Pagina Iniziale

Breve storia della balestra

 

 

L’uomo da tantissimi anni, pare addirittura 30.000, ha inventato e usato l’arco per difendersi e cacciare con un’arma che, accumulando energia tramite la tensione della sua corda, fosse capace poi di liberarla all’improvviso e di scagliare a lunga distanza proiettili ad alta velocità e con grande capacità di penetrazione.

La ricerca di una potenza  di tiro sempre più elevata portò nei secoli ad aumentare le dimensioni dell'arco: questo però divenne meno manovrabile a causa dell’incremento della resistenza alla tensione offerta dai materiali con cui era costruito.

La conseguenza principale di questa ricerca di maggiore gittata dei proiettili fu l'invenzione della balestra, arma nata per garantire estrema potenza di tiro abbinata ad una grande facilità d'uso.

Le origini della balestra sono incerte e non facilmente databili. Vari studiosi le fanno risalire alla penisola indocinese attorno al 2.500 a.C., supportati, in questa tesi, dal grande sviluppo che tale arma ebbe in questa zona del mondo sin da epoche remote. Le primitive balestre indocinesi erano costituite da un arco di bambù della lunghezza di 120 /150 cm., legato tramite corde di  erba secca ad un pezzo di bambù medio che fungeva da arco.

Ritrovamenti archeologici dimostrano che in Cina già più di 3.000 anni fa si  faceva  uso di grosse balestre grezze, così come sono state scoperte in tombe imperiali successive balestre dotate di meccanismo di sgancio bronzeo a scatto del tutto simile a quello usato sulle moderne balestre da gara.

In Giappone la balestra era sicuramente nota sin dal 1.000 a.C., ma pare che non divenisse mai  arma marziale, come invece era l'arco, in quanto i nobili la consideravano arma rozza,  quindi  indegna al loro status, e troppo pericolosa.

Un’ipotesi storica sostiene che l'uso della balestra si sia propagato all'Europa tramite la Persia,  che già in epoca antichissima intratteneva scambi commerciali con la Cina: l’uso dell’arma infatti si espanse nell'intero bacino del Mediterraneo passando dalla Persia all'Egitto, alla Grecia e a Roma.

Le prime balestre di cui per ora si abbia notizia per l’Europa apparvero tra il 200 ed il 150 a.C.: Tito Livio le cita fra le armi usate da Scipione nell'assedio di Cartagine.

I  romani, sin dal periodo del basso impero,  fecero largo uso di balestre e baliste (sorta di catapulte in grado di scagliare a distanza dardi e pietre), sia in forma leggera che di dimensioni gigantesche. E’ risaputo che nelle legioni di Giulio Cesare,  che parteciparono alla vittoriosa spedizione in Britannia del 55 a.C., i “balistari” avevano un ruolo di primaria  importanza.

Verso la fine dell' impero romano ogni centuria dell’esercito di Roma era dotata di almeno una "balista" montata  su affusti mobili e servita da ben 11 soldati: le pietre lanciate da  quest’arma erano in grado di far saltare le merlature delle più robuste mura, tuttavia i romani vi scagliavano anche frecce, torce accese e scarti ferrosi (chiodi, avanzi di lavorazioni e altro).

Le prime balestre vennero costruite con archi in legno, poi progressivamente sostituito dal metallo che, consentendo una spinta più forte, garantiva una maggior gittata, quindi una più alta penetrazione e letalità.  

Su alcuni tipi di balestra si usavano anche archi formati da vari strati di legname, così come tendini di animali, corna ed altro materiale in grado di fornire insieme elasticità, solidità e leggerezza, in particolare per gli archi di dimensioni più ridotte che venivano utilizzati a cavallo, o comunque senza piedistalli di sostegno.

Le balestre con l'arco in metallo ebbero grande sviluppo a partire dal XIV secolo, ma a causa del  loro ingombro e peso vennero usate prevalentemente nella difesa delle mura. 

Tale arma rappresenta il culmine nell'arte della costruzione  delle balestre: le sue  prestazioni sono rimaste ineguagliate sino alla comparsa dei moderni archi in fibra di vetro composita che oggi offrono caratteristiche assolutamente eccezionali con ridottissimi pesi. 

Moltissimi furono i modelli in cui la balestra venne costruita, ma la principale distinzione rimane fra le cosiddette “manesche”  (caricate a mano tramite leva o cinghia), e le grosse balestre da  postazione utilizzate per la  difesa dei castelli o delle navi. Le prime erano armi leggere, facilmente trasportabili ed usabili anche in campo aperto, quindi molto diffuse e ricercate sia per impiego militare che per cacciare.

Le seconde invece, che per il costo e la scarsa maneggevolezza erano piuttosto rare e in genere non erano di proprietà privata ma pubblica, rappresentarono una vera forma di artiglieria leggera con una potenza tale da far prendere posizione anche alla Chiesa la quale, per limitarne l'uso, emise due specifici divieti: il primo di Papa Innocenzo II (1130 - 1143) nel Concilio Laterano II del 1139 (“Illam mortiferam artem et Deo odibilem Ballistariorum et Sagittariorum adversus Christianos et Catholicos exerceri de cetero sub anathemate prohibemus”); il secondo con un bando di Papa Innocenzo III (1198 - 1216) con cui venne disposto, sotto pena della scomunica, che nessun signore dovesse far uso di quest'arma negli scontri fra cristiani, mentre era lecito il suo impiego nelle guerre contro gli infedeli.

Questo precetto rimase comunque disatteso fin dall’inizio e la balestra divenne l’arma preferita dei soldati mercenari, tanto che una delle clausole della Magna Charta (1215) metteva al bando dal regno inglese i balestrieri stranieri, responsabili di numerose agitazioni per la tracotanza e la violenza con cui agivano grazie ad un’arma tanto pericolosa e temibile.

Non era solo la potenza di tale arma a destare paura e a farne vietare l’uso, ma anche lo sconvolgimento che determinava nella cultura dei combattimenti e della guerra,  all’epoca considerata una vera e propria arte.

Infatti da chi faceva della guerra un mestiere e la sua specifica arte, come ad esempio i cavalieri, per citare proprio la categoria di guerrieri che si sentiva depositaria dell’arte della guerra, le balestre erano considerate armi ignobili ed indegne ad uno scontro leale perché uccidevano subdolamente a distanza, non attraverso un regolare e nobile duello corpo a corpo dove contava soprattutto la maestria personale, e vi era la piena consapevolezza di chi si aveva davanti perché lo si guardava dritto negli occhi mentre lo si affrontava.

Con la balestra, invece, il più umile e sprovveduto contadino poteva uccidere anche il migliore tra i cavalieri, per quanto questi fosse protetto da corazza e armatura, senza nemmeno correre grossi pericoli, perché poteva colpire standosene nascosto o a distanza.

Una simile polemica si ripresenterà puntualmente con la nascita e la rapida evoluzione delle armi da fuoco.

Quando però durante le crociate si capì che la balestra era comunque un’arma terribile, in grado di dare ai cristiani una notevole superiorità militare sugli infedeli, la polemica sulla sua poca nobiltà si spense e molteplici furono i tentativi per renderla più potente ancora. Sono noti quelli di Leonardo da Vinci che nel suo "Codice Atlantico" disegnò vari tipi di grosse balestre capaci di scoccare più frecce in  rapida sequenza o addirittura di abbattere le mura urbane con i loro potenti proiettili.

La ricerca per il miglioramento delle caratteristiche e della potenza dell'arma ebbe anche come conseguenza lo sviluppo della balistica e della metallurgia.

Altro caso di balestra in uso nei secoli addietro è rappresentato invece dai “balestrini ad ago”, armi piccole e infide in grado di  scagliare senza rumore e in maniera occulta aghi che spesso venivano immersi nel veleno.

Un ulteriore tipo di balestra cui merita accennare rapidamente è quella “a palla”, in grado di scagliare un sasso o una pallottola di piombo o di creta a notevole distanza. Dalle informazioni che si possiedono, pare che fosse un’arma particolarmente usata tanto che in un bando fiorentino del XVI secolo si arriva a proibirne detenzione e uso per i notevoli danni che provocava alla cacciagione e alle infrastrutture a cui i balestrieri erano soliti tirare per allenarsi nella mira.

Vi sono tracce pure di altri usi più benefici che si faceva della balestra in passato, come quello delle cosiddette balestre “mediche”, in cui la potenza che l'arco sviluppava veniva sfruttata per estrazioni particolarmente difficoltose di corpi estranei (frecce, lance) o anche di denti.

Le prime notizie certe sull’uso della balestra nell’Europa medievale risalgono all’XI secolo, epoca in cui Guglielmo il Conquistatore (1027 – 1087) chiamò a raccolta un considerevole numero di balestrieri, da lui inquadrati nelle truppe reali, per la sua campagna d'Inghilterra. 

Pochi anni dopo fu Luigi il Grosso (1081-1137) a sostenere l’uso della balestra per i notevoli vantaggi che aveva sull'arco, e per la sua maggiore letalità. In quel periodo si costituirono importanti compagnie mercenarie di balestrieri in grado di offrire i loro servigi a chi ne aveva bisogno e poteva pagare i loro salari, in genere più alti di quelli percepiti dagli altri soldati mercenari.

In Italia si trovano notizie sui balestrieri in cronache che risalgono a poco dopo il Mille, quando nessun altro popolo aveva ancora milizie organizzate di balestrieri. Nel 1003, per citare un caso documentato, si sa che un gruppo di balestrieri pisani compì prodezze e risultò micidiale in un assalto alla città di Olbia.

Numerosi furono i balestrieri genovesi e pisani che presero parte alla prima crociata (1096-1099). Gli ottimi risultati ottenuti da questi armati in Terra Santa contribuirono ad una diffusione ulteriore della balestra che, nel giro di pochi decenni, divenne la principale arma da offesa, perchè la sua precisione e la potenza di lancio la rendevano in grado di oltrepassare con le sue frecce qualsiasi scudo o corazza.

Fin dall’inizio del XII secolo vennero creati vari gruppi mercenari di  balestrieri (primi fra tutti i già menzionati genovesi) che combattevano per chi era in grado di assumerli sborsando cifre rilevanti. Nel 1245 Genova  poteva inviare ben 500 balestrieri in aiuto dei  milanesi in guerra contro l'imperatore Federico II, e molti di più, pare addirittura 15.000, un secolo dopo a Filippo IV di Valois nella  guerra da lui sostenuta contro Enrico III d'Inghilterra.

I balestrieri genovesi rappresentarono un importante esempio, probabilmente il primo, di corpo militare d'élite in Italia. La loro professionalità e abilità era molto nota, fatto che li rendeva particolarmente richiesti come alleati o mercenari. Essi erano tanto temuti che Federico II fece mutilare quelli presi prigionieri tagliandogli una mano e cavandogli un occhio per renderli inabili al combattimento con la loro arma..

Le continue richieste di balestrieri spinsero il comune di Genova a promulgare leggi per incoraggiare i cittadini a specializzarsi nel tiro con la balestra, e a permettere alle compagnie di balestrieri di requisire qualsiasi terreno per allenarsi al tiro: era sufficiente che vi esponessero un cippo con le loro insegne e potevano utilizzarlo finché ne avevano bisogno, poi veniva restituito al legittimo proprietario quando non serviva più alla compagnia.

La grande abilità dei balestrieri genovesi è enfatizzata in un testo in cui si descrive un loro modo piuttosto stravagante di allenarsi al tiro: si arrampicavano sull'albero di una nave e scoccavano le loro frecce contro delle piccole monete piantate sull'albero di un'altra nave collocata a giusta distanza. 

Anche vicino a San Marino operavano balestrieri di grande abilità e maestria: nel 1275, per fare un esempio, i soldati bolognesi vennero pesantemente sconfitti dalle milizie dei Montefeltro dotate di robuste balestre da posizione che risultarono micidiali per gittata e potenza. L’uso di questo tipo di balestra durò più a lungo di quelle portatili perché rimase come arma di difesa da utilizzare da sopra le mura che attorniavano le città.

Come si è già detto, essendo soldati scelti e specializzati, i balestrieri percepivano stipendi mediamente più elevati degli altri, quando ovviamente combattevano dietro compenso e non per obbligo. In genere non erano armati solo di balestre, ma anche di spada o di una grossa daga, che servivano a scopo difensivo nei combattimenti corpo a corpo.

Dall'esame di alcuni statuti comunali del XIV secolo si evince che l'armamento difensivo dei balestrieri era costituito da corazza, collaretto di ferro, cervelliera (elmo molto semplice e leggero) e guanti in maglia di ferro.

Poiché il tempo necessario per ricaricare la balestra era maggiore di quello delle altre armi da lancio, i balestrieri avevano l'esigenza di difendersi in maniera adeguata dal tiro del nemico, per cui erano spesso provvisti di un tipo particolare di scudo detto "pavese", alto circa un metro e mezzo, col quale si coprivano e proteggevano.

Anche Pisa, Lucca e Firenze si dotarono di un notevole numero di balestrieri. Si sa che  Firenze nel 1250 aveva istituito la propria milizia comunale ripartita in soldati a cavallo (i nobili) e a piedi (i popolani). Ogni compagnia possedeva armi proprie: venti balestre, venti lance, venti mannaie aretine. Fra le venti balestre, dovevano esservene 4 grosse, rispettivamente “a due piedi” o “a torno”. In tempo di guerra venivano chiamati alle armi soltanto i balestrieri ritenuti idonei per età e capacità. La scelta veniva fatta dai capitani della milizia cittadina, che era stata divisa in sei compagnie.

Nella seconda metà del XIII secolo in molte città si era soliti destinare il pomeriggio della domenica all’esercizio del tiro al bersaglio. Gli Statuti delle “Società del Popolo” di Cremona del 1270, per citare un esempio, imponevano al capitano della milizia, eletto in ciascuna porta o quartiere, l’obbligo di radunare una volta al mese, in giorno di festa, gli uomini a lui assegnati e di condurli “dopo il desinare al luogo detto il Ceppo per esercitarsi nelle armi”.

A Pisa, nella seconda metà del XIII secolo, i cittadini nel giorno di domenica erano soliti addestrarsi nel “trarre a mira” con gli archi e le balestre, tanto che il Comune, con apposito decreto, vietò lo svolgimento degli esercizi in determinati luoghi:

“Nessuno ardisca di tirare d’arco e di balestra né giuocare ad altro giuoco qualunque nelle Chiese di S. Maria e di S. Giovanni, né in quelle circostanze ad una distanza minore di dieci pertiche” .

I balestrieri pisani erano tenuti “tutti li di delle domeniche (…) d’andare a balestrare alle poste intorno alle mura della città e ad altri solitari luoghi”.

Il Comune di Genova nel 1352 giunse ad acquistare un pezzo di terra di proprietà dell’Abbazia di Santo Stefano per gli esercizi con la balestra, e nel 1386 comprò quattro tazze d’argento da dare in premio “a due balestrieri deputati sopra la milizia dell’arte del tirare con la balestra”.

A Lucca già nel 1315 si hanno tracce di un premio istituito a favore dei giochi con la balestra, e nel 1443 vi fu la codificazione del palio che si svolgeva in questa città con la stesura di un regolamento che prevedeva il suo svolgimento due volte ogni anno, il 1° maggio ed il 1° settembre: i balestrieri potevano scoccare un solo tiro, e sparavano ad una ruota al cui centro era collocato un cerchio denominato “brocca”.

A Massa Marittima nel 1476 fu stabilito che “si balestri un balestro ogni tre mesi. Che si dia agli giovani qualche exercizio laudevole, provveduto sia che quattro volte annue si facci balestrare di tre mesi in tre mesi, balistrandosi ogni volta tre volte, ciò è in tre di festivi comandati, e qualunque in quelli tre dì averà più colpi a lui sia donato un balestro d’acciaio con girello essendo massetario et abitante in Massa e non ad altri e di questa balestra due ne paghi il Comune di Massa, e gli altri due il Podestà cioè ogni Podestà uno, e in questo modo si diviaranno i giovani della caccia e inviaronnosi al laudevole exercizio del balestro, da poter essere utili nelli casi et tempi occorrenti”.

A Cremona, Firenze, Orvieto, Pisa, Recanati, Sansepolcro, Massa Marittima, Lucca il tiro era controllato da appositi ufficiali addetti a questo scopo dal  governo cittadino.

I comuni erano soliti dotarsi di un Maestro d'Armi, spesso proveniente da fuori, che era un artigiano specializzato nel costruire balestre, frecce e armi in genere per  tutta la guarnigione, e per questo ben pagato.

Da documenti tedeschi del XIII secolo emerge che una balestra da guerra  doveva  avere una gittata di almeno 320 metri con frecce di 100 grammi, ma è risaputo che vennero costruite balestre con prestazioni anche superiori.

Concorrente della balestra in questi anni rimase sempre l’arco che, con la sua leggerezza e manovrabilità, garantiva una maggior velocità di tiro, ma una minor capacità  di penetrazione e gittata. Gli arcieri britannici, famosi per il loro "Long Bow", si dovevano limitare all'impiego di archi con forza di lancio inferiore ai 45 Kg. che consentivano, con frecce speciali molto leggere, di raggiungere la distanza di circa 275 metri.

In Inghilterra l'arco godeva di simpatie particolari in quanto i signori temevano lo sviluppo indiscriminato della balestra, ritenuta un'arma che nelle mani del popolo poteva rappresentare una seria minaccia ai loro privilegi. Re Enrico VII giunse a proibire l'uso della balestra nel suo  regno, mentre  Edoardo IV proclamò  che ogni suddito vivente in Inghilterra dovesse  essere  proprietario  di un arco rapportato alla propria forza muscolare.

La balestra era nettamente più potente e mortale dell’arco, ma più lenta nella ricarica, tanto che i balestrieri erano spesso facile preda dei rapidi contrattacchi nemici. Proprio per questo motivo chi doveva utilizzare la sua arma non riparato da merli o difese di altro genere era costantemente scortato e protetto da un soldato/assistente detto “pancaccino”, o “tavolaccio” o “palvesario”, armato di un  grande scudo rettangolare dietro il quale  ci si riparava durante la fase di ricarica della balestra.

La disputa fra arco e balestra si mise particolarmente in luce nel corso della guerra dei cento anni (1339 – 1453) fra Francia ed Inghilterra, che vide  appunto contrapposti, con alterne fortune, i due gruppi di tiratori. I francesi, sostenitori dell'uso della balestra, soprattutto per l'aiuto loro fornito dagli abili balestrieri genovesi, dovettero soccombere nelle battaglie di Crezy (1346), Poitiers (1356) ed Azincourt (1415) proprio per la superiorità dimostrata dagli arcieri inglesi in condizioni climatiche sfavorevoli. Infatti se si bagnavano i meccanismi di sgancio delle balestre, queste non funzionavano in maniera appropriata, mentre agli arcieri bastava sganciare la corda del loro arco per mantenerla asciutta e pienamente efficiente.

Alla fine, comunque, gli inglesi, che pur disponevano di loro compagnie di balestrieri, persero la guerra, perchè i francesi, grazie ad una maggiore organizzazione della cavalleria e dei balestrieri, riuscirono vincitori in molteplici battaglie.

L'uso della balestra per fini bellici si protrasse ovunque fino agli inizi del XVI secolo, dopodiché le armi da fuoco presero gradualmente il sopravvento: infatti ci vollero molti anni prima che archibugi e le altre armi da sparo giungessero alla precisione di tiro e alla letalità della balestra.   

Dalle informazioni che ci sono pervenute, pare che l'ultima apparizione della balestra sui campi di battaglia sia stata nella battaglia di Marignano del 1514, dove agì un battaglione di balestrieri a cavallo nell’esercito di Francesco I, re di Francia, e nell'assedio di Torino del 1536, dove si ricorda che un balestriere da  solo riuscì ad abbattere  più nemici di quanti ne avessero abbattuti il gruppo degli archibugieri. 

Infine merita una rapida menzione la presenza di un gruppo di balestrieri fra le fila dei “conquistadores” che accompagnarono Cortes nella spedizione in Messico del 1521, ed in quella di Pizarro in Perù del 1524.

Ovviamente l’uso della balestra non fu solo militare o comunque di offesa; con la nascita dei liberi comuni e l'istituzione delle milizie cittadine, essa venne spesso utilizzata in tempo di pace per cacciare, per allenarsi o semplicemente per la disputa di gare e manifestazioni in grado di tenere in costante  esercizio i balestrieri del comune facendo divertire loro e il pubblico che accorreva numeroso per assistere alle competizioni.

Si ha notizia che fin dalla metà del XII secolo vi erano nel territorio pisano varie compagnie di balestrieri che si ritrovavano abitualmente nelle piazze della città anche in tempo di pace per addestrarsi. Ciascuna di tali compagnie disponeva di un proprio capitano, nominato dalle autorità politiche della città, che doveva addestrare all'uso delle armi e alla precisione nei tiri i balestrieri.

A Firenze nel 1356 fu emanata un'ordinanza con la quale si assoldavano 400 balestrieri, provvisti di celata, corazza, coltello e balestra con dieci verrette, che dovevano obbedire agli ordini di ufficiali a loro preposti e allenarsi con regolarità.

Tra i balestrieri venivano organizzate periodicamente gare a premi, fatto che accadeva un po’ in tutti i comuni che disponevano di milizie cittadine, per tenere gli armati in continuo esercizio. Non era nemmeno raro che venissero organizzate gare tra città diverse per mettere in competizione  tra loro le varie compagnie di balestrieri. 

Di alcuni comuni italiani esistono notizie assai dettagliate sui palii che vi si disputavano e sulle regole a cui dovevano sottostare i partecipanti. A Lucca, per citare un caso, la disputa del palio cittadino, riservato ai soli balestrieri del comune e del suo immediato circondario, risale al 22 giugno 1443,  data in cui fu stabilito un premio in fiorini d'oro per i balestrieri vincitori, ed un regolamento assai dettagliato a cui doveva rigidamente sottostare lo svolgimento del palio.

La gara si svolgeva due volte l'anno, il primo maggio ed il primo settembre, con assegnazione di un premio di 18 fiorini d'oro devoluto dal comune da dividersi fra i primi quattro classificati. Nel giorno prestabilito veniva affissa nel luogo del palio una ruota al cui centro vi era  un piccolo cerchio, detto "brocca". Ogni concorrente doveva scagliare una sola freccia, con sopra scritto il proprio nome, dalla distanza di 120 passi. Al termine della prova un'apposita commissione, sotto giuramento di non commettere ingiustizie e di eseguire il proprio compito con massima diligenza, si avvicinava alla ruota ed estraeva le frecce una ad una sino a determinare le quattro più vicine al centro: queste ovviamente  determinavano i vincitori del premio stabilito.

Il palio di Lucca era seguitissimo, tanto che nel 1448 le autorità dovettero prendere severi provvedimenti per impedire che le sentinelle preposte a fare la guardia alla città abbandonassero le postazioni che dovevano vigilare durante il suo svolgimento per prendervi parte.

Nella seconda metà del Quattrocento vi fu uno sviluppo notevole delle armi da fuoco ed un conseguente calo d’interesse per le balestre, che progressivamente vennero a scomparire dalle armerie dei comuni. Non a caso sempre per ilo comune di Lucca è documentato che nel 1490 si arrivò all'istituzione di quattro gare di tiro annue di cui due da disputarsi con le balestre e due con gli archibugi.

Ci sono inoltre pervenuti diversi atti ed inviti pubblici diffusi da parte delle autorità per invitare i cittadini ad acquistare armi da fuoco, ritenute ormai più efficaci alla difesa della comunità della balestra e delle armi in uso nei secoli precedenti. 

 

 

La balestra nella Repubblica di San Marino

 

 

Ormai è certo, grazie ai numerosi reperti archeologici emersi e che stanno emergendo tuttora, che il monte Titano ed il suo circondario hanno visto la presenza dell’uomo fin dalla Preistoria. E’ altrettanto certo, però, che la comunità da cui in seguito prenderà vita prima il Comune di San Marino, poi la Repubblica, si sviluppò soprattutto in periodo altomedievale, ovvero tra la caduta dell’impero romano e l’XI secolo.

Nei confronti di questo lungo periodo possediamo purtroppo scarsissime conoscenze per carenza di documenti. La prima fonte da cui ricavare qualche notizia è la famosa leggenda legata alla figura di Marino da Arbe, scritta in latino intorno al X secolo e ricavata da un racconto orale più antico, che probabilmente veniva trasmesso di generazione in generazione da coloro che all’epoca abitavano sul monte Titano.

Proprio perché è una leggenda ricca di elementi fantastici e nata più per esaltare le virtù religiose del santo lapicida venuto da oltre mare che per motivi storiografici, le notizie che questo documento ci fornisce, pur essendo importantissime perché uniche a fornirci una spiegazione logica della nascita della comunità sammarinese, sono comunque mitiche e non suffragate da ulteriori prove scritte o documenti in genere.    

Altra notizia che ci è pervenuta è invece legata ad un documento del 511 d.C., da cui risulta che sul monte in quel periodo sorgeva un monastero, forse il primo polo di attrazione per contadini e pastori che vi si insediarono attorno per motivi religiosi, ma anche per ricavarvi una qualche protezione, e che così facendo diedero origine ad un piccolo villaggio.

Da altri rarissimi documenti dei secoli successivi siamo venuti a conoscenza che la comunità del monte Titano ad un certo punto edificò un castello e una pieve, probabilmente intorno al X o XI secolo. Queste infrastrutture ci permettono di ipotizzare che attorno al Mille sul monte vi fosse già un gruppo abbastanza cospicuo di residenti stabili dediti al culto di San Marino e costituitisi in comunità soprattutto per motivi di sopravvivenza per l’aiuto reciproco che si potevano dare nella difesa delle loro case e delle loro famiglie dalle insidie e dai tanti pericoli di quei tempi travagliati.

I sammarinesi fin dall’inizio della loro evoluzione storica, dunque, si sono dovuti industriare per essere costantemente combattenti e difensori della loro vita e della loro terra, condizione che deve aver senz’altro accentuato la volontà d’indipendenza e di libertà dagli altri, favorito una energica diffidenza verso il mondo esterno, permesso il forte senso di appartenenza ad una comunità diversa e non schiava di nessuno, nota a sé e possibilmente ignota agli altri.

Questa mentalità, ben rintracciabile già in qualche testimonianza documentale del XIII secolo, nel tempo si legò sempre più a concetti  robusti come libertà e sovranità, concetti che in quei tempi remoti e difficoltosi non erano garantiti da nulla e che bisognava conquistare e difendere con armi e determinazione.

Accanto ai luoghi di culto, quindi, tanto importanti per la cultura e la vita quotidiana stessa dell’epoca, gli abitanti del Titano si preoccuparono di costruire robusti fortilizi adatti alla difesa della comunità. Infatti il centro abitato medioevale venne a crescere attorno alla prima torre, denominata “Guaita”, la cui cinta muraria fu gradualmente allargata e sempre più fortificata man mano che aumentavano i residenti, tanto che vennero edificati dopo il Mille e durante l’epoca comunale ben tre gironi murari.

D’altra parte la fase comunale fu quella in cui la collettività sammarinese sempre più si diede un’organizzazione sociale articolata e maggiormente strutturata, attuando anche un sistema di milizia cittadina per l’autodifesa che dobbiamo ipotizzare più organizzato e meno lasciato alla libera iniziativa dei singoli sammarinesi di quanto non succedesse nei tempi iniziali della comunità.

Le prime tracce di sviluppo del Comune di San Marino sono rintracciabili a partire dal 1243, quando si ha la prova dell’esistenza ai suoi vertici di due Consoli (Filippo da Sterpeto e Oddone di Scarito), tipici magistrati comunali, indubbi testimoni dell’inizio di un processo di autogoverno e di distacco dal dominio del vescovo del Montefeltro, autorità politica suprema fino a questo periodo.

La fine del 1200 fu il periodo in cui vennero redatti gli statuti del comune, i primi che ci sono giunti, anche se in parte incompleti. Nel secolo successivo San Marino proseguì nella lenta lotta per la sua indipendenza, partecipando alle battaglie che coinvolgevano la sua zona geografica, stringendo alleanze con chi lo poteva aiutare, in particolare con i conti di Urbino, continuando ad ampliare gradualmente il territorio tramite acquisti di zone e castelli limitrofi, o grazie a  sottomissioni spontanee.

Tra i documenti che ci sono pervenuti di questo periodo storico vi è un trattato di pace del 16 settembre 1320, tra Benvenuto vescovo del Montefeltro e i sammarinesi, che ci permette di sapere che negli anni precedenti erano avvenute aspre battaglie tra questi due contendenti, e che San Marino era riuscito a riportare vittorie importanti.

Un’altra pace tra i Malatesta, signori di Rimini, e la comunità del Titano, sottoscritta il 2 ottobre 1322, ci fa capire che non era facile sottomettere militarmente i sammarinesi in questi anni, perché oltre a possedere tre “Rocche fortissime” vigilate direttamente dagli uomini del comune stesso, come ci viene detto all’interno di una relazione del cardinale Angelico del 1371, possedeva un suo esercito capace ed efficiente.

D’altronde fin dalle prime norme statutarie locali che conosciamo si evince che una delle preoccupazioni prioritarie degli abitanti del Titano fu proprio la difesa militare della propria terra con fortilizi e militi in grado di preservarla al meglio.

Le torri e le mura erano infatti presidiate da uomini armati. Non soldati di professione, che il comune in genere non si poteva economicamente permettere, anche se ebbe in varie occasioni qualche mercenario alle sue dipendenze, ma semplici cittadini che, smessi gli abiti usuali di contadino, mercante, artigiano, prestavano la loro opera a vantaggio della collettività, obbligati in questo da leggi che li punivano con multe, carcere o esilio se non lo avessero fatto.

L’evoluzione e l’organizzazione delle milizie cittadine sammarinesi procedette senz’altro di pari passo con lo sviluppo del comune, della volontà autonomista e di quella coscienza sociale che è risultata basilare per l’evoluzione graduale e storica di una mentalità statale, e per la nascita del concetto di Repubblica di San Marino, che non a caso fa la sua prima apparizione sul finire dell’epoca comunale, ovvero nel XV secolo, e da lì si evolve.

In altre parole si può senz’altro dire che la strutturazione di un esercito sammarinese armato e funzionale, anche se non professionale, al cui interno avevano un posto di rilievo i militi per l’epoca più temibili, perché più micidiali, ovvero i balestrieri, di cui stiamo per parlare, sia un chiaro segno della volontà indipendentista e comunitaria, poi statale, dei sammarinesi, alla pari di altri segni analoghi, come l’elaborazione e continua revisione degli statuti, il perfezionamento del sistema istituzionale, l’accrescimento del territorio.

I militi avevano vari compiti da sbrigare legati al servizio di sentinella e di guardia, o al pattugliamento del territorio per controllare chi vi entrava e circolava. Questi servizi erano in genere sempre garantiti, in particolare durante momenti di turbolenza nel circondario e attorno ai confini, o di grande afflusso di gente, come poteva succedere durante i mercati settimanali che si tenevano ogni mercoledì in Borgo, o le varie fiere annuali, capaci di attirare tanta gente a San Marino per la sua collocazione strategica in un “luogo di mezzo”, ovvero tra mare ed entroterra, dove affluivano perciò merci di vario genere e provenienza.

Tutti i maschi residenti in territorio sammarinese tra i 14 ed i 60 anni di età erano tenuti a prestare servizio militare, e ad accorrere all’adunata quando sentivano i rintocchi della campana grande del paese, diversi in base al servizio da prestare e alla velocità con cui dovevano radunarsi.

Questi militi, iscritti in appositi ruoli costantemente aggiornati, venivano divisi in truppe scelte più attive ed impegnate, chiamate “cernae”, e truppe di riserva, chiamate “dupli”, composte da soldati ausiliari che avevano il ruolo di militi supplenti per sostituire gli assenti. Le cerne nel XIV secolo erano composte da 10/12 uomini, ma il loro numero ha subito variazioni nel corso del tempo.

Per quanto concerne l’armamento dei militi nei secoli in cui ancora non esistevano armi da fuoco, si sa che il comune sammarinese disponeva di una discreta armeria che veniva ampliata periodicamente con l’acquisto di armi nuove, tra cui le micidiali balestre. Il documento più antico in riguardo e sull’uso della balestra a San Marino che ci è pervenuto è proprio una norma statutaria, datata 7 febbraio 1339, che prescriveva ai Capitani Reggenti l’acquisto semestrale di una balestra a due piedi dotata di munizioni e di tutto quanto serviva per la sua piena efficienza da effettuarsi con denaro delle pubbliche casse. Se non lo avessero fatto, non avrebbero percepito lo stipendio. Questo è il teso originale:

 

“Anno domini millesimo CCCXXXVIIII, indictione VII, tempore domini Benedicti Pape XII, die VII mensis februarii, in Plebe Castri Saneti Marini.

Congregata generali Arenga Comunis Castri predicti, mandato discretorum virorum Dinarii de Casulo Capitanei et Fuschi Raffanelli Defensoris dicti Comunis, ad sonum campane et voce preconis, ut moris est eorum; qui Rectores una cum dictis et Comuni et ipsum Comune cum cisdem comuniter et concorditer, nemine discordante, statuerunt et reformaverunt quod quilibet Capitaneus et Defensor vel alius Rector, qui fuerint in ofitio dicti Comunis ab hodie in antea, vinculo sacramenti teneatur ante exitum eorum offitii reasignare et dare Massario Comunis, qui pro tempore fuerit in ofitio dicti Comunis, unam balistam a duobus pedibus, cum XXV quadrellis, cum uno bono baldrigo, sive de ligno sive de osso, expensis dicti Comunis; et qui non fecerit, perdat sallarium suum quod recipere deberet a dicto Comuni. De quo sallario dictam balistam cum dicto suo fornimento emere debeatur per dictum Massarium.

Presentibus Testibus Superbutio quondam Scarani, Blaxio De Stirpeto et Zamarino Fagnano, omnibus de Sancto Marino ».

Negli statuti del 1352/1353 la regola rimase pressoché invariata, mentre nelle norme statutarie del 1491 la balestra da fornirsi da parte di ciascuna Reggenza viene descritta meticolosamente dovendo essere “De acciario... cum tenerio bono et recipienti et cum molinello et cum pharetra cum viginti vertonibus ad minus”.

Quest’arma poteva essere “ad unum pedem” o “a duobus pedibus” (a un piede o due), ovvero con una staffa più o meno ampia nella quale il balestriere doveva inserire uno o due piedi per ten­dere la corda con entrambe le mani o con un molinello.

Il “baldri­go” era la noce di legno oppure d'osso ricavata da corna di cervo che recava da un lato una tacca più marcata dove veniva arrestata la corda dopo essere stata tesa, dall'altro una tacca più piccola in cui s’inseriva la leva che coman­dava lo scatto. Tale noce era accolta nella parte centrale del teniere o tiniere, solitamente di legno di rovere o di noce, lavorato con fregi e ornamenti. I quadrelli o vertoni erano le frecce fornite di punta di ferro talvolta quadra e di due alette di penna o di carta.

Un originale documento del 1406 custodito nell’Archivio di Stato sammarinese e messo in evidenza da studi recenti di Gaetano Rossi sulle armi e gli armati di San Marino ci fornisce il primo elenco di balestrieri sammarinesi che si conosca: è una lista di 75 nominativi tenuti a portare le balestre “ad custodiam mercati”, cioè per fare servizio di pattugliamento e vigilanza durante il mercato che si svolgeva a Borgo Maggiore.

Probabilmente, però, dovevano essere in numero ancora maggiore le balestre conservate presso la pubblica armeria, perché solo acquistandone due all’anno, come prescritto dalla rubrica sopra citata del 1339, nel 1406 se ne dovevano possedere come minimo 134, sempre che tutti i Reggenti abbiano obbedito alla prescrizione staturia.

Se si calcola che una balestra nel 1399 aveva un costo di quasi tre lire ravennate, che era somma all’epoca non da poco, si può asserire che il comune sammarinese nell’acquisto di armi investiva cifre importanti per le sue casse mai gonfie e ridondanti, anche perché è documentato che accanto alle balestre l’armeria pubblica disponeva di lance, scudi, spade e altre armi ancora, acquistate verosimilmente sempre con soldi del comune.

Uomini armati, in genere a coppie, ma anche in manipoli più numerosi, erano poi dislocati presso le porte d’ingresso di Città e Borgo, nelle piazze, in occasione di feste particolari o religiose, nelle torri, in luoghi strategici come il “Cantone”, il “Montale”, o nelle vicinanze del Palazzo Pubblico.

Da un altro documento, sempre messo in luce dagli studi di Gaetano Rossi e da questi ritenuto di fine ‘300, ovvero un elenco di 173 uomini che avevano consegnato al comune le loro armi, sappiamo che molti riuscirono a fornire solo forconi, mannaie e attrezzi agricoli vari che potevano essere usati come armi, non possedendo null’altro da poter utilizzare con tale funzione o comunque per armare i militi; altri diedero spade, scudi, corazze, lance e anche due archi, ma ben 41 uomini affidarono alla pubblica armeria balestre per un numero complessivo di 52, perché Andrea Cicharelli ne depositò addirittura tre, mentre Bentinus Paulinii, Jacobi Johanis, Franciscus Fuschini ed altri ancora ne consegnarono due a testa.

Queste armi vennero senz’altro affidate al comune a titolo di prestito, perché i sammarinesi oltre all’obbligo di  divenire militi all’occorrenza, avevano anche quello di fornire all’occorrenza le armi e gli attrezzi personali che potevano svolgere la funzione di armi.

E’ importante evidenziare che in tale elenco già appaiono alcune armi da fuoco: uno schioppetto, messo a disposizione da parte di un certo Bartolus Angeli, e una bombarda data da Minghinus Franceschi. D’altra parte nel secolo successivo le armi da fuoco ebbero uno sviluppo imponente, e le balestre divennero sempre più armi considerate obsolete, quindi usate di meno per fini militari rispetto ai periodi precedenti, anche se non scomparvero mai completamente perché erano particolarmente apprezzate soprattutto per la caccia grazie alla loro silenziosità, che consentiva di colpire la selvaggina senza spaventarla, ed all’indubbia precisione che avevano ormai raggiunto, precisione che le armi da fuoco ancora non possedevano.

Ci è giunta diversa documentazione di archivio che testimonia questo nuovo interesse del sistema militare sammarinese alle armi da fuoco. Da un elenco delle armi da tiro a disposizione dei cittadini, e quindi del comune, nella seconda metà del XV secolo ricaviamo che San Marino poteva già disporre di 68 archibugi, di cui ben 60 di proprietà privata, 6 schioppi, 41 schioppetti, ma ormai solo di 35 balestre.

In realtà le balestre in territorio erano sicuramente in numero maggiore, ma probabilmente non ci si preoccupava più di tanto di reperirle ed elencarle, dedicando invece maggior cura all’inventario delle sempre più fondamentali armi da fuoco. Questo lo si può dedurre da un altro documento datato 1517, sempre un inventario di armi, ma questa volta presenti nell’armeria pubblica, in cui risulta che lo Stato sammarinese, accanto a 17 archibugi, due moschetti ed altri pezzi di artiglieria, disponeva di una sola misera balestra, che venne affidata ad un certo Petro Marino per il suo servizio di guardia e pattugliamento, così come le armi da fuoco furono distribuite ad altri militi.

D’altra parte la lunga occupazione della Repubblica da parte di Cesare Borgia era avvenuta da pochi anni, per cui il timore che potesse risuccedere un fatto analogo in un periodo in cui tutti i signorotti della penisola italiana stavano cercando di espandere i loro domini doveva essere forte. Senz’altro da questo evento e dai tentativi di invasione della Repubblica da parte di Fabiano da Monte nel 1543, e Lionello Pio nel 1549, che per fortuna fallirono non dando adito ad altre occupazioni, si sviluppò la forte preoccupazione che si avverte nella documentazione pervenutaci dal XVI secolo di dotarsi di armi moderne e all’altezza dei pericoli reali che vi erano.  

Proseguendo nell’analisi di tale documentazione, del 16 dicembre 1521 ci è giunto un “Bastardello del conto de arme et poste di li homeni di sammarino et maxime schiopetti et omne altre sorte de arme al tempo del Capitenato di Miser Cristofano Martello et Jacopo di Ser Lodovico” che ci permette di capire la vasta diffusione di cui la balestra ancora godeva, perché accanto a schioppi, schioppetti, archibugi ed altre armi inventariate, risultano disponibili 89 balestre, chiaramente tutte private.

Non ci si limitava solo a contare le armi che la milizia poteva avere a disposizione, ma le si distribuiva puntualmente anche alle cerne in servizio di pattugliamento e guardia lungo tutto il territorio sammarinese. Così dallo stesso documento sappiamo che 7 balestre insieme a 7 schioppetti, 10 spade ed altre armi ancora vennero affidate al manipolo di 29 uomini messo a presidio di Cailungo, 6 balestre più altre armi al manipolo di Domagnano e a quello di Casole, 5 a quello di Monte Cucco e altre alle squadre di soldati più o meno numerose distribuite nelle zone considerate più a rischio, quindi bisognose di particolare vigilanza.

Da un documento di qualche mese dopo, che ci fornisce informazioni su come venivano presidiate le mura di Città, ormai complete nel loro terzo girone corrispondente alla cinta muraria che è giunta fino a noi e che attornia il centro storico, si evince che non vi erano balestrieri dislocati sulle mura, ma solo artiglieri con le loro armi da fuoco strategicamente distribuite lungo tutto il percorso delle mura stesse e a difesa delle tre porte che permettevano l’accesso al paese.

Le balestre e le armi bianche erano state invece distribuite ai vari manipoli o “cernoni” di militi che stazionavano all’interno di Città per difenderla in caso di sfondamento delle altre linee di difesa..

Molti di questi militi/balestrieri probabilmente furono quelli che qualche anno dopo parteciparono al palio del 3 settembre. Infatti sappiamo da un altro documento di archivio che nel 1537, nella tradizionale gara di tiro al bersaglio che si disputava da tempi imprecisabili nel giorno celebrativo del Santo fondatore, gareggiarono 52 tiratori armati di balestra o arco, come da tradizione, e 58 di archibugio, l’arma che sempre più soppianterà la balestra anche nella gara in questione.

I premi che potevano vincere erano: “panno da le calze”, “pignolato”, “beretta”, “trinchetti”, “stringhe”. Nel bando erano indicate anche alcune regole da rispettare: nessuno poteva tirare più di un colpo, tranne gli arcieri che potevano scoccare due frecce; vi era un segno per terra ad indicare il punto in cui doveva stare chi tirava, segno che non poteva essere oltrepassato per nessun motivo; il bersaglio degli archibugi, chiamato “rodella”, doveva essere più grande di quello riservato a balestra ed arco, armi che all’epoca verosimilmente possedevano ancora una maggiore precisione di quelle a fuoco; in caso di parità si doveva procedere ad un tiro di spareggio.

Per chi si volesse divertire a leggere direttamente il documento nell’italiano dell’epoca, lo si riporta integralmente:

 

I° Che nisiuno possa tirare altro che una volta cum uno instrumento et che non vaglia più de una volta excepto l'archo che po tirare doi frezze.

Item che nisiuno possa tirare sé prima non è descripto lo strumento et verreta et chi farà altramente la sua botta sia nulla.

Item che nisiuno possa passarli signi posti a tirare sotto pena de soldi 5 et la sua botta sia nulla.

ltem che nisiuno possa passare li signi a vedere le botte excepto li deputati sotto pena de soldi 5.

Item che la rodella grande sia de quelli da li archibusi et schioppi et la mezzana sia de le balestre.

Item che qualunque sarà più presso al signio o deluno o de l'altra rodella habia el panno da le calze et l'altro da botta di poi la prima più appresso habia il pignolato et berretta di chiarando la prima botta o de li archibusi et schioppi o de balestra et la seconda de laltro instrumento cio è se le balestre ha il panno li archibusi il pignolato et berretta et e converso.

Et se doi botte fosser pari de balestra in suo loco si debba ritirare et el medesimo de archibusi.

Et de li putti el primo de quello che sia più appresso al signio habbia li strinchetti et lo secondo le stringhe.

Seguiva un lungo elenco di nomi che in quel giorno parteciparono al palio:

 

Archibusi

 

El Capitano Girolimo

El Capitano Silvestro

Marco de santa...

Marcante de salverio 3

baldo de parro 1

Betto de vone

Marco de berardo

Vincentio de gioanne marino 3

Marino de paulo de giagnolo

Cedrino 2

Paulo de ser camillo 1

Ciccho mateo de marino 1

Mario de maestro paulo 1

Vincentius martini 2

Víncentius muracii 1

Mateus antoni lazarini 2

Augustinus le .....

.... marino proposto 1

Turcho 2

Iohannes antonius de veruculo

Paulus berti betini 1

Petrus marci betini 3

Simon cichi rusi de sancto leone

Cechus antonio de sonzino

Dionisio de rusciolo 2

Serafino de betino R

Renzino de andrea 1

Carlo de bonífacio 1

Antonio de pierantonio 1

Pierantonio dalbareto

Iohanne evangelista de montegiardino

Bonvincentius ser bartolomei S1 ar 1

Marinus Gabrielis S1

Giohanne andrea de berardino de brandano 1

Francisco de maso dal …

Ventura garzotto ar. 1

Alexander magistri lucii 1

Iohanne iacobus serafini 1

Tomas pasquini 2

Michael florentini

Laurentius bartolucii de zaninis

Franciscus paulini 1

Tomas íuliani pasquini 1

Iohannes de veruculo 1

Alenxius pasquini 1

Bastianus christofori giangii 1

Franciscus venturicii 1

Marcus tintor

Anestasius magistir pauli ar. 1

Baldo de parro 1

Cichus lancilocto 1

Cangio de Zocho 1

Piermarino de iacopo laurentio 1

Piermarino de maestro antonio

Hitrus venturini 1

 

Balestre et Archi

 

Sante de arcangelo Arch. 1

Gianinus Lancilotti B 1

Franciscus martolus 1

Magister mateus murator B 2

Petrus laurentius B 2

Ludovicus mazochetti B 1

Iohannes tomas de Montezardino B 1

Christoforus filippi de monzardino B 1

Iulianus matei gabrielis de mongiardino 1

Mengus blaxii de monzardino B 1

Iohannes... agate de monte B 1

Mateus fabriani de vallis 1

Doninus blondi de telio

Iohannes marini primi archi 1 f 2

Iohannes primi mucili Ar. 1 f 2

Santes Iacobus sabatini Ar. 1 f 2

Iohannes blaxi magistri Iohannis Ar. 1 f 1

Iohannes christofori paulini Ar. 1 f 2

Vincentius Iohannes marini

Marinus primi tome B 1

Frater leo de santo francisco 1

Iohannes batista bartolomei B 2

Menghinus antoni 1

Fabritius pierleonis 1

Christoforus picii 1

Híeronimus marini magistrí iohannis Ar. 1 f 1

Michele de mateo de biase B 1

Changio de Zoco B 1

Marinus pierpauli martelli B 1

Piermarino de marcantonio B 1

Fra augustino B 1

Cesar mariani B 1

........... Cangius Zochi B 1

Archibusi

Chicus Iuliani pasquiní El Bene 1

Christoforus Iohannes batiste

Tomasus Cimator S 2

Balestre

Christoforus Iohanne batiste 1

Marinus francini

 

Balestre

Maso de mazochetto

Marinus Iohannis

Iohannes batista venturinus

Petrus marini francini B 2

Chicus Iulianí pasquini 1

Bonettus

Alexander marini

Mariano 1

Iacobus de Zaninis

Ludovicus de Gianinis

Marcus de Zaninis

Iohannes Antonii pasquini 2

Batista Antonii pasquini 2

Benedetto de maso de Gianinis

Berardino de Minghino

Vangelista de Gianinis

........... Iohannis Antoni pasquini 1

 

Balestre de piculi

 

Piermateo de marchionne 1

Girolimo de ser antonio 1

Cesare de Iacopo 1

Vincentio de Serafino 1

 

 

(Archivio di Stato della RSM, Busta 301, Massaria Governativa)

 

La documentazione dell’Archivio di Stato della Repubblica di San Marino ci permette di tanto in tanto, purtroppo in maniera troppo sporadica e frammentaria, di avere ulteriori informazioni sull’uso delle balestre. Sappiamo che nel 1439 ai sammarinesi vennero richiesti da parte degli uomini di Montemaggio alcuni “molinelli” adatti a ca­ricare le balestre.

Nel 1440 la comunità del Titano commissionò ad un maestro d’armi di Urbino e in seguito acquistò sei balestre con mo­linello.

Nel 1462 i sammarinesi fornirono a Federico d'Urbino 12 “taragoni”, che erano scudi dietro i quali il balestriere si riparava mentre caricava la sua arma, e cinquecento “verrettoni”.

Nel 1516 venivano forniti dall’armeria sammarinese al Castello di Serravalle numerosi verrettoni, chiamati però in quell’occasione “passaduri”.

Dello stesso anno ci è giunta testimonianza di una sfida di tiro con i balestrieri di Rimini, così come nel 1588 sappiamo che si svolse un’altra gara di tiro con quelli di Santarcangelo.

Pur venendo dunque gradualmente soppiantata dalle armi da fuoco nella prima metà del ‘500, la balestra rimase come arma privata e da caccia presso diversi sammarinesi che dovevano usarla abitualmente a loro vantaggio o per loro diletto ogni volta che potevano.

Purtroppo non è ancora emersa documentazione su palii, o gare, o tecniche di allenamento nel tiro nei secoli in cui la balestra era maggiormente in uso, sempre che esista ancora. Il primo riferimento documentale ad un palio è quello del 1537 di cui si è detto. Altri scarni riferimenti a palii in cui il vincitore riceveva come premio un panno (palio oggi è sinonimo di gara, ma nel Medioevo significava proprio “drappo” o “panno”) si hanno nel 1578 e nel 1588.

La conferma, comunque, che a San Marino ci fossero ancora balestrieri e la consuetudine di tirare e gareggiare con quest’arma anche a fine ‘500, in epoca cioè in cui ormai era stata esclusa dalle possibili armi da guerra della comunità da inventariarsi periodicamente, ci viene sia da un bando datato 3 settembre 1578, sia dagli statuti editi nel 1600 in cui esiste un’intera rubrica, la numero XXXVIII del libro I, con cui viene regolamentato il palio del 3 settembre.

Il bando del 1578 dice:

 

Die 3 7bris 1578

Per parte et comissione delli mag.ci sig.ri cap.ni et sig.r comissario della terra di s. marino si notifica ad ogni et qualunq. persona tanto terriera quanto forastiera qualm.te dovendosi tra un' hora o due tirare il palio secondo il solito, sera lecito ad ogn'uno tirare a detto palio tanto con scioppo quanto con balestra una volta per o sola per ciascuna persona et che quello che con il scioppo fara migliore botta et più vicina al brocco havera per premio la metta del palio et l'altra metta sera di chi fara miglior botta con la balestra medesimamente con questo pero che chi intende tirare o con scioppo in una lista et quelli delle balestre sopra la veretta che intendono tirare (et medesimamente quando si apresentaranno per tirare debbiano fare motto al medesimo canciliero accio li venga scancelando), altrimenti tirando senza essere prima scritti la loro botta non valera cosa alcuna ne havera premio alcuno si come anco non havera quello che ardira di tirare più di una volta la botta seconda delli quali sera al tutto nulla Prohibendo espressamente che persona alcuna di qual si voglia e conditione non ardisca apressarsi alle rotelle mentre si tirera sotto pena di dieci scudi a chi contrafara da aplicarsi alla camera di detta terra di fatto.

 

(Archivio di Stato, R.S.M., busta 73, Bandi e notificazioni sec. XVI)

 

Per quanto concerne la norma statutaria del ‘600, invece, è logico ipotizzare che si sia sentita la sua esigenza solo con questi statuti (quelli precedenti infatti non ne hanno una simile) per il forte sviluppo registrato dalle armi da fuoco, che anche nel tiro al bersaglio si andarono ad affiancare inizialmente alle armi in uso nei secoli anteriori, palio che in precedenza, da tempi immemorabili e per consuetudine inveterata, come ci dice la stessa norma, era riservato alla balestra e presumibilmente all’arco. Non a caso la nuova disposizione statutaria prevede la possibilità di sparare con entrambi i tipi di arma come nel bando del 1578, ma non prevede l’arco, forse perché già da anni non partecipava più nessuno alla gara con quest’arma. Questa è la sua traduzione dalla versione originale in latino:

 

Del palio dei balestrieri ed archibugieri

 

Volendo seguire le vestigie, e l’inveterata consuetudine dei nostri maggiori, stabiliamo ed ordiniamo che i Signori Capitani pro-tempore ogni anno nel giorno della festa di San Marino nostro Protettore ed Avvocato, per maggiormente celebrarlo ed onorarlo, nonché per esercizio ed utilità dei Militari, debbano comperare a spese pubbliche qualche palio di panno, o di altra materia non eccedente il valore di quattro scudi, e proporlo, e donarlo a quello, o a quelli degli archibugieri della nostra giurisdizione, o forestieri, del quale, o dei quali gli archibugi caricati di una palla di piombo nella piazza nominata il Pianello, od in altro luogo, ad arbitrio dei Signori Capitani, abbiano vinto e superato i tiri degli altri per vicinanza al segno proposto. Ed altro simile palio i detti Signori Capitani debbano proporre e donare anche a quelli che fanno la prova delle balestre grandi, cioè a colui, la saetta della cui balestra colpirà più vicina al segno proposto.

                                                                                                                               

Il palio dunque veniva svolto sul Pianello e pare che l'antica torre campanaria della “Parva Domus”, che in antichità era una torre di vedetta per vigilare sul secondo girone delle mura, prima del suo restauro del 1932 recasse sui suoi muri ancora ben evidenti le tracce delle punte dei verrettoni che andavano fuori bersaglio. Tuttavia vedremo che il palio venne in seguito disputato nella zona della “Fratta”, ovvero tra la prima e la seconda torre, dove fino a tempi abbastanza vicini ai nostri vi era solo boscaglia disabitata e spazi dove si poteva sparare senza rischiare di colpire per disgrazia qualcuno.

Gli archibugi, comunque, ormai erano l’arma del momento e del futuro, e ce ne dà testimonianza anche qualche rubrica degli statuti: la numero XXXVII del libro I, per esempio, sancisce che tutti i militi dovevano accorrere all’adunata in fretta e muniti di polvere da sparo per la loro arma, di palle di piombo e di una corda da usarsi come miccia; la numero LIV, invece, obbligava i Reggenti a comperare a spese del comune una volta ogni semestre non più balestre, come in passato, ma “archibugi a cavalletto”, sempre “sotto pena di perdere il loro salario”.

Le balestre, quindi, non vennero considerate più utili militarmente, ma solo per uso privato, come poteva essere la caccia ed il palio del 3 settembre, quindi non vi era obbligo di portarle appresso ai periodici raduni delle milizie cittadine. In effetti già a partire dall’inventario delle milizie e delle armi del 1539 non c’è più traccia di balestre, così come in quelli successivi, mentre gli stessi documenti testimoniano la graduale ma costante crescita del numero delle armi da fuoco e degli addetti specializzati nel loro uso.

Nel 1606, però, il capitano delle milizie si lamentava con le autorità politiche che non tutti i militi disponevano di un archibugio: il Consiglio, comunque, si limitò a dare un laconico ordine al capitano stesso per far “trovare archibugi a quelli che hanno il modo”.

Nel 1643 il Consiglio giunse addirittura a sancire che tutti i cittadini ancora senza moschetto provvedessero a comperarne uno o due in base a quanto avrebbe stabilito il capitano delle milizie. Non sappiamo se tale prescrizione sia andata a buon fine, anche se è improbabile, vista l’impossibilità economica di molti sammarinesi di spendere denaro in fucili, tuttavia basti qui evidenziare che le armi da fuoco erano considerate strumenti fondamentali per la comunità, armi che dovevano obbligatoriamente essere presenti nelle singole case, così da esserlo in numero cospicuo in tutto il territorio.

Purtroppo non abbiamo cognizione esatta di quanto sia andato avanti l’uso di tirare al bersaglio per il 3 settembre sia con balestra, sia con archibugio. Le notizie in merito sono quasi inesistenti, ma sembra, e la cosa sarebbe anche molto logica vista la propaganda pro - archibugio di cui si è detto, che ben presto si tirasse prevalentemente con armi da fuoco, accantonando parzialmente o forse in qualche anno totalmente il tiro con la balestra, anche se abbiamo tracce di tiro al bersaglio con questo tipo di arma sicuramente fino al 1740. Da un’annotazione contenuta dentro il verbale della seduta consigliare del 20 marzo 1617, infatti, pare già che per la festa del Santo Patrono di quell’anno si sparasse solo con l’archibugio, tra l’altro non sul Pianello, ma nella zona della Fratta.

Un’altra annotazione del 1644, però, c’informa che il premio della gara di tiro al bersaglio venne elevato a 10 scudi, e tale somma più consistente fu messa in palio perché “tirino dette balestre, per essere il compimento di detta festa et antichità, et che molti vengono più per vedere quella curiosità et antichità che per altro.

Da queste scarne parole si evince che il tiro con le balestre doveva essere andato quasi in disuso, tuttavia lo si voleva mantenere in vita a tutti i costi perché già a metà Seicento rappresentava una forte attrazione, diciamo così “turistica”, per chi si recava alla festa del 3 settembre, essendo già considerato una “curiosità” ed una “antichità”.

Un decreto del 4 settembre 1648 ci comunica, invece, che chi in futuro avesse voluto tirare con l’archibugio durante il palio del 3 settembre aveva a disposizione un solo colpo, facendoci indirettamente comprendere che nel palio del giorno prima dovevano essere sorte polemiche proprio per questo motivo.

Altri rari documenti del periodo ci permettono però di intuire che presso qualche famiglia perdurava la consuetudine della balestra. Infatti in un bando emesso il 18 dicembre del 1613 si vietava di andare a caccia con archibugio o balestra o altri mezzi quando per terra vi era la neve.

Del 5 luglio 1615 esiste un altro decreto proibitivo della caccia ai colombi e ai piccioni con le stesse armi, divieto che verrà puntualmente rinnovato anche negli anni e addirittura nei secoli successivi, a volte nominando le balestre a volte no.

Non sappiamo, quindi, se effettivamente nel Settecento e nell’Ottocento qualcuno continuasse a sparare agli animali anche con la balestra, perché la stragrande maggioranza dei tanti bandi e dei divieti emessi per regolamentare la caccia parla di archibugi, lacci, reti, quasi mai d balestre. Non possiamo però escluderlo del tutto, perché qualche raro bando anche di questi secoli fa preciso riferimento a tale arma.

Non si può dunque escludere nemmeno che cultori di un’arma tanto antica partecipassero puntualmente al palio del 3 settembre, com’era d’altra parte consentito loro dagli statuti secenteschi. Carlo Malagola all’interno del suo volume sul cardinale Alberoni pubblicato nel 1886 ci dice che per festeggiare la liberazione della Repubblica dalle armate del cardinale, nel 1740 fu fatto un solenne triduo di ringraziamento al Santo Protettore nei giorni del 12, 13 e 14 settembre, ed in tale occasione si organizzò “sulla piazza del Pianello, appositamente addobbata, un divertimento allora in gran voga, cioè il tiro dei balestroni”, che avvenne tra “una infinità di populo concorso per godere di tale divertimento”.

Malagola ricava tali informazioni soprattutto da una lettera da lui reperita di un contemporaneo ai fatti narrati, tuttavia anche nella documentazione di archivio, precisamente nei verbali della Congregazione Generale, esiste la prova, risalente al 3 agosto di quell’anno, dell’organizzazione di questo solenne triduo, che venne preparato dalle autorità in maniera che ogni giorno previsto di festa, dopo messe, processioni, esposizione del reliquiario del Santo, spettacoli teatrali e altre celebrazioni ancora, si svolgesse sempre il tiro con la balestra.

Se nel 1740 venne dato tanto spazio al “tiro dei balestroni” ci è lecito ipotizzare, in assenza di documenti precedenti e successivi in grado di confermarlo con sicurezza, che il tiro con la balestra fosse considerato uno spettacolo particolare degno della massima attenzione da parte delle autorità civili, da favorire in occasioni eccezionali e quando si voleva fornire al pubblico una manifestazione speciale ed esclusiva.

Tuttavia, a parte quella appena menzionata, non abbiamo altre prove documentali che tale spettacolo, o anche il tiro con gli archibugi, venisse organizzato direttamente dallo Stato sammarinese per il 3 settembre o per altre ricorrenze. 

Infatti nei documenti di archivio si parla spesso di “solennizzare” o no la festa di San Marino, fatto che avveniva se vi erano a disposizione abbastanza denari, o comunque se non si stava attraversando un anno di particolare penuria, ma non si specifica mai se col concetto di “solennizzare” s’intendesse anche l’organizzazione del palio del 3 settembre, o se questo invece venisse preparato direttamente a livello popolare, cioè se per rispettare la tradizione i tiratori di archibugio o di balestra si ritrovassero spontaneamente in Città il 3 settembre per gareggiare fra loro e vincere il premio che comunque veniva messo in palio da qualcuno, probabilmente dallo Stato stesso.

D’altra parte per i secoli che stiamo esaminando non sono rintracciabili bandi o decreti pubblici che regolamentino o semplicemente notifichino al pubblico l’attuazione del  palio del 3 settembre, mentre invece vi è qualche scarna testimonianza che c’informa dello svolgimento periodico del palio, per cui è probabile che avvenisse per consuetudine e in base alla rubrica che lo sanciva ufficialmente all’interno degli statuti secenteschi, senza necessità di bandirlo o comunque annunciarlo in maniera solenne.

Può avallare questa ipotesi l’annotazione che si trova all’interno dei verbali della Congregazione Generale, in data 6 settembre 1742, con cui veniva stabilito che, dopo aver fatta una “ricognizione del colpo migliore, e legittimo in conformità allo Statuto”, il vincitore del “Palio dello Schioppo” di quell’anno era da considerarsi Pasquino di Pietro Tabarrini delle Muriccie.

Nel 1766, invece, non si riuscì a definire il vincitore del “Palio dello Schioppo”: “Perché in quest’anno non era stato dato a veruno il premio del Palio dello Schioppo, a mottivo dell’ambiguità de colpi, avendo uno di essi supplicato, e preposte le ragioni di dovere essere preferito coll’intesa, che il denaro fosse impiegato in un Officio di messe all'anime del Purgatorio. Al memoriale fu fatto un lectum per ciò che si richiedeva. Ma bensì fu data facoltà di fare un Officio Generale all’Anime del Purgatorio per pura divozione, ed a nome publico”.

Tornando al discorso relativo all’organizzazione della festa del 3 settembre, negli atti del Consiglio del 23 aprile 1726 si legge: “Non avendo questo Sig.r Arciprete l’anno passato fatto la Festa del Santo, e desiderandosi di veder troncato un tal abuso fù perciò proposto di trattare qualche aggiustamento, a fine sia fatta la detta Festa con tutto il decoro possibile a gloria di detto Santo nostro Protettore, sopra di che fù risoluto di sentire quali siano li sentimenti del detto Sig.r Arciprete, per potere communicari che saranno in altro Conseglio maturatamente risolvere e ciò a viva voce”.

In genere i denari per le celebrazioni del 3 settembre si rimediavano in parte dall’arciprete, che per l’anno in questione donò 15 mastelli di grano a vantaggio della festa, in parte da una questua svolta lungo tutto il territorio e organizzata da rappresentanti nominati dal Consiglio, o dai massari del Santo.

In base ai soldi rimediati si facevano venire dai dintorni musicisti e cantori, si organizzavano parate, celebrazioni civili e religiose, e la festa riusciva più o meno importante.

Il 3 agosto del 1727 sempre in Consiglio si dice: “Fù poi dagl’Ill.mi SS.ri Capitani fatta proposta come dovevasi contenere nella prossima Solenità del Glorioso Nostro Prottettore S. Marino sopra di che tenuto discorso fu risoluto di fare la Festa con il decoro possibile in conformità dell’anno decorso, e questa dal Publico istesso per non defraudare il Santo di detta solenità, ordinandosi una questua da farsi da’ Sig.ri Massari, e per compimento di ciò occorerà di spesa si dovesse mettere il Publico della sua Cassa regolandosi li SS.ri Massari in maniera che riesca la spesa decorosa sì, ma non disorbitante”.

Vi sono testimonianze precise, tuttavia, che per periodi anche lunghi la festa non venne solennizzata affatto. Il 21 luglio del 1771 nel Consiglio si dice: “Fù proposto, che per onore del Santo Nostro Protettore, e per decoro della Republica sarebbe stato bene ritrovare modo di solennizzare la Festa di esso Santo, giacchè da molti anni era stata tralasciata, tantopiù che il Sig.r Arciprete avrebbe contribuito scudi venti per sua parte. Fù applaudito il pensiero, e per l’effettuazione fù data la facoltà alla Generale Congregazione di formare il piano”.

Altre volte si dice di fare la festa “con economica decenza” (12 luglio 1784), “colla possibile decenza”(22 giugno 1788), “a misura delle questue e offerte” (29 luglio 1797) e con la preghiera ai consiglieri di dare il buon esempio (29 luglio 1787), oppure, negli anni migliori, “con Musica Forestiera” pregando i “Deputati per i Castelli, Ville, Borgo e Città” di darsi molto da fare al fine di rimediare i soldi necessari questuando porta a porta (5 luglio 1790).

Non è però possibile dire se il palio si svolgesse comunque a prescindere dai soldi che vi erano a disposizione e della solennità che si riusciva a fornire alla festa del 3 settembre.

Anche nell’Ottocento abbiamo precise testimonianze che, per carenza di mezzi, non sempre il giorno di San Marino veniva celebrato con solennità. Nel giugno del 1804, per fare un esempio, il Consiglio decise di “solennizzare la Festa del Nostro Glorioso Protettore S. Marino con quella maggior decenza possibile. Fù approvata la celebrazione della Festa in contrasegno di tanti benefizj ricevuti, e per implorare vi è più la sua protezione nelle nostre occorrenze, e fù rimessa all’EE. Loro l’Elezione de Deputati, e il modo di farla”.

Due anni dopo sempre negli atti del Consiglio si legge: “Di poi significarono di avere avute dell’istanze dalli Devoti del Nostro Glorioso Protettore S. Marino, acciò fusse in qualche maniera solennizzato la sua Festa, e a tale effetto l’EE. Loro avevano dato ordine di fare la questua a Grano per servirsene in questa occorrenza”, parole che ci permettono di comprendere che i cittadini contribuivano come potevano a favore della festa.

Nel 1808, invece, il Consiglio stabilì “di unanime sentimento (…) di tralasciare le pompe, e che la Festa consisti in Messe, ed’altre opere pie”.

Per lunghi anni non si parla più in Consiglio delle celebrazioni del patrono, fino al 1820, quando si stabilisce che la festa dovesse essere fatta, ma attenendosi ad un “decente e mediocre dispendio”.

Nel 1824, invece, si dice che “si dovesse fare nei trè giorni avanti alla Festa un devoto Triduo in ringraziamento al nostro Santo per le tante segnalate grazie distribuiteci con uffizio generale di Messe, e la sera l’esposizione del Sacro Capo e Benedizione, onde vieppiù pregarlo con fervorose preci della continuazione del suo valido Patrocinio, commettendone all’Ecc.ma Reggenza l’esecuzione”.

Altre testimonianze dei decenni seguenti ci dicono chiaramente che anche in questo secolo a volte si “solennizzava” il 3 settembre, a volte no, sempre in base al denaro che si riusciva a racimolare per farlo. Per la seconda metà del secolo, volendo citare qualche altro caso ancora, sappiamo che negli anni ’59 e ’60 la festa fu ridotta ai minimi termini “stante le politiche vicende”, come fu stabilito in Consiglio. Negli anni successivi, invece, la festa del 3 settembre fu a volte “solennizzata” con sparo di mortai e fuochi di artificio, come accadde nel 1877, e tramite l’utilizzo, dietro pagamento di qualche cifra, di musici, “Professori di Suono e di Canto” e strumentisti locali e non.

Quando si riusciva ad organizzare una festa con la presenza di un’orchestra completa e cantanti i costi naturalmente lievitavano ed i soldi spesso raccolti tra i sammarinesi, perché ancora vi era la consuetudine di andare per tutto il territorio a rimediare denaro, non bastavano. Allora in qualche occasione interveniva lo Stato, come nel 1865 o nel 1874, quando diede mille lire e la festa ne costò 1.378,40.

Oggi può apparire strana questa grande parsimonia anche in occasione di una festa importante come quella del 3 settembre, tuttavia bisogna costantemente tener conto, quando ci si rivolge al passato di San Marino, dell’estrema precarietà economica in cui versava sempre il paese, che aveva un’economia esclusivamente agricola, con anni in cui il raccolto era soddisfacente, quindi circolava qualche denaro in più anche per fare una festa, e anni di raccolto scarso, che significavano immediatamente per i più poveri fame e miseria, ripercuotendosi negativamente anche sulle casse pubbliche, che gestivano comunque continuamente bilanci assai meschini, ed entrate appena sufficienti a garantire una gestione elementare e ridotta ai minimi termini dell’apparato statale.

Chi osservando i festeggiamenti odierni del 3 settembre si aspettasse lo stesso sfarzo, gli stessi colori, la stessa vistosità o qualcosa di analogo anche per le feste del passato, rimarrebbe per forza di cose assai deluso, perché la Repubblica fino ad anni vicini a noi non si è mai potuta permettere nulla di simile, o anche di meno fastoso.

La festa del Santo patrono, al di là delle celebrazioni religiose e civili, era per la maggioranza dei sammarinesi una sorta di grande ritrovo in Città per mangiare le proprie cose, quelle cioè portate da casa, incontrare gente, fare quattro chiacchiere, partecipare alle celebrazioni religiose, presenziare alle parate della milizia e degli altri corpi armati locali ed assistere al tiro al bersaglio con gli archibugi che si faceva durante le ore pomeridiane nella Fratta, ovvero nel bosco tra la prima e la seconda torre.

Se in qualche occasione si svolgesse ancora il tiro con la balestra, o qualcuno si cimentasse anche con tale arma, magari solo per un’esibizione, non si può dire con certezza. Sicuramente però si sparava con l’archibugio: leggiamo una testimonianza in proposito grazie ad una breve ma interessante cronaca scritta da Oreste Brizi nel 1856:

“Bello è il vedere la Fratta nel giorno di S. Marino perdurante il tiro al bersaglio; mentre lo si vede popolata di molta gente cittadina e campagnuola parte spettatrice, parte attrice, e la maggior parte armata di fucili e intenta a caricarli o ripulirli. Bellissimo poi si era vedere la Fratta il dì 3 settembre 1840, epoca della festa centenaria, giacché, oltre i sammarinesi, assistevano al tiro molti forestieri, e parecchi aggregati alla Cittadinanza e alle milizie della Repubblica. Fra questi vi era io pure, ed io pure sparai il mio colpo, che sfiorò il bersaglio, ma non colse la rosetta”.

Il centenario di cui parla era quello legato alla liberazione della Repubblica dall’occupazione del cardinale Alberoni, festeggiato con uno stanziamento straordinario da parte del Consiglio di 100 scudi già per organizzare la festa di Sant’Agata.

Continua Brizi:

“Il pezzo di legno rotondo che serve di bersaglio è della larghezza di due terzi di braccio, e la cusetta o rosetta centrale stà nel mezzo di altro pezzo di legno sporgente in fuori, e corrispondente in dimensione al fondo di un bicchiere comune da vino. Tutti indistintamente possono col proprio fucile prender parte al tiro, e questo continua finché si presentano tiratori e non è colpita la rosetta. Quando niuno l’ha colpita e cessa il tiro per difetto di concorrenti, il vincitore del premio è quegli che ha messo la palla sul cerchio bianco, e nel concorso di varii, quegli la cui palla è più vicina alla rosetta stessa.

Ultimamente non ha avuto luogo il tiro al bersaglio nel giorno di S. Marino, ma riteniamo che la sospensione di esso fosse transitoria e cagionata da speciali circostanze, e che non avrà punto seguito; altrimenti non lasceremmo di condannarla in un coi suoi Autori”.

Il bersaglio era “un pezzo di legno nero di forma circolare, avente nel mezzo un punto egualmente nero circondato di bianco. Contro quel bersaglio ciascuno, standone distante cento passi, può alla sua volta tirare un colpo di fucile, e se la palla coglie il punto centrale di esso, un tamburo annunzia la vittoria, chi ha colpito nel segno riceve dall’uffiziale soprintendente al tiro il premio di quattro scudi, cessa il fuoco, e tutti abbandonano in un col vincitore la Fratta”.

Nel 1856 già da qualche anno il tiro al bersaglio non si svolgeva più, perché dopo l’uccisione del Segretario di Stato Gianbattista Bonelli, avvenuta il 14 luglio 1853 per mano di fanatici seguaci delle dottrine rivoluzionarie risorgimentali, in una sua seduta successiva, precisamente quella del 23 agosto, il Consiglio vietò per quell’anno lo svolgimento del tradizionale palio con queste parole: “La stessa Reggenza non trovando prudente, che nelle attuali circostanze si empie il paese d’Armati, come accade a motivo del premio al tiro degli archibugi solito a proporsi nella festività del nostro Protettore S. Marino opina che in quest’anno resti sospeso il pallio predetto, nel che da tutti unanimemente si conviene”.

In realtà anche gli anni successivi rimasero molto turbolenti, tanto che nel 1854 vennero uccisi altri due ottimati sammarinesi: il medico condotto Annibale Lazzarini, ed il giovane avvocato Gaetano Angeli.

Nel Consiglio del 31 agosto 1857 si tornò a parlare del palio: “Interpellato il Consiglio se si dovesse, o nò nella vicina Festa del S. Protettore fare il consueto tiro del Palio da varj anni sospeso - vi si legge – Fù risposto unanimemente che si continuasse a tener ferma la sospensione del predetto tiro, fino a che il Comando Superiore delle Milizie avesse stabilite delle norme per regolarlo, richiamando un tale esercizio puramente militare alla primitiva sua istituzione”.

D’altronde il paese nell’Ottocento era pieno di armi private. Più volte venne rinnovato il divieto di andare a caccia senza licenza o di circolare con armi da fuoco, pugnali, stiletti, come d’altronde succedeva in continuazione anche nei secoli addietro, divieto che veniva però in genere puntualmente disatteso, almeno per ciò che riguarda le armi più piccole ed occultabili.

Il palio del 3 settembre poteva per alcuni divenire un pretesto per disattendere i bandi proibitivi anche con le armi più voluminose, per cui si scelse di evitare questo pericolo e di lasciarlo congelato per un periodo indefinito.

Non sappiamo con certezza se negli anni successivi il palio del 3 settembre venisse resuscitato. Purtroppo ancora una volta occorre fare i conti con la poca ufficialità che veniva data a tale manifestazione, e la sua probabile organizzazione o comunque gestione di stampo popolare. Non esistono deliberazioni del Consiglio che ci dicono con chiarezza del suo ripristino, ma da una relazione finanziaria di Domenico Fattori datata 5 marzo 1884 pare proprio che il palio, dopo qualche anno di sospensione, fosse tornato miracolosamente in vita. Infatti per attuare economie nel pubblico bilancio, Fattori elenca tra le varie possibilità di risparmio anche quella di “abolire il tiro al bersaglio del 3 Settembre”, possibilità che ovviamente non avrebbe avuto senso individuare se effettivamente il palio era  ancora congelato dal 1853.

“Discusso il suddetto rapporto detagliatamente in ogni sua parte, il Consiglio Sovrano approvò i singoli provvedimenti sul resecamento dei diversi titoli di spese”, ci dice il verbale consigliare del 27 marzo 1884.

Venne dunque approvata anche l’abolizione del palio del 3 settembre, che in effetti nei decenni successivi, fino al 1956, non ci fornisce più traccia di sé.  

 

Storia della Federazione Balestrieri

1956 – 2006 

 

Per lungo tempo, dunque, il palio del 3 settembre rimase solo una tradizione perduta nel tempo e dimenticata dai più, finché nel 1956 il professor Giuseppe Rossi, cultore di cose sammarinesi e profondo amante delle tradizioni e del passato della piccola Repubblica, ebbe l’azzeccata idea di ripristinare l’antico e statutario palio delle balestre.

Perché lo fece? Utilizziamo direttamente le sue parole pronunciate nel 1985, momento in cui, dopo ben 30 anni di presidenza della Federazione, decise di lasciare il suo incarico:

 

“L'ho fatto con uno scopo molto preciso. Ho inteso porre l'accento su quel fattore rievocativo che, se adoperato a proposito, illustrato con chiarezza ed asserito con convinzione, diventa elemento educativo per i giovani sammarinesi.                                                                                            

Essere Balestrieri costituisce un atto culturale veramente nostro ed io sono stato il restauratore di questa tradizione con la piena coscienza di ciò che stavo facendo e degli scopi cui tendevo. 

Nessuno può esimersi dal constatare desolatamente che la mentalità dei nostri giorni si distanzia progressivamente da tutto ciò che è tradizione. I Sammarinesi stanno voltando le spalle al passato. Né vi è alcuno che tenti di opporsi a questa tendenza che assume ogni giorno di più l'aspetto di un fenomeno storico ormai irreversibile.

Tutti noi leggiamo giornali che non sono nostri, vediamo immagini televisive che non sono nostre, veniamo investiti da una somma di problemi che non ci riguardano, rincorriamo suggestioni nate altrove, prendiamo viva parte a un processo evolutivo che ci porta sempre più lontano dalle nostre origini. Ci stiamo maturando come cittadini del mondo, ma contemporaneamente dimentichiamo le origini, perdiamo il senso delle nostre proporzioni e omettiamo ogni giorno di più quell'atto di fede nei valori che hanno fatto la nostra Repubblica, con la sua umanità, con la sua giustizia, con le sue virtù.

Virtù, ho detto, quella principalmente dei nostri antenati, ai quali il bene della Repubblica appariva come lo scopo più alto dell'esistenza, cui era giusto sacrificare ogni altra prospettiva. In tale clima, la gara civile per il «cursus honorum» era riguardata come doverosa e il cittadino si sobbarcava i vari compiti amministrativi a puro titolo gratuito; né accadeva che improvvisi, inopinati e indebiti arricchimenti addensassero sul capo degli amministratori il grave sospetto che al pubblico vantaggio si fosse anteposto l'utile particolare. Perduti così di vista i costumi spartani del passato, ecco la Repubblica cedere alla suggestione della ricchezza, ecco i cittadini inseguire a gara il benessere, eccoli sottovalutare i valori morali; ed ecco il malo esempio degli adulti insinuarsi nelle coscienze dei giovani ai quali l'agone politico appare come la scala più agevole per l'arrampicata sociale e per il privato arricchimento.

In questo desolante aspetto della morale del nostro tempo, quando sembra ormai fatale il comune atteggiamento di volgere le spalle al passato, si evidenzia, si distingue e risplende la Federazione Balestrieri Sammarinesi, la quale ha richiamato i giovani al culto dei valori della tradizione. E se la balestra costituisce il simbolo della difesa delle nostre mura contro gli attacchi esterni degli usurpatori, essa, all'interno del nostro territorio, stimolando costanza, fedeltà e dedizione, è divenuta elemento moralmente utile alla formazione dei Cittadini. Quale in definitiva la ricompensa a chi si adopera nella Federazione? Il solo merito di essere ed essere stato fedele a questo ideale di rigoroso rispetto per i valori storici della Repubblica”.

 

Facendo rinascere un gruppo di balestrieri a San Marino, la volontà del professor Rossi era dunque quella di ripercorrere il passato per restituire ai giovani la consapevolezza di cosa volesse dire essere sammarinesi e da dove storicamente si provenisse:

 

“Quanta strada è stata percorsa dai tempi antichi quando noi Sammarinesi, per tutelare il nostro buon diritto all'autonomia, eravamo indotti a chiuderci nei nostri confini, «noti a noi e ignoti ad ogni altro». Sarebbe amaro constatare che, contemporaneamente al riconoscimento esterno della nostra sovranità, noi stessi dovessimo perdere giorno per giorno la coscienza della nostra identità statuale.

Nell'alternarsi e succedersi delle stagioni che danno il ritmo ad ognuno degli anni della nostra vita, notiamo come il nostro Paese, invaso nella grande estate da un'immensa folla cosmopolita, soffra del male del disordine e del disorientamento. Profittiamo quindi dell'inverno per ritrovarci fra di noi, per riconsiderare i nostri doveri, per ripassare la nostra vicenda storica e per mettere a fuoco i principi ispiratori della nostra evoluzione futura. Adoperiamoci con ogni mezzo a nostra disposizione per fortificare la nostra coscienza nazionale che sta divenendo ogni giorno più gracile. E sia anche la balestra uno dei fattori atti a tonificare la nostra identità di Sammarinesi”.

 

In definitiva per Rossi essere balestrieri costituiva senza dubbio “un atto di cultura sammarinese”, in grado di preparare i giovani “ad essere cittadini sammarinesi”.

L’idea di far rinascere un gruppo di tiratori con la balestra gli era venuta leggendo la rubrica che è stata riportata in precedenza, la numero XXXVIII degli statuti del 1600.

Inizialmente l’ipotesi non ebbe un grande seguito, poi però qualcuno incominciò ad entusiasmarsi ed a pensare che fosse realizzabile, per cui si cercarono sponsorizzazioni e ci si diede da fare per passare dall’idea alla concretizzazione del gruppo.

Nel 1956 l'Ente Governativo per il Turismo comprese che l’iniziativa era meritevole di appoggio, per cui stanziò una somma desti­nata a creare una Federazione Balestrieri.

Lo studio degli abiti dei balestrieri venne affidato alla pittrice Giulia Mafai che, tramite una precisa indagine storica ed iconografica, cercò di far rivivere i costumi tipici del XV e XVI secolo con una particolare varietà di fogge e di colori dovuta al fatto che i balestrieri, divisi in nove squadre, dovevano rappresentare i nove Castelli in cui è suddiviso il territorio di San Marino. Ciascuna squadra quindi doveva avere i colori della propria bandiera distribuiti negli elementi essenziali dell'abbigliamento di quei secoli. Questi costumi vennero utilizzati fino al 1967, quando vennero ridisegnati dal sammarinese Rosolino Martelli.

Il 31 luglio 1956 i Balestrieri sammarinesi fecero, dopo secoli, la loro prima uscita pubblica per le vie di San Marino salendo alla Cesta, ovvero la seconda torre, dove si schierarono lungo la scale di accesso, ai lati delle porte, tra i merli, nelle stanze interne. Qui attesero ed accolsero gli studenti di San Marino di California in visita alla Repubblica.

Le nove squadre, corrispondenti ai Castelli di San Marino, erano composte da cinque balestrieri ciascuna, più il portabandiera, cui si aggiungevano l'ufficiale, l'araldo, il paggio, due tamburini, due trombettieri per un totale di 61 uomini in tutto.

L'ufficiale dei balestrieri diede il benvenuto agli ospiti californiani con un saluto in latino scritto per l’occasione:

 

Vobis omnibus qui visum antiquissimam Rempublicam a Sancto Marino Dalmata tempore Diocletiani Imperatoris fundatam venire voluistis, salutationem amplissimam porrigimus et delectationem in oppido nostro et reditum secundum optamus. Valete semper. Rectores, Magistri et Discipuli Terrae Sancti Marini.

 

Un mese dopo, per la festa del Santo Patrono del 3 settembre, i balestrieri fecero la loro seconda uscita pubblica per ripristinare l’antico e tradizionale Palio di San Marino.

Grazie a tale occasione, ci si accorse però della necessità di apportare perfezionamenti alle balestre, che erano state ricostruite affrettatamente, per cui non avevano sufficiente gittata, ai bersagli, che erano una specie di taragoni di castagno alti da terra un metro e mezzo, al cerimoniale.

Si studiarono quindi il funzionamento delle vecchie balestre reperite nei musei, l'equilibrio dei verrettoni per i quali si forgiarono punte nuove, un diverso tipo di bersaglio fatto a rotella recante al centro il corniolo da porsi ad un'altezza di metri 2,50 e ad una distanza di 35 metri dal cavalletto del balestriere, gli antichi cerimoniali. Furono anche presi contatti con artigiani e con chi in Italia sapeva costruire ancora balestre, ma vari sammarinesi impararono con passione a creare e assemblare balestre.

Nel maggio del ’57 i balestrieri sammarinesi parteciparono al Corteo Matildico di Quattro Castella presso la Rocca di Canossa e al palio della balestra di Gubbio.

Il 3 settembre dello stesso anno, dopo che nel giorno precedente la Reggenza aveva emanato un decreto apposito che si richiamava esplicitamente alla rubrica XXXVIII degli statuti secenteschi, ebbe luogo nella cosiddetta “Cava Antica”, con inizio alle ore 18, il primo Palio di San Marino rivisto e migliorato in base alle esperienze acquisite, ed in questa forma fu celebrato in tutti gli anni successivi, anche se l’orario d’inizio fu in seguito portato alle ore 15.

Nei loro primi anni di attività i balestrieri utilizzarono il palazzo dell’Ente Turismo come sede dove depositare costumi, attrezzi e le prime 10 balestre acquistate nel 1958; successivamente venne loro affidato invece il piccolo locale sopra la Porta della Ripa, inadatto comunque alle loro esigenze, per cui si trasferirono in un locale affittato in via Giacomini, dotato anche di banco da lavoro dove curare e riparare le balestre.

Dopo qualche tempo, tuttavia, lo Stato affidò alla Federazione i locali posti davanti all’ex convento delle monache clarisse in Città, locali ancora sede dei balestrieri e del museo che è stato allestito con i cimeli, i costumi e le attrezzature utilizzate negli ultimi cinquant’anni, ma ormai smesse, ed inaugurato nel 1981.

I balestrieri negli anni si sono esercitati in varie località: nel campo di tiro di Murata, in quello della Baldasserona, a Fiorentino e a Valdragone, ma dal 1965 il loro campo di allenamento è divenuto una cava allora abbandonata e ricoperta di sterpi in Città, l’attuale “Cava dei Balestrieri” che, ripulita e adattata alle necessità dei tiratori e del pubblico che assisteva alle gare, venne inaugurata ufficialmente il 3 settembre del 1971, subendo riattamenti e perfezionamenti negli anni successivi.

Nel 1974 vennero affissi su una parete della cava gli stemmi delle cinque città (San Marino, Gubbio, Sansepolcro, Massa Marittima, Lucca) componenti la Federazione Italiana Balestrieri, fondata il 13 febbraio 1966 ed il cui primo torneo nazionale individuale si svolse il 10 luglio dello stesso anno proprio a San Marino. Primo presidente di questa Federazione fu proprio il sammarinese Giuseppe Rossi.

Queste città, ad eccezione di Lucca, nel maggio del 1971 si accordarono anche per creare un campionato nazionale a squadre, la cui prima edizione si svolse il 18 luglio di quell’anno a Gubbio e vide trionfare proprio la squadra sammarinese, che mantenne il titolo di miglior squadra italiana di tiro con la balestra per ben otto anni consecutivi a testimonianza della grande abilità acquisita dai balestrieri che la componevano.

Nei primi anni della loro vita i balestrieri si allenarono, parteciparono ai pochi palii che si disputavano in giro per l’Italia, perfezionarono le loro armi e la loro tecnica. Riuscirono ad ottenere un secondo posto nel palio del Castello Sforzesco di Milano il 20 maggio 1962, parteciparono in luglio al primo palio svolto al Castello di Gradara, in settembre al palio di Sansepolcro e sfilarono qualche giorno dopo al Corteo della Vendemmia di Lugano, e finalmente il 18 giugno 1964 si affermarono per la prima volta in un torneo contro i balestrieri di Sansepolcro, vincendo il palio che in quel giorno venne disputato a Caprese Michelangelo in onore del grande artista rinascimentale.

Un mese dopo, precisamente il 12 luglio, risultarono ancora una volta vincitori contro lo stesso gruppo di balestrieri in una gara disputata nel castello di Poppi in occasione del settimo centenario della nascita di Dante Alighieri.

Il 20 settembre dello stesso anno, invece, i balestrieri sammarinesi si recarono in Francia, a Vichy, per disputare un palio locale di cui risultarono vincitori.

Ormai la Federazione stava dando ampia dimostrazione di essere competitiva ed in grado di gareggiare a testa alta con chiunque, per cui fu deciso di ampliare il numero delle balestre a disposizione, che in quel momento era di venti in tutto, così da fornire ad ogni balestriere un’arma personale.

L’interesse verso la balestra crebbe gradualmente anche in paese, tanto che vari insegnanti delle scuole elementari vollero incontri tra i loro studenti ed i balestrieri per avere informazioni sulle loro armi, le tradizioni, la storia di cui erano continuatori.

D’altronde nel 1972 nacque il campionato sammarinese individuale, nel ’76 quello a squadra, mentre nel ’74 vi fu il riconoscimento giuridico della Federazione Balestrieri da parte del Consiglio dei XII, tutti fattori che contribuirono a consolidare la Federazione ed a renderla una presenza sempre più costante all’interno della società e del folclore sammarinese.

Nel 1975, inoltre, i balestrieri diedero alle stampe anche un loro periodico, il “Passaduro”, che oltre a fornire informazioni sulla vita della Federazione, fu indubbiamente un importante veicolo per reclamizzarsi tra la gente della piccola Repubblica. Uscì per diverso tempo, poi si decise di cessarne la pubblicazione.

Oltre ad affermarsi a livello locale ed italiano, la Federazione ebbe importanti riconoscimenti anche in Europa, e partecipò a tornei o manifestazioni in Germania, Belgio, Svizzera ed altre nazioni ancora, così come nel mondo, tanto che recentemente i suoi balestrieri hanno sfilato e dato dimostrazione della loro maestria perfino in Brasile.

Nel settembre del 1975, dopo aver partecipato all’Oktoberfest di Monaco, i balestrieri vennero calorosamente accolti al loro ritorno dai commercianti e dagli operatori turistici sammarinesi come promotori “di un messaggio pubblicitario di grande portata”, in grado di tener vivo a livello internazionale l’interesse della gente verso la Repubblica di San Marino.

Nel 1977 giunse un altro importante riconoscimento: la Reggenza appuntò al Gonfalone della Federazione la medaglia d’oro al merito, importante onorificenza decretata dal Gran Magistero di Sant’Agata  il 5 febbraio in quanto i balestrieri avevano saputo portare “la bandiera sammarinese con onore in Patria, in Italia ed in Europa, destando entusiastica eco folcloristica, riportando grandi successi agonistici, promuovendo la conoscenza di San Marino con grande vantaggio per il consolidamento delle tradizioni avite, per l’educazione patriottica della gioventù e per lo sviluppo dell’industria turistica sammarinese”.

La Federazione negli anni successivi non si accontentò comunque dei traguardi raggiunti e dei contatti stabiliti, ma, ampliando il numero dei suoi aderenti, volle accrescere ulteriormente la proposta folcloristica e lo spettacolo che già poteva fornire al pubblico: per tale motivo nel 1982 decise di costituire al suo interno un gruppo di sbandieratori, cosa resa possibile dalla collaborazione e dall’amicizia offerte dai valenti sbandieratori di Sansepolcro, che istruirono nella difficile arte delle bandiere alcuni giovani sammarinesi.

Merita evidenziare che la Federazione Italiana ed Internazionale dei giuochi e sports antichi della bandiera era stata creata proprio a San Marino il 22 e 23 ottobre del 1966 durante un convegno internazionale qui svolto a tale scopo a cui presenziarono 15 associazioni italiane ed europee di sbandieratori.

La prima esibizione dei giovani sbandieratori sammarinesi avvenne nello stesso anno, poi come successe per i balestrieri, nelle stagioni successive il loro numero aumentò gradualmente fino a divenire una componente essenziale e ormai irrinunciabile del pittoresco spettacolo che la Federazione Balestrieri è attualmente in grado di offrire ai tanti spettatori che accorrono alle manifestazioni che organizza o a cui partecipa, grazie anche all’apporto dei musici, dei nobili e dei diversi personaggi in costume che oggi compongono abitualmente le sue sfilate, tutte figure di cui la Federazione Balestrieri si è dotata negli anni successivi per rendere sempre più scenografiche e ammirevoli le sue uscite pubbliche.

 

 

Copyright© 2006 Verter Casali