Borgo ribelle
Fin dal XIII secolo
il Borgo è stato sede costante di mercati e fiere, anche di notevole
consistenza, come testimonia un documento d’archivio del 1406 in cui
sono elencati i nominativi di ben settanta balestrieri chiamati a
piantonare la fiera per garantire il suo tranquillo svolgimento.
Tale vocazione
commerciale ha permesso nel tempo a vari borghigiani e a qualche
famiglia qui residente, come i Martelli, i Casali, i Giacomini e
altre ancora, lo sviluppo graduale di una mentalità differente da
quella della massa dei contadini che componevano la popolazione
sammarinese, ultra conservatori e timorosi di qualunque innovazione,
così come di quella di molti residenti in Città, ancorati a logiche
oligarchiche e nobiliari da ancien regime.
Una mentalità che si
può definire proto borghese, o comunque più legata alla vita
concreta, al lavoro, all’eliminazione di qualunque forma di
distinzione tra cittadini, nonché al concetto di eguaglianza,
soprattutto politica, che in una repubblica avrebbe dovuto essere
sempre garantita.
In realtà non lo era
perché gli statuti del ‘600 dividevano la popolazione e i membri del
Consiglio Principe e Sovrano, il locale parlamento, in tre ceti (di
Città, della Terra, del Contado), come per i tempi era logico, con
il ceto di Città dotato di maggior prestigio sociale e potere degli
altri.
Inoltre, a partire
dal 1728, gli appartenenti alle poche famiglie di possidenti che nei
secoli precedenti si erano auto nobilitate (a San Marino non è mai
esistita una nobiltà di spada o di toga), residenti in genere in
Città, pretesero di avere sempre diritto a essere nominati alla
prima Reggenza, quella più importante e deliberante, mentre la
seconda veniva riservata ai non nobili.
Questa concentrazione
di potere nelle mani dei “nobili” fu ulteriormente accentuata a
partire dal 1743, quando si decise che la “Congregazione Generale”,
una sorta di collegio governativo composto da 20 consiglieri che
stabiliva la convocazione del Consiglio Principe e Sovrano, le
questioni che vi dovevano essere discusse, i provvedimenti più
rilevanti da prendere, dovesse essere costituita solo da membri
della nobiltà locale.
Nel 1760 fu varata
un’altra innovazione a favore dell’elite consigliare: solo un nobile
poteva sostituire un consigliere nobile, cosicché le cariche in mano
a questa casta divennero di fatto ereditarie.
Contro questa logica
accentratrice si mossero soprattutto i riformisti borghigiani,
memori dello spirito repubblicano che comunque permeava gli statuti
secenteschi e il sistema costituzionale sammarinese, e avversi alla
nobiltà cittadina, che di fatto rendeva i residenti del loro e degli
altri Castelli consiglieri di seconda serie.
L’arengo dei
capifamiglia, in passato massimo organo politico della comunità,
preposto anche alla sostituzione dei consiglieri mancanti, non era
stato più convocato dal 1571, per cui chi era dentro il Consiglio
cooptava chi vi doveva entrare, creando così un sistema chiuso e
autoreferenziale gestito dai suoi pochi membri più rappresentativi
per sostanze e cultura.
Una prima traccia di
una ribellione al sistema oligarchico instaurato con gli statuti
secenteschi può essere individuata all’interno dell’episodio legato
al cardinale Giulio Alberoni, il quale tra la fine del 1739 e i
primi mesi dell’anno successivo soggiogò con la forza lo Stato
sammarinese.
Da quanto ci dice un
documento, il numero 7, scovato da Carlo Malagola, autore di un
approfondito studio sulla vicenda edito nel 1886, proprio un
borghigiano di 32 anni di età, Marino Belzoppi, nel 1737 s’industriò
a Fiorentino, Serravalle e altri paesi sammarinesi per rimediare tra
i 50 e i 100 uomini con cui andare in Città “in tempo di Consiglio,
metter in piedi l’Uso dell’Arringo, e buttar giù dalle finestre, o
Ripe, i Consiglieri”. Questo perché “era tempo che governassero anco
loro”, in quanto non era giusto farsi “strapazzar da quello
Governo”, ma era ora di “mutar Principe”.
Belzoppi è passato
alla storia come un farabutto di prima categoria, che voleva solo il
male di San Marino per acquisire un potere del tutto personale, e io
non ho elementi concreti per contrastare simile giudizio fin troppo
consolidato.
Tuttavia egli
proveniva da una famiglia mercantile benestante del Borgo, essendo
figlio di Mastro Vincenzo (1675 – 1752), giunto a San Marino da
Fano, il quale gestì in questo Castello una rifornita bottega di
merci diverse, e stabilì molti rapporti commerciali con il riminese
e il Veneto.
Fu il capostipite di
una famiglia che giunse ai vertici della Repubblica con Francesco
nel 1789 come Reggente non nobile, e con Vincenzo nel 1798 e nel
1817, ma soprattutto con l’avvocato Domenico Maria Belzoppi (1796 –
1864), importante membro dell’oligarchia durante il travagliato
periodo risorgimentale, e più volte Reggente.
Quindi la teoria che
Marino Belzoppi tramasse contro il governo oligarchico solo per mire
personali, senza vere motivazioni di natura politica, senza rivalità
e probabile invidia verso i nobili governanti locali, lui che era un
escluso dal governo e che non era nobile, pur essendo di famiglia
benestante e rispettata, mi lascia un po’ perplesso.
L’episodio è
interessante perché dimostra che la tradizione dell’arengo, che da
ora in poi verrà rievocata periodicamente nei momenti di critica
verso il potere costituito, era ancora ben viva presso qualcuno,
sebbene tale assemblea non fosse stata più convocata da tanto tempo.
Furono invece
indubbiamente politiche le basi di un’altra decisa contestazione
all’autorità costituita: la protesta o “mossa” scoppiata nel 1797
nelle bettole del Borgo. Tutto ebbe inizio da un’istanza d’arengo
presentata ai Reggenti nel mese di aprile, con
cui si chiedeva di migliorare la qualità del pane, e d’impedire
l’esportazione di vino fuori confine per non ridurne le scorte a
disposizione dei residenti e vederne lievitare il prezzo come
conseguenza.
L’istanza non produsse benefici, per cui gli istanti,
capeggiati in questa prima fase dal borghigiano Giuseppe Moracci,
cominciarono a rumoreggiare sempre più contro il governo, così
indifferente dinanzi a richieste tese a portare giovamenti concreti
all’intera collettività.
Un giorno di maggio
proprio Moracci si accorse che alcuni forestieri sul loro carro
stavano caricando vino acquistato presso la cantina Filippi di
Borgo. Subito s’impegnò per cercare aiuto e bloccare la transazione,
rimediando con facilità parecchi compagni decisi come lui a tenere
il vino in Repubblica. Tutti insieme si recarono nella cantina e,
con metodi bruschi e minacciosi, obbligarono i forestieri a
riportarlo al suo interno. Con risolutezza poi fecero l’inventario
di tutto il vino disponibile presso quella cantina e le altre del
Borgo, buttando a terra anche la porta di chi si rifiutava di farli
entrare.
A parte le richieste
legate al pane e al vino, gli “insorgenti” volevano anche “mettere
un buon ordine nel governo”, come confessò uno dei capi della
sommossa al giudice inquirente che successivamente indagò su tali
fatti. Infatti l’iniziale istanza divenne in fretta una critica
politica, fomentata dalla mentalità rivoluzionaria importata nella
penisola italiana dall’armata di Napoleone, ormai giunta attorno ai
confini sammarinesi, cultura che stava esaltando i giovani e
gl’innovatori.
Sulle ali di questo
entusiasmo, il gruppo che aveva inventariato il vino, composto da
una ventina di uomini tra cui parecchi del Borgo, qualche operaio di
Città, e pochissimi contadini, si riunì più volte per stillare una
seconda petizione da presentare alle autorità sammarinesi.
Il 3 giugno, giorno
in cui era prevista la riunione del Consiglio Principe e Sovrano, i
capi dell’ “Unione”, come veniva chiamato il gruppo ribelle,
riuscirono a portare davanti al palazzo pubblico una novantina di
persone e a presentare ai consiglieri il loro reclamo.
Nell’istanza si
accusavano i governanti di aver sostituito la democrazia con la
tirannia, perché avevano paradossalmente creato in una repubblica il
ceto nobile, che andava abolito subito, essendo il responsabile dei
maggiori guai sociali a San Marino e ovunque. I Francesi lo avevano
fatto, dovevano farlo anche i Sammarinesi.
Furono inoltre
avanzate altre critiche: i conti pubblici non venivano mai mostrati,
per cui non si poteva sapere se fossero corretti; non vi era il
rispetto dello statuto secentesco, che aveva regolamentato fino al
secolo corrente con maggiore equità la vita politica e sociale del
paese; il Consiglio non era composto da 60 membri, come doveva
essere; le cariche pubbliche erano divenute una prerogativa dei soli
nobili, mentre tutti i cittadini dovevano aver la possibilità di
accedervi, e altro ancora.
Il problema del pane
e del vino era scomparso per lasciare spazio solamente alle
rivendicazioni di natura politica. Il
Consiglio, intimorito dall’animosa effervescenza che vi era
all’esterno del palazzo pubblico, stabilì all’istante di rendere i
conti entro due mesi, di voler la piena osservanza dello statuto, ed
elesse sette nuovi consiglieri per colmare i posti vacanti, tra cui
Moracci.
Apparentemente l’Unione aveva trionfato, in realtà
nei giorni seguenti gli animi rimasero bollenti, perché subentrò la
convinzione che nulla di quanto promesso sarebbe stato attuato dai
governanti, almeno non nei tempi celeri desiderati. L’abolizione
della nobiltà era poi stata completamente disdegnata.
Il 12 giugno la “Mossa” si ripresentò sul Pianello in
occasione di un’altra seduta del Consiglio per inoltrare una nuova
istanza basata sempre sulle richieste del 3, e sull’eventuale
convocazione dell’arengo dei capifamiglia per discutere la modifica
delle norme statutarie.
Gli “insorgenti” erano arrabbiatissimi, in diversi
erano pure armati. Uno dei più decisi, Michele Martelli, aveva
gridato che erano pronti a dar fuoco alle fascine accatastate ai
piedi del palazzo pubblico, se le loro richieste non fossero state
accolte.
I consiglieri, di fronte alla drasticità del momento
e alla collera dei rivoltosi, che si era già manifestata nei giorni
precedenti con alcuni episodi di prepotenza nel paese, garantirono
che tutto quanto era stato richiesto sarebbe stato esaudito.
In realtà a partire dal Consiglio successivo del 25
giugno iniziò una sistematica opera di persecuzione nei confronti
dei ribelli, con la creazione di un “Comitato di pubblica salvezza e
polizia” che nel giro di un paio di mesi arrestò i principali capi
dell’Unione, facendo fuggire fuori confine chi era riuscito a
evitare la cattura.
Il processo che si svolse in seguito portò a varie
condanne detentive, ma il Consiglio del 16 gennaio 1798 condonò le
pene dietro assicurazione che i rivoltosi non avrebbero mai più
contestato il loro Principe, ovvero il Consiglio stesso.
Negli anni seguenti gli uomini della Mossa
abbandonarono completamente le velleità eversive manifestate nel
1797, ma nacque una nuova generazione di contestatori politici
grazie alla cultura risorgimentale, e ai rifugiati politici che, a
partire dal fallimento dei moti italiani del ‘20/’21 in poi,
cercarono scampo sul suolo sammarinese dimorandovi per tempi anche
lunghi.
Soprattutto col fallimento dei moti romagnoli del
‘30/’31 arrivarono parecchi rifugiati in Repubblica, in particolare
nel Borgo, che offriva bettole, camere, botteghe, possibilità di
sopravvivenza, nonché informazioni su quanto stava accadendo nel
circondario riportate dagli ambulanti che regolarmente venivano a
vendere i loro prodotti al mercato e alle fiere che vi si tenevano.
In una lettera datata 17 aprile 1831, il Reggente
Biagio Martelli riferiva che un gruppo di borghigiani si era
lamentato con lui perché in Città e in Borgo si facevano “complotti
e adunanze” tra locali e forestieri “tanto nelle case che sulle
strade o piazze parlando contro il S. Padre e le Truppe Tedesche”.
Avevano anche accusato Francesco Parenti Righi, giovane farmacista
del Borgo, di essere un “ribelle della Patria”, perché aveva preso
parte ai moti in prima persona insieme ad altri giovani Sammarinesi.
Altro borghigiano che ebbe guai per i suoi ideali
ribelli fu quel Domenico Maria Belzoppi a cui già si è accennato:
egli fu arrestato sul suolo pontificio nel 1834 con l’accusa di
essere un cospiratore, membro di una setta segreta, perché addosso
gli fu trovato un documento d’ispirazione liberale. In seguito, nel
Consiglio del 22 marzo 1842, egli sarà elevato alla nobiltà, pur
dimostrandosi restio a tale distinzione che non avrebbe voluto
accettare, ma nel ’34 era carbonaro convinto.
Nel 1845, invece, furono 13 i Sammarinesi accusati di
sedizione per aver preso parte ai moti di Rimini condotti da Pietro
Renzi, tra cui vari borghigiani, come David Casali, che incontreremo
di nuovo fra breve quando parleremo dell’omicidio del Segretario di
Stato Gian Battista Bonelli.
Pare, inoltre, che proprio in Borgo venissero
fabbricate parecchie cartucce destinate a quei moti da parte di
Giuseppe Pasqui, fratello maggiore di Luigi, assassino di Bonelli.
La prima guerra d’indipendenza vide la partecipazione
di una ventina di giovani Sammarinesi, e negli anni successivi San
Marino sempre più venne additato dai suoi confinanti, lo Stato
Pontificio e il Granducato di Toscana, soprattutto dopo lo scampo
garibaldino del luglio 1849, come rifugio troppo facile per i
sovversivi, quindi assai pericoloso per il mantenimento della pace
sociale.
Il 25 giugno 1851 truppe austriache e papaline
entrarono in territorio sammarinese alla caccia di 400 presunti
rifugiati. Alla fine, dopo perquisizioni meticolose e vari episodi
di sopraffazione, in particolare in Borgo, ne furono arrestati solo
35 perché di più non ve n’erano.
Tra la gioventù locale simpatizzante per gli ideali
mazziniani e risorgimentali l’episodio lasciò strascichi velenosi
contro il governo, incolpato di essere stato troppo accondiscendente
coi papalini. Già nel 1850 il giovane Giacomo Martelli del Borgo
aveva scritto una dura lettera accusatoria verso i governanti,
imputati di essere pseudo repubblicani e un “tiranno giogo”,
documento in cui vi era un lungo elenco delle carenze politiche di
San Marino e della sua situazione socioeconomica.
Queste tensioni sfociarono nell’omicidio di Bonelli,
perpetrato in una data non casuale, il 14 luglio 1853, per mano di
due giovani del Borgo: Luigi Pasqui e Marino Giovannarini, seguaci
di Garibaldi nell’esperienza della Repubblica Romana, che “vivevano
in moltissima familiarità coi più esaltati della Emigrazione (cioè i
rifugiati politici), partecipavano intieramente alle loro idee,
erano tutto giorno con essi”, come recitano le testimonianze
reperibili negli incartamenti del processo con cui poi Giovannarini
fu giudicato e condannato. Pasqui invece riuscì a fuggire e non finì
mai arrestato. Erano insomma “pervertiti già nel retto senso morale,
e politico”, nonché “intolleranti di ogni freno di legge e nemici di
ogni principio d’Autorità”.
Dopo il delitto alcuni testimoni li avevano visti
presso la bettola di David Casali, in Borgo, da cui erano usciti
insieme ad altri di “trista fama” per schiamazzare gioiosi
dell’accaduto. Coloro che assistettero al fatto “ebbero a
meravigliarsi come quella brigata, insultando al pubblico dolore, si
facesse sentire trastullata nel canto”.
L’omicidio Bonelli, insieme alla nomea eversiva dei
borghigiani, fece accentuare le distanze politiche e morali con
Città, principale sede degli oligarchi invisi ai democratici e dei
“Signori”, cioè dei possidenti. L’uccisione nella piazza centrale
del Borgo di Annibale Lazzarini, medico della zona, è la
testimonianza più evidente di tale dissidio.
Dopo il delitto Bonelli e la morte del giovane
conservatore Gaetano Angeli, rimasto accoltellato in Città durante
uno scontro con tre ragazzi di tendenze politiche diverse dalle sue,
Lazzarini aveva incominciato a importunare con prepotenza tutti
coloro che, secondo lui, erano di tendenza riformista e democratica,
prendendosela soprattutto con i borghigiani.
Costoro non gliela perdonarono: il 26 agosto 1854,
mentre transitava a cavallo per il Borgo, ebbe un duro alterco con
alcuni della famiglia Martelli, di cui qualche membro risulta spesso
presente durante le diverse polemiche politiche svoltesi nel tempo
contro il governo della Repubblica. Alla fine rimase ucciso da un
colpo della sua stessa arma da fuoco durante un corpo a corpo tra
lui e Giacomo Martelli, in pieno giorno sulla piazza principale del
paese.
Il suo uccisore subì una pena lieve perché il
processo che seguì appurò che era stato il medico a spianare per
primo l’arma. Giacomo però non era certo un soggetto docile, ma
faceva parte di quella generazione di giovani arrabbiati che sono
stati determinanti nell’unificazione d’Italia.
Mazziniano convinto e deciso, frequentò l’università
in Toscana, da cui fu espulso per propaganda contraria al governo
del granduca Leopoldo II. Prese parte nel ’48 alla prima guerra
d’indipendenza, poi fu protagonista diretto o indiretto dei fatti
delittuosi del ’53 e ’54, che sconvolsero la pace sammarinese.
In seguito si laureò avvocato, ma fu sempre un
sorvegliato speciale, prima dallo Stato Pontificio, poi da quello
italiano. Nel 1870, dietro pressioni delle autorità regnicole, San
Marino aprì un’indagine nei suoi confronti per verificare i suoi
contatti col mazzinianesimo d’oltre confine, il suo ascendente sulla
locale gioventù, il suo fanatismo politico.
Si scoprì che frequentava un gruppo mazziniano di
Rimini, l’Associazione Democratica Universale, ma poteva essere
definito un “galantuomo”. L’Italia comunque non si fidava troppo,
per cui tornò alla carica per avvertire che egli stava costituendo
sul suolo sammarinese una “Società d’azione” insieme ad altri due
borghigiani, Felice Giovannarini e Ercole Casali, e che aveva
contatti fitti con i principali capi del mazzinianesimo, tra cui il
temuto Eugenio Valzania.
Il governo di San Marino tornò a tranquillizzare
quello italiano, tuttavia Martelli continuò nella sua polemica
contro l’oligarchia che governava il paese. Nel 1870, cooptato
all’interno del Consiglio dei LX, divulgò uno scritto in cui
specificò con rabbia: “Mai e poi mai accetterò di far parte di un
simile consesso oligarchico e ipocritamente repubblicano”.
Anche il figlio Valerio nel 1885 emulò il padre
quando venne cooptato in Consiglio, perché dichiarò di riconoscere
solamente “nel popolo il diritto di scegliere i suoi
rappresentanti”.
In questi anni Borgo rimase una fucina di pensiero
ribelle, ostile alla situazione politica e sociale sammarinese,
considerata estremamente obsoleta. Anche le acredini verso Città,
sempre giudicata residenza degli ottimati che dominavano il paese e
dell’aborrita nobiltà, sopravvissero ancora a lungo, nonostante
l’inaugurazione del Teatro Concordia, avvenuta nei primi anni ’70,
così chiamato proprio per auspicare una pacificazione tra i due
Castelli.
Un fatto accaduto nel dicembre del 1889 ne è
conferma. In quell’anno fu fondato in Città il “Circolo Titano”,
ente in cui poter passare un po’ di tempo insieme leggendo e
conversando, emulo del “Circolo Sammarinese” che già operava in
Borgo. Si stabilì subito di permettere l’adesione al club di Città
anche dei membri di quello borghigiano “per stringere così vieppiù i
vincoli di fratellanza fra i Sammarinesi”. Tale cordialità venne
subito contraccambiata dal Circolo Sammarinese, che aggiunse al suo
statuto la stessa possibilità.
In Borgo esistevano anche altri gruppi con fini non
sempre definiti, in parte politici, in parte ludici, ovvero i
Circoli Unione, Giovane, Garibaldi e la Federazione Anarchica del
Titano che, al di là del nome, hanno tramandato ben poco ai posteri
come documentazione.
Nel 1893 qui nacque il primo partito politico
sammarinese, quello socialista, per opera di 13 giovani del luogo
che, all’ombra di una grande quercia che vi era all’epoca a
Cailungo, si presero per mano giurando di rimanere fedeli fino alla
morte agli ideali socialisti.
Tra questi giovani non vi erano membri della famiglia
Martelli, costanti contestatori del regime oligarchico, ma più
vicini agli ideali di stampo liberale o repubblicano; vi era però
Tullio Giacomini, cugino di Gino che tanto peso avrà nello sviluppo
del socialismo locale, Alfredo Casali, figlio di Ercole, Giuseppe
Giovannarini, Giuseppe Amati, Antonio De Biagi, Ettore Ghironzi,
Giovanni Vincenti, Marco e Rufo Reffi, Marino Ravezzi, Angelo
Corsucci, Raffaele Montemaggi, tutti borghigiani, a testimoniare
ancora una volta la combattività politica del Castello e di certe
sue famiglie che mal digerivano di essere messe in subordine
rispetto alle famiglie “nobili”.
Gino Giacomini fu senza dubbio colui che più di tutti
manifestò costante ostilità dialettica e oratoria verso i
possidenti, i nobili e le famiglie oligarchiche di Città, in
particolare contro i Gozi. Anche suo padre Remo, focoso garibaldino
che aveva preso parte giovanissimo alla battaglia di Mentana nel
1867 con i volontari di Garibaldi, per molti anni componente non
nobile del Consiglio, ebbe vari scontri di natura politica con i
membri consiglieri di tale famiglia, per cui si sviluppò tra costoro
una sorta di faida politica che determinerà la fuga da San Marino di
Gino quando i Gozi, in epoca fascista, diventeranno i principali
capi del paese.
Gino aveva studiato a Urbino e qui si era diplomato
maestro elementare nel 1899. Dopo qualche anno d’insegnamento fuori
territorio, nel 1902 fu chiamato a fare il maestro nelle scuole
elementari del Borgo. Tornò in patria arrabbiatissimo contro le “male
arti della
camorra nobile” che, a suo giudizio, per antipatia
personale e per paura dei suoi ideali di sinistra gli avevano
impedito di svolgere il suo mestiere a San Marino fino a quel
momento.
Il rientro di Giacomini coincise con l’avvio della
battaglia politica di indole riformista che porterà alla
convocazione dell’Arengo del 25 marzo 1906. Egli, insieme a un
gruppo di fedelissimi amici del Borgo che lo considereranno sempre
la loro guida, fu animatore instancabile del socialismo locale e del
riformismo in genere, vivacizzando con zelo, spesso con eccessivo
impeto, le battaglie politiche degli inizi del Novecento.
Come si è detto, questo costante attivismo, condito
spesso da forte aggressività verbale nei comizi che teneva, nei
numerosi articoli scritti per i giornali socialisti del circondario,
nel periodico di indole riformista e socialista “Il Titano” fondato
nel 1903, di cui fu anche direttore, lo renderà estremamente inviso
ai conservatori, che potevano schierare tra le loro fila molti
Sammarinesi.
Anche parecchi riformisti moderati ravvisarono nel
socialismo e nello stesso Giacomini un pericolo e un possibile
sconquasso delle logiche sociali di sempre, così come il vasto mondo
cattolico vide in lui un senzadio e un mangiapreti, per l’acceso e
rissoso anticlericalismo da cui fu sempre animato.
“La Libertà”, giornale del Partito Popolare stampato
tra il 1920 e il 1923, nel suo numero 3 del 5 febbraio 1922 lo
definirà “uomo che da oltre un ventennio fa pubblica propaganda di
odio e che semina discordie insanabili”.
La classe dirigente sammarinese pseudo nobile,
insieme al vasto mondo passatista che ne costituiva la popolazione,
voleva in definitiva perpetuare ad oltranza una gestione politica
condotta da pochi, timorosi di perdere privilegi e anche la mitica
libertà, ritenuta da costoro direttamente dipendente dal sistema
istituzionale secentesco.
Borgo ha avuto un ruolo fondamentale nel rompere tale
logica, e può essere considerato il polmone riformista della
repubblica sammarinese già da vari secoli. I suoi progressisti,
tramite le loro proteste, le organizzazioni che hanno creato, le
ripetute battaglie politiche messe in campo, il prezzo che hanno
pagato di persona per il loro credo politico, sono stati
indispensabili per stimolare l’uscita di San Marino dalla sua
dimensione arcaica ed elitaria, e per avviare il paese lungo
percorsi storici più democratici e contemporanei.
|