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Borgo ribelle

Fin dal XIII secolo il Borgo è stato sede costante di mercati e fiere, anche di notevole consistenza, come testimonia un documento d’archivio del 1406 in cui sono elencati i nominativi di ben settanta balestrieri chiamati a piantonare la fiera per garantire il suo tranquillo svolgimento.

Tale vocazione commerciale ha permesso nel tempo a vari borghigiani e a qualche famiglia qui residente, come i Martelli, i Casali, i Giacomini e altre ancora, lo sviluppo graduale di una mentalità differente da quella della massa dei contadini che componevano la popolazione sammarinese, ultra conservatori e timorosi di qualunque innovazione, così come di quella di molti residenti in Città, ancorati a logiche oligarchiche e nobiliari da ancien regime.

Una mentalità che si può definire proto borghese, o comunque più legata alla vita concreta, al lavoro, all’eliminazione di qualunque forma di distinzione tra cittadini, nonché al concetto di eguaglianza, soprattutto politica, che in una repubblica avrebbe dovuto essere sempre garantita.

In realtà non lo era perché gli statuti del ‘600 dividevano la popolazione e i membri del Consiglio Principe e Sovrano, il locale parlamento, in tre ceti (di Città, della Terra, del Contado), come per i tempi era logico, con il ceto di Città dotato di maggior prestigio sociale e potere degli altri.

Inoltre, a partire dal 1728, gli appartenenti alle poche famiglie di possidenti che nei secoli precedenti si erano auto nobilitate (a San Marino non è mai esistita una nobiltà di spada o di toga), residenti in genere in Città, pretesero di avere sempre diritto a essere nominati alla prima Reggenza, quella più importante e deliberante, mentre la seconda veniva riservata ai non nobili.

Questa concentrazione di potere nelle mani dei “nobili” fu ulteriormente accentuata a partire dal 1743, quando si decise che la “Congregazione Generale”, una sorta di collegio governativo composto da 20 consiglieri che stabiliva la convocazione del Consiglio Principe e Sovrano, le questioni che vi dovevano essere discusse, i provvedimenti più rilevanti da prendere, dovesse essere costituita solo da membri della nobiltà locale.

Nel 1760 fu varata un’altra innovazione a favore dell’elite consigliare: solo un nobile poteva sostituire un consigliere nobile, cosicché le cariche in mano a questa casta divennero di fatto ereditarie.

Contro questa logica accentratrice si mossero soprattutto i riformisti borghigiani, memori dello spirito repubblicano che comunque permeava gli statuti secenteschi e il sistema costituzionale sammarinese, e avversi alla nobiltà cittadina, che di fatto rendeva i residenti del loro e degli altri Castelli consiglieri di seconda serie.

L’arengo dei capifamiglia, in passato massimo organo politico della comunità, preposto anche alla sostituzione dei consiglieri mancanti, non era stato più convocato dal 1571, per cui chi era dentro il Consiglio cooptava chi vi doveva entrare, creando così un sistema chiuso e autoreferenziale gestito dai suoi pochi membri più rappresentativi per sostanze e cultura.

Una prima traccia di una ribellione al sistema oligarchico instaurato con gli statuti secenteschi può essere individuata all’interno dell’episodio legato al cardinale Giulio Alberoni, il quale tra la fine del 1739 e i primi mesi dell’anno successivo soggiogò con la forza lo Stato sammarinese.

Da quanto ci dice un documento, il numero 7, scovato da Carlo Malagola, autore di un approfondito studio sulla vicenda edito nel 1886, proprio un borghigiano di 32 anni di età, Marino Belzoppi, nel 1737 s’industriò a Fiorentino, Serravalle e altri paesi sammarinesi per rimediare tra i 50 e i 100 uomini con cui andare in Città “in tempo di Consiglio, metter in piedi l’Uso dell’Arringo, e buttar giù dalle finestre, o Ripe, i Consiglieri”. Questo perché “era tempo che governassero anco loro”, in quanto non era giusto farsi “strapazzar da quello Governo”, ma era ora di “mutar Principe”.

Belzoppi è passato alla storia come un farabutto di prima categoria, che voleva solo il male di San Marino per acquisire un potere del tutto personale, e io non ho elementi concreti per contrastare simile giudizio fin troppo consolidato.

Tuttavia egli proveniva da una famiglia mercantile benestante del Borgo, essendo figlio di Mastro Vincenzo (1675 – 1752), giunto a San Marino da Fano, il quale gestì in questo Castello una rifornita bottega di merci diverse, e stabilì molti rapporti commerciali con il riminese e il Veneto.

Fu il capostipite di una famiglia che giunse ai vertici della Repubblica con Francesco nel 1789 come Reggente non nobile, e con Vincenzo nel 1798 e nel 1817, ma soprattutto con l’avvocato Domenico Maria Belzoppi (1796 – 1864), importante membro dell’oligarchia durante il travagliato periodo risorgimentale, e più volte Reggente.

Quindi la teoria che Marino Belzoppi tramasse contro il governo oligarchico solo per mire personali, senza vere motivazioni di natura politica, senza rivalità e probabile invidia verso i nobili governanti locali, lui che era un escluso dal governo e che non era nobile, pur essendo di famiglia benestante e rispettata, mi lascia un po’ perplesso.

L’episodio è interessante perché dimostra che la tradizione dell’arengo, che da ora in poi verrà rievocata periodicamente nei momenti di critica verso il potere costituito, era ancora ben viva presso qualcuno, sebbene tale assemblea non fosse stata più convocata da tanto tempo.

Furono invece indubbiamente politiche le basi di un’altra decisa contestazione all’autorità costituita: la protesta o “mossa” scoppiata nel 1797 nelle bettole del Borgo. Tutto ebbe inizio da un’istanza d’arengo presentata ai Reggenti nel mese di aprile, con cui si chiedeva di migliorare la qualità del pane, e d’impedire l’esportazione di vino fuori confine per non ridurne le scorte a disposizione dei residenti e vederne lievitare il prezzo come conseguenza.

L’istanza non produsse benefici, per cui gli istanti, capeggiati in questa prima fase dal borghigiano Giuseppe Moracci, cominciarono a rumoreggiare sempre più contro il governo, così indifferente dinanzi a richieste tese a portare giovamenti concreti all’intera collettività.

Un giorno di maggio proprio Moracci si accorse che alcuni forestieri sul loro carro stavano caricando vino acquistato presso la cantina Filippi di Borgo. Subito s’impegnò per cercare aiuto e bloccare la transazione, rimediando con facilità parecchi compagni decisi come lui a tenere il vino in Repubblica. Tutti insieme si recarono nella cantina e, con metodi bruschi e minacciosi, obbligarono i forestieri a riportarlo al suo interno. Con risolutezza poi fecero l’inventario di tutto il vino disponibile presso quella cantina e le altre del Borgo, buttando a terra anche la porta di chi si rifiutava di farli entrare.

A parte le richieste legate al pane e al vino, gli “insorgenti” volevano anche “mettere un buon ordine nel governo”, come confessò uno dei capi della sommossa al giudice inquirente che successivamente indagò su tali fatti. Infatti l’iniziale istanza divenne in fretta una critica politica, fomentata dalla mentalità rivoluzionaria importata nella penisola italiana dall’armata di Napoleone, ormai giunta attorno ai confini sammarinesi, cultura che stava esaltando i giovani e gl’innovatori.

Sulle ali di questo entusiasmo, il gruppo che aveva inventariato il vino, composto da una ventina di uomini tra cui parecchi del Borgo, qualche operaio di Città, e pochissimi contadini, si riunì più volte per stillare una seconda petizione da presentare alle autorità sammarinesi.

Il 3 giugno, giorno in cui era prevista la riunione del Consiglio Principe e Sovrano, i capi dell’ “Unione”, come veniva chiamato il gruppo ribelle, riuscirono a portare davanti al palazzo pubblico una novantina di persone e a presentare ai consiglieri il loro reclamo.

Nell’istanza si accusavano i governanti di aver sostituito la democrazia con la tirannia, perché avevano paradossalmente creato in una repubblica il ceto nobile, che andava abolito subito, essendo il responsabile dei maggiori guai sociali a San Marino e ovunque. I Francesi lo avevano fatto, dovevano farlo anche i Sammarinesi.

Furono inoltre avanzate altre critiche: i conti pubblici non venivano mai mostrati, per cui non si poteva sapere se fossero corretti; non vi era il rispetto dello statuto secentesco, che aveva regolamentato fino al secolo corrente con maggiore equità la vita politica e sociale del paese; il Consiglio non era composto da 60 membri, come doveva essere; le cariche pubbliche erano divenute una prerogativa dei soli nobili, mentre tutti i cittadini dovevano aver la possibilità di accedervi, e altro ancora.

Il problema del pane e del vino era scomparso per lasciare spazio solamente alle rivendicazioni di natura politica. Il Consiglio, intimorito dall’animosa effervescenza che vi era all’esterno del palazzo pubblico, stabilì all’istante di rendere i conti entro due mesi, di voler la piena osservanza dello statuto, ed elesse sette nuovi consiglieri per colmare i posti vacanti, tra cui Moracci.

Apparentemente l’Unione aveva trionfato, in realtà nei giorni seguenti gli animi rimasero bollenti, perché subentrò la convinzione che nulla di quanto promesso sarebbe stato attuato dai governanti, almeno non nei tempi celeri desiderati. L’abolizione della nobiltà era poi stata completamente disdegnata.

Il 12 giugno la “Mossa” si ripresentò sul Pianello in occasione di un’altra seduta del Consiglio per inoltrare una nuova istanza basata sempre sulle richieste del 3, e sull’eventuale convocazione dell’arengo dei capifamiglia per discutere la modifica delle norme statutarie. 

Gli “insorgenti” erano arrabbiatissimi, in diversi erano pure armati. Uno dei più decisi, Michele Martelli, aveva gridato che erano pronti a dar fuoco alle fascine accatastate ai piedi del palazzo pubblico, se le loro richieste non fossero state accolte.

I consiglieri, di fronte alla drasticità del momento e alla collera dei rivoltosi, che si era già manifestata nei giorni precedenti con alcuni episodi di prepotenza nel paese, garantirono che tutto quanto era stato richiesto sarebbe stato esaudito.

In realtà a partire dal Consiglio successivo del 25 giugno iniziò una sistematica opera di persecuzione nei confronti dei ribelli, con la creazione di un “Comitato di pubblica salvezza e polizia” che nel giro di un paio di mesi arrestò i principali capi dell’Unione, facendo fuggire fuori confine chi era riuscito a evitare la cattura.

Il processo che si svolse in seguito portò a varie condanne detentive, ma il Consiglio del 16 gennaio 1798 condonò le pene dietro assicurazione che i rivoltosi non avrebbero mai più contestato il loro Principe, ovvero il Consiglio stesso.

Negli anni seguenti gli uomini della Mossa abbandonarono completamente le velleità eversive manifestate nel 1797, ma nacque una nuova generazione di contestatori politici grazie alla cultura risorgimentale, e ai rifugiati politici che, a partire dal fallimento dei moti italiani del ‘20/’21 in poi, cercarono scampo sul suolo sammarinese dimorandovi per tempi anche lunghi.

Soprattutto col fallimento dei moti romagnoli del ‘30/’31 arrivarono parecchi rifugiati in Repubblica, in particolare nel Borgo, che offriva bettole, camere, botteghe, possibilità di sopravvivenza, nonché informazioni su quanto stava accadendo nel circondario riportate dagli ambulanti che regolarmente venivano a vendere i loro prodotti al mercato e alle fiere che vi si tenevano.

In una lettera datata 17 aprile 1831, il Reggente Biagio Martelli riferiva che un gruppo di borghigiani si era lamentato con lui perché in Città e in Borgo si facevano “complotti e adunanze” tra locali e forestieri “tanto nelle case che sulle strade o piazze parlando contro il S. Padre e le Truppe Tedesche”. Avevano anche accusato Francesco Parenti Righi, giovane farmacista del Borgo, di essere un “ribelle della Patria”, perché aveva preso parte ai moti in prima persona insieme ad altri giovani Sammarinesi.

Altro borghigiano che ebbe guai per i suoi ideali ribelli fu quel Domenico Maria Belzoppi a cui già si è accennato: egli fu arrestato sul suolo pontificio nel 1834 con l’accusa di essere un cospiratore, membro di una setta segreta, perché addosso gli fu trovato un documento d’ispirazione liberale. In seguito, nel Consiglio del 22 marzo 1842, egli sarà elevato alla nobiltà, pur dimostrandosi restio a tale distinzione che non avrebbe voluto accettare, ma nel ’34 era carbonaro convinto.

Nel 1845, invece, furono 13 i Sammarinesi accusati di sedizione per aver preso parte ai moti di Rimini condotti da Pietro Renzi, tra cui vari borghigiani, come David Casali, che incontreremo di nuovo fra breve quando parleremo dell’omicidio del Segretario di Stato Gian Battista Bonelli.

Pare, inoltre, che proprio in Borgo venissero fabbricate parecchie cartucce destinate a quei moti da parte di Giuseppe Pasqui, fratello maggiore di Luigi, assassino di Bonelli.

La prima guerra d’indipendenza vide la partecipazione di una ventina di giovani Sammarinesi, e negli anni successivi San Marino sempre più venne additato dai suoi confinanti, lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana, soprattutto dopo lo scampo garibaldino del luglio 1849, come rifugio troppo facile per i sovversivi, quindi assai pericoloso per il mantenimento della pace sociale.

Il 25 giugno 1851 truppe austriache e papaline entrarono in territorio sammarinese alla caccia di 400 presunti rifugiati. Alla fine, dopo perquisizioni meticolose e vari episodi di sopraffazione, in particolare in Borgo, ne furono arrestati solo 35 perché di più non ve n’erano.

Tra la gioventù locale simpatizzante per gli ideali mazziniani e risorgimentali l’episodio lasciò strascichi velenosi contro il governo, incolpato di essere stato troppo accondiscendente coi papalini. Già nel 1850 il giovane Giacomo Martelli del Borgo aveva scritto una dura lettera accusatoria verso i governanti, imputati di essere pseudo repubblicani e un “tiranno giogo”, documento in cui vi era un lungo elenco delle carenze politiche di San Marino e della sua situazione socioeconomica.

Queste tensioni sfociarono nell’omicidio di Bonelli, perpetrato in una data non casuale, il 14 luglio 1853, per mano di due giovani del Borgo: Luigi Pasqui e Marino Giovannarini, seguaci di Garibaldi nell’esperienza della Repubblica Romana, che “vivevano in moltissima familiarità coi più esaltati della Emigrazione (cioè i rifugiati politici), partecipavano intieramente alle loro idee, erano tutto giorno con essi”, come recitano le testimonianze reperibili negli incartamenti del processo con cui poi Giovannarini fu giudicato e condannato. Pasqui invece riuscì a fuggire e non finì mai arrestato. Erano insomma “pervertiti già nel retto senso morale, e politico”, nonché “intolleranti di ogni freno di legge e nemici di ogni principio d’Autorità”.

Dopo il delitto alcuni testimoni li avevano visti presso la bettola di David Casali, in Borgo, da cui erano usciti insieme ad altri di “trista fama” per schiamazzare gioiosi dell’accaduto. Coloro che assistettero al fatto “ebbero a meravigliarsi come quella brigata, insultando al pubblico dolore, si facesse sentire trastullata nel canto”.

L’omicidio Bonelli, insieme alla nomea eversiva dei borghigiani, fece accentuare le distanze politiche e morali con Città, principale sede degli oligarchi invisi ai democratici e dei “Signori”, cioè dei possidenti. L’uccisione nella piazza centrale del Borgo di Annibale Lazzarini, medico della zona, è la testimonianza più evidente di tale dissidio.

Dopo il delitto Bonelli e la morte del giovane conservatore Gaetano Angeli, rimasto accoltellato in Città durante uno scontro con tre ragazzi di tendenze politiche diverse dalle sue, Lazzarini aveva incominciato a importunare con prepotenza tutti coloro che, secondo lui, erano di tendenza riformista e democratica, prendendosela soprattutto con i borghigiani.  

Costoro non gliela perdonarono: il 26 agosto 1854, mentre transitava a cavallo per il Borgo, ebbe un duro alterco con alcuni della famiglia Martelli, di cui qualche membro risulta spesso presente  durante le diverse polemiche politiche svoltesi nel tempo contro il governo della Repubblica. Alla fine rimase ucciso da un colpo della sua stessa arma da fuoco durante un corpo a corpo tra lui e Giacomo Martelli, in pieno giorno sulla piazza principale del paese.

Il suo uccisore subì una pena lieve perché il processo che seguì appurò che era stato il medico a spianare per primo l’arma. Giacomo però non era certo un soggetto docile, ma faceva parte di quella generazione di giovani arrabbiati che sono stati determinanti nell’unificazione d’Italia.

Mazziniano convinto e deciso, frequentò l’università in Toscana, da cui fu espulso per propaganda contraria al governo del granduca Leopoldo II. Prese parte nel ’48 alla prima guerra d’indipendenza, poi fu protagonista diretto o indiretto dei fatti delittuosi del ’53 e ’54, che sconvolsero la pace sammarinese.

In seguito si laureò avvocato, ma fu sempre un sorvegliato speciale, prima dallo Stato Pontificio, poi da quello italiano. Nel 1870, dietro pressioni delle autorità regnicole, San Marino aprì un’indagine nei suoi confronti per verificare i suoi contatti col mazzinianesimo d’oltre confine, il suo ascendente sulla locale gioventù, il suo fanatismo politico.

Si scoprì che frequentava un gruppo mazziniano di Rimini, l’Associazione Democratica Universale, ma poteva essere definito un “galantuomo”. L’Italia comunque non si fidava troppo, per cui tornò alla carica per avvertire che egli stava costituendo sul suolo sammarinese una “Società d’azione” insieme ad altri due borghigiani, Felice Giovannarini e Ercole Casali, e che aveva contatti fitti con i principali capi del mazzinianesimo, tra cui il temuto Eugenio Valzania.

Il governo di San Marino tornò a tranquillizzare quello italiano, tuttavia Martelli continuò nella sua polemica contro l’oligarchia che governava il paese. Nel 1870, cooptato all’interno del Consiglio dei LX, divulgò uno scritto in cui specificò con rabbia: “Mai e poi mai accetterò di far parte di un simile consesso oligarchico e ipocritamente repubblicano”.

Anche il figlio Valerio nel 1885 emulò il padre quando venne cooptato in Consiglio, perché dichiarò di riconoscere solamente “nel popolo il diritto di scegliere i suoi rappresentanti”.

In questi anni Borgo rimase una fucina di pensiero ribelle, ostile alla situazione politica e sociale sammarinese, considerata estremamente obsoleta. Anche le acredini verso Città, sempre giudicata residenza degli ottimati che dominavano il paese e dell’aborrita nobiltà, sopravvissero ancora a lungo, nonostante l’inaugurazione del Teatro Concordia, avvenuta nei primi anni ’70, così chiamato proprio per auspicare una pacificazione tra i due Castelli.

Un fatto accaduto nel dicembre del 1889 ne è conferma. In quell’anno fu fondato in Città il “Circolo Titano”, ente in cui poter passare un po’ di tempo insieme leggendo e conversando, emulo del “Circolo Sammarinese” che già operava in Borgo. Si stabilì subito di permettere l’adesione al club di Città anche dei membri di quello borghigiano “per stringere così vieppiù i vincoli di fratellanza fra i Sammarinesi”. Tale cordialità venne subito contraccambiata dal Circolo Sammarinese, che aggiunse al suo statuto la stessa possibilità.

In Borgo esistevano anche altri gruppi con fini non sempre definiti, in parte politici, in parte ludici, ovvero i Circoli Unione, Giovane, Garibaldi e la Federazione Anarchica del Titano che, al di là del nome, hanno tramandato ben poco ai posteri come documentazione.

Nel 1893 qui nacque il primo partito politico sammarinese, quello socialista, per opera di 13 giovani del luogo che, all’ombra di una grande quercia che vi era all’epoca a Cailungo, si presero per mano  giurando di rimanere fedeli fino alla morte agli ideali socialisti.

Tra questi giovani non vi erano membri della famiglia Martelli, costanti contestatori del regime oligarchico, ma più vicini agli ideali di stampo liberale o repubblicano; vi era però Tullio Giacomini, cugino di Gino che tanto peso avrà nello sviluppo del socialismo locale, Alfredo Casali, figlio di Ercole, Giuseppe Giovannarini, Giuseppe Amati, Antonio De Biagi, Ettore Ghironzi, Giovanni Vincenti, Marco e Rufo Reffi, Marino Ravezzi, Angelo Corsucci, Raffaele Montemaggi, tutti borghigiani, a testimoniare ancora una volta la combattività politica del Castello e di certe sue famiglie che mal digerivano di essere messe in subordine rispetto alle famiglie “nobili”.

Gino Giacomini fu senza dubbio colui che più di tutti manifestò costante ostilità dialettica e oratoria verso i possidenti, i nobili e le famiglie oligarchiche di Città, in particolare contro i Gozi. Anche suo padre Remo, focoso garibaldino che aveva preso parte giovanissimo alla battaglia di Mentana nel 1867 con i volontari di Garibaldi, per molti anni componente non nobile del Consiglio, ebbe vari scontri di natura politica con i membri consiglieri di tale famiglia, per cui si sviluppò tra costoro una sorta di faida politica che determinerà la fuga da San Marino di Gino quando i Gozi, in epoca fascista, diventeranno i principali capi del paese.

Gino aveva studiato a Urbino e qui si era diplomato maestro elementare nel 1899. Dopo qualche anno d’insegnamento fuori territorio, nel 1902 fu chiamato a fare il maestro nelle scuole elementari del Borgo. Tornò in patria arrabbiatissimo contro le “male arti della camorra nobile” che, a suo giudizio, per antipatia personale e per paura dei suoi ideali di sinistra gli avevano impedito di svolgere il suo mestiere a San Marino fino a quel momento.

Il rientro di Giacomini coincise con l’avvio della battaglia politica di indole riformista che porterà alla convocazione dell’Arengo del 25 marzo 1906. Egli, insieme a un gruppo di fedelissimi amici del Borgo che lo considereranno sempre la loro guida, fu animatore instancabile del socialismo locale e del riformismo in genere, vivacizzando con zelo, spesso con eccessivo impeto, le battaglie politiche degli inizi del Novecento.

Come si è detto, questo costante attivismo, condito spesso da forte aggressività verbale nei comizi che teneva, nei numerosi articoli scritti per i giornali socialisti del circondario, nel periodico di indole riformista e socialista “Il Titano” fondato nel 1903, di cui fu anche direttore, lo renderà estremamente inviso ai conservatori, che potevano schierare tra le loro fila molti Sammarinesi.

Anche parecchi riformisti moderati ravvisarono nel socialismo e nello stesso Giacomini un pericolo e un possibile sconquasso delle logiche sociali di sempre, così come il vasto mondo cattolico vide in lui un senzadio e un mangiapreti, per l’acceso e rissoso anticlericalismo da cui fu sempre animato.

“La Libertà”, giornale del Partito Popolare stampato tra il 1920 e il 1923, nel suo numero 3 del 5 febbraio 1922 lo definirà “uomo che da oltre un ventennio fa pubblica propaganda di odio e che semina discordie insanabili”.  

La classe dirigente sammarinese pseudo nobile, insieme al vasto mondo passatista che ne costituiva la popolazione, voleva in definitiva perpetuare ad oltranza una gestione politica condotta da pochi, timorosi di perdere privilegi e anche la mitica libertà, ritenuta da costoro direttamente dipendente dal sistema istituzionale secentesco.

Borgo ha avuto un ruolo fondamentale nel rompere tale logica, e può essere considerato il polmone riformista della repubblica sammarinese già da vari secoli. I suoi progressisti, tramite le loro proteste, le organizzazioni che hanno creato, le ripetute battaglie politiche messe in campo, il prezzo che hanno pagato di persona per il loro credo politico, sono stati indispensabili per stimolare l’uscita di San Marino dalla sua dimensione arcaica ed elitaria, e per avviare il paese lungo percorsi storici più democratici e contemporanei.

 

 

 

 

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