Ferme restando tutte le altre norme Statutarie
ovvero
Arengo del 1906 e congelamento istituzionale
di Verter Casali
(Pubblicato sull'Annuario delle Scuole Superiori di San Marino
del 2006)
E’ ormai trascorso un secolo da quel 25 marzo
1906 in cui i capifamiglia sammarinesi tornarono a riunirsi in
assemblea, dopo secoli di assoluta e silente sottomissione al
Consiglio Principe e Sovrano, per decidere se attuare o no parziali
riforme al loro sistema parlamentare, nominato dal XVI secolo in poi
per cooptazione.
Tale evento portò, come è ben risaputo, al
rinnovo periodico del Consiglio tramite regolari elezioni.
Quel momento è stato da lì in poi, salvo
rarissime voci discordi, esaltato e magnificato con tutti gli
aggettivi più glorificanti del vocabolario, tanto che oggi, a
distanza di cento anni, a molti, a troppi sammarinesi ronzano in
testa solo l’enfasi e l’apologia dell’arengo, cioè il suo mito, gli
elementi insomma più superficiali e patinati, più semplici da sapere
e ricordare, mentre si è perso di vista la sua sostanza, la sua
realtà più intima e complessa.
L’arengo del 1906, infatti, rappresenta sì un
fenomeno politico straordinario che ha condizionato tutta la
politica sammarinese successiva; fu davvero una bella vittoria degna
di enfasi e di fiumi di retorica, ma fu soprattutto una vittoria
mutilata, per usare una definizione di altri, un successo assai
parziale rispetto alle velleità per cui tutto il movimento che lo
aveva inventato e determinato si era dato da fare.
Ma veniamo a spiegare un’affermazione così
forte e controcorrente. Prima però un rapido
accenno ai suoi antefatti e alle cause che lo hanno determinato.
L’arengo era l’antica assemblea dei
capifamiglia della comunità sammarinese, e in epoca basso medievale
assumeva le decisioni politiche più importanti, probabilmente sotto
la supervisione del vescovo del Montefeltro che gestiva, in nome di
Roma, la zona geografica in cui era collocato anche il territorio
sammarinese.
Crescendo nel tempo il comune e la sua
popolazione, si sentì l’esigenza di utilizzare organi politici meno
numerosi, quindi più facili da convocare e consultare (Consiglio dei
LX, Consiglio dei XII), per cui gradualmente l’arengo venne
accantonato, pur senza mai essere soppresso ufficialmente.
Le ultime sue convocazioni, non come governo
effettivo del paese, ma con mere funzioni di corpo elettorale
preposto al rinnovo di una parte del Consiglio, si verificarono nel
corso della seconda metà del XVI secolo, poi venne semplicemente
lasciato in disparte (un po’ come sarebbe successo da lì a poco agli
Stati Generali in Francia), fatto che permise al Consiglio di
diventare sempre più chiuso ed oligarchico in quanto non più
giudicato e rinnovato dal popolo.
In certi momenti di agitazione sociale, o
comunque politicamente e socialmente critici, vi furono istanze più
o meno ufficiali da parte di qualcuno per ripristinarlo, come nel
1738, nel 1797, nel 1848, nel 1853, segno certo che i sammarinesi
più colti e conoscitori degli statuti secenteschi, con cui erano
stati decurtati i poteri dell’assemblea dei capifamiglia, avevano
ancora la consapevolezza della sua latente potenzialità. La
convocazione dell’arengo, tuttavia, non spettava al popolo, ma
doveva passare per legge attraverso Consiglio e Reggenza, che si
guardarono bene, ovviamente, di adunarlo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si
svilupparono in Italia e conseguentemente anche a San Marino nuove
istanze culturali e politiche impazienti di abbandonare le logiche
più elitarie ed aristocratiche di gestione del potere. Le masse
operaie e popolari, grazie soprattutto a giovani intellettuali
“illuminati” e riformisti che le sobillavano, presero sempre più
coscienza della loro possibile forza e dei diritti che potevano
rivendicare. Nacquero organizzazioni e partiti desiderosi di dar
vita a nuove ere sociali dove la gente semplice, gli operai e le
masse in genere potessero essere protagoniste del proprio destino, e
non più schiave di aristocratici, ottimati o caste privilegiate.
Anche nella repubblica sammarinese successe
qualcosa di simile, e le prime timide rivendicazioni tese a chiedere
il suffragio universale, l’abolizione dei ceti in cui ancora era
divisa la popolazione sammarinese (nobili, terrieri, villici),
alcune riforme economiche e fiscali per appianare il deficit dello
Stato, che negli ultimi anni del Novecento stava aumentando per le
eccessive spese fatte (in primis il palazzo del governo, inaugurato
nel 1894 e costato più di 300.000 lire, cifra immensa per le modeste
casse pubbliche dell’epoca), si allacciarono piano piano alla
richiesta di riconvocare un arengo, organismo statutario, come si è
detto, mai abolito, ma in letargo dal 1571.
Sebbene da più parti sorgessero richieste di
innovazioni all’interno della società sammarinese, fino ai primi
anni del XX secolo il variegato movimento riformista locale,
composto da minuscoli nuclei di socialisti, repubblicani, liberali,
non riuscì a trovare unità d’intenti nella battaglia riformista che
tutti costoro sognavano, anche se con sfumature molto diverse tra
loro.
La frammentazione dei riformisti ovviamente
giovò ai loro avversari, ovvero i cosiddetti conservatori, membri
dell’oligarchia dominante, passatisti e in genere eredi di quell’oligarchia
terriera che da secoli deteneva il potere effettivo sulla piccola
repubblica. Costoro, perennemente succubi del motto Aut sit uti
est, aut non sit, (o rimanete come siete o non sarete), temevano
di perdere col loro dominio sulla comunità, che naturalmente portava
prestigio e potere, anche la mitica libertà della Repubblica, legata
secondo la loro logica, ma come vedremo non solo loro, totalmente al
sistema istituzionale oligarchico in vigore, sistema addirittura
considerato sacro e consacrato dal santo fondatore in persona.
Questi, in estrema sintesi, gli antefatti
dell’arengo e gli schieramenti che si fronteggiavano pro o contro le
riforme. La situazione rimase in stallo fino al 6 aprile 1902 quando
accadde un fatto nuovo: tre consiglieri riformisti (Telemaco
Martelli, Remo Giacomini, Ignazio Grazia) presentarono un’istanza al
Consiglio con cui richiedevano l’istituzione del referendum per
poter consultare la popolazione su problemi specifici o leggi
particolari. Tale domanda nasceva dal fatto che anche in Italia si
stava parlando di istituire il referendum, ma soprattutto da una
nuova legge tributaria a cui da tempo si stava pensando (e si stava
lavorando) per pareggiare il deficitario bilancio dello Stato
sammarinese. Nella seduta consigliare del 24 settembre 1901,
infatti, Remo Giacomini dichiarò
che, prima di applicare nuove tasse, sarebbe stato opportuno fare un
referendum con cui chiedere l’opinione del popolo, visto che alla
fine sarebbe stato proprio questo a subire le conseguenze maggiori e
materiali dalla riforma tributaria.
I tre riformisti erano inoltre
dell’avviso che “solo con la
partecipazione del popolo alla vita pubblica si potrà avere un
governo veramente forte, libero e civile, che abolisca i privilegi,
gli abusi e le immoralità”. Questa partecipazione era permessa anche
dagli statuti in vigore, i quali dicevano che il popolo come arengo
semestrale poteva interloquire con il Consiglio: ora avrebbe potuto
farlo tramite l’istituto del referendum, inteso come assemblea
obbligatoria dei capifamiglia a cui sottoporre tutti i decreti e le
nuove leggi. Esso sarebbe stato “scuola di moralità” per il popolo
che, coinvolto in maniera diretta nella gestione del paese, sarebbe
gradualmente cresciuto nella sua cultura politica e sociale.
La richiesta di referendum dei tre
riformisti creò un certo scompiglio tra i consiglieri, che decisero
di richiedere un parere autorevole sul problema ad alcuni giuristi
italiani amici e consulenti della Repubblica, in particolare a
Pietro Ellero, grande estimatore di San Marino e personaggio
all’epoca considerato un luminare delle scienze giuridiche.
Questo atto, insieme ovviamente alla
situazione sociale ed economica in cui versava il paese, fu in
pratica l’inizio di tutta la faccenda che determinò l’arengo del
1906.
Il 10 giugno 1902 Ellero inviò il suo parere
sulla questione che gli era stata formulata. Disse che il sistema
istituzionale sammarinese era da reputarsi in effetti aristocratico
in quanto il Consiglio era nominato per cooptazione; per tale motivo
consigliava di concedere qualche cauta riforma, perché temeva che la
costituzione potesse essere giudicata “vieta e retriva e offrire il
fianco agli attacchi interni ed esterni, se non la si riaccostasse
con tutta la maggior prudenza, lentezza e circospezione alla fonte
democratica, dond’era sorta, e non la si richiamasse così alle sue
origini”.
La Repubblica doveva stare però assai attenta
nel riformare, perché la sua esistenza dipendeva solo dal fatto che
fosse “una singolarità storica prodigiosamente sopravvissuta”, che
poteva continuare la sua esistenza solo grazie alla “probità e la
saviezza del suo governo, la concordia e l’attaccamento de’ suoi
abitanti e le simpatie stesse degli estranei verso una sì veneranda
reliquia vivente del passato”.
Nonostante la grande avvedutezza con cui
veniva consigliato di procedere, bisognava comunque frenare l’impeto
della protesta popolare per evitare che diventasse puramente
demagogica, quindi pericolosa e sovversiva.
Il giurista suggeriva di mantenere i tre
ordini in cui era diviso il sistema parlamentare locale senza
renderlo elettivo, e di restituire al popolo radunato in arengo la
potestà legislativa, facendogli avallare o respingere, tramite un
semplice sì o no, le leggi elaborate e proposte dal Consiglio. “Di
tal guisa la costituzione di San Marino riprodurrebbe in futuro
(sublime auspicio) presso che negli analoghi termini la romana
costituzione ne’ tempi suoi più gloriosi: ai due Consoli o Capitani
Reggenti la potestà direttiva ed esecutiva, al Senato o Consiglio
Principe la potestà statuale in istretto senso, ed ai Comizi od
arringo la potestà essenzialmente deliberativa o statuiva”.
Ellero produsse anche una bozza di legge a
sostegno delle sue teorie in cui era previsto che:
·
le leggi e i trattati per entrare in vigore dovevano
avere il consenso dell’arengo (sì o no senza emendamenti),
·
l’assemblea doveva essere costituita da tutti i
maggiorenni,
·
sarebbe stata convocata ordinariamente ogni sei mesi o
straordinariamente quando si voleva, con un preavviso di almeno nove
giorni e dopo la pubblicazione delle leggi da esaminare,
·
poteva stare in riunione per un massimo di sei ore
diurne consecutive, e in seguito essere aggiornata ad altra data,
·
era presieduta dai Reggenti,
·
potevano parlare a favore o contro le proposte in
discussione non più di tre oratori pro e tre contro, massimo per un
quarto d’ora ciascuno,
·
i membri votavano per palle bianche o nere,
·
alla fine il commissario della legge valutava e
rendeva pubblico il risultato, che così diventava ufficialmente
legge.
In sintesi Ellero consigliava di fare come
riforma, che lui paradossalmente reputava cauta, il ripristino
dell’arengo come assemblea a cui far gestire praticamente tutto il
potere su San Marino. Che tale assemblea fosse gigantesca e
probabilmente ingestibile, perchè costituita non solo dai
capifamiglia, che comunque già da soli erano centinaia e centinaia,
ma addirittura anche dai maggiorenni, per lui non era evidentemente
un problema.
I governanti sammarinesi, senza dubbio
allarmati da una ipotesi tanto sconvolgente, proprio per essere
prudenti al massimo, com’erano per natura, ma anche per il timore di
dar vita a chissà quali sconquassi, sottoposero il parere Ellero ad
altri insigni giuristi:
-
Giuseppe Brini aderì acriticamente a
quanto detto da Ellero e allo schema di legge. Disse in più che
i sammarinesi dovevano stare molto attenti “sopra tutto
dall’affrontare più che una provvisione e riforma ad una volta”,
e a non toccare assolutamente il Consiglio nei suoi poteri e
nella sua conformazione.
-
Cesare Baudana Vaccolini affermò che “Alla
repubblica, benché aristocratica ed anzi oligarchica, può
tranquillamente concedersi il referendum in tutte le materie
legislative, escluse quelle riguardanti l’attuale Costituzione
politica dello Stato, senza la quale esclusione, necessaria per
ragione di ordine pubblico, il popolo potrebbe assumere i
caratteri di Costituente sì da condurre alla rivoluzione” e
perdere la sua leggendaria libertà. Si dovevano anche escludere
secondo lui anche altri tipi di decreti e provvedimenti
amministrativi. Poi occorreva una commissione di 10 cittadini
scelti per competenze e cultura per ammettere il referendum “con
particolare raccomandazione di provocare il plebiscito con
parsimonia”. La domanda di referendum doveva essere presentata
da un minimo di 12 cittadini e le sue deliberazioni avrebbero
avuto valore solo con i 2/3 dei votanti.
-
Diego Tafani non osteggiò il parere, ma
volle sottolineare che: “Tre sono, a parer mio, le
ragioni di vita della Repubblica di S. Marino: il suo minuscolo
territorio; la sua venerabilità per una esistenza millenaria; la
forma oligarchica e patriarcale del suo Governo, non atta a
generare o fomentare divisioni interne, passioni e ire di
parte”. Concluse il suo pensiero col motto che si è già
riportato: Aut sit uti est, aut non sit.
-
Giacomo Reggiani fu l’unica voce veramente
contraria al parere Ellero. Disse: “La costituzione sammarinese
è del tutto democratica, in quanto che niuna classe di cittadini
resta esclusa dalla eleggibilità ». Il Consiglio era numeroso,
dunque altamente rappresentativo, inoltre non era prudente
restituire al popolo radunato in arengo troppi poteri. Bastava
mantenere in vita l’arengo semestrale con le sue funzioni di
sempre. Concluse: “Faccio voti che lo Stato non si metta per una
via già sperimentata scabrosa e piena di pericoli, e che
continui per il sentiero tanto saggiamente tracciato dai
maggiori, in cui sta forse la ragione della sua meravigliosa
esistenza ultramillenaria”.
-
Nino Tamassia accettò senza appunti, anzi
con grandi complimenti, il parere e lo schema di legge Ellero;
si raccomandò solo di rendere obbligatoria la partecipazione
all’arengo prevedendo una multa per gli assenti.
-
Gaspare Finali si dichiarò d’accordo con
Ellero sottolineando che era saggio fare qualche riforma.
Aggiunse che “conservare, innovando a proposito, e non servire
principii, senza tener conto della tradizione e del fatto
esistente, parmi sia buon concetto politico”.
-
Torquato Giannini, commissario della legge
sammarinese, si limitò a dire che l’arengo era la naturale
assemblea referendaria del paese, anche se il referendum a suo
parere era un istituto molto discusso e controverso che
presupponeva inoltre una maggioranza di cittadini letterati,
condizione che a San Marino non c’era (in effetti all’epoca
circa il 70% della popolazione era analfabeta).
Questi pareri ovviamente entusiasmarono i tre
consiglieri che avevano avanzato la petizione, perchè ottenevano
dalle parole dei consulenti molto più di quanto potevano sperare;
spaventarono però moltissimo i conservatori, ben rappresentati da
Federico Gozi, ostile a qualsiasi mutamento costituzionale, e da
Domenico Fattori, che il 5 ottobre 1902 disse, durante una seduta
del Consiglio, che un ritorno all’arengo avrebbe provocato gli
stessi problemi per cui era stato accantonato secoli prima:
“In un governo popolare è molto facile il
sorgere ed il cozzare dei partiti aspiranti alla prevalenza, e
quindi molto facile la discordia, che è madre di danni e di mali
incalcolabili in ogni Stato, e che nel nostro condurrebbe a certa
ruina” e alla perdita della perpetua libertà.
“Procuriamo di non meritare le maledizioni dei
nostri figliuoli, per non aver saputo custodire e conservare il
prezioso deposito di libertà, che ci venne affidato dai nostri
maggiori”.
Nonostante i timori dei conservatori, ci sono
giunte anche alcune lettere private inviate ad Onofrio Fattori, uno
degli ottimati dell’epoca, da alcuni dei consulenti interpellati,
lettere in cui la raccomandazione di concedere comunque qualche
riforma era pressante:
“Grande avvedutezza (a certi segni del tempo)
saper prendere un’animosa risoluzione, quando sarebbe un atto
meditato e spontaneo, piuttosto che subire l’imposizione delle
circostanze, quando diverrebbe un atto precipitoso e forzato”,
scrisse Ellero a Fattori il 26 giugno 1902.
In un’altra sua corrispondenza del 30 luglio,
in cui si dimostrava particolarmente risentito per le critiche mosse
al suo parere da Pietro Franciosi e altri riformisti sammarinesi,
disse:
“Dal suddetto opuscolo e da altre
pubblicazioni congeneri apprendo che lo screzio costì è forte ed
avvelenato (sia pure che acceso e ostentato da pochi scontenti) e
che si discute oggi non soltanto il governo, ma la stessa forma
politica nella maniera più irriverente e scortese (…). Se ciò avesse
a continuare o ad aggravarsi, la discordia entro e la disistima
fuori non tarderebbero a spuntare e sovrasterebbe senz’altro il
pericolo (badino bene, io veggo le cose da lungi) di un intervento
provocato o meno. Devono adunque gli uni ritirarsi subito dai mali
passi, ma anche gli altri emendare pur subito quanto vi fosse di
poco corretto nell’amministrazione pubblica; e se anche cessasse
l’attuale fermento, fare a tempo buon viso ad una democrazia
temperata, per non essere poi travolti (come il resto d’Italia) da
una demagogia torbida e grossolana, quale l’odierno socialismo”.
Lo stesso concetto venne ulteriormente
ribadito in un’altra lettera del 15 settembre:
“Una cosa, di cui io temo e su cui richiamo la
Sua maggiore attenzione ora e poi, si è, che la classe dirigente
della Repubblica, sedandosi l’odierno movimento, si cullasse nella
funesta illusione di non doverne più far nulla. No: attui pure la
democratica riforma, secondo che le par meglio; ma in qualche modo
l’attui, perché la questione ora impegnata è di quelle, che, se non
si risolvono a tempo e per bene, sopraffanno e travolgono (…). E non
tema essa la vita fervida e rifluente nel popolo, giacché le stesse
plebi sono (contro il generale errore) di natura loro fin troppo
conservativa (…). Basta saper fare, e anzi tutto aver fiducia in
quelle e non discostarsene e non ripudiarle e non lasciarle
inviperire e dementare da’ soliti verbivendoli: mentre del resto,
s’essa non è più un grado di assumere il patronato, molto meno sarà
in grado di sostenere il suo monopolio”.
Anche Nino Tamassia tenne una corrispondenza
privata con Fattori. La prima lettera che può essere interessante
per il discorso che si sta svolgendo è del 12 settembre, sempre del
1902, con cui Tamassia precisava che i poteri dell’arengo dovessero
essere ben regolamentati affinché non superassero “quel giusto
limite, al di là del quale la baraonda democratica incomincia”. “Io
sono liberale sì, ma anche conservatore in regno ed in repubblica.
Nel caso di maggiori aggravi fiscali, di riforme civili (per
es. matrimonio civile, divorzio, ricerca della paternità), l’Arringo
può dare il suo voto. E così dicasi nel caso di riforme
amministrative; ma mi guarderei bene di proporre che le riforme
costituzionali siano affidate alla piazza! San Marino resiste e
resisterà così com’è, se no avrà la sorte di tanti altri Stati rosi
dalla mania oclocratica. Su ciò è bene essere espliciti (…). La
Reggenza nella sua saviezza deve pensare all’avvenire della
Repubblica. Pensare, dico, che certe forme reggono come sono,
alterate si dissolvono! Che se il partito conservatore per ora
credesse (e sarebbe il meglio) di studiare più pacatamente la cosa,
prima di fare un passo o un salto nel buio, io ne sarei lieto”.
In un’altra lettera del 18 settembre Tamassia
disse che comunque l’arengo sarebbe stato utile a San Marino, pur
con poteri limitati, come “sfiatatore a certe velleità che salgono
anche sulle vostre rupi”.
“La cosa principale è ora questa, rendere
intangibile la costituzione, anche aggiungendo l’arringo
limitato (…). Che se davvero tutto il nostro buon popolo lascia
sgolare a loro posta quei tre o quattro vociferatori di
pseudo-libertà, il Governo ha la miglior prova che la riforma è così
urgente (…) e S. Marino tirerà avanti da sé senza intoppi. Grande
difficoltà è questa, caro amico, di difendere la libertà
dai…liberali, a S. Marino e nel resto della patria”.
Non solo tra i conservatori vi erano voci
contrarie al referendum, ma anche tra i riformisti. Pietro
Franciosi, una delle principali menti del movimento riformatore,
disse che, per quanto apprezzasse l’intento nobile che sottostava
alla riforma, la vedeva impossibile “in un regime chiuso, che non
disponeva di mandanti e di mandatari”; “prima di mettere in atto sì
potente Istituto esser d’uopo ricostituire fra noi una forma di
Governo rappresentativo con definito mandato pei governanti da parte
dei governati, perché il Referendum esige una via d’uscita in caso
di ripetute rejezioni, e non può affatto applicarsi ad un Governo
che non conosce la sovranità popolare”.
Prima si doveva ottenere il suffragio
universale, poi si poteva pensare ad istituire il referendum: questa
in sintesi l’opinione di parecchi riformisti, soprattutto di indole
socialista, che già da anni stavano spingendo per rendere elettivo
il Consiglio tramite periodiche votazioni, prima riforma che si
agognava e pretendeva.
Dopo aver raccolto tutti i pareri, la
questione tornò in Consiglio per una decisione ufficiale: nella
seduta dell’otto novembre 1902 il parlamento sammarinese per 29 voti
contrari e solo 5 favorevoli respinse la petizione a favore del
referendum, e con essa qualunque velleità riformista espressa dai
sammarinesi e dai giuristi consultati. Il motivo fu che San Marino
non aveva bisogno di istituire il referendum perché disponeva già
dell’arengo che poteva essere utilizzato con tale veste.
Il responso del Consiglio provocò grande
delusione tra i riformisti, ma nello stesso tempo inculcò nei loro
animi una rabbia nuova e più convinta contro i governanti, visti
come uomini congelati in logiche obsolete, più interessati al
mantenimento dei loro privilegi che non all’evoluzione politica e
sociale del paese. Nei primi mesi del 1903 questa nuova rabbia
indusse i riformisti delle diverse tendenze ad incontrarsi per
trovare una strategia comune con cui muoversi. Nacque così
l’Associazione Democratica Sammarinese che il 15 marzo divulgò un
suo fin troppo corposo programma in cui erano previste numerose
riforme, ovvero:
-
Sovranità popolare. Restaurazione
dell’arengo. Applicazione del referendum. Elezione periodiche
dei consiglieri.
-
Democratizzazione dello Stato.
Soppressione dei ceti. Separazione dello Stato dalla Chiesa.
-
Abolizione della vendita delle
onorificenze.
-
Riordinamento dell’amministrazione dello
Stato e amministrazioni affini. Istituzione di pubblici
controlli. Ufficio tecnico. Organico e cassa pensioni per gli
impiegati.
-
Consolidamento del bilancio dello Stato.
Economie. Imposta unica e progressiva. Conversione in favore
dello Stato dei beni degli Enti morali ecclesiastici. Istruzione
obbligatoria fino alla 3a elementare. Istituzione di
scuole popolari, di patronati e refezioni scolastiche.
-
Concessione dei lavori pubblici ad
associazioni cooperative operaie.
-
Riforma della legislazione civile e penale
in quelle parti che più non si adattano alle necessità
giuridiche del paese e riordinamento dell’amministrazione della
giustizia.
-
Trasformazione della pubblica beneficenza,
rendendola più rispondente alla solidarietà e dignità umana.
Istituzione di asili per orfani e per fanciulli abbandonati.
-
Sviluppo della pubblica igiene.
Pur nell’ottica di una conservazione del
passato, dunque, per non sconvolgere tutto il sistema istituzionale
sammarinese e impaurire troppo la gente,
l’Associazione Democratica al punto 1 del suo programma aveva
collocato le riforme che per lei erano minime ed indispensabili per
fornire al paese una fisionomia istituzionale più consona ai tempi.
Il 1° aprile per divulgare le sue idee
l’Associazione pubblicò il primo numero de “Il Titano”, un periodico
che sarà molto importante come veicolo di comunicazione con i
sammarinesi. Il 5 dello stesso mese l’Associazione inoltrò una
petizione al Consiglio affinché si convocasse un arengo per mettere
mano alla questione finanziaria del paese, ovvero al problema dei
nuovi tributi che si volevano imporre con la riforma fiscale in
cantiere, e alla questione politica.
L’arengo che veniva richiesto era
un’assemblea deliberante dove esaminare le questioni all’ordine del
giorno non attraverso un semplice sì o no, cioè come un referendum,
ma con la sua logica antica di assemblea somma del paese in cui
discutere i problemi in maniera dialettica. “Si restituisca dunque
al popolo la sua antica podestà sovrana e sia dai Signori Capitani
Reggenti convocato l’Arringo Generale, perché ivi i capi di famiglia
provvedano, come stimeranno più conveniente alle difficoltà presenti
e ad un assetto migliore della cosa pubblica”.
L’istanza fu discussa e respinta con la
motivazione che solo all’arengo spettasse la facoltà di accantonare
il Consiglio e di sostituirsi ad esso. Ovviamente se l’arengo non
veniva convocato, era un pericolo che non si sarebbe mai corso.
Negli anni successivi accaddero altri
fatti, scandali e polemiche che fecero aumentare il malcontento
verso il governo in carica, e l’adesione popolare alla causa
riformista. Agli inizi del 1905 Pietro Franciosi puntualizzò la
posizione riformista all’interno di un suo saggio
in cui sottolineava la necessità da parte riformista di
impegnarsi “con la speranza di ridar vita, in un giorno non lontano,
ad un popolo che si formò con la libertà e che poscia rimase
indietro nel volgere dei secoli. Oltre la nostra costituzione
comunale ci stimola a ripristinare e definitivamente conseguire una
forma di governo elettivo il trionfo dei diritti dell’uomo, quale
conquista dei tempi moderni, ed il presente moto proletario che può
effettuare ogni nuova organizzazione solo a mezzo della sovranità
vera imprescrivibile e inalienabile di tutti i cittadini, e non
d’una data classe né d’un limitato numero di essi”.
L’Europa stava evolvendosi, ma a San Marino le
cose erano immobilizzate perché i più erano legati ancora a schemi
mentali vecchi. I riformisti d’altra parte non avevano idee chiare
né unità di intenti. “Rimarrà forza a sì minuscolo Stato di
progredire malgrado l’uno ostacolo o di non correre a precipizio per
desiderio del nuovo?” Da qui il bisogno di un arengo. “E’ dovere
dello storico, di qualunque valore esso sia, rilevare i difetti d’un
vecchio organismo politico, e se può, proporre il modo per mitigarli
e correggerli”. C’era stata fin lì troppa apologia storica: “Il
concetto esagerato della nostra avita libertà ci ha resi timidi e
cauti all’eccesso, togliendoci fuori da molti luoghi d’azione, nei
quali il governo chiuso ha accampato i suoi diritti”.
Il programma da perseguire era:
1.
rispetto geloso alle libertà costituzionali esistenti;
2.
allargamento della vita politica nel popolo perché finisca
d’essere l’inconscio pupillo;
3.
rimaneggiamento ed aumento prudente delle nostre imposte
fondato sulla progressione moderna e sulla limitazione delle spese;
4.
sviluppo d’educazione popolare nel più largo senso della
parola.
“Buona politica è quella soltanto che
s’inspira alle leggi d’un giusto equilibrio fra gl’interessi delle
varie classi opportunamente interpretati, quella che sinceramente
cerca e può raggiungere il bene pubblico”.
I problemi sammarinesi potevano risolversi
attraverso “l’arengo rimesso nella totale sua funzione” che avrebbe
fornito “stabilità e moto, conservazione e progresso, unità e
varietà, autorità e libertà, centralità e diffusione”, ed avrebbe
implicato “capitale e lavoro, plebe e popolo colto, città e
campagna, azione concentrica ed eccentrica, giure comune e giure
privato e via dicendo”.
L’arengo che Franciosi ipotizzava poteva
essere un’ “Assemblea nazionale” da adunarsi con le formalità del
passato. “Con l’intervento del popolo sovrano si legalizza tutto e
si effettua tutto senza paura e senza ambage. Non solo il problema
della libertà, ma quelli della finanza, dell’istruzione, dei
rapporti fra Stato e lavoro, fra Stato e chiesa, fra Stato e
famiglia richiedono l’ingresso al governo attivo di una classe
nuova, a base di eleggibilità e di responsabilità”. Bisognava
rinnovare uomini e idee: “la potenza creatrice risiede nei popoli e
non nei governi stazionarii, e perché fu sempre dal popolo che
nacquero tutti i progressi e tutte le iniziative”. Era vero che
tramite elezioni era possibile che non tutti i migliori venissero
votati, ma questo era un problema di educazione del popolo, che
poteva diventare edotto solo facendosi protagonista della sua
dimensione politica.
Non bisognava poi stupirsi di ritornare al
passato per modernizzarsi perché “il ritorno al passato, dopo un
periodo d’involuzione, non è che un fenomeno progressivo e
perfettamente fisiologico dell’evoluzione stessa; purché detto
ritorno abbia per carattere alcune modificazioni conformi alle
conquiste dell’umanità nella sua vita secolare”.
Con l’arengo poteva essere instaurato un
governo a democrazia diretta e vi si poteva applicare il referendum,
il diritto d’iniziativa (promuovere leggi) e il diritto di revisione
(riforma della costituzione) ogni volta che sarebbe stato necessario
o voluto. Il potere esecutivo sarebbe stato affidato a persone di
fiducia scelte in parte dall’arengo e in parte dal Consiglio per un
periodo determinato scindendo i due poteri fondamentali dello Stato
che erano invece uniti. “Il governo non dev’essere se non
l’amministratore secondo i voleri del popolo, ed agire quindi
conformemente a quanto il popolo stesso o i suoi rappresentanti gli
indicano”. Il Consiglio doveva rinnovarsi ogni anno o due di un
terzo dei suoi componenti. Col governo a democrazia diretta si
evitava il pericolo di creare una classe politica chiusa e
specialistica: “La maggioranza deciderebbe di tutto: dal mutamento
della costituzione alla votazione d’un lavoro pubblico,
dall’apertura di una scuola alla introduzione d’una nuova imposta,
da un provvedimento amministrativo ad una legge di polizia”.
L’arengo avrebbe dovuto adunarsi “nel modo più
semplice una volta l’anno per delegare un terzo di Consiglieri
eletti in proporzione all’aggregato civile degli Otto Centri, perché
ciascuno di essi ha diritto (non escluso il contado che dovrà
sobbarcarsi ai maggiori pesi) d’un dato numero di Consiglieri, in
misura dell’aumentata popolazione, con piena responsabilità nei
medesimi del proprio operato; e seguiti ad adunarsi una volta ogni
sei mesi per attivare gli altri diritti suesposti. Si ritorni così
alla costituzione classica in modo che il nostro regime, senza
copiar troppo dal moderno, ridiventi un ente vasto ed eccelso,
continuo e perenne, superiore agli individui e ai partiti, e si
collochi in sì cospicua e serena altezza da sembrar più divino che
umano, come ai tempi del glorioso periodo comunale. Da esso emani il
Consiglio dei LX coi poteri: legislativo ed amministrativo, ed il
Congresso di stato col potere esecutivo; e dal Consiglio dei LX
venga affidato il potere giudiziario ai tre giudici forestieri ed al
Consiglio dei XII composto da persone a modo e per bene; e siano
eletti col solito costume ogni sei mesi i due Capitani Reggenti per
l’ufficio di presidenza e per prender parte al potere esecutivo. Non
si faccia più confusione di funzioni, né unione di poteri”.
“Ho troppa fiducia nel vero e nel nuovo popolo
sammarinese perché io debba dubitare che il nostro piccolo Stato non
sia capace di perfezione in base all’antico e in armonia col
moderno”.
“Così ho sciolto ancora una volta il debito di
figlio; e se dai contemporanei non meriterò ascolto, mi sentirò
abbastanza premiato di vivere unito col pensiero alle prossime
generazioni, della cui repubblica mi son già fatto cittadino,
esultando fin da questo momento della futura felicità”.
Franciosi si curò anche
di elaborare un insieme di norme per rendere operativo l’arengo:
“Norme per la formazione di articoli
aggiuntivi ai patrii Statuti
L'Arengo, convocato secondo le antiche
costumanze, dovrebbe innanzi tutto adunarsi in seduta preparatoria
per la verifica dei poteri. Prenderanno parte alla prima seduta solo
quei cittadini, muniti di documento dell' ufficio di Stato Civile,
che potranno chiaramente dimostrare di essere capi di famiglia. Essi
poi decideranno in maggioranza se intendessero di allargare il
diritto elettorale anche agli altri cittadini maggiorenni e non
interdetti.
Saranno valide le sedute d' Arengo in 1a
Convocazione con la presenza della metà più uno degli aventi
diritto, e in 2a con la presenza di un terzo dei
medesimi. - L' Arengo eserciterà la prima sovranità della Repubblica
con la semplice facoltà elettorale a mezzo del voto e continuerà ad
esercitare i suoi diritti statutari - di petizione, d'accusa e
d’interloquire nei pubblici negozi; diritti facilmente
trasformabili nel diritto d’iniziativa, nel referendum e nel
diritto di revisione. - La maggioranza relativa dei voti sarà
quella che regolerà le elezioni fatte con schede contrassegnate da
un sigillo dello Stato e verificate da apposita Commissione di
scrutinio. In tal modo dall' Arengo emanerà tutto intero per la
prima volta il potere legislativo e l'esecutivo, e in seguito ogni
anno un terzo tanto dell'uno quanto dell'altra. Il potere
giudiziario sarà pure affidato temporaneamente, ma per elezione a
mezzo membri costituenti il potere legislativo. - I tre poteri
dovranno essere separati rigorosamente nelle persone e nelle
funzioni. ‑ Il Consiglio dei LX formerà il potere legislativo
ed
amministrativo ad un tempo. Esso sarà il
Parlamento e il supremo organo finanziario della Repubblica. -
Rinnovato per un terzo all' anno dall’Arengo, i suoi membri dovranno
avere 25 anni compiuti e, potranno essere rieletti quando decadono
dalla carica. - Le sedute Consigliari saranno valide con la metà più
uno dei presenti e saranno pubbliche. - Per l' elezione dei LX
Consiglieri la Repubblica sarà divisa in otto circoscrizioni
territoriali (quante sono le attuali Parrocchie), ciascuna delle
quali ne eleggerà un dato numero in proporzione alla propria
popolazione. Saranno esclusi a far parte del Consiglio dei LX
a) Gli ecclesiastici e i ministri dei culti
che hanno giurisdizione o cura d' anime;
b) Coloro che coprono i primi uffici
amministrativi della Repubblica;
c) Coloro che hanno liti o vertenze coll’ente
governo;
d) Gli assuntori dei servizi pubblici.
Al Consiglio dei LX spetterà la nomina
semestrale dei due Reggenti col divieto triennale per una successiva
elezione; il diritto di grazia; il dovere di discutere, approvando o
respingendo, le varie petizioni d' interesse pubblico e privato che
gli venissero presentate da qualsiasi cittadino; la formazione dei
Bilanci ; l'elezione, fuori del proprio seno, d' una Commissione
detta del Bilancio per l'esecuzione dei conti preventivi;
l'esecuzione dei rapporti ufficiali e dei trattati cogli
Stati esteri; l'obbligo di far rispettare la costituzione e di far
mantenere l'ordine pubblico; l'alta sorveglianza sulle opere
idrauliche, sull' arginatura delle acque, sulla manutenzione delle
strade e dei boschi, sull' esercizio delle poste, dei telegrafi e
telefoni, della caccia, delle scuole, della sanità pubblica e
igiene, delle professioni liberali, del commercio, dell' industria e
degli Istituti di credito; la legislazione dei lavoro; il diritto di
batter moneta e di emettere valori di banca, di adottare pesi e
misure, di far fabbricare polveri piriche, di espellere dal
territorio i forastieri pericolosi per la pace pubblica.
- Esso Consiglio poi è in obbligo, in omaggio
ai diritti singolari e collettivi di ciascuno o di vari dei suoi
membri, di dare sfogo o di far svolgere interrogazioni,
interpellanze ed inchieste per sorvegliare sempre più le pubbliche
amministrazioni e le funzioni dello Stato, e per vigilare sopratutto
sul potere esecutivo. Col diritto d' interrogazione tenderà
ad ottenere da uno dei Reggenti notizie che chiariscano qualche
dubbio o giustifichi qualche azione del potere esecutivo; col
diritto d'interpellanza sottoporrà a discussione l'operato
della Reggenza e dell'intero Congresso di Stato o potere esecutivo,
e provocherà un ordine del giorno che approvi o disapprovi, il
medesimo operato ; col diritto d' inchiesta si metterà in
condizioni d' assumere direttamente, a mezzo di speciale Commissione
di sua piena fiducia, quelle informazioni che riterrà opportune di
ricevere per determinato obbietto; col variare del quale varieranno
le maniere d' inchieste che potranno trasformarsi anche in
giudiziarie. - La Reggenza e l'intero potere esecutivo non potranno
mai opporsi o non accettare tali funzioni ispettive, e neppure
dimettersi in caso di risultati a loro sfavorevoli. Solo il
Consiglio dei LX potrà dichiarare dimesso chiunque dei
rappresentanti del potere esecutivo, che per ragioni di pubblica, e
privata moralità lo meritasse, e si riserberà sempre il diritto del
Sindacato a potere scaduto secondo le norme dello Statuto.
Il potere esecutivo sarà esercitato dal
Congresso di Stato, composto di Cinque Membri di nomina dell’Arengo.
Essi non potranno far parte del Consiglio dei LX, ma godranno delle
medesime prerogative dei componenti detto Consiglio. Faranno parte
del Congresso di Stato i due Reggenti con quelle qualifiche con cui
fanno parte del Consiglio dei LX. I membri del
Congresso non possono occupare nessun ufficio od impiego di
ordine amministrativo tanto nel Governo quanto negli Istituti
direttamente subalterni, né essere assuntori di appalti di lavori e
di servizi pubblici.
Il potere giudiziario sarà affidato per
un tempo determinato dal Consiglio dei LX (senza che dal medesimo
n’abbia a subire influenza) ad un Giudice di Pace o Conciliatore
paesano, ad un Commissario della Legge o Giudice istruttore
forastiero dimorante, in Repubblica, ad un Giudice di 1a
istanza e ad Giudice d'appello forestieri e dimoranti anche in
Italia, e infine al Consiglio dei XII, per la 3a
istanza, o Cassazione, composto di cittadini probi e non facenti
parte del Consiglio dei LX né del Congresso di Stato. Detti Giudici
o singoli o collettivi dovranno essere totalmente indipendenti da
qualsiasi altra sovranità.
Altri principii Informatori per le nuove
riforme Costituzionali saranno: libertà di stampa, di commercio e
d'industria; inviolabilità della libertà di credenza e di coscienza;
libertà di riunione e d’associazione; divieto d'arresto arbitrario
per debiti o per altro, e di sottrazione ai giudici naturali;
istituzione dei giurì per le controversie politiche; acquisto della
cittadinanza attiva a 20 anni per tutti i non interdetti per
condanne di reato comune; conferimento di cittadinanza ai forastieri
di buona condotta aventi possessi in Repubblica o quivi dimoranti da
un decennio; diritto d' iniziativa con istanza firmata da tre
cittadini; diritto di revisione della Costituzione su dimanda
di 200 cittadini attivi; referendum popolare su qualunque
legge di natura non urgente quando sia domandato da 100 cittadini
attivi: elezione periodica per parte del Consiglio dei LX dei
pubblici ufficiali ed impiegati, in modo da evitare ogni casta
burocratica, pericolo immanente in uno Stato repubblicano”.
Come si può constatare, le idee sull’arengo
avevano assunto una dimensione ben precisa: esso era prevalentemente
considerato come corpo elettorale della Repubblica, preposto a
rinnovare per intero il Consiglio la prima volta che si sarebbe
radunato, poi per un terzo ogni anno successivo. Una sua funzione
importante, secondo questa ipotesi, era quella della nomina dei
cinque membri del Congresso di Stato, che doveva assumere la
funzione di organo detentore del potere esecutivo. Altre facoltà
dell’arengo erano il diritto d’iniziativa, che poteva essere
promosso da istanza di tre soli cittadini, di referendum su
qualunque legge, che doveva essere richiesto da un minimo di 100
cittadini, e di revisione della costituzione, che doveva essere
domandata da un minimo di 200 cittadini.
Anche “Il Titano” volle dire la sua
sull’arengo, in quanto non riteneva che esso dovesse essere
ripristinato secondo le idee dell’Ellero, ma secondo quelle di
Franciosi: “Certo è che se si dovesse richiamare in vita l’Arringo
per imporgli una funzione legislativa, vale a dire radunare per
tutte le bisogne dello Stato i capi famiglia all’aperto (…) noi
cadremmo in un errore, e rinnoveremmo su larga scala gli
inconvenienti che furono cagione della caduta dell’Arringo. La vita
patriarcale dei nostri antichi, la semplicità delle funzioni
governative, amministrative e statali potevano anche permettere il
retto e regolare funzionamento dell’Arringo. Ma oggi che la
popolazione è cresciuta e le funzioni pubbliche si sono variamente
accresciute, un’assemblea di parecchie centinaia di cittadini non
farebbe buona prova se si radunerebbe a stento sol quando fosse
mossa da una necessità collettiva d’interesse eccezionale”. Invece
l’arengo, composto da tutti i maggiorenni non interdetti e non solo
dai capifamiglia, doveva essere restaurato solo temporaneamente, con
“la funzione elettorale e i diritti di revisione, d’iniziativa, di
voto da esercitarsi a mezzo del referendum; e che dopo stabilite le
basi costituzionali del governo rappresentativo, rimetta a questo le
funzioni legislative”.
Il dibattito sull’arengo divenne più fitto
alla fine del 1905, perché nel mese di settembre sette consiglieri
di indole riformista si dimisero dal Consiglio motivando il loro
eclatante gesto col dire che all’interno di un parlamento simile
nessuna riforma in senso democratico avrebbe potuto avere successo.
Il 1° ottobre i consiglieri dimissionari s’incontrarono con altri
rappresentanti del riformismo sammarinese e fondarono il “Comitato
provvisorio pro – Arringo”, poi convocarono un’assemblea pubblica
per il 29 dello stesso mese in cui esaminare insieme ai cittadini il
da farsi. L’assemblea ebbe notevole successo e grande partecipazione
di pubblico. Terminò con un ordine del giorno in cui si creavano due
commissioni (una per studiare le modalità di convocazione
dell’arengo ed una di propaganda a suo favore) e con cui s’invitava
il Consiglio a “cedere il proprio mandato convocando l’Arringo”.
L’idea emersa durante il dibattito al suo interno fu quella di
utilizzare l’arengo come corpo elettorale, ma anche con “la facoltà
di controllare gli atti di generale interesse”.
Il 15 novembre il Comitato promotore
dell’arengo si riunì “per tracciare una via netta, chiara, precisa
per essere seguita sia dagli adetti (sic) alla propaganda, sia da
quelli adetti allo studio, per evitare così possibili confusioni e
contradizioni (sic) dannosissime, uno essendo lo scopo una dovendo
essere l’azione”. L’ordine del giorno che ne emerse diceva: “Il
comitato pro-Arringo, ritenuto necessario di restituire al popolo
l’esercizio diretto della propria sovranità e opportuno di
riaccostare la costituzione vigente alla fonte democratica donde è
sorta, ritenuto altresì che il vero sovrano della Repubblica è
l’Arringo dei padri-famiglia, e considerato la necessità di
estendere i diritti a questi spettanti, anche ai Sammarinesi
maggiorenni, giudica urgente la convocazione dell’Arringo per
statuire:
-
La nomina dei membri del Consiglio
Generale;
-
La temporaneità del mandato di questi;
-
La partecipazione all’Arringo di tutti i
Sammarinesi maggiorenni e non interdetti.
Il Comitato inoltre ritiene che
costituito il nuovo Consiglio Generale pro-tempore debbono
presentemente rimanere al Consiglio ed all’Arringo le attribuzioni
consuetudinarie e statutarie, le quali a suo tempo, dopo più maturo
esame, con prudenza e circospezione saranno ravvicinate e conformate
al movimento incessante della civiltà ed ai bisogni del paese.
Per la propaganda, il comitato invita
quanti ne sono incaricati, di adoprarsi anche per ottenere l’assenso
dei padri-famiglia ad aggregarsi in arringo tutti i Sammarinesi
maggiorenni: per lo studio opina, doversi i commissari nominati,
attenere alle linee generali approvate in questo ordine del giorno”.
Il 16 novembre il Consiglio decise di
concedere l’arengo convocandolo in tempi brevi, ma non specificati,
“secondo le norme statutarie”. La convocazione era vaga e frutto
delle forti pressioni a cui era sottoposto il parlamento sammarinese
in quei mesi, ma lasciava aperte tutte le ipotesi sul modo di tenere
l’assemblea dei capifamiglia. Prevaleva tra i consiglieri
conservatori la logica di dover mutare il minimo indispensabile,
sempre per non far perire la Repubblica, e di creare un’assemblea
non allargata ai maggiorenni, perché lo statuto non lo prevedeva, e
non lasciata nella piena libertà di esprimere tutto ciò che avrebbe
potuto e voluto.
Il consigliere Michetti, per fare un
esempio, disse che San Marino doveva mantenersi fedele alla sua
tradizione politica, altrimenti avrebbe perso “col suo carattere
storico, anche il diritto di essere”. “L’esercizio della sovranità
popolare abbia un ambito limitato; che in altre parole, il
consiglierato funzioni a vita e che il popolo possa solo nominare i
consiglieri quando qualche posto o per morte o per altro venga a
rendersi vacante”.
Domenico Gozi sostenne che l’arengo
doveva essere convocato solo dopo averlo ben regolamentato,
ovviamente per evitare che le cose potessero sfuggire di mano a chi
lo gestiva, e dopo aver espresso un voto di fiducia sul Consiglio,
“mancando il quale lo stesso Arringo provvederà secondo il proprio
desiderio all’elezione dei consiglieri”.
I naturali timori dei politici sammarinesi
continuavano poi ad essere fortemente alimentati anche dai
consulenti di cui San Marino si avvaleva. Il 19 novembre Onofrio
Fattori, in compagnia del presidente della locale commissione di
bilancio Marino Borbiconi, andò a Roma per reperire un prestito di
200.000 lire con cui chiudere il buco di bilancio e tentar di sedare
le velenose proteste che facevano leva proprio sul disavanzo che lo
Stato sammarinese in quel momento aveva, e sulle nuove tasse che si
volevano applicare per pareggiare i conti pubblici. Nella capitale i
due ambasciatori sammarinesi incontrarono vari politici italiani,
tra cui il ministro di grazia e giustizia Finocchiaro, il ministro
degli esteri Fittoni, il ministro del tesoro Carcano ed altri
ancora, che si raccomandarono di usare estrema e timorosa prudenza
nella convocazione dell’arengo, e di “andare ben cauti nel mandarlo
ad effetto, a non scherzar con fuoco”, anche se la sua convocazione
era stata un atto necessario ed intelligente.
A Roma incontrarono anche Gustavo
Babboni, giovane avvocato sammarinese, riformista moderato eletto
presidente del Comitato pro-arengo, che concordò sulla improrogabile
necessità dell’arengo, da utilizzare però con circospezione e grande
cautela. Il timore di questi signori era legato al fatto che i
riformisti più radicali, soprattutto i socialisti, volevano riforme
molto profonde dello Stato sammarinese, mentre gli altri,
conservatori e riformisti moderati, o non le volevano affatto, o
desideravano riforme molto blande ed in linea con la tradizione
costituzionale di sempre. Babboni, insieme al suo amico Moro Morri,
segretario del Comitato pro-arengo, apparteneva a quest’ultima
tendenza.
Lavorando egli a Roma in questo
periodo, l’11 novembre inviò a San Marino il progetto di legge
elettorale da lui elaborato, con le sue osservazioni da cui traspare
netto il desiderio di non sconvolgere più di tanto l’esistente:
“Ogni rinnovamento politico ed amministrativo deve avere la sua
ragion d’essere nei costumi e nelle consuetudini del Paese ove viene
introdotto: e così è specialmente per la Repubblica dove nulla
devesi tentare che non sia voluta dalla maggioranza dei cittadini”,
scrisse.
Babboni in definitiva era per rinnovare
la costituzione, ma lungo il solco della tradizione, riavvicinandola
“alla sua fonte democratica, purgandola dalle forme aristocratiche,
natural prodotto dei tempi passati”, ma niente più. “Alcuni istituti
del nostro regime politico ed amministrativo sono così addentrati
nelle abitudini dei Sammarinesi, che volerli oggi d’un tratto
sopprimere, o radicalmente trasformare, sarebbe arduo compito, non
solo, ma forse anche improvvido consiglio, perché radicali mutamenti
non sono voluti dai nostri concittadini diffidenti di ogni cosa
nuova, perché in quest’ora di dissolvimento e di ricostruzione, è
migliore partito attenersi alle forme piane e comprese dai più,
abbandonando ogni esagerazione di istituti democratici”. “Noi
dobbiamo attendere sopra tutto a ricostruire gli istituti nostri
fondamentali, non dimenticando mai, anche nell’accettare l’esempio
delle nuove legislazioni, la nostra storia ed i nostri costumi”.
Il riferimento era legato probabilmente
al fatto che i riformisti più radicali avevano ipotizzato anche di
abolire l’istituto della Reggenza per sostituirlo con un Presidente
della Repubblica.
Babboni era dell’avviso che occorresse
ripristinare l’arengo soprattutto come corpo elettorale ed
eventualmente utilizzarlo all’occorrenza anche come referendum
facoltativo a cui sottoporre le leggi contestate o comunque
bisognose di un avallo del popolo.
Sempre nello stesso mese fu divulgato
un volantino del Comitato pro-arengo in cui si esponevano i punti di
vista sull’arengo da parte dei riformisti:
“Egregio Cittadino, Vi si avverte che
la propaganda a favore dell’Arringo, secondo le disposizioni del
Comitato, deve avere solamente per iscopo di convincere i
capi-famiglia:
-
di accorrere numerosi all’Arringo quando
verranno chiamati;
-
di dichiarare, nell’Arringo, decaduto
l’attuale Consiglio dei LX;
-
di nominare i Membri del nuovo Consiglio
non a vita ma a tempo determinato;
-
di permettere che all’elezione dei
Consiglieri prendano parte anche tutti i Sammarinesi maggiorenni
non interdetti;
-
di volere pubbliche le sedute consigliari.
Si prega inoltre di assicurare i
dubbiosi che al nuovo Consiglio rimarranno quelle attribuzioni
consuetudinarie e statutarie tuttora vigenti”.
Come si può constatare direttamente, i
riformisti al momento della stesura di questo documento stavano
pensando ad un arengo ben preciso, quello cioè del passato in cui la
gente si riuniva e prendeva all’istante certe decisioni. In realtà
l’arengo che si svolgerà sarà un’altra cosa, un’assemblea con
facoltà molto più limitate e circoscritte rispetto a quelle sognate
dal Comitato pro-arengo.
Nel mese di dicembre del 1905 il
Consiglio nominò una commissione di cinque membri (Gustavo Babboni,
Luigi Tonnini, Menetto Bonelli, Giovanni Belluzzi, Marino
Borbiconi), di cui i primi tre appartenenti all’ala riformista
moderata del Comitato pro-arengo, e già impegnati nella commissione
di studio del Comitato stesso che doveva redigere il regolamento
dell’arengo.
Proprio questa commissione presentò al
pubblico il suo progetto il 31 dicembre, dopo averci lavorato per
circa un paio di mesi. In tale bozza, che era più una legge
elettorale che un regolamento per l’assemblea dei capifamiglia,
l’arengo veniva considerato il corpo elettorale della Repubblica,
composto da tutti i cittadini maggiorenni non interdetti, preposto
al rinnovo quinquennale del Consiglio. S’ipotizzava inoltre che
potesse essere utilizzato come referendum facoltativo. Seguivano
altri articoli sulla formazione delle liste elettorali, le
condizioni per essere elettori, le circoscrizioni elettorali, i
procedimenti e la verifica delle elezioni, le condizioni di
eleggibilità.
Il fatto che la commissione voluta dal
governo fosse composta in maggioranza da membri del Comitato
pro-arengo entusiasmò Franciosi che, all’interno di un suo articolo
del 30 dicembre pubblicato sul Titano, disse: “La democrazia può
essere sicura del trionfo e il suo programma (…) potrà essere
accettato in tutta la sua interezza. Noi ne godiamo di questa specie
di conciliazione perché appagherà in fine i giusti desideri della
maggioranza e perché arrecherà al paese quella pace che tanto
vagheggiamo (…). Il progetto, che verrà quanto prima alla luce, sarà
basato per certo sui costumi e sulle consuetudini del Paese in modo
che sia inteso ed approvato da più dei Cittadini (…). Poiché se la
Repubblica nostra trovò nei passati tempi di libertà e di servitù
italiana forme di adattamento, mantenne sempre carattere suo
proprio. Oggi, più che cambiare la sua costituzione, vuole
riavvicinarla alla fonte democratica, purgandola d’ogni forma
aristocratica, naturale prodotto dei tempi funesti. Ond’è che alle
nuove istituzioni deve precedere la ricerca di addentellati nei
fatti e nei costumi, in modo che nulla si operi che non sia in
armonica continuazione col nostro libero vivere. Adunque le riforme
non debbono essere introdotte per desiderio di novità, ma per
necessità morale ed economica, in modo che il regime pubblico tragga
forza dalla fiducia dei cittadini per amministrare e per ricondurre
a miglior vita la Repubblica”.
In realtà l’allegria e l’entusiasmo di
Franciosi si tramuteranno presto in rabbia e delusione quando sarà
reso noto il progetto della commissione governativa, molto più
limitativo dei poteri dell’arengo di quanto sperato dai riformisti.
La commissione governativa nominata per la
redazione del regolamento aveva “ampia facoltà d’interpellare in
proposito ad istruzione del proprio animo i nostri Consultori, e
cioè il Senatore Gaspare Finali, il Senatore Pietro Ellero, il
Senatore Vittorio Scialoja, l’On. Luigi Luzzatti ed il nostro
Giudice di 1° grado Comm.re Enrico Kambo”. La Reggenza
era preposta alla convocazione e direzione della stessa; la
commissione doveva presentare le sue risultanze entro il mese di
febbraio.
Essa si riunì per la prima volta il 7 gennaio
1906; in tale occasione, dopo che la Reggenza ebbe richiamato
l’attenzione “sull’altezza e gravità del mandato a Lei affidato,
dalla savia e prudente risoluzione del quale dovrà forse dipendere
l’incolumità della patria nostra da sedici secoli indipendente e
libera”, provvide a nominare un suo segretario nella figura del
giovane avvocato Gustavo Babboni e a sbrigare qualche altra faccenda
di natura organizzativa, poi tornò a riunirsi il 10 dello stesso
mese.
In questa seconda seduta la discussione
divenne più tecnica: prese infatti subito la parola Babboni per dire
che la Repubblica era giunta ad un bivio e che era necessario
attuare precise riforme di natura istituzionale per mettere il paese
al passo coi tempi, pur nella salvaguardia dei costumi e delle
consuetudini sammarinesi. Per questo il Consiglio doveva essere “il
prodotto della volontà del popolo, effetto ed espressione suprema di
diritto”. Proseguendo, egli venne a sottolineare che l’Arengo aveva
“la suprema potestà ed imperio” su San Marino, anche se era ancora
tutto da definire il modo in cui in futuro avrebbe esplicato il suo
potere; e che il Consiglio doveva emanare dall’Arengo dopo che si
erano stabilite le modalità e i tempi dell’elezione, e dopo che
erano state fatte la legge elettorale ed un regolamento per lo
svolgimento dell’Arengo stesso. Infine Babboni sollecitava che
l’Arengo non venisse più accantonato come era successo per tanti
secoli, ma che rimanesse l’organo supremo della Repubblica con le
funzioni di referendum facoltativo “forma intermedia fra il Governo
rappresentativo ed il Governo popolare diretto”; “e questo istituto
propongo convinto che nella Repubblica siano due poteri ineguali, di
cui l’uno non possa compiere ogni atto valido senza l’autorizzazione
tacita ed espressa dell’altro, perché penso che alle deliberazioni
Statutive del Consiglio debba in qualche modo seguire la ratifica
dell’Arengo Generale”.
Dopo queste precisazioni del giovane giurista,
la commissione intraprese una lunga ed articolata discussione in
merito ad altri aspetti. In particolare si perse molto tempo (tutta
la seduta dell’11 gennaio e parte di quella convocata tre giorni
dopo) sul problema del rinnovo del Consiglio da parte dell’arengo.
Infatti la questione era spinosa: alcuni commissari, ovviamente
quelli di indole più riformista, erano dell’avviso che, una volta
convocato l’arengo, il Consiglio fosse automaticamente dimissionario
e sciolto, quindi da rinnovarsi per forza di cose dall’arengo
stesso; “di fronte all’Arringo cessa il Consiglio Generale, non
potendosi avere contemporaneamente due sovrani; spetta all’Arringo
rinnovare il Consiglio, e dire come vuole rinnovarlo”, affermò
l’avvocato Tonnini.
Invece quelli meno bramosi di modificare le
secolari consuetudini istituzionali non erano dello stesso parere:
“Il Consiglio – dichiarò l’avvocato Belluzzi – ha preso una
decisione savia col deliberare la convocazione dell’Arringo, ma non
ha con ciò dichiarato la propria incapacità. Il criterio che ha
guidato il Consiglio nel convocare l’Arringo si è quello di togliere
ogni dubbio che gli attuali Consiglieri volessero mantenersi –
contrariamente alle correnti che si sono manifestate – in corpo
amministrativo e legislativo della Repubblica, e quindi per non
apparire tale nella sua saviezza e nella sua maggioranza assoluta ha
voluto far conoscere che dai legittimi mandanti aspetta il giudizio
sull’operato suo. Il Consiglio Sovrano nel fare questo atto solenne
non ha mai implicitamente fatto conoscere che non si trova in grado
di continuare nell’esercizio delle sue funzioni, anzi ha mostrato di
avere l’intima coscienza e persuasione di avere sempre bene e con
coscienza agito nell’interesse della Repubblica”.
Tutti presero parte
alla discussione schierandosi per l’un parere o per l’altro, ma alla
fine si decise di soprassedere e di rimandare l’eventuale soluzione
ad altro momento per non perdere troppo tempo, visto che ancora
c’era tanto di cui discutere. La seconda parte della seduta del 14
gennaio fu quindi dedicata ad altre decisioni soprattutto di natura
tecnica, tra cui la richiesta di abolizione dei ceti (nobile, della
Terra e del contado), che venne respinta perché si optò di rimanere
fedeli allo statuto, sui quesiti da votare (si stabilì che potessero
essere solo quelli proposti dal Consiglio), su chi potesse prendere
la parola durante l’arengo (si dispose che potessero essere solo tre
a favore e tre contro). La decisione più importante fu senz’altro
quella riservata al referendum facoltativo, su cui venne stabilito
che potesse essere richiesto “dalla terza parte almeno degli aventi
diritto distribuiti proporzionalmente per tutte le parrocchie. Ciò
verificandosi, e non adunandosi l’Arringo, la deliberazione presa o
il disegno di legge fatto, diventerà senz’altro legge esecutiva. Se
invece la deliberazione, o disegno di legge viene respinto, allora
si avrà la revoca; ma non per questo il Consiglio avrà la facoltà di
dimettersi”.
La commissione si
ritrovò un’altra volta il giorno 18 per discutere la bozza di legge
elettorale scaturita dal Comitato pro-arengo, che fu presentata da
Babboni, ed apportarvi alcune modifiche, poi si riunì di nuovo il
giorno successivo per esaminare il regolamento per la convocazione
dell’arengo presentato dal Reggente Fattori: anche questo subì
qualche lieve modifica. La seduta si chiuse con la deliberazione di
inviare a Roma Babboni, Belluzzi e Tonnini per interpellare i
senatori Finali ed Ellero su tutta la faccenda e su quanto la
commissione aveva ipotizzato e prodotto.
L’8 febbraio i tre
avvocati sammarinesi s’incontrarono a Roma con i due senatori. Prese
subito la parola Ellero che si dimostrò apertamente contrario al
Consiglio nominato tramite suffragio: “E’ veramente necessario
l’apportare queste riforme? Si deve fare il Consiglio Elettivo? Dico
che non posso ripromettermi alcun bene dal Consiglio Elettivo.
Premetto che un Consiglio elettivo è un naturale corollario della
Sovranità popolare, ma qualunque principio astratto se non ha le
condizioni per essere tradotto in vita, è inutile accarezzare.
Vediamo: il Consiglio Elettivo di S. Marino non sarebbe che un
Consiglio Comunale d’Italia. Ora di questi Consigli Comunali
Italiani nessuno va bene, perché questo è subordinato ad una
famiglia, quello ad un partito, l’altro ad una consorteria. Questi
Consigli Comunali Italiani alle volte si sciolgono e subentrano
allora i Commissari Regi. In tali congiunture che avverrebbe a S.
Marino? (…) A S. Marino non vi sono superiori al Consiglio, non vi
può essere ricorso ad altre autorità, manca insomma a S. Marino
l’assieme della tutela dei Comuni d’Italia”.
In sintesi Ellero venne
a sostenere che il sistema monocamerale che caratterizzava la
Repubblica era un pericolo per la stabilità politica della stessa,
soprattutto se il Consiglio fosse divenuto elettivo. Inoltre egli
aggiunse che non era del tutto convinto che la democrazia pura a
base di elezioni periodiche fosse ancora il miglior sistema
politico, così come sottolineò che, a suo giudizio, la nobiltà non
avesse terminata la sua funzione storica, e che potesse trovare
punti d’incontro e conciliazione con la democrazia. Infatti molti
Stati ancora, come Inghilterra, Austria, Giappone, avevano ai loro
vertici organi politici composti da aristocratici ed
istituzionalmente funzionavano bene. Ellero, quindi, consigliava di
lasciare il Consiglio nominato per cooptazione, e di conservargli il
potere legislativo, ma di ripristinare l’arengo con funzioni
esecutive, così come già aveva suggerito col suo parere del 1902. In
altre parole il Consiglio doveva preparare le leggi, che in seguito
dovevano essere approvate dall’arengo con un semplice sì o no.
A questo punto
intervenne brevemente Gaspare Finali per sostenere che “l’Arringo
non dev’essere un potere costituente, ma un potere organico
permanente”.
Dopo simili
discussioni, si giunse a parlare dell’abolizione dei ceti. Ellero si
dimostrò contrario a simile novità sostenendo che i cittadini più
meritevoli della Repubblica dovessero continuare a far parte di un
ceto elitario, anche se gli statuti secenteschi non prevedevano
alcuna distinzione tra cittadini, ma la consuetudine avesse
gradualmente introdotto simile novità. “Del resto i Sammarinesi
devono essere convinti che la ragione principale che sostiene S.
Marino non è solo la pochezza del territorio ecc. ma l’esser ella
una reliquia storica”, e che la particolare forma costituzionale che
la caratterizzava era la vera “causa di vita” dello Stato
sammarinese.
Anche Finali parlò in
seguito per sentenziare che “Sammarino col suffragio universale che
ha veduto richiesto con iscrizioni sui muri, sarebbe morto”.
Ellero poi aggiunse:
“Bisogna persuadere i Conservatori che contro la corrente
democratica non si resiste, non bisogna attraversarla, ma dirigerla
e saperla dirigere. Che felicità sarebbe a S. Marino se codesto
paese potesse dare all’Italia l’esempio di un governo diretto di
popolo che solo però dovrebbe stare ad approvare le leggi”.
Entrambi i giuristi
conclusero la loro chiacchierata col dire che “il Consiglio elettivo
sarebbe letale alla Repubblica perché porterebbe con sé le
minoranze, le maggioranze, i voti di fiducia, le fazioni interne che
succedono al potere ecc. Sono tutte cose gravissime anzi fatalissime”.
Ellero poi disse che il
Consiglio ormai si era fatto sfuggire la situazione di mano
provocando gravi pericoli per la sopravvivenza della Repubblica. Se
l’arengo fosse stato convocato prima sarebbe stato molto meglio:
“Chiamato l’Arringo coi soli padri di famiglia e che con due terzi
votanti e che con la metà più uno si potesse dir valido
difficilmente queste proporzioni si potranno ottenere, e i
conservatori hanno fondamento su questo non intervento. Non è
possibile che si possa continuare la vita della Repubblica con quel
vilipendio; pare ai liberali che si sia in uno stato grande, ma non
si accorgono che si scherza da loro col foco. Questi che vanno
avanti con queste andate demagogiche sono riluttanti ai sacrifici
per mantenere la Repubblica. Dai contrari si dice che sono pochi, ma
i pochi lavorano e i molti lasciano operare e quindi sono
sopraffatti”.
Con simili gravi
sentenze si chiuse l’incontro dell’8 febbraio, ma due giorni dopo
gli avvocati sammarinesi si ritrovarono ancora con i due consulenti.
Finali affermò subito che la legge elettorale faceva venire meno il
governo sammarinese: “Si fa tabula rasa del passato. S.
Marino diventa come un Comune d’Italia. Pensateci”. Ellero sostenne
lo stesso concetto dicendo che la Reggenza ormai si era impegnata a
convocare l’arengo, ma non capiva “come non si debbano lassù
persuadere che il Consiglio elettivo sarebbe micidiale”; “la
formazione dei Reggenti è frutto dell’esperienza, frutto di secoli.
Il Consiglio elettivo non seguirebbe più quella procedura: farebbe
una costituzione tutto nuova. Perché abbandonare quella
costituzione?”
Dopo tali parole, i
consulenti sammarinesi diedero alcuni consigli di natura tecnica sul
regolamento del convocando arengo e sulla legge elettorale. Gli
argomenti principali furono il diritto o meno di partecipare
all’arengo come spettatori di chi non era capo famiglia,
l’incompletezza della convocazione in base alle forme statutarie,
perché non era specificato lo scopo preciso per cui l’assemblea dei
capifamiglia doveva tornare a riunirsi, la mancata indicazione di
chi dovesse tradurre in legge i deliberati dell’arengo (Consiglio o
Reggenza), il dubbio su chi avesse il diritto di votare in eventuali
elezioni politiche. Riguardo a quest’ultimo punto Ellero era
convinto che San Marino non dovesse rischiare “una discontinuità nel
Governo”, ovvero che il Consiglio dovesse rinnovarsi solo in parte
periodicamente (suggeriva un terzo ogni due anni), e non in toto
ogni quinquennio come previsto dalla bozza di legge elettorale che
gli avevano sottoposto. Finali disse “Ispiratevi al principio di
conservazione di quello Stato, che ha il suo fondamento nella storia
e nella costituzione. Siate persuasi di fare dei sacrifici per
mettervi in condizioni per vivere, altrimenti non camminerete. Tanto
più tarderete a provvedere ai bisogni vostri finanziari e morali,
tanto più sarà difficile la soluzione. Dieci anni fa tutto sarebbe
stato più facile”.
L’Ellero in seguito
affrontò il problema dei quesiti da sottoporre all’arengo fornendo
alcuni suggerimenti, e sostenendo che occorreva giungere
all’assemblea con domande chiare. Era comunque convinto che Reggenza
e Consiglio si sarebbero potuti salvare solo se l’arengo fosse
andato deserto. Dopo, però, qualche concessione ai riformisti
sarebbe stata indispensabile. “L’errore dei riformatori è ideale.
Sono stati sedotti dal Consiglio elettivo. Quello dei conservatori è
morale, perché ci tengono al potere. Questi dovrebbero accettare la
restaurazione dell’Arringo; quelli il Consiglio come è. Il Consiglio
non sarà più sovrano, ma principe. Sovrano l’arringo”. “S. Marino ha
vissuto e vive per la sua stabilità e tradizione”.
Il 12 febbraio Ellero
inviò per iscritto il suo parere al Reggente Onofrio Fattori,
ribadendo le sue opinioni, ovvero che
1.
il Consiglio dovesse essere mantenuto “nel suo presente modo
di formazione e con tutte le sue attuali attribuzioni, fra cui
quella di compilar le leggi, ma esclusa soltanto quella di
approvarle”;
2.
l’ arengo dovesse essere ripristinato “con atto spontaneo del
Consiglio Principe, e quale organo ordinario e perenne della
costituzione” con funzione esecutiva, ovvero per “la pura e semplice
approvazione delle leggi e degli altri atti equiparabili, in
compendio e senza emendamenti”.
Tuttavia aveva visto
dai progetti presentatigli che le cose avevano preso un’altra piega
in quanto la volontà del momento da parte dei sammarinesi era quella
di convocare un arengo “straordinario ed estemporaneo” per passare
dal Consiglio nominato per cooptazione a quello elettivo. Egli si
dichiarava in disaccordo con questa impostazione per i motivi
espressi a voce ai delegati sammarinesi con cui aveva parlato,
comunque forniva ugualmente le indicazioni di natura tecnica sui due
progetti di cui si è detto, come gli era stato richiesto.
“Tolgano subito i
conservatori con austera coscienza gli abusi o gli errori, che
fossero penetrati nella pubblica amministrazione; accettino
volenterosi e senza altri indugi i nuovi oneri, che occorrono per
porre in assetto l’erario, persuadendosi, che in qualsiasi altra
specie di Stato o di Reggimento soggiacerebbero a ben maggiori
gravezze; si propongano ognora di non governare altrimenti, che in
nome o pel bene e col consenso del popolo, e non perdano più tempo a
provvederne, temendo il severo giudizio de’ posteri, se mai
lasciassero costì estinguersi un ultimo raggio di antica italica
virtù.
I novatori d’altro
canto, nel loro giusto e sacrosanto anelito di più larghe libertà,
si convincano esser d’uopo di una somma prudenza e di movere un
passo alla volta, per non porre in pericolo la incolumità dello
Stato; che la ragione precipua della sopravvivenza di San Marino a
tanta rovina è l’esser esso (piaccia o non piaccia a loro) una
reliquia storica, cui tutti gl’italiani rispettano e onorano; che la
concordia è imprescindibile condizione di salvezza; e che è un
comune interesse il custodire la fama, il decoro e il prestigio alle
proprie magistrature, poiché contro un assiduo vilipendio niuna
autorità può reggersi”.
Anche Finali inviò uno
scritto alla Reggenza, datato 11 febbraio, in cui si rimetteva a
quanto detto verbalmente nei due incontri avuti con i delegati
sammarinesi.
Altro parere fu quello
spedito da Nino Tamassia, molto articolato perché non aveva avuto
colloqui diretti con i tre avvocati di San Marino, ma anche molto
catastrofico e allarmante. Dapprima egli consigliò di consultare un
valido costituzionalista su un argomento tanto delicato, suggerendo
il nome di Gaetano Mosca, professore di diritto costituzionale a
Torino. Poi disse di “approvare incondizionatamente il progetto di
convocazione dell’Arringo”. “Davanti alla storia è necessario che i
Reggenti, dichiarate le condizioni anormali dello spirito pubblico,
con un atto solenne in cui (…) mettono bene in chiaro che essi si
rivolgono al popolo della Repubblica perché la responsabilità dei
mutamenti della costituzione, e le conseguenze di questi, cada tutta
sulla volontà popolare”, dopo aver evidenziato che il Consiglio
nominato per cooptazione aveva saputo conservare lo Stato fin lì. Se
la maggioranza dei capifamiglia fosse rimasta fedele al sistema
statutario il governo ne avrebbe tratto rafforzamento. Se invece
avesse votato per riformare il sistema costituzionale, occorreva
andarci coi piedi di piombo e presentare un progetto elettorale
molto restrittivo, con funzioni molto ridotte per l’arengo. “Il
sistema elettivo, ammesso in tutto l’organismo dello Stato, è
pur esso gravido di pericoli. La piccolezza dello Stato, la
confusione fra l’autorità amministrativa e quella costituzionalmente
“sovrana”, i conflitti fra i partiti, non affievoliti da un ambiente
largo, sono punti neri, nerissimi, che mi fanno
una grande paura. Pensate ai disordini possibili, all’impossibilità
di repressioni, e giudicate!”. “Rude sembrerò, ma davanti al
periodo di uno sfacelo, la Reggenza deve far tutto
perché nulla rimanga d’intentato per salvare lo Stato. Vero è che
nessuno si sogna di turbare dal di fuori il Titano. Ma se gravi
disordini scoppiassero, come si farebbe ad impedire un intervento
che sarebbe pur santo, diretto a far cessare lotte interne?”. “Il
punto fondamentale è disciplinare l’Arringo, ridurlo ad
organo di conservazione della Repubblica, con una modica
partecipazione al Governo, lasciando sussistere nella sua
integrità il modo di costituzione e di funzionamento del Consiglio
dei LX”, perché la Repubblica “dalle convulsioni elettorali
sarebbe ben presto finita”.
Il Consiglio doveva
quindi continuare a ritenersi “l’unico e legittimo depositario
della sovranità nazionale”, con diritto di interpellare l’arengo
su questioni che lo interessavano, ma mantenendo sempre la sua
autorità e la sua fisionomia statutaria, anche perché per molti la
necessità di radunarsi nell’arengo non era un’esigenza sentita.
“Ergo, il bando della convocazione dell’Arringo deve essere come un
dilemma che lascerà o intatta o rinforzata l’autorità del
Consiglio”. “Il Consiglio non può darsi legato mani e piedi in balia
dell’Arringo; il passaggio della Sovranità deve essere lento e
regolare; se no è come precipitare dal Titano!”.
Tamassia aveva un
grande timore che l’arengo, come gli stati generali francesi,
potesse proclamarsi assemblea costituente ed esautorare lì per lì il
Consiglio. Aveva parlato di questi suoi timori con un suo amico
specialista di diritto costituzionale ed amministrativo, il
professor Canimeo, che gli aveva detto che sarebbe stato molto
meglio convocare l’arengo su un “tema limitato”, ovvero come
referendum su questioni specifiche predefinite. “Ridotto al
Referendum l’Arringo è innocuo, se esorbita si sa dove si va!”.
“Se non si è sicuri delle decisioni dell’Arringo, non si può essere
tranquilli”. Perciò Tamassia suggeriva di sottoporre un unico
quesito all’arengo (“Vuole l’Arringo giusta le norme statutarie e le
vetuste consuetudini osservate nello Stato procedere alla
designazione dei membri del Consiglio dei LX con tutti i diritti che
l’attuale costituzione loro concede?”); in seguito occorreva
“pacatamente e onestamente coordinare le tendenze democratiche alle
pratiche esigenze della costituzione di S. Marino. L’Arringo
compiuta la sua ammissione di restaurare il Consiglio rientra
nella storia ma indubbiamente toccherà poi ai conservatori
illuminati di conservare lo stato con savi provvedimenti
liberali, che preparino il paese a modificazioni pensate e studiate
e tali però di non mettere a rischio l’esistenza dello stato
stesso”.
Dopo la lettura di
questi pareri, il Consiglio discusse nelle settimane successive
l’organizzazione dell’arengo. Ovviamente le accentuate trepidazioni
espresse dai consulenti diedero un solido basamento ai conservatori,
che erano disposti, anzi costretti ormai all’arengo e a qualche
lieve innovazione, ma non a mutamenti profondi della costituzione, o
all’alterazione della logica oligarco-paternalistica in voga da
secoli, probabilmente da sempre, a San Marino.
Questa posizione la
espresse molto bene il nobile Domenico Gozi, che in un intervento
fatto nella seduta consigliare del 26 febbraio evidenziò come tutta
la questione fosse nata da pochi individui imbevuti di dottrine fin
troppo all’avanguardia, e che invece la Repubblica doveva procedere
con estrema cautela lungo la strada delle riforme costituzionali,
perché non si era fatto uno studio serio sulla costituzione in
vigore “per vedere a quali modificazioni democratiche può prestarsi:
e delle modificazioni parziali, cervellotiche, non coordinate a
tutto l’organismo statutario, potrebbero essere pericolose e
compromettere quelle maggiori riforme che in seguito possano venire
proposte da persone competenti in materia”.
Gozi era convinto che
il Consiglio, dimenticando le offese patite e non dimostrando
risentimenti verso chi da tempo lo martellava con accuse feroci,
avesse già fatto anche troppo per andare incontro alle pretese dei
riformisti. Tuttavia, visto che la convocazione dell’arengo era
avvenuta senza specificare lo scopo per cui lo si voleva riunire,
proponeva il seguente ordine del giorno da sottoporre ai
capifamiglia:
“Il Consiglio Principe
e Sovrano volendo rendersi esattamente conto di certe aspirazioni a
riformare la vigente costituzione, manifestatasi fra la
cittadinanza, mentre non può né intende di farsene egli iniziatore e
tanto meno fautore, perché ha giurato fede alla costituzione stessa,
come ora per bocca dei singoli Consiglieri quel giuramento rinnova,
e nel dubbio tuttavia di essere ostacolo alla pacificazione degli
animi, per amore di concordia e per il bene del paese decreta:
1.
La rinnovazione dell’intero Consiglio secondo le norme
statutarie
2.
La convocazione dell’Arringo da farsi antecedentemente, pure
secondo le norme statutarie, per interrogare i Capifamiglia se
intendono conservare o no la costituzione con questo ordine del
giorno:
Dovendosi rinnovare l’intero Consiglio,
vuole l’Arringo secondo le norme statutarie e le antiche
consuetudini dello Stato, fare la nomina dei membri del Consiglio
dei Sessanta, conservando a questo tutte le prerogative e diritti
concessigli dall’attuale Costituzione? L’Arringo sarà valido colla
partecipazione della metà più 1 dei padri famiglia aventi diritto e
la deliberazione col voto di 2/3.
Da ultimo il Consiglio
Principe e Sovrano nella speranza che l’Arringo con la sua prudenza,
nel momento presente, a scanso di maggiori difficoltà voglia
confermata l’attuale Costituzione, dopo che in conformità di essa
sarà stato rinnovato il Consiglio, fa voti perché questo ormai forte
della fiducia del paese, oltre che al felice riordinamento della
finanza, e alla savia amministrazione della pubblica cosa, rivolga
le sue cure, e riesca a condurre a termine, dopo ponderati studi,
quelle liberali e democratiche riforme della Costituzione che
contribuendo a ricondurre il pieno accordo fra i cittadini
assicurino da un lato i diritti e le vera libertà del popolo
(specialmente per mezzo dell’Arringo) e dall’altro non possano in
alcun modo mettere a rischio l’esistenza della Repubblica.”
L’intervento di Gozi si
chiuse in maniera piuttosto colorita: “Con questo augurio il
Consiglio Principe e Sovrano si scioglie, gridando: - Viva la
vigente Costituzione. Viva la Repubblica –
Per Dio! Che cosa si
vuole di più? Il Consiglio si dimette; il Consiglio delibera la
convocazione dell’Arringo per consultare i Padri di famiglia sulle
loro volontà. Il Consiglio prima di dimettersi fa voti perché i
nuovi Rappresentanti eletti dal popolo si occupino delle riforme
necessarie alla Costituzione, e le conducano a compimento per la
concordia ed il bene della Repubblica. Che dovrebbe fare di più?
Secondo me chi non si contenti di questo per ora non può che
desiderare, per sfogo delle proprie passioni, la rovina della
Repubblica: e il Consiglio a ciò non si deve prestare”.
Anche l’avvocato
Giovanni Belluzzi, che era stato con Tonnini e Babboni a Roma dai
consulenti, era rimasto particolarmente impressionato dai loro
ragionamenti, tanto da dire in Consiglio che “solo la costituzione
sammarinese è sempre stata e sempre sarà l’ancora della nostra
salute ed incolumità pubblica”. “Ora che i sapientissimi uomini coi
quali abbiamo conferito ci hanno addimostrato che il sistema
elettivo sarebbe in qualsiasi modo letale alla nostra Repubblica, e
che noi se vogliamo vivere dobbiamo unicamente badare a mantenere la
nostra costituzione, non dimenticando che viviamo unicamente come
reliquia storica non disgiunta dalla moralità, io con alta e sonora
voce invito il Consiglio a mantenersi fermo e stabile a questa
Costituzione che abbiamo tutti giurato, e con le basi di questa
Costituzione, a convocare l’Arringo perché costituzionalmente voglia
rifare il Consiglio principe e sovrano”.
Non pienamente
favorevole alle opinioni dei consulenti si dimostrò Menetto Bonelli.
Era comunque d’accordo sul fatto che la convocazione dell’arengo
fosse monca in quanto priva delle ragioni per cui lo si riuniva.
Secondo Bonelli doveva essere convocato per rinnovare il Consiglio,
non più gestibile nello stato in cui versava. Ciò non voleva dire
che il Consiglio avesse abdicato, come sostenevano alcuni, tuttavia
bisognava definire il perché dell’arengo, altrimenti tutte le
ipotesi erano aperte. Egli ribadiva che l’assemblea dei capifamiglia
dovesse servire per rinnovare il Consiglio suggerendo il sistema con
cui nominare nuovi consiglieri, e si trovava in sintonia con
l’Ellero nell’utilizzare l’arengo come assemblea da riunire
periodicamente per rinnovare quella parte del Consiglio decaduta per
sorteggio. Inoltre era d’accordo di usare l’arengo come referendum
facoltativo per l’approvazione delle leggi. “In tal modo il pericolo
della Costituente paventato è finito, il Consiglio ha le stesse
prerogative che ha avuto fin qui, e senza delle quali mancherebbe di
quella autorità sovrana mercè la quale la Repubblica nostra negli
ultimi tempi specialmente fu da tutti i governi riconosciuta
indipendente e libera. Alla Reggenza il formulare i quesiti per
l’Arringo; al nuovo consiglio lo stabilire come vuole devenire alla
elezione dei nuovi Reggenti, ammessa l’abolizione dei ceti”.
Anche Luigi Tonnini
mostrò qualche perplessità verso i pareri ed i timori apocalittici
dei consulenti: “Io dico che quegli uomini illustri, molto pratici
dei loro comuni e delle loro grandi città non conoscono l’indole
vera del popolo di S. Marino, naturalmente pacifico, avverso ai
partiti, unicamente curante del bene della Repubblica. Mi pare
perciò che potrebbe accogliersi la massima del Consiglio elettivo”.
Infatti proporre
all’arengo il semplice rinnovo di un Consiglio vitalizio era troppo
poco, secondo lui, e non avrebbe calmato il clima rovente che si era
instaurato nel paese più per motivi politici ed ideologici, che per
gli altri problemi di natura finanziaria, i quali stavano
gradualmente stemperandosi. Poteva andare bene, dunque, il rinnovo
periodico di una parte del Consiglio come suggerito da Ellero.
Altro intervento fu
quello di Gaetano Belloni: egli sostenne che il Consiglio non doveva
preparare i quesiti da sottoporre all’arengo, ma “deliberare un
invito ai Capi di famiglia di presentare all’Eccellentissima
Reggenza dato un tempo determinato quei progetti, che contengono le
loro aspirazioni e desideri, i quali progetti verrebbero a formare
naturalmente l’ordine del giorno per l’Arringo istesso. Con questo
provvedimento il Governo allontanerebbe da sé ogni addebito
d’inceppare la volontà dell’Arringo e lascerebbe all’Arringo istesso
la piena responsabilità dei suoi atti”.
Nel frattempo,
venendosi a conoscere da parte dei riformisti più risoluti che
l’arengo sarebbe stato verosimilmente un semplice referendum e nulla
più, riscoppiarono violenti polemiche contro i governanti: “Il
Consiglio, il vecchio e malefico servo che se ne va, obbliga il
padrone a seguire le sue norme nella scelta del sostituto. L’arringo
sovrano è convocato con mani e piedi legati; non può parlare, non
può discutere, non può scegliere. No, no, deve obbedire ai suoi
vecchi tiranni che hanno tutto preordinato a loro posta”, scrisse
Franciosi in un articolo apparso sul Titano del 18 febbraio.
Egli ce l’aveva poi in
particolare con la norma che prevedeva che le deliberazioni
dell’arengo dovessero riscuotere almeno il favore dei due terzi dei
partecipanti per avere valore.
Parlò dunque senza mezzi termini di “progetto capestro”, di
“regolamento carcerario”, di “popolo imbavagliato”, di “forche
caudine” sotto cui si costringeva a transitare il massimo organo
politico dello Stato. L'articolo si concludeva con precise critiche
ai tre membri riformisti della commissione preposta all’elaborazione
del regolamento. Gustavo Babboni si risentirà notevolmente per
queste polemiche, e prenderà sempre più le distanze dall’altra anima
che componeva il Comitato pro-arengo, ovvero i riformisti più
radicali.
Sul Titano
successivo del 25 febbraio fu Gino Giacomini ad urlare al
“tradimento” e a sferzare le forze democratiche, che si erano
accontentate della convocazione dell'assemblea dei capifamiglia,
dimostrandosi altresì “troppo pronte ai placidi riposi”. Egli era
dell’avviso che l'arengo dovesse essere concepito non come modesto
referendum, ma come “assemblea costituente” di fronte a cui “avrebbe
dovuto cessare ogni potere”. In altre parole, Giacomini ribadiva
l’opinione dell’ala più irrequieta del Comitato pro-arengo, cioè
che, una volta convocato l'arengo, spettasse solo a questa assemblea
qualunque decisione di natura politica, quindi anche la sua stessa
autoregolamentazione. Il Consiglio, insomma, avrebbe dovuto
limitarsi a riunirlo e in seguito starsene in disparte.
Questa posizione era in
realtà ben lontana dai desideri dei governanti che, memori degli
ammonimenti dell’Ellero e degli altri consulenti, cioè che sarebbe
stato meglio per tutti se l’arengo non fosse riuscito ad adunarsi,
stabilirono che, per avere valore legale, dovesse essere composto
come minimo dalla metà più uno dei capifamiglia aventi diritto,
computando però tra tutti coloro che avevano il diritto/dovere di
parteciparvi anche “396 sammarinesi aventi domicilio da anni e anni
all’estero e persino nelle lontane Americhe, senza averne accertato
prima la loro reale esistenza e senza aver loro inviato a tempo il
menomo avviso. Basta l’avviso ad valvas… vi sentenzia la
losca furberia dei nostri governanti”.
Babboni il 4 marzo
convocò una riunione del Comitato pro-arengo per spiegare la
posizione moderata a cui si era giunti, dopo avere ascoltato le
opinioni dei giuristi consultati, e per controbattere le velenose
critiche piovutegli addosso attraverso il Titano. L’assemblea,
composta da circa 150 intervenuti, non ebbe nulla da ridire.
Con la ridda di
idee che avevano caratterizzato il dibattito istituzionale alla base
dell’arengo, la situazione era divenuta quanto mai complessa. In
sintesi vi erano quattro posizioni:
1.
i conservatori assoluti che non avrebbero voluto alcun
cambiamento al sistema costituzionale esistente, derivato dagli
statuti del ‘600, per timore che la Repubblica andasse in totale
rovina e venisse assorbita dall’Italia;
2.
i conservatori opportunisti, tra cui i giuristi consultati,
che auspicavano qualche riforma non tanto perché a loro giudizio la
struttura istituzionale sammarinese ne avesse bisogno, ma per
tacitare la piazza e i democratici, e per non creare i presupposti
di riforme maggiori e più sconvolgenti, se non addirittura
catastrofiche;
3.
i riformisti moderati, come Gustavo Babboni e Moro Morri,
sensibili alle istanze progressiste dei tempi ed al discorso del
suffragio periodico, ma non disposti a stravolgere più di tanto
l’apparato istituzionale esistente;
4.
i riformisti radicali, soprattutto i socialisti e pochi
altri, convinti che l’assemblea dei capifamiglia, che comunque
avrebbero desiderato allargata a tutti i maggiorenni, fosse solo un
primo passo verso una trasformazione profonda della costituzione del
paese, e bramosi di un arengo che assumesse il ruolo di assemblea
costituente, quindi non solo referendaria, per iniziare fin da
subito una profonda metamorfosi istituzionale e sociale.
Questa posizione
è ben chiara negli articoli scritti da Giacomini e Franciosi, le due
menti del socialismo locale, sui vari “Titano” di questi anni, ma lo
è ancor di più nell’opuscolo già citato e analizzato di Franciosi “La
restaurazione dell’Arengo nella Repubblica di San Marino”.
Alla fine prevalse
comunque la logica di fare l’arengo secondo la volontà
moderata/conservatrice, senza cioè attribuirgli grandi poteri. Il 25
marzo l’assemblea dei capifamiglia si riunì nella Pieve riuscendo a
raggiungere il cospicuo numero di 807 presenti (804 voti regolari, 3
schede bianche) su 1493 aventi diritto, di cui 355 residenti
all’estero (22 di questi cittadini presenziarono all’arengo). I
quesiti a cui si dovette rispondere furono i seguenti:
1.
Nel rinnovare per intero il Consiglio dei LX, vuole l’Arengo
nominarlo con le norme e con tutti i diritti e con tutte le
prerogative che il patrio Statuto attribuisce al Consiglio stesso?
2.
Vuole l’Arengo che i Consiglieri siano nominati
proporzionalmente al numero degli abitanti di ciascuna Parrocchia
della Repubblica, lasciando però piena libertà di sceglierli ovunque
li troveranno maggiormente adatti? In caso di negativa, s’intenderà
che l’Arengo li vorrà nominare secondo le norme dello Statuto.
Nel corso della
riunione dei capifamiglia fu concordato di integrare il primo
quesito con la presente specifica:
“Qualora la maggioranza
dell’Arringo risponda no al 1° dei proposti quesiti, s’intenderà
che, eletto il nuovo Consiglio, in seguito debba rinnovarsi per una
terza parte ogni tre anni, mediante sorteggio, e con diritto di
rieleggibilità, ferme restando tutte le altre norme statutarie”.
727 capifamiglia risposero no al primo
quesito, 761 sì al secondo quesito, determinando a stragrande
maggioranza la fine del Consiglio che si nominava per cooptazione.
I riformisti moderati avevano vinto la
loro battaglia, riuscendo ad ottenere una qualche evoluzione
istituzionale, senza però grossi stravolgimenti.
Anche i socialisti ne uscivano
abbastanza soddisfatti perché la battaglia che avevano intrapreso
già da anni per rendere elettivo il locale parlamento era andata a
buon frutto. Tuttavia per loro era solo un primo passo: il più,
sulla strada delle innovazioni istituzionali e sociali, doveva
essere ancora fatto, nonostante quel minaccioso e al momento
sottovalutato “ferme restando tutte le altre norme statutarie” che
l’arengo aveva votato.
In effetti le prime elezioni politiche
svolte durante l’estate, gestite sempre secondo logiche
conservatrici e con la paura dei grandi cataclismi preconizzati dai
consulenti italiani, non stravolsero più di tanto il Consiglio: gli
oligarchi e gli uomini forti del Consiglio precedente vennero tutti
confermati al suo interno, con in più cinque socialisti e svariati
membri appartenenti al riformismo moderato.
L'otto luglio il gruppo democratico
diffuse tra la gente un suo programma politico in quattordici punti
con cui esplicitava i suoi proponimenti, ovvero:
- Soluzione del problema finanziario
economico del Paese sulla base delle maggiori possibili economie
e, occorrendo, di una più equa ripartizione di tributi da
sottoporsi a referendum ai Capi famiglia e ai Maggiorenni.
- Miglioramento d’ordine finanziario e
politico da recarsi nella prossima rinnovazione del Trattato col
Regno d’Italia.
- Istituzione di un Ispettorato generale
ad honorem o retribuito, per il controllo del regolare
funzionamento di tutti gli uffici amministrativi, civili e
scolastici e di tutti i pubblici servizi.
- Organico per gl’Impiegati.
- Impianto dell’Ufficio Tecnico.
Sistemazione del Cimitero della Pieve. Costruzione dei
Camposanti Rurali. Miglioramenti delle strade consolari e
rurali. Costruzione di edifici scolastici e di case operaie.
- Studio per migliorare il servizio
postale, di comunicazione e di trasporto.
- Riordinamenti scolastici. Istruzione
obbligatoria fino alla 3a Elementare. Esperimenti di
patronati e refezioni scolastiche nei centri più popolosi.
Miglioramento del Collegio Convitto Governativo.
- Riforma delle Leggi sulla igiene,
sulla sanità e sulla sicurezza pubblica. Progetto per la
conduttura dell’acqua potabile.
- Studio per eliminare o correggere il
problema dell’emigrazione.
- Istituzione di una Cattedra ambulante
e di premi per incoraggiare l’agricoltura e l’impianto e lo
sviluppo delle industrie.
- Legge elettorale. Estensione del
diritto di voto.
- Riforma della legislazione civile,
penale e giudiziale.
- Legge sulla cittadinanza e sulla
immigrazione dei forensi.
- Abrogazione della Legge 22 Marzo 1860
sul conferimento dei titoli equestri e nobiliari.
Questo programma era sottoscritto da 29
consiglieri, numero che rappresentava in quel momento l'effettiva
consistenza del gruppo democratico riformista.
In dicembre la Federazione Socialista
Sammarinese divulgò il suo "Programma minimo" che avanzava altre
rivendicazioni:
In ordine ai pubblici poteri
- Estensione del diritto di voto ai
maggiorenni ed ai cittadini della Repubblica residenti
all’estero.
- Nuovo sistema di votazione alla sede
del seggio. Costituzione di un segretariato elettorale formato
da tre alunni delle scuole elementari per redigere le schede
degli analfabeti. Metodo di scrutinio a sezioni divise.
- Unificazione delle due circoscrizioni
elettorali di Fiorentino e S. Giovanni.
- Elezione dei Capitani Reggenti a voto
consigliare diretto.
- Trasformazione del Congresso di Stato
in Corpo esecutivo diviso in dicasteri.
- Applicazione del Referendum.
- Riforma civile del cerimoniale e
abolizione delle onorificenze.
- Avviamento alla legislazione sociale.
Riconoscimento giuridico della Società di Mutuo Soccorso e delle
Cooperative di lavoro. Contribuzione annuale governativa al
fondo pensioni istituito dalla Società Operaia Unione e Mutuo
Soccorso.
- Ufficio governativo d’emigrazione.
- Codice commerciale.
- Codice civile. Personalità giuridica
dello Stato di fronte alla chiesa. Funzioni dello Stato civile
distinte dalle pratiche del culto. Denunzia diretta delle
nascite e decessi. Matrimonio civile. Trasformazione a beneficio
di Istituti di assistenza dei beni delle confraternite
religiose.
- Obbligatorietà scolastica fino alla
terza elementare. Miglioramento e riforma didattica generale
delle scuole elementari, specie di campagna, refezione gratuita,
facilitata dalle cucine economiche, agli alunni poveri delle
scuole dei centri maggiori. Ricreatori festivi, Edifici
scolastici. Istituzione nel capoluogo di una scuola serale di
disegno applicato all’industria.
- Sistemazione delle finanze dello Stato
senza ricorso a nuovi oneri pubblici; e in caso di assoluta
necessità applicazione della tassa unica progressiva sul reddito
con esenzione dei redditi minimi, in confronto di qualunque
soluzione finanziaria a base di nuovi tributi o rimaneggiamento
dei già esistenti.
- Appoggio al progetto di Stazione
Climatica che non impegni il governo se non per ciò che possa
riguardare disposizioni di esclusiva indole amministrativa.
- Case operaie.
- Organico degli impiegati.
- Istituzione della Cattedra ambulante
d’Agricoltura.
- Miglioramento dei pubblici servizi.
Uffici governativi disciplinati secondo un criterio di unità
direttiva e soggetti al controllo di un Ispettorato extra
consigliare.
- Soluzione del problema dell’acqua
potabile.
- Nuovo ordinamento della pubblica
armonia.
- Applicazione del sistema metrico
decimale da iniziarsi negli esercizii pertinenti all’azienda
pubblica.
- Nuovo orientamento delle opere pie.
Trasformazione della beneficenza a domicilio. Servizi di
assistenza.
In ordine all’organizzazione proletaria
- Miglioramento del patto colonico.
- Modernizzazione del Mutuo Soccorso e
nuovo impulso alle Cooperative di lavoro.
- Istituzione di Cooperative di
resistenza e di consumo.
- Casa del Popolo e Casa del Lavoro.
Le velleità, in sintesi, erano tante,
ma il Consiglio eletto nel 1906, succube di tremende paure congenite
o inculcate dai suoi presunti luminari in ambito costituzionale, non
era certo il migliore possibile per attuarle con convinzione e
celerità.
In effetti subito si manifestarono
discrepanze e dissidi all’interno del gruppo riformista/democratico
sulle celebrazioni del primo anniversario dell’arengo,
ma la rottura totale tra riformisti moderati e
radicali si consumò nei mesi di novembre e dicembre del 1907, quando
vennero esaminate e bocciate nell’aula consigliare diverse istanze
presentate dal gruppo socialista per ottenere alcune di quelle
riforme da tempo agognate. Le richieste avanzate miravano a far
revisionare il vecchio e logoro statuto, ad istituire
ufficialmente il referendum, a trasformare l’istituto della Reggenza
da sorteggiato in elettivo, a riordinare il sistema scolastico, a
rendere obbligatoria la scuola elementare nei suoi primi anni, a
creare un contributo governativo per il fondo pensioni e un organico
per gli impiegati, ad adottare un codice civile, a riformare,
laicizzandoli completamente, i cerimoniali statali ed altro ancora.
Le istanze erano in parte una conseguenza del
discorso pronunciato da Pietro Franciosi il 1° ottobre per
l’insediamento della nuova Reggenza, discorso in cui tornava a
chiedere, riferendosi anche ai pareri espressi da Ellero nel 1902 e
nel 1905, l’istituzione del referendum, obbligatorio e semestrale
per la parte legislativa, facoltativo per la parte amministrativa,
con cui accettare o respingere le leggi, o modificare la
costituzione.
“I conservatori, siedano a destra o a sinistra
o nel centro, tentano sempre di contrastare ogni riforma e di voler
far credere ad occhio e croce che le nostre istituzioni e le nostre
consuetudini, siano pur vecchie come il brodetto, debbonsi sempre
mantenere, anche se inutili e nocive, e dichiararle invulnerabili”.
Le istanze miravano a “ricostruire, dopo la
rivoluzione dell’Arringo, il nostro piccolo Stato su basi nuove ed
omogenee ai moderni tempi. Non v’è più Stato in cui non spiri
un’aura di primavera per la quale il mondo ogni giorno si fa più
bello. E noi non possiamo far parte di questo mondo che ha il moto
come attributo o la perfezione come meta. Perché i più dei nostri
governanti o non concepiscono per ignoranza questo potente bisogno
di muoversi, o per opportunismo vi si oppongono. Nel primo caso
bisogna in parte perdonare a quei tali che non arrivano di primo
impeto a conoscere il vero, per quanto l’intelligenza umana sia
destinata ad apprenderlo. Essi sono vittime di mancato
ammaestramento o di qualche vizio ingenito; per cui sono quasi
irresponsabili. Essi sono sempre inconsciamente invasi dal terrore
di un pericolo ignoto; per la loro inettezza non sanno pensare
astrattamente, non hanno concezioni concrete, non sentono il bisogno
di migliorare sé e il paese. Nonostante l’incessante progresso che
li circonda, la pusillanimità naturale li assale ad ogni piè
sospinto. Non assurgono a nuove concezioni di vita e s’aggrappano
alla cieca fede religiosa come unico conforto. Normalmente
misoneisti si trovano profondamente in contrasto con le nuove idee;
e mummificati sentono soverchia fatica di rinunciare alle tradizioni
e alle abitudini; hanno il sistema nervoso assolutamente inetto a
produrre forti impulsi per lottare e per aprirsi l’adito a nuove vie
e a nuovi orizzonti. Ma più di loro pericolosi sono i secondi, gli
opportunisti, che non estranei alle nozioni e alla cultura del
tempo, tradiscono ogni giorno le più elementari regole di ogni
verità e molte delle loro convinzioni. Ogni loro atto è una commedia
od una farsa sconveniente. Essi rifuggono per particolari interessi
di mettere in armonia le azioni coi sentimenti e si rendono servi
ciechi dell’ignoranza. (…) Questa profonda ignoranza e questo vile
opportunismo possono formare il quieto vivere per qualche po’ di
tempo a chi governa. Ma badiamo che l’arma è a doppio taglio e può
recare serie conseguenze… Si poteva ammettere sotto il vecchio
regime che la nostra Repubblica, quando tutta l’Europa si muoveva,
rimanesse quasi una curiosità da museo, un vecchio fossile ridotto
tale dalla comodità in partita doppia della sacrestia e del
nobilume. Ma oggi no e poi no. Col diritto di voto conquistato e col
nostro partito all’avanguardia, la repubblica deve essere un
progresso e una realtà; e materiata, di serie riforme sociali
politiche e civili deve modificarsi senza sforzi per il
miglioramento di un intero popolo”.
“Il mosaico democratico consiliare sta
disgregandosi dopo un anno di simulata fusione”, proclamò il
Titano del 1° dicembre 1907, perché gli “elementi di
destra” erano riusciti a trovare un’unità d’intenti nella
salvaguardia della sacra tradizione, mentre dopo l’arengo, che aveva
dato origine a strane e non sempre comprensibili alleanze, tra i
democratici non vi era stato più un grande accordo. L’articolo
prosegue dicendo che i socialisti si erano attenuti al programma
elaborato di comune accordo, pur rinunciando a pretese più ampie e
più consone ai loro ideali, mentre “una parte della democrazia ha
dimenticato di assolvere a molti suoi obblighi. (...) All’alba della
nuova repubblica un ordine nuovo doveva stabilirsi sulle macerie.
Bisognava rompere i ponti col vecchio sistema, estirpare il vecchio
tronco dalle radici, (...) rifare ab ovo la compagine dello Stato,
disciplinare gli uffici, rinvigorire ed allargare le pubbliche
funzioni amministrative e politiche, ossigenare e disinfettare
l’ambiente viziato”.
Insomma, dopo l’arengo ci si aspettava
“un’opera radicale di riordinamento”, invece il Consiglio aveva
smarrito in fretta le sue mete ripiombando nei vecchi vizi del
passato: “Il consueto e vieto sistema guadagnò gli uomini che erano
partiti in guerra contro di esso”. Durante l’anno appena
trascorso vi erano state alcune buone iniziative e qualche
conquista, ma l’opera riformatrice era stata assai parziale,
frammentaria e casuale, interrotta tra l’altro da lunghe pause e
tentennamenti. Inoltre molti democratici non si erano dimostrati
tali: alcuni avevano cercato di collocare la loro persona al di
sopra del gruppo, non lavorando in comunione con gli altri per una
corretta gestione politica dello stato. Quel “groviglio caotico di
uomini e di cose” non aveva quindi più ragione di
sopravvivere: “L’ibridismo, le alleanze innaturali, gli
accoppiamenti bastardi abbiano fine e ciascuno assuma il posto,
l’atteggiamento, il nome che i propri istinti, i propri interessi,
le proprie idealità gli impongono e gli consentono”.
“E’ pur vero che nel partito dell’Arringo,
molti, che furono trascinati con noi per la conquista di quel primo
diritto, ora si sono distolti perché abbiamo spiegato totalmente il
nostro vivo orifiamma che sventola in tutti i punti più elevati del
mondo, quale nota di continuità di progresso e speranza in cose
migliori. I più o per disinteresse o per paura si fermarono;
avvertirono un inizio di stanchezza; ci dissero quasi mancatori di
parola perché non ci fermammo con la conquista del primo diritto; e
ritornarono ad accarezzare le tradizioni del passato. Fu chi ci
disse anche che se si sapeva che noi socialisti non ci saremmo
fermati all’arringo, non ci avrebbero prestato il loro valido aiuto
e ci avrebbero lasciati con a ridosso un governo medioevale”.
Invece la volontà di Franciosi e dei
socialisti era proprio quella di andare oltre l’arengo del 25 marzo
e la conquista del voto: “No, non basta la conquista dell’Arringo,
diamo opera ad una più grande trasformazione”. L’aspirazione era di
creare sempre più un governo a democrazia diretta, “eliminando così
la classe politica ed organizzando finalmente il novus ordo
dei Governi futuri”.
Bisognava quindi avere il coraggio di avviare un processo di riforme
costituzionali nonostante il raggelante concetto “ferme restando
tutte le altre norme statutarie” sancito proprio dall’arengo.
Secondo Franciosi e Babboni tali riforme potevano essere fatte
semplicemente dal Consiglio, senza adunare l’assemblea dei
capifamiglia, perché già in passato varie innovazioni di carattere
costituzionale le aveva fatte il parlamento sammarinese senza
chiedere il parere di nessuno. Per altri, invece, il Consiglio non
aveva tale potere, e solo l’arengo poteva dar vita a norme
costituzionali diverse da quelle esistenti.
E’ ovvio che questa ultima opinione, su cui si
discuterà anche negli anni successivi, era un comodo pretesto per
chi voleva rendere difficile ogni altra riforma dopo l’arengo del
1906. E’ indubbio che dopo l’ultimo arengo radunato nel 1571 fu il
Consiglio a modificare o integrare lo statuto senza più riunire
l’assemblea dei capifamiglia per un avallo formale del suo operato
legislativo o delle riforme allo statuto stesso, come nel 1652,
quando ridusse il numero dei consiglieri da 60 a 45, o nel 1756,
quando stabilì che un Reggente dovesse essere nobile ed uno plebeo,
o nel 1830, quando istituì la Congregazione Economica, o in tante
altre occasioni ancora. Adesso però si aveva timore delle riforme
che potevano essere portate avanti in Consiglio, ed in più c’era
quella famosa frase “ferme restando tutte le altre norme statutarie”
che bloccava ogni velleità riformista che non avesse avuto il placet
dell’arengo.
La grande innovazione che i riformisti più
convinti desideravano era soprattutto l’istituzione
dell’arengo/referendum, allargato a tutti i maggiorenni, secondo la
logica espressa qualche anno prima da Ellero, istituto che avrebbe
eliminato anche i problemi legati a chi spettasse varare riforme
istituzionali, perché con un arengo periodicamente ed
obbligatoriamente convocato, ogni legge o riforma avrebbe avuto
necessità dell’avallo di tale assemblea.
Non solo: “A mezzo del referendum (…) si
stimola l’interesse dei cittadini ai problemi dello Stato, si
diffonde fra loro la conoscenza della legislazione, si sviluppa in
essi il sentimento della responsabilità per l’andamento della cosa
pubblica. Il referendum va considerato come la più schietta
emanazione della sovranità popolare, perché offre ai cittadini il
mezzo di prender parte, ad ora ad ora, alla vita pubblica”. Simile
istituzione avrebbe avuto “un effetto educativo straordinario: rende
più guardinga l’Assemblea legislativa nelle sue deliberazioni con lo
spauracchio del possibile e necessario appello al popolo; conduce
questo ad occuparsi delle questioni più vitali e a pronunziarsi su
di esse in forma puramente obbiettiva, fuori di quelle
considerazioni personali che spesso riescono ad intralciare e
dissimulare il vero proposito; e, mentre sviluppa il sentimento di
responsabilità diretto in tutto il popolo, dà stabilità a larga base
alle leggi, accettate per consenso non indiretto e supposto, ma
diretto ed esplicito”.
Nonostante i vagheggiamenti di Franciosi, la
maggioranza del Consiglio non sentiva affatto l’esigenza di
introdurre innovazioni tanto radicali, che vennero liquidate
semplicemente come “esotiche” e contrarie alla sacra tradizione, per
attuare riforme di natura istituzionale. Conservatori e Democratici,
“affetti da miopia congenita”, come dicevano i riformisti radicali,
non volevano assolutamente mutamenti di questo tipo, trincerandosi
dietro il “ferme restando tutte le altre norme statutarie” espresso
dall’arengo del 25 marzo. “Dobbiamo dunque cristallizzarci e
fossilizzarci in una costituzione del ‘600?”; “governare e
amministrare ai tempi che corrono vuol dir operare, riformare,
ricostruire”, per cui non bisognava avere paura di andare oltre lo
statuto, sempre utilizzando lo strumento dell’arengo/referendum.
Nei mesi successivi la polemica sulle riforme
che alcuni volevano e i più no proseguì tra tensioni più o meno
marcate. Un momento di forte conflittualità avvenne tra il 1908 e il
1909, quando il Consiglio abolì l’insegnamento del catechismo nelle
scuole. I cattolici presero tale innovazione come un attentato alla
costituzione, perché la rubrica 33 del libro I degli statuti
secenteschi, ancora in vigore, che trattava delle funzioni e del
salario del pubblico precettore, prevedeva l’insegnamento della
dottrina cristiana a tutti gli scolari, insieme ovviamente ad altre
discipline. Con l’abolizione del catechismo, insomma, il Consiglio
aveva alterato una disposizione statutaria senza averne alcun
diritto.
Tra l’altro il clima era reso ancor più
incandescente dal fatto che socialisti e repubblicani volevano
precise modifiche nella nomina, nel cerimoniale e nello stesso
vestiario della Reggenza, cosa reputata del tutto assurda da parte
della maggioranza dei consiglieri.
“Le nazioni adesso riguardano la nostra
Repubblica come un prezioso cimelio di tempi antichissimi – denunciò
il “San Marino, organo dell’Unione Cattolica Sammarinese” – Guai
pertanto a quei cittadini che osassero manomettere le patrie
istituzioni: in esse soltanto ha la sua ragione d’essere la nostra
piccola terra!”
Di nuovo il concetto espresso dai consulenti
nel 1905, di nuovo l’assioma che la stessa esistenza della
Repubblica era indissolubilmente legata al suo sistema
costituzionale mummificato.
“Ciò che noi vogliamo ad ogni costo e a
qualunque sacrificio, come cittadini dell’ordine e difensori della
fede ereditata dagli avi nostri è l’osservanza dello statuto. Avremo
sempre parole spiranti fuoco contro i profanatori delle sue leggi;
grideremo con tutto lo sdegno di un animo repubblicano, di un cuore
ferito nei suoi ideali e nei suoi sacrosanti diritti contro quei
vili denigratori che attentano scemare la bellezza, avvilirne
l’importanza dichiarandolo non più rispondente ai bisogni dei tempi
e lo spogliano della sua aureola immortale riducendolo un
arlecchino. Bello, sovranamente bello il nostro statuto! Nobile
l’ingegno che lo ha ispirato! Sante, Divine le leggi che vi
s’inculcano, sanzionate dall’approvazione dei secoli!”
Questa logica mistico/istituzionale che
impedirà qualunque innovazione costituzionale, basandosi ovviamente
anche su quanto sancito dall’arengo del 1906, sarà quella che
caratterizzerà a lungo la mentalità cattolica sammarinese, così come
la cultura laica sarà invece contrassegnata a lungo dal desiderio di
laicizzare lo Stato, riformare diverse norme statutarie, fare una
legge tributaria basata sull’equità fiscale (istanza sostenuta anche
dai cattolici), istituire l’arengo/referendum (richiesta
prevalentemente socialista) e altro ancora.
Il problema relativo a chi toccasse attuare
riforme costituzionali riemerse nel 1914, quando Onofrio Fattori
presentò un’istanza in Consiglio per chiedere che anche i cittadini
naturalizzati potessero divenire Reggenti. Iniziò una lunga
discussione e si consolidarono tre opinioni: la prima diceva che
l’arengo del 1906 non aveva concesso facoltà al Consiglio di
modificare nulla al di là del sistema di nomina dei consiglieri,
quindi competente era solo l’assemblea dei capifamiglia in materia
costituzionale; la seconda sosteneva che il Consiglio aveva il
potere per porre mano anche alle questioni istituzionali; la terza,
quella socialista, puntava sull’istituzione dell’arengo/referendum a
cui sottoporre i problemi costituzionali, ma anche di altro genere.
Alla fine si giunse ad un ballottaggio con cui, per 21 voti contro
10, si stabilì che solo l’arengo potesse modificare le norme
costituzionali, per cui il Consiglio si dichiarò incompetente a
trattare istanze di tale natura.
Con questo decreto in pratica si complicò
qualunque possibilità di rinnovo della costituzione sammarinese,
perché organizzare un arengo in cui discutere problemi simili non
era certo facile, come aveva dimostrato quanto successo e le
battaglie che si erano dovute sostenere per giungere a quello del
1906.
In effetti negli anni che precedettero
l’ascesa al potere del locale fascismo varie volte circolò tra la
gente l’ipotesi di convocare un arengo per analizzare e discutere
problemi specifici, ipotesi che però per un motivo o per un altro
non riuscì mai a concretizzarsi.
La manifesta volontà della maggioranza del
Consiglio di non attuare altre riforme al di là dell’unica
innovazione sancita dall’arengo del 1906 denotava che, nonostante
fossero passati diversi anni, gli spauracchi agitati dai consulenti
nel 1905 ancora incutevano terrore, e non vi era alcuna volontà di
mutare nulla rispetto alle consuetudini secolari della Repubblica.
Questo non impedì tuttavia a socialisti e repubblicani di continuare
a chiedere la riforma di varie norme dello statuto secentesco. I
repubblicani desideravano soprattutto laicizzare l’istituto della
Reggenza, ma i socialisti volevano invece una concreta
democratizzazione del sistema istituzionale sammarinese tramite ciò
che essi consideravano la prosecuzione dell’opera iniziata dai
capifamiglia nel 1906.
Nell’aprile del 1917 proprio i socialisti
presentarono al Consiglio come istanza d’arengo un articolato
progetto per riformare i poteri pubblici in cui delineavano con
precisione il loro punto di vista sulle istituzioni sammarinesi.
“L' Arengo del 1906 – vi si legge - che pareva
felicemente destinato a rendersi stromento di tutto un nuovo ordine
di cose, si è fermato alla scheda, e colla scheda la democrazia ha
coperto una piaga profonda e ha ingannato momentaneamente il male
stesso che travagliava tutto il paese.
Le riforme politiche amministrative e
tecniche, che si presentavano come conseguente corollario di quel
primo atto di rinnovamento civile, furono bandite dai programmi con
sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati; e rimase
intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue
direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e
coi suoi vizi organici, coi suoi costumi e con tutto il suo
armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di
commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano in
un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza
limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità. (…) Il
sistema che ci regge, nella sua struttura organica non meno che
nello spirito morale e politico che lo informa e nel criterio
amministrativo che lo guida, è la negazione di una bene ordinata
democrazia”.
Quali le innovazioni principali che proponeva
il gruppo socialista? Non più l’arengo/referendum, probabilmente
perché riforma considerata ormai troppo democratica, quindi anche
troppo utopistica. Prima di tutto, dunque, la nomina della Reggenza
per voto diretto e non più tramite sorteggio: “La Reggenza,
suprema magistratura della Repubblica, abbia mansioni di presidenza
più dignitose e meno defatiganti, non sia la carica d'utilità, buona
a tutti i servigi, ma diriga lo Stato, il Governo, il Consiglio, i
Congressi, e si riserbi di attendere in modo particolare agli
alti e delicati affari politici e diplomatici, alla giustizia, alla
sicurezza pubblica, alle milizie”.
Poi la trasformazione del Congresso o
Consiglio di Stato in vero e proprio governo della Repubblica, con
una maggiore definizione delle sue competenze: “Il Consiglio di
Stato venga investito di vere e proprie attribuzioni di
governo, quali sono implicite a un ministero, a una giunta, a
una deputazione, a quegli organi, insomma, che ricorrono negli
ordinamenti statali e municipali di tutti i paesi. Sia diviso in
Dicasterii o deputazioni, per modo che ciascun membro venga
posto a capo di una speciale branca pubblica”. I dicasteri dovevano
essere nove (Affari politici e diplomatici – Giustizia – Sicurezza
pubblica – Milizie; Finanze ed Economato; Lavori pubblici;
Istruzione; Annona, Agricoltura, Industria e Commercio; Sanità e
Igiene; Stato civile; Poste, Telegrafi, Telefoni e Comunicazioni;
Beneficenza e Assistenza).
In seguito una nuova e più meticolosa
regolamentazione del Consiglio Grande e Generale affinché assumesse
“una regola, una disciplina, una condotta normale e uniforme, quale
si addicono al prestigio delle sue alte funzioni, oggi sminuite
dalla casuale e spesso contraddittoria pratica della quale è in
balia”.
Infine nuove e più rigorose funzioni per la
Commissione di Bilancio, che doveva essere “investito di ampi poteri
di verifica e revisione degli uffici contabili, di cassa, di posta
dei magazzini; sia chiamato a compilare col Consiglio
di Stato il Bilancio pubblico del quale è depositario; sia
considerato come corpo giuridico indipendente, e formato di persone
estranee al potere esecutivo e agli uffici”.
Gli avvenimenti che accaddero nei tempi
successivi impedirono che le velleità riformiste giungessero in
porto. Troppo delicato era giudicato dalla maggioranza dei
consiglieri, e probabilmente dai pochi cittadini sammarinesi che
potevano essere sensibili a problemi tanto astratti e complessi,
porre mano a riforme di un apparato istituzionale che, secondo la
mentalità semplicistica in auge, andava ancora bene perché si era
sempre dimostrato capace di preservare la mitica libertà e la
gloriosa indipendenza della Repubblica di San Marino dai fortunali
della storia.
Il vasto partito dei passatisti e
conservatori, che si rinvigorirà grazie al fascismo, che a San
Marino sarà soprattutto un ritorno al passato, ovvero alla logica
politica paternalistica ed oligarchica precedente il 25 marzo 1906,
si dimostrerà sempre ostile alle innovazioni costituzionali, e
imputerà proprio alla svolta attuata dall’arengo del 1906 tutti i
mali di precarietà politica ed economica in cui la Repubblica venne
spesso a trovarsi negli anni successivi.
Dopo la prima guerra mondiale i socialisti
uscirono dal Consiglio di propria iniziativa, rimanendo in uno stato
di isolamento politico che consentì agli altri raggruppamenti di
imprimere una svolta conservatrice al dibattito politico e di
sancire la fine di qualunque ambizione di natura istituzionale.
Nel 1922 il fascismo iniziò a prendere il
potere che detenne per più di vent’anni. Durante questo periodo non
vi furono ovviamente importanti evoluzioni costituzionali a San
Marino, vista la mentalità assolutamente ostile all’arengo del 1906
e alle velleità riformistiche di quegli anni che avevano i suoi
capi, conservatori convinti, legatissimi alla dimensione
patriarcale/elitaria dei secoli precedenti sancita dagli statuti
secenteschi. Proprio per sottolineare questo ritorno al passato, con
decreto del 1931 il Consiglio si ridefinì “Principe e Sovrano”,
qualifica cassata dopo l’arengo del 1906.
Curioso, ma coerente con la mentalità dei
nuovi (ma nello stesso tempo antichi) padroni di San Marino, che,
appena scomparsi i riformisti più radicali del 1906 dalla scena
politica e anche dal paese (in tanti dovettero scegliere la via
dell’esilio per salvarsi dalle persecuzioni del fascismo), il
governo sammarinese non ebbe alcuna remora a modificare norme
statutarie, non curandosi minimamente del “ferme restando tutte le
altre norme statuarie” scaturito dall’arengo del 1906.
Nel 1925, per fare un esempio, venne
regolamentato l’ufficio di Capitano di Castello, fatto che eliminò
figure secolari e statutarie, come i sovrastanti alle vie ed alle
acque, e modificò altre norme dello statuto del Seicento.
Il fascismo non ebbe il coraggio
(probabilmente per non dare l’impressione di essere troppo
anacronistico) di rimuovere la logica elettorale introdotta
dall’arengo del 1906, tuttavia modificò la legge elettorale
restringendo il numero degli aventi diritto e allungando la
legislatura a sei anni.
Non a caso una delle prime azioni legislative fatte dopo la caduta
del fascismo fu il ripristino della legge elettorale precedente.
Solo nel 1945, col nuovo governo composto da
socialisti e comunisti andato al potere l’11 marzo, si riparlò di
riforme istituzionali, riprendendo in parte le velleità socialiste
del periodo prefascista. Così subito si provvide, non senza
polemiche da parte dei conservatori, a determinare che la Reggenza
dovesse scaturire da un’elezione in Consiglio, e non tramite
sorteggio come succedeva in precedenza.
Due mesi dopo venne varata un’altra legge di
natura costituzionale, sempre ripresa dalle idee già messe a punto
più di 25 anni prima, che dava ufficialmente al Congresso di Stato i
poteri di governo della Repubblica, dividendolo in dieci dicasteri,
cioè ministeri.
Tuttavia queste riforme, giudicate dai
conservatori del tutto arbitrarie perché non sottoposte al giudizio
finale dell’arengo, lasciarono l’amaro in bocca ai tanti che ancora
vedevano la difesa della tradizione e delle istituzioni storiche
come la migliore cosa per il paese.
Il 4 dicembre 1947 venne divulgato un
giornale, intitolato “L’Arengo - numero unico in difesa del
tradizionalismo sammarinese”, nato per “ribattere le
pseudo-argomentazioni degli antitradizionalisti” che stavano
definendo le istituzioni “croste da museo”, e che le avevano
condannate ad “igienica epurazione”.
Secondo gli autori del numero unico, invece,
occorreva la “rivendicazione in pieno dei valori tradizionali della
nostra storia plurisecolare, acconsentendo ad una ponderata potatura
di rami e ramoscelli secchi del nostro meraviglioso albero
costituzionale ma difendendo ad oltranza il tronco ed i rami
principali, che formarono e formano la ragione d’essere della nostra
libertà e della nostra indipendenza”.
Le polemiche ed i tempi di forte
conflittualità tra Sinistra e Destra impedirono che venissero
prodotte ulteriori importanti riforme del sistema istituzionale
sammarinese. L’ambiguità poi era sempre quella su chi dovesse varare
riforme simili, Consiglio o Arengo.
Negli anni sessanta Guidobaldo Gozi riaffrontò
il problema all’interno di due suoi opuscoli,
anche se da un’ottica molto personale legata direttamente alle
interpretazioni conservatrici e passatiste dell’arengo del 1906 che
la sua famiglia aveva dato nel corso del cinquantennio precedente.
Alla fine, comunque, egli giunse alla
conclusione che l’arengo fosse “l’unico competente in materia
costituzionale, in argomenti che riguardano la nostra costituzione
politica o forme di governo; per la rimanente ed estesa materia è
competente il Consiglio”.
In realtà l’arengo dei capifamiglia non fu più
convocato, rimanendo in vita solo nella sua veste semestrale, e le
poche riforme costituzionali che vennero varate negli anni
successivi furono frutto di compromessi tra i partiti politici, e
della legittimazione da parte del solo Consiglio Grande e Generale,
che oggi per varare riforme di tale natura necessita per legge dei
voti dei due/terzi dei suoi componenti.
Delle immense, utopistiche aspirazioni
democratiche e popolari emerse agli inizi del secolo, dei grandi,
esagerati, probabilmente ingenui sogni di Ellero, Franciosi,
Giacomini e altri legati alla brama da dare grande potere politico
al popolo alla fine non rimase nemmeno il ricordo.
Nel celebrare il centenario dell’arengo del
1906, che porterà con sé tanta enfasi e glorificazione, direi invece
che è proprio il caso di ricordarsene.
Per una proposta di
referendum nella Repubblica di San Marino,
Rimini 1903.
Tutti questi pareri sono in:
Per una proposta di
referendum nella Repubblica di San Marino,
Rimini 1903.
P. Franciosi,
A proposito di referendum
nella R.S.M.,
1903
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