. Il 19 novembre Onofrio Fattori, in compagnia del presidente della locale commissione di bilancio Marino Borbiconi, andò a Roma per reperire un prestito di 200.000 lire con cui chiudere il buco di bilancio e tentar di sedare le velenose proteste che facevano leva proprio sul disavanzo che lo Stato sammarinese in quel momento aveva, e sulle nuove tasse che si volevano applicare per pareggiare i conti pubblici. Nella capitale i due ambasciatori sammarinesi incontrarono vari politici italiani, tra cui il ministro di grazia e giustizia Finocchiaro, il ministro degli esteri Fittoni, il ministro del tesoro Carcano ed altri ancora, che si raccomandarono di usare estrema e timorosa prudenza nella convocazione dell’arengo, e di “andare ben cauti nel mandarlo ad effetto, a non scherzar con fuoco”, anche se la sua convocazione era stata un atto necessario ed intelligente.

A Roma incontrarono anche Gustavo Babboni, giovane avvocato sammarinese, riformista moderato eletto presidente del Comitato pro-arengo, che concordò sulla improrogabile necessità dell’arengo, da utilizzare però con circospezione e grande cautela. Il timore di questi signori era legato al fatto che i riformisti più radicali, soprattutto i socialisti, volevano riforme molto profonde dello Stato sammarinese, mentre gli altri, conservatori e riformisti moderati, o non le volevano affatto, o desideravano riforme molto blande ed in linea con la tradizione costituzionale di sempre. Babboni, insieme al suo amico Moro Morri, segretario del Comitato pro-arengo, apparteneva a quest’ultima tendenza.

Lavorando egli a Roma in questo periodo, l’11 novembre inviò a San Marino il progetto di legge elettorale da lui elaborato, con le sue osservazioni da cui traspare netto il desiderio di non sconvolgere più di tanto l’esistente: “Ogni rinnovamento politico ed amministrativo deve avere la sua ragion d’essere nei costumi e nelle consuetudini del Paese ove viene introdotto: e così è specialmente per la Repubblica dove nulla devesi tentare che non sia voluta dalla maggioranza dei cittadini”, scrisse.

Babboni in definitiva era per rinnovare la costituzione, ma lungo il solco della tradizione, riavvicinandola “alla sua fonte democratica, purgandola dalle forme aristocratiche, natural prodotto dei tempi passati”, ma niente più. “Alcuni istituti del nostro regime politico ed amministrativo sono così addentrati nelle abitudini dei Sammarinesi, che volerli oggi d’un tratto sopprimere, o radicalmente trasformare, sarebbe arduo compito, non solo, ma forse anche improvvido consiglio, perché radicali mutamenti non sono voluti dai nostri concittadini diffidenti di ogni cosa nuova, perché in quest’ora di dissolvimento e di ricostruzione, è migliore partito attenersi alle forme piane e comprese dai più, abbandonando ogni esagerazione di istituti democratici”. “Noi dobbiamo attendere sopra tutto a ricostruire gli istituti nostri fondamentali, non dimenticando mai, anche nell’accettare l’esempio delle nuove legislazioni, la nostra storia ed i nostri costumi”.

Il riferimento era legato probabilmente al fatto che i riformisti più radicali avevano ipotizzato anche di abolire l’istituto della Reggenza per sostituirlo con un Presidente della Repubblica.

Babboni era dell’avviso che occorresse ripristinare l’arengo soprattutto come corpo elettorale ed eventualmente utilizzarlo all’occorrenza anche come referendum facoltativo a cui sottoporre le leggi contestate o comunque bisognose di un avallo del popolo.

Sempre nello stesso mese fu divulgato un volantino del Comitato pro-arengo in cui si esponevano i punti di vista sull’arengo da parte dei riformisti:

 

“Egregio Cittadino, Vi si avverte che la propaganda a favore dell’Arringo, secondo le disposizioni del Comitato, deve avere solamente per iscopo di convincere i capi-famiglia:

  1. di accorrere numerosi all’Arringo quando verranno chiamati;
  2. di dichiarare, nell’Arringo, decaduto l’attuale Consiglio dei LX;
  3. di nominare i Membri del nuovo Consiglio non a vita ma a tempo determinato;
  4. di permettere che all’elezione dei Consiglieri prendano parte anche tutti i Sammarinesi maggiorenni non interdetti;
  5. di volere pubbliche le sedute consigliari.

Si prega inoltre di assicurare i dubbiosi che al nuovo Consiglio rimarranno quelle attribuzioni consuetudinarie e statutarie tuttora vigenti”.

 

Come si può constatare direttamente, i riformisti al momento della stesura di questo documento stavano pensando ad un arengo ben preciso, quello cioè del passato in cui la gente si riuniva e prendeva all’istante certe decisioni. In realtà l’arengo che si svolgerà sarà un’altra cosa, un’assemblea con facoltà molto più limitate e circoscritte rispetto a quelle sognate dal Comitato pro-arengo.

Nel mese di dicembre del 1905 il Consiglio nominò una commissione di cinque membri (Gustavo Babboni, Luigi Tonnini, Menetto Bonelli, Giovanni Belluzzi, Marino Borbiconi), di cui i primi tre appartenenti all’ala riformista moderata del Comitato pro-arengo, e già impegnati nella commissione di studio del Comitato stesso che doveva redigere il regolamento dell’arengo.

Proprio questa commissione presentò al pubblico il suo progetto il 31 dicembre, dopo averci lavorato per circa un paio di mesi. In tale bozza, che era più una legge elettorale che un regolamento per l’assemblea dei capifamiglia, l’arengo veniva considerato il corpo elettorale della Repubblica, composto da tutti i cittadini maggiorenni non interdetti, preposto al rinnovo quinquennale del Consiglio. S’ipotizzava inoltre che potesse essere utilizzato come referendum facoltativo. Seguivano altri articoli sulla formazione delle liste elettorali, le condizioni per essere elettori, le circoscrizioni elettorali, i procedimenti e la verifica delle elezioni, le condizioni di eleggibilità.

Il fatto che la commissione voluta dal governo fosse composta in maggioranza da membri del Comitato pro-arengo entusiasmò Franciosi che, all’interno di un suo articolo del 30 dicembre pubblicato sul Titano, disse: “La democrazia può essere sicura del trionfo e il suo programma (…) potrà essere accettato in tutta la sua interezza. Noi ne godiamo di questa specie di conciliazione perché appagherà in fine i giusti desideri della maggioranza e perché arrecherà al paese quella pace che tanto vagheggiamo (…). Il progetto, che verrà quanto prima alla luce, sarà basato per certo sui costumi e sulle consuetudini del Paese in modo che sia inteso ed approvato da più dei Cittadini (…). Poiché se la Repubblica nostra trovò nei passati tempi di libertà e di servitù italiana forme di adattamento, mantenne sempre carattere suo proprio. Oggi, più che cambiare la sua costituzione, vuole riavvicinarla alla fonte democratica, purgandola d’ogni forma aristocratica, naturale prodotto dei tempi funesti. Ond’è che alle nuove istituzioni deve precedere la ricerca di addentellati nei fatti e nei costumi, in modo che nulla si operi che non sia in armonica continuazione col nostro libero vivere. Adunque le riforme non debbono essere introdotte per desiderio di novità, ma per necessità morale ed economica, in modo che il regime pubblico tragga forza dalla fiducia dei cittadini per amministrare e per ricondurre a miglior vita la Repubblica”.

In realtà l’allegria e l’entusiasmo di Franciosi si tramuteranno presto in rabbia e delusione quando sarà reso noto il progetto della commissione governativa, molto più limitativo dei poteri dell’arengo di quanto sperato dai riformisti.

La commissione governativa nominata per la redazione del regolamento aveva “ampia facoltà d’interpellare in proposito ad istruzione del proprio animo i nostri Consultori, e cioè il Senatore Gaspare Finali, il Senatore Pietro Ellero, il Senatore Vittorio Scialoja, l’On. Luigi Luzzatti ed il nostro Giudice di 1° grado Comm.re Enrico Kambo”. La Reggenza era preposta alla convocazione e direzione della stessa; la commissione doveva presentare le sue risultanze entro il mese di febbraio.

Essa si riunì per la prima volta il 7 gennaio 1906; in tale occasione, dopo che la Reggenza ebbe richiamato l’attenzione “sull’altezza e gravità del mandato a Lei affidato, dalla savia e prudente risoluzione del quale dovrà forse dipendere l’incolumità della patria nostra da sedici secoli indipendente e libera”, provvide a nominare un suo segretario nella figura del giovane avvocato Gustavo Babboni e a sbrigare qualche altra faccenda di natura organizzativa, poi tornò a riunirsi il 10 dello stesso mese.[9]

In questa seconda seduta la discussione divenne più tecnica: prese infatti subito la parola Babboni per dire che la Repubblica era giunta ad un bivio e che era necessario attuare precise riforme di natura istituzionale per mettere il paese al passo coi tempi, pur nella salvaguardia dei costumi e delle consuetudini sammarinesi. Per questo il Consiglio doveva essere “il prodotto della volontà del popolo, effetto ed espressione suprema di diritto”. Proseguendo, egli venne a sottolineare che l’Arengo aveva “la suprema potestà ed imperio” su San Marino, anche se era ancora tutto da definire il modo in cui in futuro avrebbe esplicato il suo potere; e che il Consiglio doveva emanare dall’Arengo dopo che si erano stabilite le modalità e i tempi dell’elezione, e dopo che erano state fatte la legge elettorale ed un regolamento per lo svolgimento dell’Arengo stesso. Infine Babboni sollecitava che l’Arengo non venisse più accantonato come era successo per tanti secoli, ma che rimanesse l’organo supremo della Repubblica con le funzioni di referendum facoltativo “forma intermedia fra il Governo rappresentativo ed il Governo popolare diretto”; “e questo istituto propongo convinto che nella Repubblica siano due poteri ineguali, di cui l’uno non possa compiere ogni atto valido senza l’autorizzazione tacita ed espressa dell’altro, perché penso che alle deliberazioni Statutive del Consiglio debba in qualche modo seguire la ratifica dell’Arengo Generale”.

Dopo queste precisazioni del giovane giurista, la commissione intraprese una lunga ed articolata discussione in merito ad altri aspetti. In particolare si perse molto tempo (tutta la seduta dell’11 gennaio e parte di quella convocata tre giorni dopo) sul problema del rinnovo del Consiglio da parte dell’arengo. Infatti la questione era spinosa: alcuni commissari, ovviamente quelli di indole più riformista, erano dell’avviso che, una volta convocato l’arengo, il Consiglio fosse automaticamente dimissionario e sciolto, quindi da rinnovarsi per forza di cose dall’arengo stesso; “di fronte all’Arringo cessa il Consiglio Generale, non potendosi avere contemporaneamente due sovrani; spetta all’Arringo rinnovare il Consiglio, e dire come vuole rinnovarlo”, affermò l’avvocato Tonnini.

Invece quelli meno bramosi di modificare le secolari consuetudini istituzionali non erano dello stesso parere: “Il Consiglio – dichiarò l’avvocato Belluzzi – ha preso una decisione savia col deliberare la convocazione dell’Arringo, ma non ha con ciò dichiarato la propria incapacità. Il criterio che ha guidato il Consiglio nel convocare l’Arringo si è quello di togliere ogni dubbio che gli attuali Consiglieri volessero mantenersi – contrariamente alle correnti che si sono manifestate – in corpo amministrativo e legislativo della Repubblica, e quindi per non apparire tale nella sua saviezza e nella sua maggioranza assoluta ha voluto far conoscere che dai legittimi mandanti aspetta il giudizio sull’operato suo. Il Consiglio Sovrano nel fare questo atto solenne non ha mai implicitamente fatto conoscere che non si trova in grado di continuare nell’esercizio delle sue funzioni, anzi ha mostrato di avere l’intima coscienza e persuasione di avere sempre bene e con coscienza agito nell’interesse della Repubblica”. 

Tutti presero parte alla discussione schierandosi per l’un parere o per l’altro, ma alla fine si decise di soprassedere e di rimandare l’eventuale soluzione ad altro momento per non perdere troppo tempo, visto che ancora c’era tanto di cui discutere. La seconda parte della seduta del 14 gennaio fu quindi dedicata ad altre decisioni soprattutto di natura tecnica, tra cui la richiesta di abolizione dei ceti (nobile, della Terra e del contado), che venne respinta perché si optò di rimanere fedeli allo statuto, sui quesiti da votare (si stabilì che potessero essere solo quelli proposti dal Consiglio), su chi potesse prendere la parola durante l’arengo (si dispose che potessero essere solo tre a favore e tre contro). La decisione più importante fu senz’altro quella riservata al referendum facoltativo, su cui venne stabilito che potesse essere richiesto “dalla terza parte almeno degli aventi diritto distribuiti proporzionalmente per tutte le parrocchie. Ciò verificandosi, e non adunandosi l’Arringo, la deliberazione presa o il disegno di legge fatto, diventerà senz’altro legge esecutiva. Se invece la deliberazione, o disegno di legge viene respinto, allora si avrà la revoca; ma non per questo il Consiglio avrà la facoltà di dimettersi”. 

La commissione si ritrovò un’altra volta il giorno 18 per discutere la bozza di legge elettorale scaturita dal Comitato pro-arengo, che fu presentata da Babboni, ed apportarvi alcune modifiche, poi si riunì di nuovo il giorno successivo per esaminare il regolamento per la convocazione dell’arengo presentato dal Reggente Fattori: anche questo subì qualche lieve modifica. La seduta si chiuse con la deliberazione di inviare a Roma Babboni, Belluzzi e Tonnini per interpellare i senatori Finali ed Ellero su tutta la faccenda e su quanto la commissione aveva ipotizzato e prodotto.

L’8 febbraio i tre avvocati sammarinesi s’incontrarono a Roma con i due senatori. Prese subito la parola Ellero che si dimostrò apertamente contrario al Consiglio nominato tramite suffragio: “E’ veramente necessario l’apportare queste riforme? Si deve fare il Consiglio Elettivo? Dico che non posso ripromettermi alcun bene dal Consiglio Elettivo. Premetto che un Consiglio elettivo è un naturale corollario della Sovranità popolare, ma qualunque principio astratto se non ha le condizioni per essere tradotto in vita, è inutile accarezzare. Vediamo: il Consiglio Elettivo di S. Marino non sarebbe che un Consiglio Comunale d’Italia. Ora di questi Consigli Comunali Italiani nessuno va bene, perché questo è subordinato ad una famiglia, quello ad un partito, l’altro ad una consorteria. Questi Consigli Comunali Italiani alle volte si sciolgono e subentrano allora i Commissari Regi. In tali congiunture che avverrebbe a S. Marino? (…) A S. Marino non vi sono superiori al Consiglio, non vi può essere ricorso ad altre autorità, manca insomma a S. Marino l’assieme della tutela dei Comuni d’Italia”.

In sintesi Ellero venne a sostenere che il sistema monocamerale che caratterizzava la Repubblica era un pericolo per la stabilità politica della stessa, soprattutto se il Consiglio fosse divenuto elettivo. Inoltre egli aggiunse che non era del tutto convinto che la democrazia pura a base di elezioni periodiche fosse ancora il miglior sistema politico, così come sottolineò che, a suo giudizio, la nobiltà non avesse terminata la sua funzione storica, e che potesse trovare punti d’incontro e conciliazione con la democrazia. Infatti molti Stati ancora, come Inghilterra, Austria, Giappone, avevano ai loro vertici organi politici composti da aristocratici ed istituzionalmente funzionavano bene. Ellero, quindi, consigliava di lasciare il Consiglio nominato per cooptazione, e di conservargli il potere legislativo, ma di ripristinare l’arengo con funzioni esecutive, così come già aveva suggerito col suo parere del 1902. In altre parole il Consiglio doveva preparare le leggi, che in seguito dovevano essere approvate dall’arengo con un semplice sì o no.

A questo punto intervenne brevemente Gaspare Finali per sostenere che “l’Arringo non dev’essere un potere costituente, ma un potere organico permanente”.

Dopo simili discussioni, si giunse a parlare dell’abolizione dei ceti. Ellero si dimostrò contrario a simile novità sostenendo che i cittadini più meritevoli della Repubblica dovessero continuare a far parte di un ceto elitario, anche se gli statuti secenteschi non prevedevano alcuna distinzione tra cittadini, ma la consuetudine avesse gradualmente introdotto simile novità. “Del resto i Sammarinesi devono essere convinti che la ragione principale che sostiene S. Marino non è solo la pochezza del territorio ecc. ma l’esser ella una reliquia storica”, e che la particolare forma costituzionale che la caratterizzava era la vera “causa di vita” dello Stato sammarinese.

Anche Finali parlò in seguito per sentenziare che “Sammarino col suffragio universale che ha veduto richiesto con iscrizioni sui muri, sarebbe morto”.

Ellero poi aggiunse: “Bisogna persuadere i Conservatori che contro la corrente democratica non si resiste, non bisogna attraversarla, ma dirigerla e saperla dirigere. Che felicità sarebbe a S. Marino se codesto paese potesse dare all’Italia l’esempio di un governo diretto di popolo che solo però dovrebbe stare ad approvare le leggi”.

Entrambi i giuristi conclusero la loro chiacchierata col dire che “il Consiglio elettivo sarebbe letale alla Repubblica perché porterebbe con sé le minoranze, le maggioranze, i voti di fiducia, le fazioni interne che succedono al potere ecc. Sono tutte cose gravissime anzi fatalissime”.

Ellero poi disse che il Consiglio ormai si era fatto sfuggire la situazione di mano provocando gravi pericoli per la sopravvivenza della Repubblica. Se l’arengo fosse stato convocato prima sarebbe stato molto meglio: “Chiamato l’Arringo coi soli padri di famiglia e che con due terzi votanti e che con la metà più uno si potesse dir valido difficilmente queste proporzioni si potranno ottenere, e i conservatori hanno fondamento su questo non intervento. Non è possibile che si possa continuare la vita della Repubblica con quel vilipendio; pare ai liberali che si sia in uno stato grande, ma non si accorgono che si scherza da loro col foco. Questi che vanno avanti con queste andate demagogiche sono riluttanti ai sacrifici per mantenere la Repubblica. Dai contrari si dice che sono pochi, ma i pochi lavorano e i molti lasciano operare e quindi sono sopraffatti”.

Con simili gravi sentenze si chiuse l’incontro dell’8 febbraio, ma due giorni dopo gli avvocati sammarinesi si ritrovarono ancora con i due consulenti. Finali affermò subito che la legge elettorale faceva venire meno il governo sammarinese: “Si fa tabula rasa del passato. S. Marino diventa come un Comune d’Italia. Pensateci”. Ellero sostenne lo stesso concetto dicendo che la Reggenza ormai si era impegnata a convocare l’arengo, ma non capiva “come non si debbano lassù persuadere che il Consiglio elettivo sarebbe micidiale”; “la formazione dei Reggenti è frutto dell’esperienza, frutto di secoli. Il Consiglio elettivo non seguirebbe più quella procedura: farebbe una costituzione tutto nuova. Perché abbandonare quella costituzione?”

Dopo tali parole, i consulenti sammarinesi diedero alcuni consigli di natura tecnica sul regolamento del convocando arengo e sulla legge elettorale. Gli argomenti principali furono il diritto o meno di partecipare all’arengo come spettatori di chi non era capo famiglia, l’incompletezza della convocazione in base alle forme statutarie, perché non era specificato lo scopo preciso per cui l’assemblea dei capifamiglia doveva tornare a riunirsi, la mancata indicazione di chi dovesse tradurre in legge i deliberati dell’arengo (Consiglio o Reggenza), il dubbio su chi avesse il diritto di votare in eventuali elezioni politiche. Riguardo a quest’ultimo punto Ellero era convinto che San Marino non dovesse rischiare “una discontinuità nel Governo”, ovvero che il Consiglio dovesse rinnovarsi solo in parte periodicamente (suggeriva un terzo ogni due anni), e non in toto ogni quinquennio come previsto dalla bozza di legge elettorale che gli avevano sottoposto. Finali disse “Ispiratevi al principio di conservazione di quello Stato, che ha il suo fondamento nella storia e nella costituzione. Siate persuasi di fare dei sacrifici per mettervi in condizioni per vivere, altrimenti non camminerete. Tanto più tarderete a provvedere ai bisogni vostri finanziari e morali, tanto più sarà difficile la soluzione. Dieci anni fa tutto sarebbe stato più facile”.

L’Ellero in seguito affrontò il problema dei quesiti da sottoporre all’arengo fornendo alcuni suggerimenti, e sostenendo che occorreva giungere all’assemblea con domande chiare. Era comunque convinto che Reggenza e Consiglio si sarebbero potuti salvare solo se l’arengo fosse andato deserto. Dopo, però, qualche concessione ai riformisti sarebbe stata indispensabile. “L’errore dei riformatori è ideale. Sono stati sedotti dal Consiglio elettivo. Quello dei conservatori è morale, perché ci tengono al potere. Questi dovrebbero accettare la restaurazione dell’Arringo; quelli il Consiglio come è. Il Consiglio non sarà più sovrano, ma principe. Sovrano l’arringo”. “S. Marino ha vissuto e vive per la sua stabilità e tradizione”.

Il 12 febbraio Ellero inviò per iscritto il suo parere al Reggente Onofrio Fattori, ribadendo le sue opinioni, ovvero che

1.      il Consiglio dovesse essere mantenuto “nel suo presente modo di formazione e con tutte le sue attuali attribuzioni, fra cui quella di compilar le leggi, ma esclusa soltanto quella di approvarle”;

2.      l’ arengo dovesse essere ripristinato “con atto spontaneo del Consiglio Principe, e quale organo ordinario e perenne della costituzione” con funzione esecutiva, ovvero per “la pura e semplice approvazione delle leggi e degli altri atti equiparabili, in compendio e senza emendamenti”.

Tuttavia aveva visto dai progetti presentatigli che le cose avevano preso un’altra piega in quanto la volontà del momento da parte dei sammarinesi era quella di convocare un arengo “straordinario ed estemporaneo” per passare dal Consiglio nominato per cooptazione a quello elettivo. Egli si dichiarava in disaccordo con questa impostazione per i motivi espressi a voce ai delegati sammarinesi con cui aveva parlato, comunque forniva ugualmente le indicazioni di natura tecnica sui due progetti di cui si è detto, come gli era stato richiesto.

“Tolgano subito i conservatori con austera coscienza gli abusi o gli errori, che fossero penetrati nella pubblica amministrazione; accettino volenterosi e senza altri indugi i nuovi oneri, che occorrono per porre in assetto l’erario, persuadendosi, che in qualsiasi altra specie di Stato o di Reggimento soggiacerebbero a ben maggiori gravezze; si propongano ognora di non governare altrimenti, che in nome o pel bene e col consenso del popolo, e non perdano più tempo a provvederne, temendo il severo giudizio de’ posteri, se mai lasciassero costì estinguersi un ultimo raggio di antica italica virtù.

I novatori d’altro canto, nel loro giusto e sacrosanto anelito di più larghe libertà, si convincano esser d’uopo di una somma prudenza e di movere un passo alla volta, per non porre in pericolo la incolumità dello Stato; che la ragione precipua della sopravvivenza di San Marino a tanta rovina è l’esser esso (piaccia o non piaccia a loro) una reliquia storica, cui tutti gl’italiani rispettano e onorano; che la concordia è imprescindibile condizione di salvezza; e che è un comune interesse il custodire la fama, il decoro e il prestigio alle proprie magistrature, poiché contro un assiduo vilipendio niuna autorità può reggersi”.

Anche Finali inviò uno scritto alla Reggenza, datato 11 febbraio, in cui si rimetteva a quanto detto verbalmente nei due incontri avuti con i delegati sammarinesi.

Altro parere fu quello spedito da Nino Tamassia, molto articolato perché non aveva avuto colloqui diretti con i tre avvocati di San Marino, ma anche molto catastrofico e allarmante. Dapprima egli consigliò di consultare un valido costituzionalista su un argomento tanto delicato, suggerendo il nome di Gaetano Mosca, professore di diritto costituzionale a Torino. Poi disse di “approvare incondizionatamente il progetto di convocazione dell’Arringo”. “Davanti alla storia è necessario che i Reggenti, dichiarate le condizioni anormali dello spirito pubblico, con un atto solenne in cui (…) mettono bene in chiaro che essi si rivolgono al popolo della Repubblica perché la responsabilità dei mutamenti della costituzione, e le conseguenze di questi, cada tutta sulla volontà popolare”, dopo aver evidenziato che il Consiglio nominato per cooptazione aveva saputo conservare lo Stato fin lì. Se la maggioranza dei capifamiglia fosse rimasta fedele al sistema statutario il governo ne avrebbe tratto rafforzamento. Se invece avesse votato per riformare il sistema costituzionale, occorreva andarci coi piedi di piombo e presentare un progetto elettorale molto restrittivo, con funzioni molto ridotte per l’arengo. “Il sistema elettivo, ammesso in tutto l’organismo dello Stato, è pur esso gravido di pericoli. La piccolezza dello Stato, la confusione fra l’autorità amministrativa e quella costituzionalmente “sovrana”, i conflitti fra i partiti, non affievoliti da un ambiente largo, sono punti neri, nerissimi, che mi fanno una grande paura. Pensate ai disordini possibili, all’impossibilità di repressioni, e giudicate!”. “Rude sembrerò, ma davanti al periodo di uno sfacelo, la Reggenza deve far tutto perché nulla rimanga d’intentato per salvare lo Stato. Vero è che nessuno si sogna di turbare dal di fuori il Titano. Ma se gravi disordini scoppiassero, come si farebbe ad impedire un intervento che sarebbe pur santo, diretto a far cessare lotte interne?”. “Il punto fondamentale è disciplinare l’Arringo, ridurlo ad organo di conservazione della Repubblica, con una modica partecipazione al Governo, lasciando sussistere nella sua integrità il modo di costituzione e di funzionamento del Consiglio dei LX”, perché la Repubblica “dalle convulsioni elettorali sarebbe ben presto finita”.

Il Consiglio doveva quindi continuare a ritenersi “l’unico e legittimo depositario della sovranità nazionale”, con diritto di interpellare l’arengo su questioni che lo interessavano, ma mantenendo sempre la sua autorità e la sua fisionomia statutaria, anche perché per molti la necessità di radunarsi nell’arengo non era un’esigenza sentita. “Ergo, il bando della convocazione dell’Arringo deve essere come un dilemma che lascerà o intatta o rinforzata l’autorità del Consiglio”. “Il Consiglio non può darsi legato mani e piedi in balia dell’Arringo; il passaggio della Sovranità deve essere lento e regolare; se no è come precipitare dal Titano!”.

Tamassia aveva un grande timore che l’arengo, come gli stati generali francesi, potesse proclamarsi assemblea costituente ed esautorare lì per lì il Consiglio. Aveva parlato di questi suoi timori con un suo amico specialista di diritto costituzionale ed amministrativo, il professor Canimeo, che gli aveva detto che sarebbe stato molto meglio convocare l’arengo su un “tema limitato”, ovvero come referendum su questioni specifiche predefinite. “Ridotto al Referendum l’Arringo è innocuo, se esorbita si sa dove si va!”. “Se non si è sicuri delle decisioni dell’Arringo, non si può essere tranquilli”. Perciò Tamassia suggeriva di sottoporre un unico quesito all’arengo (“Vuole l’Arringo giusta le norme statutarie e le vetuste consuetudini osservate nello Stato procedere alla designazione dei membri del Consiglio dei LX con tutti i diritti che l’attuale costituzione loro concede?”); in seguito occorreva “pacatamente e onestamente coordinare le tendenze democratiche alle pratiche esigenze della costituzione di S. Marino. L’Arringo compiuta la sua ammissione di restaurare il Consiglio rientra nella storia ma indubbiamente toccherà poi ai conservatori illuminati di conservare lo stato con savi provvedimenti liberali, che preparino il paese a modificazioni pensate e studiate e tali però di non mettere a rischio l’esistenza dello stato stesso”.

Dopo la lettura di questi pareri, il Consiglio discusse nelle settimane successive l’organizzazione dell’arengo. Ovviamente le accentuate trepidazioni espresse dai consulenti diedero un solido basamento ai conservatori, che erano disposti, anzi costretti ormai all’arengo e a qualche lieve innovazione, ma non a mutamenti profondi della costituzione, o all’alterazione della logica oligarco-paternalistica in voga da secoli, probabilmente da sempre, a San Marino.

Questa posizione la espresse molto bene il nobile Domenico Gozi, che in un intervento fatto nella seduta consigliare del 26 febbraio evidenziò come tutta la questione fosse nata da pochi individui imbevuti di dottrine fin troppo all’avanguardia, e che invece la Repubblica doveva procedere con estrema cautela lungo la strada delle riforme costituzionali, perché non si era fatto uno studio serio sulla costituzione in vigore “per vedere a quali modificazioni democratiche può prestarsi: e delle modificazioni parziali, cervellotiche, non coordinate a tutto l’organismo statutario, potrebbero essere pericolose e compromettere quelle maggiori riforme che in seguito possano venire proposte da persone competenti in materia”.

Gozi era convinto che il Consiglio, dimenticando le offese patite e non dimostrando risentimenti verso chi da tempo lo martellava con accuse feroci, avesse già fatto anche troppo per andare incontro alle pretese dei riformisti. Tuttavia, visto che la convocazione dell’arengo era avvenuta senza specificare lo scopo per cui lo si voleva riunire, proponeva il seguente ordine del giorno da sottoporre ai capifamiglia:

 

“Il Consiglio Principe e Sovrano volendo rendersi esattamente conto di certe aspirazioni a riformare la vigente costituzione, manifestatasi fra la cittadinanza, mentre non può né intende di farsene egli iniziatore e tanto meno fautore, perché ha giurato fede alla costituzione stessa, come ora per bocca dei singoli Consiglieri quel giuramento rinnova, e nel dubbio tuttavia di essere ostacolo alla pacificazione degli animi, per amore di concordia e per il bene del paese decreta:

1.      La rinnovazione dell’intero Consiglio secondo le norme statutarie

2.      La convocazione dell’Arringo da farsi antecedentemente, pure secondo le norme statutarie, per interrogare i Capifamiglia se intendono conservare o no la costituzione con questo ordine del giorno:

Dovendosi rinnovare l’intero Consiglio, vuole l’Arringo secondo le norme statutarie e le antiche consuetudini dello Stato, fare la nomina dei membri del Consiglio dei Sessanta, conservando a questo tutte le prerogative e diritti concessigli dall’attuale Costituzione? L’Arringo sarà valido colla partecipazione della metà più 1 dei padri famiglia aventi diritto e la deliberazione col voto di 2/3.

 

Da ultimo il Consiglio Principe e Sovrano nella speranza che l’Arringo con la sua prudenza, nel momento presente, a scanso di maggiori difficoltà voglia confermata l’attuale Costituzione, dopo che in conformità di essa sarà stato rinnovato il Consiglio, fa voti perché questo ormai forte della fiducia del paese, oltre che al felice riordinamento della finanza, e alla savia amministrazione della pubblica cosa, rivolga le sue cure, e riesca a condurre a termine, dopo ponderati studi, quelle liberali e democratiche riforme della Costituzione che contribuendo a ricondurre il pieno accordo fra i cittadini assicurino da un lato i diritti e le vera libertà del popolo (specialmente per mezzo dell’Arringo) e dall’altro non possano in alcun modo mettere a rischio l’esistenza della Repubblica.”

L’intervento di Gozi si chiuse in maniera piuttosto colorita: “Con questo augurio il Consiglio Principe e Sovrano si scioglie, gridando: - Viva la vigente Costituzione. Viva la Repubblica –

Per Dio! Che cosa si vuole di più? Il Consiglio si dimette; il Consiglio delibera la convocazione dell’Arringo per consultare i Padri di famiglia sulle loro volontà. Il Consiglio prima di dimettersi fa voti perché i nuovi Rappresentanti eletti dal popolo si occupino delle riforme necessarie alla Costituzione, e le conducano a compimento per la concordia ed il bene della Repubblica. Che dovrebbe fare di più? Secondo me chi non si contenti di questo per ora non può che desiderare, per sfogo delle proprie passioni, la rovina della Repubblica: e il Consiglio a ciò non si deve prestare”.

Anche l’avvocato Giovanni Belluzzi, che era stato con Tonnini e Babboni a Roma dai consulenti, era rimasto particolarmente impressionato dai loro ragionamenti, tanto da dire in Consiglio che “solo la costituzione sammarinese è sempre stata e sempre sarà l’ancora della nostra salute ed incolumità pubblica”. “Ora che i sapientissimi uomini coi quali abbiamo conferito ci hanno addimostrato che il sistema elettivo sarebbe in qualsiasi modo letale alla nostra Repubblica, e che noi se vogliamo vivere dobbiamo unicamente badare a mantenere la nostra costituzione, non dimenticando che viviamo unicamente come reliquia storica non disgiunta dalla moralità, io con alta e sonora voce invito il Consiglio a mantenersi fermo e stabile a questa Costituzione che abbiamo tutti giurato, e con le basi di questa Costituzione, a convocare l’Arringo perché costituzionalmente voglia rifare il Consiglio principe e sovrano”.

Non pienamente favorevole alle opinioni dei consulenti si dimostrò Menetto Bonelli. Era comunque d’accordo sul fatto che la convocazione dell’arengo fosse monca in quanto priva delle ragioni per cui lo si riuniva. Secondo Bonelli doveva essere convocato per rinnovare il Consiglio, non più gestibile nello stato in cui versava. Ciò non voleva dire che il Consiglio avesse abdicato, come sostenevano alcuni, tuttavia bisognava definire il perché dell’arengo, altrimenti tutte le ipotesi erano aperte. Egli ribadiva che l’assemblea dei capifamiglia dovesse servire per rinnovare il Consiglio suggerendo il sistema con cui nominare nuovi consiglieri, e si trovava in sintonia con l’Ellero nell’utilizzare l’arengo come assemblea da riunire periodicamente per rinnovare quella parte del Consiglio decaduta per sorteggio. Inoltre era d’accordo di usare l’arengo come referendum facoltativo per l’approvazione delle leggi. “In tal modo il pericolo della Costituente paventato è finito, il Consiglio ha le stesse prerogative che ha avuto fin qui, e senza delle quali mancherebbe di quella autorità sovrana mercè la quale la Repubblica nostra negli ultimi tempi specialmente fu da tutti i governi riconosciuta indipendente e libera. Alla Reggenza il formulare i quesiti per l’Arringo; al nuovo consiglio lo stabilire come vuole devenire alla elezione dei nuovi Reggenti, ammessa l’abolizione dei ceti”.

Anche Luigi Tonnini mostrò qualche perplessità verso i pareri ed i timori apocalittici dei consulenti: “Io dico che quegli uomini illustri, molto pratici dei loro comuni e delle loro grandi città non conoscono l’indole vera del popolo di S. Marino, naturalmente pacifico, avverso ai partiti, unicamente curante del bene della Repubblica. Mi pare perciò che potrebbe accogliersi la massima del Consiglio elettivo”.

Infatti proporre all’arengo il semplice rinnovo di un Consiglio vitalizio era troppo poco, secondo lui, e non avrebbe calmato il clima rovente che si era instaurato nel paese più per motivi politici ed ideologici, che per gli altri problemi di natura finanziaria, i quali stavano gradualmente stemperandosi. Poteva andare bene, dunque, il rinnovo periodico di una parte del Consiglio come suggerito da Ellero.

Altro intervento fu quello di Gaetano Belloni: egli sostenne che il Consiglio non doveva preparare i quesiti da sottoporre all’arengo, ma “deliberare un invito ai Capi di famiglia di presentare all’Eccellentissima Reggenza dato un tempo determinato quei progetti, che contengono le loro aspirazioni e desideri, i quali progetti verrebbero a formare naturalmente l’ordine del giorno per l’Arringo istesso. Con questo provvedimento il Governo allontanerebbe da sé ogni addebito d’inceppare la volontà dell’Arringo e lascerebbe all’Arringo istesso la piena responsabilità dei suoi atti”.

Nel frattempo, venendosi a conoscere da parte dei riformisti più risoluti che l’arengo sarebbe stato verosimilmente un semplice referendum e nulla più, riscoppiarono violenti polemiche contro i governanti: “Il Consiglio, il vecchio e malefico servo che se ne va, obbliga il padrone a seguire le sue norme nella scelta del sostituto. L’arringo sovrano è convocato con mani e piedi legati; non può parlare, non può discutere, non può scegliere. No, no, deve obbedire ai suoi vecchi tiranni che hanno tutto preordinato a loro posta”, scrisse Franciosi in un articolo apparso sul Titano del 18 febbraio.

Egli ce l’aveva poi in particolare con la norma che prevedeva che le deliberazioni dell’arengo dovessero riscuotere almeno il favore dei due terzi dei partecipanti per avere valore. Parlò dunque senza mezzi termini di “progetto capestro”, di “regolamento carcerario”, di “popolo imbavagliato”, di “forche caudine” sotto cui si costringeva a transitare il massimo organo politico dello Stato. L'articolo si concludeva con precise critiche ai tre membri riformisti della commissione preposta all’elaborazione del regolamento. Gustavo Babboni si risentirà notevolmente per queste polemiche, e prenderà sempre più le distanze dall’altra anima che componeva il Comitato pro-arengo, ovvero i riformisti più radicali.

Sul Titano successivo del 25 febbraio fu Gino Giacomini ad urlare al “tradimento” e a sferzare le forze democratiche, che si erano accontentate della convocazione dell'assemblea dei capifamiglia, dimostrandosi altresì “troppo pronte ai placidi riposi”. Egli era dell’avviso che l'arengo dovesse essere concepito non come modesto referendum, ma come “assemblea costituente” di fronte a cui “avrebbe dovuto cessare ogni potere”. In altre parole, Giacomini ribadiva l’opinione dell’ala più irrequieta del Comitato pro-arengo, cioè che, una volta convocato l'arengo, spettasse solo a questa assemblea qualunque decisione di natura politica, quindi anche la sua stessa autoregolamentazione. Il Consiglio, insomma, avrebbe dovuto limitarsi a riunirlo e in seguito starsene in disparte.

Questa posizione era in realtà ben lontana dai desideri dei governanti che, memori degli ammonimenti dell’Ellero e degli altri consulenti, cioè che sarebbe stato meglio per tutti se l’arengo non fosse riuscito ad adunarsi, stabilirono che, per avere valore legale, dovesse essere composto come minimo dalla metà più uno dei capifamiglia aventi diritto, computando però tra tutti coloro che avevano il diritto/dovere di parteciparvi anche “396 sammarinesi aventi domicilio da anni e anni all’estero e persino nelle lontane Americhe, senza averne accertato prima la loro reale esistenza e senza aver loro inviato a tempo il menomo avviso. Basta l’avviso ad valvas… vi sentenzia la losca furberia dei nostri governanti”.[10]

Babboni il 4 marzo convocò una riunione del Comitato pro-arengo per spiegare la posizione moderata a cui si era giunti, dopo avere ascoltato le opinioni dei giuristi consultati, e per controbattere le velenose critiche piovutegli addosso attraverso il Titano. L’assemblea, composta da circa 150 intervenuti, non ebbe nulla da ridire.[11]

Con la ridda di idee che avevano caratterizzato il dibattito istituzionale alla base dell’arengo, la situazione era divenuta quanto mai complessa. In sintesi vi erano quattro posizioni:

1.      i conservatori assoluti che non avrebbero voluto alcun cambiamento al sistema costituzionale esistente, derivato dagli statuti del ‘600, per timore che la Repubblica  andasse in totale rovina e venisse assorbita dall’Italia;

2.      i conservatori opportunisti, tra cui i giuristi consultati, che auspicavano qualche riforma non tanto perché a loro giudizio la struttura istituzionale sammarinese ne avesse bisogno, ma per tacitare la piazza e i democratici, e per non creare i presupposti di riforme maggiori e più sconvolgenti, se non addirittura catastrofiche;

3.      i riformisti moderati, come Gustavo Babboni e Moro Morri, sensibili alle istanze progressiste dei tempi ed al discorso del suffragio periodico, ma non disposti a stravolgere più di tanto l’apparato istituzionale esistente;

4.      i riformisti radicali, soprattutto i socialisti e pochi altri, convinti che l’assemblea dei capifamiglia, che comunque avrebbero desiderato allargata a tutti i maggiorenni, fosse solo un primo passo verso una trasformazione profonda della costituzione del paese, e bramosi di un arengo che assumesse il ruolo di assemblea costituente, quindi non solo referendaria, per iniziare fin da subito una profonda metamorfosi istituzionale e sociale.

Questa posizione è ben chiara negli articoli scritti da Giacomini e Franciosi, le due menti del socialismo locale, sui vari “Titano” di questi anni, ma lo è ancor di più nell’opuscolo già citato e analizzato di Franciosi “La restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino”.

Alla fine prevalse comunque la logica di fare l’arengo secondo la volontà moderata/conservatrice, senza cioè attribuirgli grandi poteri. Il 25 marzo l’assemblea dei capifamiglia si riunì nella Pieve riuscendo a raggiungere il cospicuo numero di 807 presenti (804 voti regolari, 3 schede bianche) su 1493 aventi diritto, di cui 355 residenti all’estero (22 di questi cittadini presenziarono all’arengo). I quesiti a cui si dovette rispondere furono i seguenti:

 

1.      Nel rinnovare per intero il Consiglio dei LX, vuole l’Arengo nominarlo con le norme e con tutti i diritti e con tutte le prerogative che il patrio Statuto attribuisce al Consiglio stesso?

2.      Vuole l’Arengo che i Consiglieri siano nominati proporzionalmente al numero degli abitanti di ciascuna Parrocchia della Repubblica, lasciando però piena libertà di sceglierli ovunque li troveranno maggiormente adatti? In caso di negativa, s’intenderà che l’Arengo li vorrà nominare secondo le norme dello Statuto.

 

Nel corso della riunione dei capifamiglia fu concordato di integrare il primo quesito con la presente specifica:  

“Qualora la maggioranza dell’Arringo risponda no al 1° dei proposti quesiti, s’intenderà che, eletto il nuovo Consiglio, in seguito debba rinnovarsi per una terza parte ogni tre anni, mediante sorteggio, e con diritto di rieleggibilità, ferme restando tutte le altre norme statutarie”.[12] 

727 capifamiglia risposero no al primo quesito, 761 sì al secondo quesito, determinando a stragrande maggioranza la fine del Consiglio che si nominava per cooptazione.

I riformisti moderati avevano vinto la loro battaglia, riuscendo ad ottenere una qualche evoluzione istituzionale, senza però grossi stravolgimenti.

Anche i socialisti ne uscivano abbastanza soddisfatti perché la battaglia che avevano intrapreso già da anni per rendere elettivo il locale parlamento era andata a buon frutto. Tuttavia per loro era solo un primo passo: il più, sulla strada delle innovazioni istituzionali e sociali, doveva essere ancora fatto, nonostante quel minaccioso e al momento sottovalutato “ferme restando tutte le altre norme statutarie” che l’arengo aveva votato.

In effetti le prime elezioni politiche svolte durante l’estate, gestite sempre secondo logiche conservatrici e con la paura dei grandi cataclismi preconizzati dai consulenti italiani, non stravolsero più di tanto il Consiglio: gli oligarchi e gli uomini forti del Consiglio precedente vennero tutti confermati al suo interno, con in più cinque socialisti e svariati membri appartenenti al riformismo moderato.

L'otto luglio il gruppo democratico diffuse tra la gente un suo programma politico in quattordici punti con cui esplicitava i suoi proponimenti, ovvero:

 

  1. Soluzione del problema finanziario economico del Paese sulla base delle maggiori possibili economie e, occorrendo, di una più equa ripartizione di tributi da sottoporsi a referendum ai Capi famiglia e ai Maggiorenni.
  2. Miglioramento d’ordine finanziario e politico da recarsi nella prossima rinnovazione del Trattato col Regno d’Italia.
  3. Istituzione di un Ispettorato generale ad honorem o retribuito, per il controllo del regolare funzionamento di tutti gli uffici amministrativi, civili e scolastici e di tutti i pubblici servizi.
  4. Organico per gl’Impiegati.
  5. Impianto dell’Ufficio Tecnico. Sistemazione del Cimitero della Pieve. Costruzione dei Camposanti Rurali. Miglioramenti delle strade consolari e rurali. Costruzione di edifici scolastici e di case operaie.
  6. Studio per migliorare il servizio postale, di comunicazione e di trasporto.
  7. Riordinamenti scolastici. Istruzione obbligatoria fino alla 3a Elementare. Esperimenti di patronati e refezioni scolastiche nei centri più popolosi. Miglioramento del Collegio Convitto Governativo.
  8. Riforma delle Leggi sulla igiene, sulla sanità e sulla sicurezza pubblica. Progetto per la conduttura dell’acqua potabile.
  9. Studio per eliminare o correggere il problema dell’emigrazione.
  10. Istituzione di una Cattedra ambulante e di premi per incoraggiare l’agricoltura e l’impianto e lo sviluppo delle industrie.
  11. Legge elettorale. Estensione del diritto di voto.
  12. Riforma della legislazione civile, penale e giudiziale.
  13. Legge sulla cittadinanza e sulla immigrazione dei forensi.
  14. Abrogazione della Legge 22 Marzo 1860 sul conferimento dei titoli equestri e nobiliari.  

Questo programma era sottoscritto da 29 consiglieri, numero che rappresentava in quel momento l'effettiva consistenza del gruppo democratico riformista.

In dicembre la Federazione Socialista Sammarinese divulgò il suo "Programma minimo" che avanzava altre rivendicazioni:

 

In ordine ai pubblici poteri

 

  1. Estensione del diritto di voto ai maggiorenni ed ai cittadini della Repubblica residenti all’estero.
  2. Nuovo sistema di votazione alla sede del seggio. Costituzione di un segretariato elettorale formato da tre alunni delle scuole elementari per redigere le schede degli analfabeti. Metodo di scrutinio a sezioni divise.
  3. Unificazione delle due circoscrizioni elettorali di Fiorentino e S. Giovanni.
  4. Elezione dei Capitani Reggenti a voto consigliare diretto.
  5. Trasformazione del Congresso di Stato in Corpo esecutivo diviso in dicasteri.
  6. Applicazione del Referendum.
  7. Riforma civile del cerimoniale e abolizione delle onorificenze.
  8. Avviamento alla legislazione sociale. Riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative di lavoro. Contribuzione annuale governativa al fondo pensioni istituito dalla Società Operaia Unione e Mutuo Soccorso.
  9. Ufficio governativo d’emigrazione.
  10. Codice commerciale.
  11. Codice civile. Personalità giuridica dello Stato di fronte alla chiesa. Funzioni dello Stato civile distinte dalle pratiche del culto. Denunzia diretta delle nascite e decessi. Matrimonio civile. Trasformazione a beneficio di Istituti di assistenza dei beni delle confraternite religiose.
  12. Obbligatorietà scolastica fino alla terza elementare. Miglioramento e riforma didattica generale delle scuole elementari, specie di campagna, refezione gratuita, facilitata dalle cucine economiche, agli alunni poveri delle scuole dei centri maggiori. Ricreatori festivi, Edifici scolastici. Istituzione nel capoluogo di una scuola serale di disegno applicato all’industria.
  13. Sistemazione delle finanze dello Stato senza ricorso a nuovi oneri pubblici; e in caso di assoluta necessità applicazione della tassa unica progressiva sul reddito con esenzione dei redditi minimi, in confronto di qualunque soluzione finanziaria a base di nuovi tributi o rimaneggiamento dei già esistenti.
  14. Appoggio al progetto di Stazione Climatica che non impegni il governo se non per ciò che possa riguardare disposizioni di esclusiva indole amministrativa.
  15. Case operaie.
  16. Organico degli impiegati.
  17. Istituzione della Cattedra ambulante d’Agricoltura.
  18. Miglioramento dei pubblici servizi. Uffici governativi disciplinati secondo un criterio di unità direttiva e soggetti al controllo di un Ispettorato extra consigliare.
  19. Soluzione del problema dell’acqua potabile.
  20. Nuovo ordinamento della pubblica armonia.
  21. Applicazione del sistema metrico decimale da iniziarsi negli esercizii pertinenti all’azienda pubblica.
  22. Nuovo orientamento delle opere pie. Trasformazione della beneficenza a domicilio. Servizi di assistenza.

 

In ordine all’organizzazione proletaria

 

-  Miglioramento del patto colonico.

- Modernizzazione del Mutuo Soccorso e nuovo impulso alle Cooperative di lavoro.

- Istituzione di Cooperative di resistenza e di consumo.

- Casa del Popolo e Casa del Lavoro.

 

Le velleità, in sintesi, erano tante, ma il Consiglio eletto nel 1906, succube di tremende paure congenite o inculcate dai suoi presunti luminari in ambito costituzionale, non era certo il migliore possibile per attuarle con convinzione e celerità.

In effetti subito si manifestarono discrepanze e dissidi all’interno del gruppo riformista/democratico sulle celebrazioni del primo anniversario dell’arengo, ma la rottura totale tra riformisti moderati e radicali si consumò nei mesi di novembre e dicembre del 1907, quando vennero esaminate e bocciate nell’aula consigliare diverse istanze presentate dal gruppo socialista per ottenere alcune di quelle riforme da tempo agognate. Le richieste avanzate miravano a far revisionare il vecchio e logoro statuto, ad istituire ufficialmente il referendum, a trasformare l’istituto della Reggenza da sorteggiato in elettivo, a riordinare il sistema scolastico, a rendere obbligatoria la scuola elementare nei suoi primi anni, a creare un contributo governativo per il fondo pensioni e un organico per gli impiegati, ad adottare un codice civile, a riformare, laicizzandoli completamente, i cerimoniali statali ed altro ancora.

Le istanze erano in parte una conseguenza del discorso pronunciato da Pietro Franciosi il 1° ottobre per l’insediamento della nuova Reggenza, discorso in cui tornava a chiedere, riferendosi anche ai pareri espressi da Ellero nel 1902 e nel 1905, l’istituzione del referendum, obbligatorio e semestrale per la parte legislativa, facoltativo per la parte amministrativa, con cui accettare o respingere le leggi, o modificare la costituzione.[13]

“I conservatori, siedano a destra o a sinistra o nel centro, tentano sempre di contrastare ogni riforma e di voler far credere ad occhio e croce che le nostre istituzioni e le nostre consuetudini, siano pur vecchie come il brodetto, debbonsi sempre mantenere, anche se inutili e nocive, e dichiararle invulnerabili”.[14]

Le istanze miravano a “ricostruire, dopo la rivoluzione dell’Arringo, il nostro piccolo Stato su basi nuove ed omogenee ai moderni tempi. Non v’è più Stato in cui non spiri un’aura di primavera per la quale il mondo ogni giorno si fa più bello. E noi non possiamo far parte di questo mondo che ha il moto come attributo o la perfezione come meta. Perché i più dei nostri governanti o non concepiscono per ignoranza questo potente bisogno di muoversi, o per opportunismo vi si oppongono. Nel primo caso bisogna in parte perdonare a quei tali che non arrivano di primo impeto a conoscere il vero, per quanto l’intelligenza umana sia destinata ad apprenderlo. Essi sono vittime di mancato ammaestramento o di qualche vizio ingenito; per cui sono quasi irresponsabili. Essi sono sempre inconsciamente invasi dal terrore di un pericolo ignoto; per la loro inettezza non sanno pensare astrattamente, non hanno concezioni concrete, non sentono il bisogno di migliorare sé e il paese. Nonostante l’incessante progresso che li circonda, la pusillanimità naturale li assale ad ogni piè sospinto. Non assurgono a nuove concezioni di vita e s’aggrappano alla cieca fede religiosa come unico conforto. Normalmente misoneisti si trovano profondamente in contrasto con le nuove idee; e mummificati sentono soverchia fatica di rinunciare alle tradizioni e alle abitudini; hanno il sistema nervoso assolutamente inetto a produrre forti impulsi per lottare e per aprirsi l’adito a nuove vie e a nuovi orizzonti. Ma più di loro pericolosi sono i secondi, gli opportunisti, che non estranei alle nozioni e alla cultura del tempo, tradiscono ogni giorno le più elementari regole di ogni verità e molte delle loro convinzioni. Ogni loro atto è una commedia od una farsa sconveniente. Essi rifuggono per particolari interessi di mettere in armonia le azioni coi sentimenti e si rendono servi ciechi dell’ignoranza. (…) Questa profonda ignoranza e questo vile opportunismo possono formare il quieto vivere per qualche po’ di tempo a chi governa. Ma badiamo che l’arma è a doppio taglio e può recare serie conseguenze… Si poteva ammettere sotto il vecchio regime che la nostra Repubblica, quando tutta l’Europa si muoveva, rimanesse quasi una curiosità da museo, un vecchio fossile ridotto tale dalla comodità in partita doppia della sacrestia e del nobilume. Ma oggi no e poi no. Col diritto di voto conquistato e col nostro partito all’avanguardia, la repubblica deve essere un progresso e una realtà; e materiata, di serie riforme sociali politiche e civili deve modificarsi senza sforzi per il miglioramento di un intero popolo”.[15]

“Il mosaico democratico consiliare sta disgregandosi dopo un anno di simulata fusione”, proclamò il Titano del 1° dicembre 1907, perché gli “elementi di destra” erano riusciti a trovare un’unità d’intenti nella salvaguardia della sacra tradizione, mentre dopo l’arengo, che aveva dato origine a strane e non sempre comprensibili alleanze, tra i democratici non vi era stato più un grande accordo. L’articolo prosegue dicendo che i socialisti si erano attenuti al programma elaborato di comune accordo, pur rinunciando a pretese più ampie e più consone ai loro ideali, mentre “una parte della democrazia ha dimenticato di assolvere a molti suoi obblighi. (...) All’alba della nuova repubblica un ordine nuovo doveva stabilirsi sulle macerie. Bisognava rompere i ponti col vecchio sistema, estirpare il vecchio tronco dalle radici, (...) rifare ab ovo la compagine dello Stato, disciplinare gli uffici, rinvigorire ed allargare le pubbliche funzioni amministrative e politiche, ossigenare e disinfettare l’ambiente viziato”.

Insomma, dopo l’arengo ci si aspettava “un’opera radicale di riordinamento”, invece  il Consiglio aveva smarrito in fretta le sue mete ripiombando nei vecchi vizi del passato: “Il consueto e vieto sistema guadagnò gli uomini che erano partiti in guerra contro di esso”. Durante l’anno appena trascorso vi erano state alcune buone iniziative e qualche conquista, ma l’opera riformatrice era stata assai parziale, frammentaria e casuale, interrotta tra l’altro da lunghe pause e tentennamenti. Inoltre molti democratici non si erano dimostrati tali: alcuni avevano cercato di collocare la loro persona al di sopra del gruppo, non lavorando in comunione con gli altri per una corretta gestione politica dello stato. Quel “groviglio caotico di uomini e di cose” non aveva quindi più ragione di sopravvivere: “L’ibridismo, le alleanze innaturali, gli accoppiamenti bastardi abbiano fine e ciascuno assuma il posto, l’atteggiamento, il nome che i propri istinti, i propri interessi, le proprie idealità gli impongono e gli consentono”.

“E’ pur vero che nel partito dell’Arringo, molti, che furono trascinati con noi per la conquista di quel primo diritto, ora si sono distolti perché abbiamo spiegato totalmente il nostro vivo orifiamma che sventola in tutti i punti più elevati del mondo, quale nota di continuità di progresso e speranza in cose migliori. I più o per disinteresse o per paura si fermarono; avvertirono un inizio di stanchezza; ci dissero quasi mancatori di parola perché non ci fermammo con la conquista del primo diritto; e ritornarono ad accarezzare le tradizioni del passato. Fu chi ci disse anche che se si sapeva che noi socialisti non ci saremmo fermati all’arringo, non ci avrebbero prestato il loro valido aiuto e ci avrebbero lasciati con a ridosso un governo medioevale”.[16]

Invece la volontà di Franciosi e dei socialisti era proprio quella di andare oltre l’arengo del 25 marzo e la conquista del voto: “No, non basta la conquista dell’Arringo, diamo opera ad una più grande trasformazione”. L’aspirazione era di creare sempre più un governo a democrazia diretta, “eliminando così la classe politica ed organizzando finalmente il novus ordo dei Governi futuri”.[17] Bisognava quindi avere il coraggio di avviare un processo di riforme costituzionali nonostante il raggelante concetto “ferme restando tutte le altre norme statutarie” sancito proprio dall’arengo. Secondo Franciosi e Babboni tali riforme potevano essere fatte semplicemente dal Consiglio, senza adunare l’assemblea dei capifamiglia, perché già in passato varie innovazioni di carattere costituzionale le aveva fatte il parlamento sammarinese senza chiedere il parere di nessuno. Per altri, invece, il Consiglio non aveva tale potere, e solo l’arengo poteva dar vita a norme costituzionali diverse da quelle esistenti.

E’ ovvio che questa ultima opinione, su cui si discuterà anche negli anni successivi, era un comodo pretesto per chi voleva rendere difficile ogni altra riforma dopo l’arengo del 1906. E’ indubbio che dopo l’ultimo arengo radunato nel 1571 fu il Consiglio a modificare o integrare lo statuto senza più riunire l’assemblea dei capifamiglia per un avallo formale del suo operato legislativo o delle riforme allo statuto stesso, come nel 1652, quando ridusse il numero dei consiglieri da 60 a 45, o nel 1756, quando stabilì che un Reggente dovesse essere nobile ed uno plebeo, o nel 1830, quando istituì la Congregazione Economica, o in tante altre occasioni ancora. Adesso però si aveva timore delle riforme che potevano essere portate avanti in Consiglio, ed in più c’era quella famosa frase “ferme restando tutte le altre norme statutarie” che bloccava ogni velleità riformista che non avesse avuto il placet dell’arengo.

La grande innovazione che i riformisti più convinti desideravano era soprattutto l’istituzione dell’arengo/referendum, allargato a tutti i maggiorenni, secondo la logica espressa qualche anno prima da Ellero, istituto che avrebbe eliminato anche i problemi legati a chi spettasse varare riforme istituzionali, perché con un arengo periodicamente ed obbligatoriamente convocato, ogni legge o riforma avrebbe avuto necessità dell’avallo di tale assemblea.

Non solo: “A mezzo del referendum (…) si stimola l’interesse dei cittadini ai problemi dello Stato, si diffonde fra loro la conoscenza della legislazione, si sviluppa in essi il sentimento della responsabilità per l’andamento della cosa pubblica. Il referendum va considerato come la più schietta emanazione della sovranità popolare, perché offre ai cittadini il mezzo di prender parte, ad ora ad ora, alla vita pubblica”. Simile istituzione avrebbe avuto “un effetto educativo straordinario: rende più guardinga l’Assemblea legislativa nelle sue deliberazioni con lo spauracchio del possibile e necessario appello al popolo; conduce questo ad occuparsi delle questioni più vitali e a pronunziarsi su di esse in forma puramente obbiettiva, fuori di quelle considerazioni personali che spesso riescono ad intralciare e dissimulare il vero proposito; e, mentre sviluppa il sentimento di responsabilità diretto in tutto il popolo, dà stabilità a larga base alle leggi, accettate per consenso non indiretto e supposto, ma diretto ed esplicito”.[18]

Nonostante i vagheggiamenti di Franciosi, la maggioranza del Consiglio non sentiva affatto l’esigenza di introdurre innovazioni tanto radicali, che vennero liquidate semplicemente come “esotiche” e contrarie alla sacra tradizione, per attuare riforme di natura istituzionale. Conservatori e Democratici, “affetti da miopia congenita”, come dicevano i riformisti radicali, non volevano assolutamente mutamenti di questo tipo, trincerandosi dietro il “ferme restando tutte le altre norme statutarie” espresso dall’arengo del 25 marzo. “Dobbiamo dunque cristallizzarci e fossilizzarci in una costituzione del ‘600?”; “governare e amministrare ai tempi che corrono vuol dir operare, riformare, ricostruire”, per cui non bisognava avere paura di andare oltre lo statuto, sempre utilizzando lo strumento dell’arengo/referendum.[19]

Nei mesi successivi la polemica sulle riforme che alcuni volevano e i più no proseguì tra tensioni più o meno marcate. Un momento di forte conflittualità avvenne tra il 1908 e il 1909, quando il Consiglio abolì l’insegnamento del catechismo nelle scuole. I cattolici presero tale innovazione come un attentato alla costituzione, perché la rubrica 33 del libro I degli statuti secenteschi, ancora in vigore, che trattava delle funzioni e del salario del pubblico precettore, prevedeva l’insegnamento della dottrina cristiana a tutti gli scolari, insieme ovviamente ad altre discipline. Con l’abolizione del catechismo, insomma, il Consiglio aveva alterato una disposizione statutaria senza averne alcun diritto.[20]

Tra l’altro il clima era reso ancor più incandescente dal fatto che socialisti e repubblicani volevano precise modifiche nella nomina, nel cerimoniale e nello stesso vestiario della Reggenza, cosa reputata del tutto assurda da parte della maggioranza dei consiglieri.

“Le nazioni adesso riguardano la nostra Repubblica come un prezioso cimelio di tempi antichissimi – denunciò il “San Marino, organo dell’Unione Cattolica Sammarinese” – Guai pertanto a quei cittadini che osassero manomettere le patrie istituzioni: in esse soltanto ha la sua ragione d’essere la nostra piccola terra!”[21]

Di nuovo il concetto espresso dai consulenti nel 1905, di nuovo l’assioma che la stessa esistenza della Repubblica era indissolubilmente legata al suo sistema costituzionale mummificato.

“Ciò che noi vogliamo ad ogni costo e a qualunque sacrificio, come cittadini dell’ordine e difensori della fede ereditata dagli avi nostri è l’osservanza dello statuto. Avremo sempre parole spiranti fuoco contro i profanatori delle sue leggi; grideremo con tutto lo sdegno di un animo repubblicano, di un cuore ferito nei suoi ideali e nei suoi sacrosanti diritti contro quei vili denigratori che attentano scemare la bellezza, avvilirne l’importanza dichiarandolo non più rispondente ai bisogni dei tempi e lo spogliano della sua aureola immortale riducendolo un arlecchino. Bello, sovranamente bello il nostro statuto! Nobile l’ingegno che lo ha ispirato! Sante, Divine le leggi che vi s’inculcano, sanzionate dall’approvazione dei secoli!”[22]

Questa logica mistico/istituzionale che impedirà qualunque innovazione costituzionale, basandosi ovviamente anche su quanto sancito dall’arengo del 1906, sarà quella che caratterizzerà a lungo la mentalità cattolica sammarinese, così come la cultura laica sarà invece contrassegnata a lungo dal desiderio di laicizzare lo Stato, riformare diverse norme statutarie, fare una legge tributaria basata sull’equità fiscale (istanza sostenuta anche dai cattolici), istituire l’arengo/referendum (richiesta prevalentemente socialista) e altro ancora.

Il problema relativo a chi toccasse attuare riforme costituzionali riemerse nel 1914, quando Onofrio Fattori presentò un’istanza in Consiglio per chiedere che anche i cittadini naturalizzati potessero divenire Reggenti. Iniziò una lunga discussione e si consolidarono tre opinioni: la prima diceva che l’arengo del 1906 non aveva concesso facoltà al Consiglio di modificare nulla al di là del sistema di nomina dei consiglieri, quindi competente era solo l’assemblea dei capifamiglia in materia costituzionale; la seconda  sosteneva che il Consiglio aveva il potere per porre mano anche alle questioni istituzionali; la terza, quella socialista, puntava sull’istituzione dell’arengo/referendum a cui sottoporre i problemi costituzionali, ma anche di altro genere. Alla fine si giunse ad un ballottaggio con cui, per 21 voti contro 10, si stabilì che solo l’arengo potesse modificare le norme costituzionali, per cui il Consiglio si dichiarò incompetente a trattare istanze di tale natura.[23]

Con questo decreto in pratica si complicò qualunque possibilità di rinnovo della costituzione sammarinese, perché organizzare un arengo in cui discutere problemi simili non era certo facile, come aveva dimostrato quanto successo e le battaglie che si erano dovute sostenere per giungere a quello del 1906.

In effetti negli anni che precedettero l’ascesa al potere del locale fascismo varie volte circolò tra la gente l’ipotesi di convocare un arengo per analizzare e discutere problemi specifici, ipotesi che però per un motivo o per un altro non riuscì mai a concretizzarsi.[24]

La manifesta volontà della maggioranza del Consiglio di non attuare altre riforme al di là dell’unica innovazione sancita dall’arengo del 1906 denotava che, nonostante fossero passati diversi anni, gli spauracchi agitati dai consulenti nel 1905 ancora incutevano terrore, e non vi era alcuna volontà di mutare nulla rispetto alle consuetudini secolari della Repubblica. Questo non impedì tuttavia a socialisti e repubblicani di continuare a chiedere la riforma di varie norme dello statuto secentesco. I repubblicani desideravano soprattutto laicizzare l’istituto della Reggenza, ma i socialisti volevano invece una concreta democratizzazione del sistema istituzionale sammarinese tramite ciò che essi consideravano la prosecuzione dell’opera iniziata dai capifamiglia nel 1906.

Nell’aprile del 1917 proprio i socialisti presentarono al Consiglio come istanza d’arengo un articolato progetto per riformare i poteri pubblici in cui delineavano con precisione il loro punto di vista sulle istituzioni sammarinesi.[25]

“L' Arengo del 1906 – vi si legge - che pareva felicemente destinato a rendersi stromento di tutto un nuovo ordine di cose, si è fermato alla scheda, e colla scheda la democrazia ha coperto una piaga profonda e ha ingannato momentaneamente il male stesso che travagliava tutto il paese.

Le riforme politiche amministrative e tecniche, che si presentavano come conseguente corollario di quel primo atto di rinnovamento civile, furono bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati; e rimase intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e coi suoi vizi organici, coi suoi costumi e con tutto il suo armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano in un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità. (…) Il sistema che ci regge, nella sua struttura organica non meno che nello spirito morale e politico che lo informa e nel criterio amministrativo che lo guida, è la negazione di una bene ordinata democrazia”.

Quali le innovazioni principali che proponeva il gruppo socialista? Non più l’arengo/referendum, probabilmente perché riforma considerata ormai troppo democratica, quindi anche troppo utopistica. Prima di tutto, dunque, la nomina della Reggenza per voto diretto e non più tramite sorteggio: “La Reggenza, suprema magistratura della Repubblica, abbia mansioni di presidenza più dignitose e meno defatiganti, non sia la carica d'utilità, buona a tutti i servigi, ma diriga lo Stato, il Governo, il Consiglio, i Congressi, e si riserbi di attendere in modo particolare agli alti e delicati affari politici e diplomatici, alla giustizia, alla sicurezza pubblica, alle milizie”.

Poi la trasformazione del Congresso o Consiglio di Stato in vero e proprio governo della Repubblica, con una maggiore definizione delle sue competenze: “Il Consiglio di Stato venga investito di vere e proprie attribuzioni di governo, quali sono implicite a un ministero, a una giunta, a una deputazione, a quegli organi, insomma, che ricorrono negli ordinamenti statali e municipali di tutti i paesi. Sia diviso in Dicasterii o deputazioni, per modo che ciascun membro venga posto a capo di una speciale branca pubblica”. I dicasteri dovevano essere nove (Affari politici e diplomatici – Giustizia – Sicurezza pubblica – Milizie; Finanze ed Economato; Lavori pubblici; Istruzione; Annona, Agricoltura, Industria e Commercio; Sanità e Igiene; Stato civile; Poste, Telegrafi, Telefoni e Comunicazioni; Beneficenza e Assistenza).

In seguito una nuova e più meticolosa regolamentazione del Consiglio Grande e Generale affinché assumesse “una regola, una disciplina, una condotta normale e uniforme, quale si addicono al prestigio delle sue alte funzioni, oggi sminuite dalla casuale e spesso contraddittoria pratica della quale è in balia”.

Infine nuove e più rigorose funzioni per la Commissione di Bilancio, che doveva essere “investito di ampi poteri di verifica e revisione degli uffici contabili, di cassa, di posta dei magazzini; sia chiamato a compilare col Consiglio di Stato il Bilancio pubblico del quale è depositario; sia considerato come corpo giuridico indipendente, e formato di persone estranee al potere esecutivo e agli uffici”.

Gli avvenimenti che accaddero nei tempi successivi impedirono che le velleità riformiste giungessero in porto. Troppo delicato era giudicato dalla maggioranza dei consiglieri, e probabilmente dai pochi cittadini sammarinesi che potevano essere sensibili a problemi tanto astratti e complessi, porre mano a riforme di un apparato istituzionale che, secondo la mentalità semplicistica in auge, andava ancora bene perché si era sempre dimostrato capace di preservare la mitica libertà e la gloriosa indipendenza della Repubblica di San Marino dai fortunali della storia.

Il vasto partito dei passatisti e conservatori, che si rinvigorirà grazie al fascismo, che a San Marino sarà soprattutto un ritorno al passato, ovvero alla logica politica paternalistica ed oligarchica precedente il 25 marzo 1906, si dimostrerà sempre ostile alle innovazioni costituzionali, e imputerà proprio alla svolta attuata dall’arengo del 1906 tutti i mali di precarietà politica ed economica in cui la Repubblica venne spesso a trovarsi negli anni successivi.

Dopo la prima guerra mondiale i socialisti uscirono dal Consiglio di propria iniziativa, rimanendo in uno stato di isolamento politico che consentì agli altri raggruppamenti di imprimere una svolta conservatrice al dibattito politico e di sancire la fine di qualunque ambizione di natura istituzionale.[26]

Nel 1922 il fascismo iniziò a prendere il potere che detenne per più di vent’anni. Durante questo periodo non vi furono ovviamente importanti evoluzioni costituzionali a San Marino, vista la mentalità assolutamente ostile all’arengo del 1906 e alle velleità riformistiche di quegli anni che avevano i suoi capi, conservatori convinti, legatissimi alla dimensione patriarcale/elitaria dei secoli precedenti sancita dagli statuti secenteschi. Proprio per sottolineare questo ritorno al passato, con decreto del 1931 il Consiglio si ridefinì “Principe e Sovrano”, qualifica cassata dopo l’arengo del 1906.[27]

Curioso, ma coerente con la mentalità dei nuovi (ma nello stesso tempo antichi) padroni di San Marino, che, appena scomparsi i riformisti più radicali del 1906 dalla scena politica e anche dal paese (in tanti dovettero scegliere la via dell’esilio per salvarsi dalle persecuzioni del fascismo), il governo sammarinese non ebbe alcuna remora a modificare norme statutarie, non curandosi minimamente del “ferme restando tutte le altre norme statuarie” scaturito dall’arengo del 1906.

Nel 1925, per fare un esempio, venne regolamentato l’ufficio di Capitano di Castello, fatto che eliminò figure secolari e statutarie, come i sovrastanti alle vie ed alle acque, e modificò altre norme dello statuto del Seicento.[28]

Il fascismo non ebbe il coraggio (probabilmente per non dare l’impressione di essere troppo anacronistico) di rimuovere la logica elettorale introdotta dall’arengo del 1906, tuttavia modificò la legge elettorale restringendo il numero degli aventi diritto e allungando la legislatura a sei anni.[29] Non a caso una delle prime azioni legislative fatte dopo la caduta del fascismo fu il ripristino della legge elettorale precedente.[30]

Solo nel 1945, col nuovo governo composto da socialisti e comunisti andato al potere l’11 marzo, si riparlò di riforme istituzionali, riprendendo in parte le velleità socialiste del periodo prefascista. Così subito si provvide, non senza polemiche da parte dei conservatori, a determinare che la Reggenza dovesse scaturire da un’elezione in Consiglio, e non tramite sorteggio come succedeva in precedenza.[31]

Due mesi dopo venne varata un’altra legge di natura costituzionale, sempre ripresa dalle idee già messe a punto più di 25 anni prima, che dava ufficialmente al Congresso di Stato i poteri di governo della Repubblica, dividendolo in dieci dicasteri, cioè ministeri.[32]

Tuttavia queste riforme, giudicate dai conservatori del tutto arbitrarie perché non sottoposte al giudizio finale dell’arengo, lasciarono l’amaro in bocca ai tanti che ancora vedevano la difesa della tradizione e delle istituzioni storiche come la migliore cosa per il paese.

Il 4 dicembre 1947 venne divulgato un giornale, intitolato “L’Arengo - numero unico in difesa del tradizionalismo sammarinese”, nato per “ribattere le pseudo-argomentazioni degli antitradizionalisti” che stavano definendo le istituzioni “croste da museo”, e che le avevano condannate ad “igienica epurazione”.

Secondo gli autori del numero unico, invece, occorreva la “rivendicazione in pieno dei valori tradizionali della nostra storia plurisecolare, acconsentendo ad una ponderata potatura di rami e ramoscelli secchi del nostro meraviglioso albero costituzionale ma difendendo ad oltranza il tronco ed i rami principali, che formarono e formano la ragione d’essere della nostra libertà e della nostra indipendenza”.

Le polemiche ed i tempi di forte conflittualità tra Sinistra e Destra impedirono che venissero prodotte ulteriori importanti riforme del sistema istituzionale sammarinese. L’ambiguità poi era sempre quella su chi dovesse varare riforme simili, Consiglio o Arengo.

Negli anni sessanta Guidobaldo Gozi riaffrontò il problema all’interno di due suoi opuscoli,[33] anche se da un’ottica molto personale legata direttamente alle interpretazioni conservatrici e passatiste dell’arengo del 1906 che la sua famiglia aveva dato nel corso del cinquantennio precedente.

Alla fine, comunque, egli giunse alla conclusione che l’arengo fosse “l’unico competente in materia costituzionale, in argomenti che riguardano la nostra costituzione politica o forme di governo; per la rimanente ed estesa materia è competente il Consiglio”.[34]

In realtà l’arengo dei capifamiglia non fu più convocato, rimanendo in vita solo nella sua veste semestrale, e le poche riforme costituzionali che vennero varate negli anni successivi furono frutto di compromessi tra i partiti politici, e della legittimazione da parte del solo Consiglio Grande e Generale, che oggi per varare riforme di tale natura necessita per legge dei voti dei due/terzi dei suoi componenti.

Delle immense, utopistiche aspirazioni democratiche e popolari emerse agli inizi del secolo, dei grandi, esagerati, probabilmente ingenui sogni di Ellero, Franciosi, Giacomini e altri legati alla brama da dare grande potere politico al popolo alla fine non rimase nemmeno il ricordo.

Nel celebrare il centenario dell’arengo del 1906, che porterà con sé tanta enfasi e glorificazione, direi invece che è proprio il caso di ricordarsene.  

                                                                                                 

 

[1] Per ulteriori approfondimenti storici, si veda soprattutto G. Dordoni, L’Arringo conquistato, San Marino 1993.

[2] Per una proposta di referendum nella Repubblica di San Marino, Rimini 1903.

 

[3] Tutti questi pareri sono in: Per una proposta di referendum nella Repubblica di San Marino, Rimini 1903.

 

[4] O. Fattori, Le memorie di un pover’uomo, manoscritto inedito in possesso dei discendenti.

[5] P. Franciosi, A proposito di referendum nella R.S.M., 1903

 

[6] P. Franciosi, La restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino, estratto dalla Romagna, anno II, fascicoli 2 e 3, Jesi 1905.

[7] Il Titano, 29 ottobre 1905.

[8] Oltre ai vari Titano del periodo, si veda nell’ Archivio di Stato della RSM l’importante raccolta di documenti, Atti del Comitato pro-Arringo, Libro dei verbali del Comitato pro-Arringo, serie Documenti privati dell’Archivio, busta 26.

[9] Tutte queste informazioni sono desunte da : Archivio di Stato della RSM, Atti del Consiglio Principe, volume n. 49, 14/10/1905 – 12/10/1907, in cui sono stati dettagliatamente trascritti verbali e documenti relativi all’organizzazione dell’arengo.

[10] Le ultime bravate dei nostri governanti, Il Titano, 18 marzo 1906.

[11] ASRSM, Libro verbali del Comitato pro-arengo, cit.

[12] Cfr. Verbale dell’Arengo dei Capifamiglia, San Marino 1906.

[13] Il discorso venne stampato un paio di anni dopo: P. Franciosi, Dei poteri del Gran Consiglio della Repubblica di San Marino e dell’introduzione del “referendum” a mezzo dello statutario Arringo, estratto dalla Riforma Sociale, fascicolo 12, anno XIII, vol. XVI, seconda serie, Torino 1908

[14] P. Franciosi, L’esito delle nostre istanze, Il Titano, 19-1-1908.

[15] Ibidem

[16] P. Franciosi, Dopo due anni, Il Titano, 25-3-1908.

[17] P. Franciosi, Dei poteri del Gran Consiglio della Repubblica di San Marino e dell’introduzione del “referendum” a mezzo dello statutario Arringo, cit., p. 7.

[18] Ibidem.

[19] P. Franciosi, Il rispetto allo statuto, Il Titano, 15/11/1908.

[20] Sull’argomento si veda: V. Casali, Il casus belli – L’abolizione del catechismo a San Marino nel 1909, in Annuario della Scuola secondaria superiore, n° XXVII, San Marino 2001.

[21] San Marino - Organo dell’Unione Cattolica Sammarinese, anno 1, n° 1, 3/9/1909.

[22] Ibidem

[23] ASRSM, vol. G, n° 55, seduta del 16/5/1914. Decreto n. 11 del 18/5/1914.

[24] Su questo periodo si veda: V. Casali; Storia del socialismo sammarinese dalle origini al 1922, San Marino 2002.

[25] La riforma dei poteri pubblici, proposta del Gruppo Consiliare Socialista presentata all’Arengo dell’8 Aprile 1917, San Marino 1917.

[26] V. Casali, Storia del socialismo sammarinese, cit.

[27] Decreto sulla qualifica spettante al Consiglio Grande e Generale, n. 14, 29/9/1931.

[28] Regolamento per l’elezione e l’ufficio dei Capitani di Castello, n. 7, 26/2/1925.

[29] Legge elettorale, n. 31, 11/11/1926.

[30] Decreto che ripristina la legge elettorale del 15 ottobre 1920, n. 27, 31/7/1943.

[31] Legge per la riforma del sistema di elezioni dei Capitani Reggenti, n. 15, 24/3/1945.

[32] Legge sulla riforma dei poteri pubblici, n. 26, 9/571945.

[33] Guidobaldo Gozi, Per un nuovo Stato, Rimini 1960 e L’Arengo dei Capi – Famiglia, San Marino 1964.

[34] Guidobaldo Gozi, L’Arengo dei Capi – Famiglia, cit., p. 37.

 

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