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 Arengo e congelamento istituzionale
 
Intervento fatto il 25 marzo 2006
  

75 anni fa, proprio il 25 marzo del 1931, Pietro Franciosi, principale ideatore dell’arengo del 1906, scrisse all’amico e confidente Gino Giacomini, esule a Roma, una lettera in cui disse: 

“Noi fiaccammo la vecchia nobiltà e demmo il battesimo al popolo sovrano.

La Repubblica fu messa sopra una via nuova e chissà a che punto di progresso oggi sarebbe giunta se la guerra europea e la conseguente parentesi italiana non fossero sopraggiunte ad arrestare il cammino.

Comunque la data storica nessuno la può cancellare, e fra non molto servirà da punto di partenza per l’avvenire della nuova Repubblica.

Cosa conta che gli epigoni della nobiltà che debellammo cerchino di arrestare e di imbastardirne il significato? (…)

I nostri figli compiranno l’opera nostra e ci vendicheranno”.  

L’amarezza che trasuda da queste poche righe, pur in mezzo alla consapevolezza di aver in qualche modo compiuto qualcosa di eccezionale ed imprescindibile per il futuro del paese, e con la fiducia che quanto fatto, passata la burrasca fascista, sarebbe stato senza dubbio la strada maestra che le generazioni successive avrebbero dovuto percorrere, dipende dalle tristi e mestissime condizioni di perseguitato in patria vissute da Franciosi nei suoi solitari e disperati anni senili, condizioni con cui sarebbe morto sconsolato nel 1935.

C’è da chiedersi ora se noi, figli e nipoti degli artefici dell’arengo del 25 marzo 1906, ad un secolo di distanza abbiamo davvero compiuto l’opera loro; se, per utilizzare il verbo impiegato da Franciosi nella sua lettera, li abbiamo “vendicati”.

La vendetta cui pensava Franciosi non era davvero fatta di persecuzioni, bastonature, olio di ricino, esilio; quella, insomma, subita dal ’22 in avanti da lui e da altri che come lui la pensavano.

La vendetta che si auspicava era invece esclusivamente legata alla fondazione di una vera giustizia sociale, di una effettiva democrazia, di istituzioni garantiste in grado di assicurare imparzialità fra tutti i sammarinesi, di laicità, di benessere economico, culturale, sociale per tutti.

Soprattutto era una vendetta basata sull’equità, parola chiave nella mentalità di Franciosi, vocabolo su cui egli volle edificare tutta la sua vita e il suo agire.

Oggi, se Franciosi rinascesse, si sentirebbe dunque “vendicato”?

Sospendiamo il giudizio, per il momento.

E’ indubbio che rispetto ai suoi tempi noi ci troviamo a vivere in condizioni assai migliori, ma è anche vero che molte delle riforme per cui l’arengo era stato inventato, che dovevano originarsi proprio dal movimento democratico di cui l’arengo stesso era, nella logica dei riformisti più convinti, soprattutto dei socialisti, solo il primo passo, non sono andate in porto, o lo hanno fatto in maniera monca e distorta.

D’altronde c’è stato sempre anche durante questo secolo che oggi noi qui concludiamo con queste celebrazioni un forte gruppo sociale, chiamiamolo pure tradizionalista, conservatore, fascista, opportunista, oligarchico, passatista o come si vuole, ostile allo spirito dell’arengo, timoroso che una democrazia reale a San Marino potesse generare chissà quali sconquassi, primo fra tutti quello di togliergli privilegi e dominio socio-culturale. 

Lo stesso arengo del 25 marzo 1906, che nella logica dei socialisti e di altri pochi suoi promotori doveva essere ben altro strumento di democrazia rispetto a quello che in concreto riuscì alla fine a dimostrarsi, fu pilotato in maniera tale da cambiare il meno possibile le cose.

 “E’ veramente necessario l’apportare queste riforme? - chiedeva Pietro Ellero, uno dei consulenti di cui in quell’occasione il governo sammarinese si avvalse - Si deve fare il Consiglio Elettivo? Dico che non posso ripromettermi alcun bene dal Consiglio Elettivo. Premetto che un Consiglio elettivo è un naturale corollario della Sovranità popolare, ma qualunque principio astratto se non ha le condizioni per essere tradotto in vita, è inutile accarezzare”. 

Insomma, secondo i luminari consultati, nel 1906 non vi erano ancora le condizioni per introdurre il suffragio elettorale a San Marino, che doveva dunque rimanere una reliquia storica legata anima e corpo al suo sistema costituzionale secentesco, ai suoi ceti di serie a, b e c, alla sua realtà politica fuori del tempo.

Il concetto “non vi sono le condizioni” espresso dall’Ellero, che purtroppo ho sentito risuonare con frequenza e scarsa lungimiranza politica nell’ultimo anno anche tra noi, è quanto di più vago, semplicistico e conservatore si possa usare per giustificare in qualche nebulosa maniera la permanenza nello statu quo, perché le condizioni per qualunque metamorfosi non si aspettano come manna dal cielo, ma vanno create, volitivamente e con decisione, magari remando contro corrente, così come hanno fatto e ci hanno insegnato gli artefici dell’arengo del 1906.

E’ però un concetto ricorrente che emerge nella nostra storia ogni qualvolta s’ipotizza di trasformare qualcosa d’importante della tradizione politica o istituzionale del nostro paese. Proprio per questo è assai ripetuto anche in questi nostri attuali anni di crisi politica, in cui la paura di abbandonare il vecchio per il nuovo, a qualcuno, anzi a troppi, fa proprio tremare le ginocchia. 

Torniamo comunque agli inizi del ‘900: Gaspare Finali, altro consulente della Repubblica, avvallò quanto sostenuto da Ellero: “Sammarino - sottolineò - col suffragio universale (…) sarebbe morto.

“Il Consiglio elettivo sarebbe letale alla Repubblica perché porterebbe con sé le minoranze, le maggioranze, i voti di fiducia, le fazioni interne che succedono al potere ecc. Sono tutte cose gravissime anzi fatalissime”. “Si fa tabula rasa del passato. S. Marino diventa come un Comune d’Italia. Pensateci”.

“Davanti alla storia - aggiunse Nino Tamassia, altro consulente, - è necessario che i Reggenti, dichiarate le condizioni anormali dello spirito pubblico, con un atto solenne mettono bene in chiaro che essi si rivolgono al popolo della Repubblica perché la responsabilità dei mutamenti della costituzione, e le conseguenze di questi, cada tutta sulla volontà popolare”

“Il sistema elettivo, ammesso in tutto l’organismo dello Stato, è pur esso gravido di pericoli. La piccolezza dello Stato, la confusione fra l’autorità amministrativa e quella costituzionalmente “sovrana”, i conflitti fra i partiti, non affievoliti da un ambiente largo, sono punti neri, nerissimi, che mi fanno una grande paura. Pensate ai disordini possibili, all’impossibilità di repressioni, e giudicate!”. “Rude sembrerò, ma davanti al pericolo di uno sfacelo, la Reggenza deve far tutto perché nulla rimanga d’intentato per salvare lo Stato. Vero è che nessuno si sogna di turbare dal di fuori il Titano. Ma se gravi disordini scoppiassero, come si farebbe ad impedire un intervento che sarebbe pur santo, diretto a far cessare lotte interne?”.

Come far fronte, dunque, a tanta apocalissi?

“Il punto fondamentale - dice sempre Tamassia - è disciplinare l’Arringo, ridurlo ad organo di conservazione della Repubblica, con una modica partecipazione al Governo, lasciando sussistere nella sua integrità il modo di costituzione e di funzionamento del Consiglio dei LX”, perché la Repubblica “dalle convulsioni elettorali sarebbe ben presto finita”. “Il bando della convocazione dell’Arringo deve essere come un dilemma che lascerà o intatta o rinforzata l’autorità del Consiglio”. “Ridotto al Referendum l’Arringo è innocuo, se esorbita si sa dove si va!”. “Se non si è sicuri delle decisioni dell’Arringo, non si può essere tranquilli” .

Insomma, tra tutte le tragedie istituzionali che avrebbero potuto abbattersi sulla Repubblica in quel momento, l’arengo/referendum era di gran lunga la meno temibile. 

Anche Ellero machiavellicamente suggerì uno stratagemma per far abortire l’assemblea dei capifamiglia: “Chiamato l’Arringo coi soli padri di famiglia - disse - e che con due terzi votanti e che con la metà più uno si potesse dir valido, difficilmente queste proporzioni si potranno ottenere, e i conservatori hanno fondamento su questo non intervento”.  

L’esortazione di Ellero riuscì quasi ad andare in porto, perché l’arengo per essere valido doveva registrare la presenza di 747 capifamiglia, e, come sappiamo, ne ebbe 805, ovvero pochi di più.

Insomma, l’arengo del 1906 venne organizzato e gestito con logica gattopardesca, tanto da ricevere come ciliegina finale durante il suo stesso svolgimento quella “perla” di saggezza costituzionale costituita dalla fatidica frase: “Ferme restando tutte le altre norme Statutarie”, paradossalmente sanzionata proprio dai capifamiglia, che congelò in maniera assoluta qualunque possibilità di riformismo istituzionale da lì a molti anni.

Nonostante tutti questi ostacoli e impedimenti, il nuovo Consiglio scaturito dalle elezioni post – arengo dimostrò comunque di avere una fisionomia diversa rispetto a quello precedente, di essere maggiormente dialettico, meno vincolato alla cultura del padrone e del contadino, più propositivo e coraggioso.

Troppo dialettico, troppo propositivo, troppo coraggioso: tanto da suscitare le ire di chi si reputava “uomo d’ordine”, di chi esigeva che gli operai, i semplici, i non protetti rimanessero al loro posto senza alzare la testa e la voce, perché bastavano gli uomini d’ordine a gestire bene le cose, perché erano loro gli eredi della tradizione cetuale - oligarchica della Repubblica in grado di garantire la sopravvivenza dello Stato e delle sue sante istituzioni.

Nei quindici anni che precedettero l’avvento del fascismo vi furono molti tentativi da parte dei riformisti più convinti di dar seguito a quella metamorfosi istituzionale a cui l’arengo doveva fungere soltanto da porta d’ingresso, ma inutilmente, perché proprio l’arengo del 1906 aveva sancito categoricamente che si doveva eleggere una parte di consiglieri con periodicità, ma nulla più in quanto tutte le altre norme statutarie dovevano star ferme, marmorizzate nel limbo costituzionale dei secoli precedenti. 

“L' Arengo del 1906 - si legge in un articolato documento socialista del 1917 - che pareva felicemente destinato a rendersi stromento di tutto un nuovo ordine di cose, si è fermato alla scheda, e colla scheda la democrazia ha coperto una piaga profonda e ha ingannato momentaneamente il male stesso che travagliava tutto il paese.

Le riforme politiche amministrative e tecniche, che si presentavano come conseguente corollario di quel primo atto di rinnovamento civile, furono bandite dai programmi con sacro orrore, come pericolose follie di utopisti sventati; e rimase intatto e invulnerato il vecchio abusato sistema, colle sue direttive e colle sue forme arcaiche, coi suoi peccati originali e coi suoi vizi organici, coi suoi costumi e con tutto il suo armamentario deteriorato di poteri e di offici, di congressi e di commissioni, che si intersecano, si accavallano, si aggrovigliano in un tutto informe, senza coordinazione e senza nesso, senza limitazioni di competenze e delineazioni di responsabilità.” 

Quando andò poi al potere il fascismo la situazione degenerò del tutto. Il nostro fascismo, infatti, corroborato da chi fascista non era, ma passatista sì, fu soprattutto un movimento contro l’arengo e la logica democratica di cui l’arengo del 1906 era stato fin lì la massima espressione locale, e contro le velleità di ammodernamento politico e sociale espresse nei primi vent’anni del Novecento.

Al potere tornarono davvero gli “epigoni della nobiltà”, per usare l’etichetta di Franciosi, che avevano subito l’arengo come una disfatta personale: ovviamente fecero pagare l’affronto a chi dell’arengo era stato artefice, ricacciando il paese totalmente nella logica oligarchica che lo aveva caratterizzato prima del 1906, pur cercando di mantenere una pseudo-democraticità apparente grazie alle elezioni politiche che periodicamente venivano svolte.

Passò tuttavia anche il fascismo; le sinistre riuscirono finalmente ad andare al potere. Subito misero mano alle istituzioni per procurare al paese quella svolta costituzionale che nei primi vent’anni del secolo si era dimostrata impossibile. Non dovettero elaborare idee nuove: le idee erano sempre quelle formulate più di vent’anni prima.

Istantaneamente, però, si riaccesero violenti polemiche con chi continuava a concepire la Repubblica come un monumento tanto fragile da non poter essere minimamente toccato, e con il vasto ceto conservatore locale assolutamente ostile a qualunque idea riformatrice.

Qualche cambiamento fu possibile, ma in maniera piuttosto disorganica, con quella logica frenante e conservatrice che aveva caratterizzato anche l’arengo del 1906, e col dubbio che il Consiglio non disponesse dell’autorità per attuare innovazioni di stampo istituzionale, ritenendosi da molti che solo l’arengo potesse farle e legittimarle.

Non a caso nel suo programma divulgato alla fine del 1944 l’Unione Democratica Sammarinese, avversaria politica delle sinistre, prevedeva dogmaticamente al suo primo punto la “Intangibilità delle istituzioni statutarie fondamentali della Repubblica”.

Gli anni successivi furono tanto problematici da un punto di vista sociale, politico ed economico, per il pianificato boicottaggio finanziario messo in opera dall’Italia verso il nostro paese, che di istituzioni ci si interessò sempre meno.

Ogni volta che emergeva qualche velleità innovatrice, rispuntava tuttavia anche il diktat espresso dall’arengo del 1906, e il dubbio intorno a chi toccasse varare eventuali novità istituzionali.

Solo negli anni ’70 venne ripreso un discorso in merito, con il parto, nel ’74, della bella ma all’epoca puramente velleitaria carta costituzionale.

Fu comunque chiarito il dubbio di cui stiamo ragionando, perché il Consiglio non ritenne opportuno riconvocare l’arengo per concretizzare la riforma in questione, legittimandosi così come unico organo preposto a mutare le istituzioni della Repubblica.  

Nei decenni successivi, comunque, il paese continuò ad essere ugualmente contraddistinto da un immobilismo istituzionale che ha indotto a generare con estrema fatica poche e sporadiche innovazioni prive di sistematicità, anzi, spesso soggette a grande estemporaneità.

Arriviamo così ai giorni nostri. Domandiamoci se quello che ho succintamente raccontato fa parte solo della nostra dimensione trascorsa oppure no.

Recentemente, tra mille difficoltà e compromessi, e in clima di politica straordinaria, sono state varate alcune riforme di natura istituzionale, frutto di lunghi e problematici accordi tra progressisti e conservatori, riforme su cui comunque passatisti e tradizionalisti, categoria ancora fortemente presente e dominante nel paese, hanno sparato a zero, e continueranno a sparare, da quanto si sente dire, anche nel prossimo futuro.

Ancora oggi le riforme istituzionali sono costrette a procedere a piccolissimi passi ed in maniera disorganica, osteggiate da chi vede nella dimensione patriarcale/bonacciona della nostra repubblica la cosa migliore, da chi non vuole assoggettarsi a regole oggettive, da chi, pur stracciandosi le vesti in nome della democrazia, rimane inesorabilmente incollato alla mentalità oligarchica di sempre, mentalità che ha senz’altro cambiato fisionomia rispetto a cento anni fa, ma non struttura, non anima.

Teniamo presente, inoltre, che questa mentalità non si trova solo al nostro esterno, ma è anche qui, tra noi, tra coloro che dovrebbero sentirsi sempre gli eredi di chi ha cercato di combatterla, di mutarla, di dare una cultura politica al nostro popolo che ormai ha la fortuna di avere tutto, eccetto, nella sua massa, quella “educazione di popolo” che sempre Franciosi si auspicava, non per catechizzare la cittadinanza tramite presunte illuminanti e rigide verità assolute e supreme, come abbiamo da poco ascoltato e letto da parte di chi sta portando avanti una sorta di controriforma dell’educazione, ma perché la gente divenisse vera protagonista della sua dimensione politica, non succube di questo o quel potente, non mendicante dei suoi diritti, non favorita o sfavorita in base al ceto partitico/oligarchico di appartenenza, non interessata alla dimensione politica del paese solo per opportunismo e tornaconto personale o familiare, non evangelizzata dal padre della patria di turno e di conseguenza suo cliente.

Ritorniamo comunque per concludere alla domanda di partenza: abbiamo compiuto l’opera dei progressisti d’inizio ‘900? abbiamo “vendicato” Pietro Franciosi e gli altri padri dell’arengo?

Mi auguro che ognuno sappia rispondere con cuore sincero. 

Copyright© 2006 Verter Casali