Breve storia della balestra
L’uomo da tantissimi anni, pare addirittura 30.000, ha inventato
e usato l’arco per difendersi e cacciare con un’arma che,
accumulando energia tramite la tensione della sua corda, fosse
capace poi di liberarla all’improvviso e di scagliare a lunga
distanza proiettili ad alta velocità e con grande capacità di
penetrazione.
La ricerca di una potenza di tiro sempre più elevata portò nei
secoli ad aumentare le dimensioni dell'arco: questo però divenne
meno manovrabile a causa dell’incremento della resistenza alla
tensione offerta dai materiali con cui era costruito.
La conseguenza principale di questa ricerca di maggiore gittata
dei proiettili fu l'invenzione della balestra, arma nata per
garantire estrema potenza di tiro abbinata ad una grande
facilità d'uso.
Le origini della balestra sono incerte e non facilmente
databili. Vari studiosi le fanno risalire alla penisola
indocinese attorno al 2.500 a.C., supportati, in questa tesi,
dal grande sviluppo che tale arma ebbe in questa zona del mondo
sin da epoche remote. Le primitive balestre indocinesi erano
costituite da un arco di bambù della lunghezza di 120 /150 cm.,
legato tramite corde di erba secca ad un pezzo di bambù medio
che fungeva da arco.
Ritrovamenti archeologici dimostrano che in Cina già più di
3.000 anni fa si faceva uso di grosse balestre grezze, così
come sono state scoperte in tombe imperiali successive balestre
dotate di meccanismo di sgancio bronzeo a scatto del tutto
simile a quello usato sulle moderne balestre da gara.
In Giappone la balestra era sicuramente nota sin dal 1.000 a.C.,
ma pare che non divenisse mai arma marziale, come invece era
l'arco, in quanto i nobili la consideravano arma rozza, quindi
indegna al loro status, e troppo pericolosa.
Un’ipotesi storica sostiene che l'uso della balestra si sia
propagato all'Europa tramite la Persia, che già in
epoca antichissima intratteneva scambi commerciali con la Cina:
l’uso dell’arma infatti si espanse nell'intero bacino del
Mediterraneo passando dalla Persia all'Egitto, alla Grecia e a
Roma.
Le prime balestre di cui per ora si abbia notizia per l’Europa
apparvero tra il 200 ed il 150 a.C.: Tito Livio le cita fra le
armi usate da Scipione nell'assedio di Cartagine.
I romani, sin dal periodo del basso impero, fecero largo uso
di balestre e baliste (sorta di catapulte in grado di scagliare
a distanza dardi e pietre), sia in forma leggera che di
dimensioni gigantesche. E’ risaputo che nelle legioni di Giulio
Cesare, che parteciparono alla vittoriosa spedizione in
Britannia del 55 a.C., i “balistari” avevano un ruolo di
primaria importanza.
Verso la fine dell' impero romano ogni centuria dell’esercito di
Roma era dotata di almeno una "balista" montata su affusti
mobili e servita da ben 11 soldati: le pietre lanciate da
quest’arma erano in grado di far saltare le merlature delle più
robuste mura, tuttavia i romani vi scagliavano anche frecce,
torce accese e scarti ferrosi (chiodi, avanzi di lavorazioni e
altro).
Le prime balestre vennero costruite con archi in legno, poi
progressivamente sostituito dal metallo che, consentendo una
spinta più forte, garantiva una maggior gittata, quindi una più
alta penetrazione e letalità.
Su alcuni tipi di balestra si usavano anche archi formati da
vari strati di legname, così come tendini di animali, corna ed
altro materiale in grado di fornire insieme elasticità, solidità
e leggerezza, in particolare per gli archi di dimensioni più
ridotte che venivano utilizzati a cavallo, o comunque senza
piedistalli di sostegno.
Le balestre con l'arco in metallo ebbero grande sviluppo a
partire dal XIV secolo, ma a causa del loro ingombro e peso
vennero usate prevalentemente nella difesa delle mura.
Tale arma rappresenta il culmine nell'arte della costruzione
delle balestre: le sue prestazioni sono rimaste ineguagliate
sino alla comparsa dei moderni archi in fibra di vetro composita
che oggi offrono caratteristiche assolutamente eccezionali con
ridottissimi pesi.
Moltissimi furono i modelli in cui la balestra venne costruita,
ma la principale distinzione rimane fra le cosiddette
“manesche” (caricate a mano tramite leva o cinghia), e le
grosse balestre da postazione utilizzate per la difesa dei
castelli o delle navi. Le prime erano armi leggere, facilmente
trasportabili ed usabili anche in campo aperto, quindi molto
diffuse e ricercate sia per impiego militare che per cacciare.
Le seconde invece, che per il costo e la scarsa maneggevolezza
erano piuttosto rare e in genere non erano di proprietà privata
ma pubblica, rappresentarono una vera forma di
artiglieria leggera con una potenza tale da far prendere
posizione anche alla Chiesa la quale, per limitarne l'uso, emise
due specifici divieti: il primo di Papa Innocenzo II (1130 -
1143) nel Concilio Laterano II del 1139 (“Illam mortiferam artem
et Deo odibilem Ballistariorum et Sagittariorum adversus
Christianos et Catholicos exerceri de cetero sub anathemate
prohibemus”); il secondo con un bando di Papa Innocenzo III
(1198 - 1216) con cui venne disposto, sotto pena della
scomunica, che nessun signore dovesse far uso di quest'arma
negli scontri fra cristiani, mentre era lecito il suo impiego
nelle guerre contro gli infedeli.
Questo precetto rimase comunque disatteso fin dall’inizio e la
balestra divenne l’arma preferita dei soldati mercenari, tanto
che una delle clausole della Magna Charta (1215) metteva al
bando dal regno inglese i balestrieri stranieri, responsabili di
numerose agitazioni per la tracotanza e la violenza con cui
agivano grazie ad un’arma tanto pericolosa e temibile.
Non era solo la potenza di tale arma a destare paura e a farne
vietare l’uso, ma anche lo sconvolgimento che determinava nella
cultura dei combattimenti e della guerra, all’epoca considerata
una vera e propria arte.
Infatti da chi faceva della guerra un mestiere e la sua
specifica arte, come ad esempio i cavalieri, per citare proprio
la categoria di guerrieri che si sentiva depositaria dell’arte
della guerra, le balestre erano considerate armi ignobili ed
indegne ad uno scontro leale perché uccidevano subdolamente a
distanza, non attraverso un regolare e nobile duello corpo a
corpo dove contava soprattutto la maestria personale, e vi era
la piena consapevolezza di chi si aveva davanti perché lo si
guardava dritto negli occhi mentre lo si affrontava.
Con la balestra, invece, il più umile e sprovveduto contadino
poteva uccidere anche il migliore tra i cavalieri, per quanto
questi fosse protetto da corazza e armatura, senza nemmeno
correre grossi pericoli, perché poteva colpire standosene
nascosto o a distanza.
Una simile polemica si ripresenterà puntualmente con la nascita
e la rapida evoluzione delle armi da fuoco.
Quando però durante le crociate si capì che la balestra era
comunque un’arma terribile, in grado di dare ai cristiani una
notevole superiorità militare sugli infedeli, la polemica sulla
sua poca nobiltà si spense e molteplici furono i tentativi per
renderla più potente ancora. Sono noti quelli di Leonardo
da Vinci che nel suo "Codice Atlantico" disegnò vari tipi
di grosse balestre capaci di scoccare più frecce in
rapida sequenza o addirittura di abbattere le mura urbane
con i loro potenti proiettili.
La ricerca per il miglioramento delle caratteristiche e della
potenza dell'arma ebbe anche come conseguenza lo sviluppo della
balistica e della metallurgia.
Altro caso di balestra in uso nei secoli addietro è
rappresentato invece dai “balestrini ad ago”, armi piccole e
infide in grado di scagliare senza rumore e in maniera occulta
aghi che spesso venivano immersi nel veleno.
Un ulteriore tipo di balestra cui merita accennare rapidamente è
quella “a palla”, in grado di scagliare un sasso o una
pallottola di piombo o di creta a notevole distanza. Dalle
informazioni che si possiedono, pare che fosse un’arma
particolarmente usata tanto che in un bando fiorentino del XVI
secolo si arriva a proibirne detenzione e uso per i notevoli
danni che provocava alla cacciagione e alle infrastrutture a cui
i balestrieri erano soliti tirare per allenarsi nella mira.
Vi sono tracce pure di altri usi più benefici che si faceva
della balestra in passato, come quello delle cosiddette balestre
“mediche”, in cui la potenza che l'arco sviluppava veniva
sfruttata per estrazioni particolarmente difficoltose di corpi
estranei (frecce, lance) o anche di denti.
Le prime notizie certe sull’uso della balestra nell’Europa
medievale risalgono all’XI secolo, epoca in cui Guglielmo
il Conquistatore (1027 – 1087) chiamò a raccolta un
considerevole numero di balestrieri, da lui inquadrati nelle
truppe reali, per la sua campagna d'Inghilterra.
Pochi anni dopo fu Luigi il Grosso (1081-1137) a sostenere l’uso
della balestra per i notevoli vantaggi che aveva sull'arco, e
per la sua maggiore letalità. In quel periodo si costituirono
importanti compagnie mercenarie di balestrieri in grado di
offrire i loro servigi a chi ne aveva bisogno e poteva pagare i
loro salari, in genere più alti di quelli percepiti dagli altri
soldati mercenari.
In Italia si trovano notizie sui balestrieri in cronache che
risalgono a poco dopo il Mille, quando nessun altro popolo aveva
ancora milizie organizzate di balestrieri. Nel 1003, per citare
un caso documentato, si sa che un gruppo di balestrieri pisani
compì prodezze e risultò micidiale in un assalto alla città di
Olbia.
Numerosi furono i balestrieri genovesi e pisani che
presero parte alla prima crociata (1096-1099). Gli ottimi
risultati ottenuti da questi armati in Terra Santa contribuirono
ad una diffusione ulteriore della balestra che, nel giro di
pochi decenni, divenne la principale arma da offesa, perchè la
sua precisione e la potenza di lancio la rendevano in grado di
oltrepassare con le sue frecce qualsiasi scudo o corazza.
Fin dall’inizio del XII secolo vennero creati vari gruppi
mercenari di balestrieri (primi fra tutti i già menzionati
genovesi) che combattevano per chi era in grado di assumerli
sborsando cifre rilevanti. Nel 1245 Genova poteva inviare ben
500 balestrieri in aiuto dei milanesi in guerra contro
l'imperatore Federico II, e molti di più, pare addirittura
15.000, un secolo dopo a Filippo IV di Valois nella guerra da
lui sostenuta contro Enrico III d'Inghilterra.
I balestrieri genovesi rappresentarono un importante esempio,
probabilmente il primo, di corpo militare d'élite in Italia. La
loro professionalità e abilità era molto nota, fatto che li
rendeva particolarmente richiesti come alleati o mercenari. Essi
erano tanto temuti che Federico II fece mutilare quelli presi
prigionieri tagliandogli una mano e cavandogli un occhio per
renderli inabili al combattimento con la loro arma..
Le continue richieste di balestrieri spinsero il comune di
Genova a promulgare leggi per incoraggiare i cittadini a
specializzarsi nel tiro con la balestra, e a permettere alle
compagnie di balestrieri di requisire qualsiasi terreno per
allenarsi al tiro: era sufficiente che vi esponessero un cippo
con le loro insegne e potevano utilizzarlo finché ne avevano
bisogno, poi veniva restituito al legittimo proprietario quando
non serviva più alla compagnia.
La grande abilità dei balestrieri genovesi è enfatizzata in un
testo in cui si descrive un loro modo piuttosto stravagante di
allenarsi al tiro: si arrampicavano sull'albero di una nave e
scoccavano le loro frecce contro delle piccole monete piantate
sull'albero di un'altra nave collocata a giusta distanza.
Anche vicino a San Marino operavano balestrieri di grande
abilità e maestria: nel 1275, per fare un esempio, i soldati
bolognesi vennero pesantemente sconfitti dalle milizie dei
Montefeltro dotate di robuste balestre da posizione che
risultarono micidiali per gittata e potenza. L’uso di questo
tipo di balestra durò più a lungo di quelle portatili perché
rimase come arma di difesa da utilizzare da sopra le mura che
attorniavano le città.
Come si è già detto, essendo soldati scelti e specializzati, i
balestrieri percepivano stipendi mediamente più elevati degli
altri, quando ovviamente combattevano dietro compenso e non per
obbligo. In genere non erano armati solo di balestre, ma anche
di spada o di una grossa daga, che servivano a scopo difensivo
nei combattimenti corpo a corpo.
Dall'esame di alcuni statuti comunali del XIV secolo si evince
che l'armamento difensivo dei balestrieri era costituito da
corazza, collaretto di ferro, cervelliera (elmo molto semplice e
leggero) e guanti in maglia di ferro.
Poiché il tempo necessario per ricaricare la balestra era
maggiore di quello delle altre armi da lancio, i balestrieri
avevano l'esigenza di difendersi in maniera adeguata dal tiro
del nemico, per cui erano spesso provvisti di un tipo
particolare di scudo detto "pavese", alto circa un metro e
mezzo, col quale si coprivano e proteggevano.
Anche Pisa, Lucca e Firenze si dotarono di un notevole numero di
balestrieri. Si sa che Firenze nel 1250 aveva istituito la
propria milizia comunale ripartita in soldati a cavallo (i
nobili) e a piedi (i popolani). Ogni compagnia possedeva armi
proprie: venti balestre, venti lance, venti mannaie aretine. Fra
le venti balestre, dovevano esservene 4 grosse, rispettivamente
“a due piedi” o “a torno”. In tempo di guerra venivano chiamati
alle armi soltanto i balestrieri ritenuti idonei per età e
capacità. La scelta veniva fatta dai capitani della milizia
cittadina, che era stata divisa in sei compagnie.
Nella seconda metà del XIII secolo in molte città si era soliti
destinare il pomeriggio della domenica all’esercizio del tiro al
bersaglio. Gli Statuti delle “Società del Popolo” di Cremona del
1270, per citare un esempio, imponevano al capitano della
milizia, eletto in ciascuna porta o quartiere, l’obbligo di
radunare una volta al mese, in giorno di festa, gli uomini a lui
assegnati e di condurli “dopo il desinare al luogo detto il
Ceppo per esercitarsi nelle armi”.
A Pisa, nella seconda metà del XIII secolo, i cittadini nel
giorno di domenica erano soliti addestrarsi nel “trarre a mira”
con gli archi e le balestre, tanto che il Comune, con apposito
decreto, vietò lo svolgimento degli esercizi in determinati
luoghi:
“Nessuno ardisca di tirare d’arco e di balestra né giuocare
ad altro giuoco qualunque nelle Chiese di S. Maria e di S.
Giovanni, né in quelle circostanze ad una distanza minore di
dieci pertiche” .
I balestrieri pisani erano tenuti “tutti li di delle
domeniche (…) d’andare a balestrare alle poste intorno alle mura
della città e ad altri solitari luoghi”.
Il Comune di Genova nel 1352 giunse ad acquistare un pezzo di
terra di proprietà dell’Abbazia di Santo Stefano per gli
esercizi con la balestra, e nel 1386 comprò quattro tazze
d’argento da dare in premio “a due balestrieri deputati sopra
la milizia dell’arte del tirare con la balestra”.
A Lucca già nel 1315 si hanno tracce di un premio istituito a
favore dei giochi con la balestra, e nel 1443 vi fu la
codificazione del palio che si svolgeva in questa città con la
stesura di un regolamento che prevedeva il suo svolgimento due
volte ogni anno, il 1° maggio ed il 1° settembre: i balestrieri
potevano scoccare un solo tiro, e sparavano ad una ruota al cui
centro era collocato un cerchio denominato “brocca”.
A Massa Marittima nel 1476 fu stabilito che “si balestri un
balestro ogni tre mesi. Che si dia agli giovani qualche
exercizio laudevole, provveduto sia che quattro volte annue si
facci balestrare di tre mesi in tre mesi, balistrandosi ogni
volta tre volte, ciò è in tre di festivi comandati, e qualunque
in quelli tre dì averà più colpi a lui sia donato un balestro
d’acciaio con girello essendo massetario et abitante in Massa e
non ad altri e di questa balestra due ne paghi il Comune di
Massa, e gli altri due il Podestà cioè ogni Podestà uno, e in
questo modo si diviaranno i giovani della caccia e inviaronnosi
al laudevole exercizio del balestro, da poter essere utili nelli
casi et tempi occorrenti”.
A Cremona, Firenze, Orvieto, Pisa, Recanati, Sansepolcro, Massa
Marittima, Lucca il tiro era controllato da appositi ufficiali
addetti a questo scopo dal governo cittadino.
I comuni erano soliti dotarsi di un Maestro d'Armi, spesso
proveniente da fuori, che era un artigiano specializzato nel
costruire balestre, frecce e armi in genere per tutta la
guarnigione, e per questo ben pagato.
Da documenti tedeschi del XIII secolo emerge che una balestra da
guerra doveva avere una gittata di almeno 320 metri con frecce
di 100 grammi, ma è risaputo che vennero costruite balestre con
prestazioni anche superiori.
Concorrente della balestra in questi anni rimase sempre l’arco
che, con la sua leggerezza e manovrabilità, garantiva una
maggior velocità di tiro, ma una minor capacità di penetrazione
e gittata. Gli arcieri britannici, famosi per il loro "Long
Bow", si dovevano limitare all'impiego di archi con forza di
lancio inferiore ai 45 Kg. che consentivano, con frecce
speciali molto leggere, di raggiungere la distanza di circa 275
metri.
In Inghilterra l'arco godeva di simpatie particolari in quanto i
signori temevano lo sviluppo indiscriminato della balestra,
ritenuta un'arma che nelle mani del popolo poteva rappresentare
una seria minaccia ai loro privilegi. Re Enrico VII giunse a
proibire l'uso della balestra nel suo regno, mentre Edoardo IV
proclamò che ogni suddito vivente in Inghilterra dovesse
essere proprietario di un arco rapportato alla propria forza
muscolare.
La balestra era nettamente più potente e mortale dell’arco, ma
più lenta nella ricarica, tanto che i balestrieri erano spesso
facile preda dei rapidi contrattacchi nemici. Proprio per
questo motivo chi doveva utilizzare la sua arma non riparato da
merli o difese di altro genere era costantemente scortato e
protetto da un soldato/assistente detto “pancaccino”, o
“tavolaccio” o “palvesario”, armato di un grande scudo
rettangolare dietro il quale ci si riparava durante la fase di
ricarica della balestra.
La disputa fra arco e balestra si mise particolarmente in luce
nel corso della guerra dei cento anni (1339 – 1453) fra Francia
ed Inghilterra, che vide appunto contrapposti, con alterne
fortune, i due gruppi di tiratori. I francesi, sostenitori
dell'uso della balestra, soprattutto per l'aiuto loro fornito
dagli abili balestrieri genovesi, dovettero soccombere nelle
battaglie di Crezy (1346), Poitiers (1356) ed Azincourt (1415)
proprio per la superiorità dimostrata dagli arcieri inglesi in
condizioni climatiche sfavorevoli. Infatti se si bagnavano i
meccanismi di sgancio delle balestre, queste non funzionavano in
maniera appropriata, mentre agli arcieri bastava sganciare la
corda del loro arco per mantenerla asciutta e pienamente
efficiente.
Alla fine, comunque, gli inglesi, che pur disponevano di loro
compagnie di balestrieri, persero la guerra, perchè i francesi,
grazie ad una maggiore organizzazione della cavalleria e dei
balestrieri, riuscirono vincitori in molteplici battaglie.
L'uso della balestra per fini bellici si protrasse ovunque fino
agli inizi del XVI secolo, dopodiché le armi da fuoco presero
gradualmente il sopravvento: infatti ci vollero molti anni prima
che archibugi e le altre armi da sparo giungessero alla
precisione di tiro e alla letalità della balestra.
Dalle informazioni che ci sono pervenute, pare che l'ultima
apparizione della balestra sui campi di battaglia sia stata
nella battaglia di Marignano del 1514, dove agì un battaglione
di balestrieri a cavallo nell’esercito di Francesco I, re di
Francia, e nell'assedio di Torino del 1536, dove si ricorda che
un balestriere da solo riuscì ad abbattere più nemici di
quanti ne avessero abbattuti il gruppo degli archibugieri.
Infine merita una rapida menzione la presenza di un gruppo di
balestrieri fra le fila dei “conquistadores” che accompagnarono
Cortes nella spedizione in Messico del 1521, ed in quella di
Pizarro in Perù del 1524.
Ovviamente l’uso della balestra non fu solo militare o comunque
di offesa; con la nascita dei liberi comuni e l'istituzione
delle milizie cittadine, essa venne spesso utilizzata in tempo
di pace per cacciare, per allenarsi o semplicemente per la
disputa di gare e manifestazioni in grado di tenere in costante
esercizio i balestrieri del comune facendo divertire loro e il
pubblico che accorreva numeroso per assistere alle competizioni.
Si ha notizia che fin dalla metà del XII secolo vi erano nel
territorio pisano varie compagnie di balestrieri che si
ritrovavano abitualmente nelle piazze della città anche in tempo
di pace per addestrarsi. Ciascuna di tali compagnie disponeva di
un proprio capitano, nominato dalle autorità politiche della
città, che doveva addestrare all'uso delle armi e alla
precisione nei tiri i balestrieri.
A Firenze nel 1356 fu emanata un'ordinanza con la quale si
assoldavano 400 balestrieri, provvisti di celata, corazza,
coltello e balestra con dieci verrette, che dovevano obbedire
agli ordini di ufficiali a loro preposti e allenarsi con
regolarità.
Tra i balestrieri venivano organizzate periodicamente gare a
premi, fatto che accadeva un po’ in tutti i comuni che
disponevano di milizie cittadine, per tenere gli armati in
continuo esercizio. Non era nemmeno raro che venissero
organizzate gare tra città diverse per mettere in competizione
tra loro le varie compagnie di balestrieri.
Di alcuni comuni italiani esistono notizie assai dettagliate sui
palii che vi si disputavano e sulle regole a cui dovevano
sottostare i partecipanti. A Lucca, per citare un caso, la
disputa del palio cittadino, riservato ai soli balestrieri del
comune e del suo immediato circondario, risale al 22 giugno
1443, data in cui fu stabilito un premio in fiorini d'oro per i
balestrieri vincitori, ed un regolamento assai dettagliato a cui
doveva rigidamente sottostare lo svolgimento del palio.
La gara si svolgeva due volte l'anno, il primo maggio ed il
primo settembre, con assegnazione di un premio di 18 fiorini
d'oro devoluto dal comune da dividersi fra i primi quattro
classificati. Nel giorno prestabilito veniva affissa nel luogo
del palio una ruota al cui centro vi era un piccolo cerchio,
detto "brocca". Ogni concorrente doveva scagliare una sola
freccia, con sopra scritto il proprio nome, dalla distanza di
120 passi. Al termine della prova un'apposita commissione, sotto
giuramento di non commettere ingiustizie e di eseguire il
proprio compito con massima diligenza, si avvicinava alla ruota
ed estraeva le frecce una ad una sino a determinare le quattro
più vicine al centro: queste ovviamente determinavano i
vincitori del premio stabilito.
Il palio di Lucca era seguitissimo, tanto che nel 1448 le
autorità dovettero prendere severi provvedimenti per impedire
che le sentinelle preposte a fare la guardia alla città
abbandonassero le postazioni che dovevano vigilare durante il
suo svolgimento per prendervi parte.
Nella seconda metà del Quattrocento vi fu uno sviluppo notevole
delle armi da fuoco ed un conseguente calo d’interesse per le
balestre, che progressivamente vennero a scomparire dalle
armerie dei comuni. Non a caso sempre per ilo comune di Lucca è
documentato che nel 1490 si arrivò all'istituzione di quattro
gare di tiro annue di cui due da disputarsi con le balestre e
due con gli archibugi.
Ci sono inoltre pervenuti diversi atti ed inviti pubblici
diffusi da parte delle autorità per invitare i cittadini ad
acquistare armi da fuoco, ritenute ormai più efficaci alla
difesa della comunità della balestra e delle armi in uso nei
secoli precedenti.
La balestra nella Repubblica di San Marino
Ormai è certo, grazie ai numerosi reperti archeologici emersi e
che stanno emergendo tuttora, che il monte Titano ed il suo
circondario hanno visto la presenza dell’uomo fin dalla
Preistoria. E’ altrettanto certo, però, che la comunità da cui
in seguito prenderà vita prima il Comune di San Marino, poi la
Repubblica, si sviluppò soprattutto in periodo altomedievale,
ovvero tra la caduta dell’impero romano e l’XI secolo.
Nei confronti di questo lungo periodo possediamo purtroppo
scarsissime conoscenze per carenza di documenti. La prima fonte
da cui ricavare qualche notizia è la famosa leggenda legata alla
figura di Marino da Arbe, scritta in latino intorno al X secolo
e ricavata da un racconto orale più antico, che probabilmente
veniva trasmesso di generazione in generazione da coloro che
all’epoca abitavano sul monte Titano.
Proprio perché è una leggenda ricca di elementi fantastici e
nata più per esaltare le virtù religiose del santo lapicida
venuto da oltre mare che per motivi storiografici, le notizie
che questo documento ci fornisce, pur essendo importantissime
perché uniche a fornirci una spiegazione logica della nascita
della comunità sammarinese, sono comunque mitiche e non
suffragate da ulteriori prove scritte o documenti in genere.
Altra notizia che ci è pervenuta è invece legata ad un documento
del 511 d.C., da cui risulta che sul monte in quel periodo
sorgeva un monastero, forse il primo polo di attrazione per
contadini e pastori che vi si insediarono attorno per motivi
religiosi, ma anche per ricavarvi una qualche protezione, e che
così facendo diedero origine ad un piccolo villaggio.
Da altri rarissimi documenti dei secoli successivi siamo venuti
a conoscenza che la comunità del monte Titano ad un certo punto
edificò un castello e una pieve, probabilmente intorno al X o XI
secolo. Queste infrastrutture ci permettono di ipotizzare che
attorno al Mille sul monte vi fosse già un gruppo abbastanza
cospicuo di residenti stabili dediti al culto di San Marino e
costituitisi in comunità soprattutto per motivi di sopravvivenza
per l’aiuto reciproco che si potevano dare nella difesa delle
loro case e delle loro famiglie dalle insidie e dai tanti
pericoli di quei tempi travagliati.
I sammarinesi fin dall’inizio della loro evoluzione storica,
dunque, si sono dovuti industriare per essere costantemente
combattenti e difensori della loro vita e della loro terra,
condizione che deve aver senz’altro accentuato la volontà
d’indipendenza e di libertà dagli altri, favorito una energica
diffidenza verso il mondo esterno, permesso il forte senso di
appartenenza ad una comunità diversa e non schiava di nessuno,
nota a sé e possibilmente ignota agli altri.
Questa mentalità, ben rintracciabile già in qualche
testimonianza documentale del XIII secolo, nel tempo si legò
sempre più a concetti robusti come libertà e sovranità,
concetti che in quei tempi remoti e difficoltosi non erano
garantiti da nulla e che bisognava conquistare e difendere con
armi e determinazione.
Accanto ai luoghi di culto, quindi, tanto importanti per la
cultura e la vita quotidiana stessa dell’epoca, gli abitanti del
Titano si preoccuparono di costruire robusti fortilizi adatti
alla difesa della comunità. Infatti il centro abitato medioevale
venne a crescere attorno alla prima torre, denominata “Guaita”,
la cui cinta muraria fu gradualmente allargata e sempre più
fortificata man mano che aumentavano i residenti, tanto che
vennero edificati dopo il Mille e durante l’epoca comunale ben
tre gironi murari.
D’altra parte la fase comunale fu quella in cui la collettività
sammarinese sempre più si diede un’organizzazione sociale
articolata e maggiormente strutturata, attuando anche un sistema
di milizia cittadina per l’autodifesa che dobbiamo ipotizzare
più organizzato e meno lasciato alla libera iniziativa dei
singoli sammarinesi di quanto non succedesse nei tempi iniziali
della comunità.
Le prime tracce di sviluppo del Comune di San Marino sono
rintracciabili a partire dal 1243, quando si ha la prova
dell’esistenza ai suoi vertici di due Consoli (Filippo da
Sterpeto e Oddone di Scarito), tipici magistrati comunali,
indubbi testimoni dell’inizio di un processo di autogoverno e di
distacco dal dominio del vescovo del Montefeltro, autorità
politica suprema fino a questo periodo.
La fine del 1200 fu il periodo in cui vennero redatti gli
statuti del comune, i primi che ci sono giunti, anche se in
parte incompleti. Nel secolo successivo San Marino proseguì
nella lenta lotta per la sua indipendenza, partecipando alle
battaglie che coinvolgevano la sua zona geografica, stringendo
alleanze con chi lo poteva aiutare, in particolare con i conti
di Urbino, continuando ad ampliare gradualmente il territorio
tramite acquisti di zone e castelli limitrofi, o grazie a
sottomissioni spontanee.
Tra i documenti che ci sono pervenuti di questo periodo storico
vi è un trattato di pace del 16 settembre 1320, tra Benvenuto
vescovo del Montefeltro e i sammarinesi, che ci permette di
sapere che negli anni precedenti erano avvenute aspre battaglie
tra questi due contendenti, e che San Marino era riuscito a
riportare vittorie importanti.
Un’altra pace tra i Malatesta, signori di Rimini, e la comunità
del Titano, sottoscritta il 2 ottobre 1322, ci fa capire che non
era facile sottomettere militarmente i sammarinesi in questi
anni, perché oltre a possedere tre “Rocche fortissime” vigilate
direttamente dagli uomini del comune stesso, come ci viene detto
all’interno di una relazione del cardinale Angelico del 1371,
possedeva un suo esercito capace ed efficiente.
D’altronde fin dalle prime norme statutarie locali che
conosciamo si evince che una delle preoccupazioni prioritarie
degli abitanti del Titano fu proprio la difesa militare della
propria terra con fortilizi e militi in grado di preservarla al
meglio.
Le torri e le mura erano infatti presidiate da uomini armati.
Non soldati di professione, che il comune in genere non si
poteva economicamente permettere, anche se ebbe in varie
occasioni qualche mercenario alle sue dipendenze, ma semplici
cittadini che, smessi gli abiti usuali di contadino, mercante,
artigiano, prestavano la loro opera a vantaggio della
collettività, obbligati in questo da leggi che li punivano con
multe, carcere o esilio se non lo avessero fatto.
L’evoluzione e l’organizzazione delle milizie cittadine
sammarinesi procedette senz’altro di pari passo con lo sviluppo
del comune, della volontà autonomista e di quella coscienza
sociale che è risultata basilare per l’evoluzione graduale e
storica di una mentalità statale, e per la nascita del concetto
di Repubblica di San Marino, che non a caso fa la sua prima
apparizione sul finire dell’epoca comunale, ovvero nel XV
secolo, e da lì si evolve.
In altre parole si può senz’altro dire che la strutturazione di
un esercito sammarinese armato e funzionale, anche se non
professionale, al cui interno avevano un posto di rilievo i
militi per l’epoca più temibili, perché più micidiali, ovvero i
balestrieri, di cui stiamo per parlare, sia un chiaro segno
della volontà indipendentista e comunitaria, poi statale, dei
sammarinesi, alla pari di altri segni analoghi, come
l’elaborazione e continua revisione degli statuti, il
perfezionamento del sistema istituzionale, l’accrescimento del
territorio.
I militi avevano vari compiti da sbrigare legati al servizio di
sentinella e di guardia, o al pattugliamento del territorio per
controllare chi vi entrava e circolava. Questi servizi erano in
genere sempre garantiti, in particolare durante momenti di
turbolenza nel circondario e attorno ai confini, o di grande
afflusso di gente, come poteva succedere durante i mercati
settimanali che si tenevano ogni mercoledì in Borgo, o le varie
fiere annuali, capaci di attirare tanta gente a San Marino per
la sua collocazione strategica in un “luogo di mezzo”, ovvero
tra mare ed entroterra, dove affluivano perciò merci di vario
genere e provenienza.
Tutti i maschi residenti in territorio sammarinese tra i 14 ed i
60 anni di età erano tenuti a prestare servizio militare, e ad
accorrere all’adunata quando sentivano i rintocchi della campana
grande del paese, diversi in base al servizio da prestare e alla
velocità con cui dovevano radunarsi.
Questi militi, iscritti in appositi ruoli costantemente
aggiornati, venivano divisi in truppe scelte più attive ed
impegnate, chiamate “cernae”, e truppe di riserva, chiamate “dupli”,
composte da soldati ausiliari che avevano il ruolo di militi
supplenti per sostituire gli assenti. Le cerne nel XIV secolo
erano composte da 10/12 uomini, ma il loro numero ha subito
variazioni nel corso del tempo.
Per quanto concerne l’armamento dei militi nei secoli in cui
ancora non esistevano armi da fuoco, si sa che il comune
sammarinese disponeva di una discreta armeria che veniva
ampliata periodicamente con l’acquisto di armi nuove, tra cui le
micidiali balestre. Il documento più antico in riguardo e
sull’uso della balestra a San Marino che ci è pervenuto è
proprio una norma statutaria, datata 7 febbraio 1339, che
prescriveva ai Capitani Reggenti l’acquisto semestrale di una
balestra a due piedi dotata di munizioni e di tutto quanto
serviva per la sua piena efficienza da effettuarsi con denaro
delle pubbliche casse. Se non lo avessero fatto, non avrebbero
percepito lo stipendio. Questo è il teso originale:
“Anno domini millesimo CCCXXXVIIII, indictione VII, tempore
domini Benedicti Pape XII, die VII mensis februarii, in Plebe
Castri Saneti Marini.
Congregata generali Arenga Comunis Castri predicti, mandato
discretorum virorum Dinarii de Casulo Capitanei et Fuschi
Raffanelli Defensoris dicti Comunis, ad sonum campane et voce
preconis, ut moris est eorum; qui Rectores una cum dictis et
Comuni et ipsum Comune cum cisdem comuniter et concorditer,
nemine discordante, statuerunt et reformaverunt quod quilibet
Capitaneus et Defensor vel alius Rector, qui fuerint in ofitio
dicti Comunis ab hodie in antea, vinculo sacramenti teneatur
ante exitum eorum offitii reasignare et dare Massario Comunis,
qui pro tempore fuerit in ofitio dicti Comunis, unam balistam a
duobus pedibus, cum XXV quadrellis, cum uno bono baldrigo, sive
de ligno sive de osso, expensis dicti Comunis; et qui non
fecerit, perdat sallarium suum quod recipere deberet a dicto
Comuni. De quo sallario dictam balistam cum dicto suo fornimento
emere debeatur per dictum Massarium.
Presentibus Testibus Superbutio quondam Scarani, Blaxio De
Stirpeto et Zamarino Fagnano, omnibus de Sancto Marino ».
Negli statuti del 1352/1353 la regola rimase pressoché
invariata, mentre nelle norme statutarie del 1491 la balestra da
fornirsi da parte di ciascuna Reggenza viene descritta
meticolosamente dovendo essere “De acciario... cum tenerio
bono et recipienti et cum molinello et cum pharetra cum viginti
vertonibus ad minus”.
Quest’arma poteva essere “ad unum pedem” o “a duobus pedibus” (a
un piede o due), ovvero con una staffa più o meno ampia nella
quale il balestriere doveva inserire uno o due piedi per
tendere la corda con entrambe le mani o con un molinello.
Il “baldrigo” era la noce di legno oppure d'osso ricavata da
corna di cervo che recava da un lato una tacca più marcata dove
veniva arrestata la corda dopo essere stata tesa, dall'altro una
tacca più piccola in cui s’inseriva la leva che comandava lo
scatto. Tale noce era accolta nella parte centrale del teniere o
tiniere, solitamente di legno di rovere o di noce, lavorato con
fregi e ornamenti. I quadrelli o vertoni erano le frecce fornite
di punta di ferro talvolta quadra e di due alette di penna o di
carta.
Un originale documento del 1406 custodito nell’Archivio di Stato
sammarinese e messo in evidenza da studi recenti di Gaetano
Rossi sulle armi e gli armati di San Marino ci fornisce il primo
elenco di balestrieri sammarinesi che si conosca: è una lista di
75 nominativi tenuti a portare le balestre “ad custodiam
mercati”, cioè per fare servizio di pattugliamento e vigilanza
durante il mercato che si svolgeva a Borgo Maggiore.
Probabilmente, però, dovevano essere in numero ancora maggiore
le balestre conservate presso la pubblica armeria, perché solo
acquistandone due all’anno, come prescritto dalla rubrica sopra
citata del 1339, nel 1406 se ne dovevano possedere come minimo
134, sempre che tutti i Reggenti abbiano obbedito alla
prescrizione staturia.
Se si calcola che una balestra nel 1399 aveva un costo di quasi
tre lire ravennate, che era somma all’epoca non da poco, si può
asserire che il comune sammarinese nell’acquisto di armi
investiva cifre importanti per le sue casse mai gonfie e
ridondanti, anche perché è documentato che accanto alle balestre
l’armeria pubblica disponeva di lance, scudi, spade e altre armi
ancora, acquistate verosimilmente sempre con soldi del comune.
Uomini armati, in genere a coppie, ma anche in manipoli più
numerosi, erano poi dislocati presso le porte d’ingresso di
Città e Borgo, nelle piazze, in occasione di feste particolari o
religiose, nelle torri, in luoghi strategici come il “Cantone”,
il “Montale”, o nelle vicinanze del Palazzo Pubblico.
Da un altro documento, sempre messo in luce dagli studi di
Gaetano Rossi e da questi ritenuto di fine ‘300, ovvero un
elenco di 173 uomini che avevano consegnato al comune le loro
armi, sappiamo che molti riuscirono a fornire solo forconi,
mannaie e attrezzi agricoli vari che potevano essere usati come
armi, non possedendo null’altro da poter utilizzare con tale
funzione o comunque per armare i militi; altri diedero spade,
scudi, corazze, lance e anche due archi, ma ben 41 uomini
affidarono alla pubblica armeria balestre per un numero
complessivo di 52, perché Andrea Cicharelli ne depositò
addirittura tre, mentre Bentinus Paulinii, Jacobi Johanis,
Franciscus Fuschini ed altri ancora ne consegnarono due a testa.
Queste armi vennero senz’altro affidate al comune a titolo di
prestito, perché i sammarinesi oltre all’obbligo di divenire
militi all’occorrenza, avevano anche quello di fornire
all’occorrenza le armi e gli attrezzi personali che potevano
svolgere la funzione di armi.
E’ importante evidenziare che in tale elenco già appaiono alcune
armi da fuoco: uno schioppetto, messo a disposizione da parte di
un certo Bartolus Angeli, e una bombarda data da Minghinus
Franceschi. D’altra parte nel secolo successivo le armi da fuoco
ebbero uno sviluppo imponente, e le balestre divennero sempre
più armi considerate obsolete, quindi usate di meno per fini
militari rispetto ai periodi precedenti, anche se non
scomparvero mai completamente perché erano particolarmente
apprezzate soprattutto per la caccia grazie alla loro
silenziosità, che consentiva di colpire la selvaggina senza
spaventarla, ed all’indubbia precisione che avevano ormai
raggiunto, precisione che le armi da fuoco ancora non
possedevano.
Ci è giunta diversa documentazione di archivio che testimonia
questo nuovo interesse del sistema militare sammarinese alle
armi da fuoco. Da un elenco delle armi da tiro a disposizione
dei cittadini, e quindi del comune, nella seconda metà del XV
secolo ricaviamo che San Marino poteva già disporre di 68
archibugi, di cui ben 60 di proprietà privata, 6 schioppi, 41
schioppetti, ma ormai solo di 35 balestre.
In realtà le balestre in territorio erano sicuramente in numero
maggiore, ma probabilmente non ci si preoccupava più di tanto di
reperirle ed elencarle, dedicando invece maggior cura
all’inventario delle sempre più fondamentali armi da fuoco.
Questo lo si può dedurre da un altro documento datato 1517,
sempre un inventario di armi, ma questa volta presenti
nell’armeria pubblica, in cui risulta che lo Stato sammarinese,
accanto a 17 archibugi, due moschetti ed altri pezzi di
artiglieria, disponeva di una sola misera balestra, che venne
affidata ad un certo Petro Marino per il suo servizio di guardia
e pattugliamento, così come le armi da fuoco furono distribuite
ad altri militi.
D’altra parte la lunga occupazione della Repubblica da parte di
Cesare Borgia era avvenuta da pochi anni, per cui il timore che
potesse risuccedere un fatto analogo in un periodo in cui tutti
i signorotti della penisola italiana stavano cercando di
espandere i loro domini doveva essere forte. Senz’altro da
questo evento e dai tentativi di invasione della Repubblica da
parte di Fabiano da Monte nel 1543, e Lionello Pio nel 1549, che
per fortuna fallirono non dando adito ad altre occupazioni, si
sviluppò la forte preoccupazione che si avverte nella
documentazione pervenutaci dal XVI secolo di dotarsi di armi
moderne e all’altezza dei pericoli reali che vi erano.
Proseguendo nell’analisi di tale documentazione, del 16 dicembre
1521 ci è giunto un “Bastardello del conto de arme et poste di
li homeni di sammarino et maxime schiopetti et omne altre sorte
de arme al tempo del Capitenato di Miser Cristofano Martello et
Jacopo di Ser Lodovico” che ci permette di capire la vasta
diffusione di cui la balestra ancora godeva, perché accanto a
schioppi, schioppetti, archibugi ed altre armi inventariate,
risultano disponibili 89 balestre, chiaramente tutte private.
Non ci si limitava solo a contare le armi che la milizia poteva
avere a disposizione, ma le si distribuiva puntualmente anche
alle cerne in servizio di pattugliamento e guardia lungo tutto
il territorio sammarinese. Così dallo stesso documento sappiamo
che 7 balestre insieme a 7 schioppetti, 10 spade ed altre armi
ancora vennero affidate al manipolo di 29 uomini messo a
presidio di Cailungo, 6 balestre più altre armi al manipolo di
Domagnano e a quello di Casole, 5 a quello di Monte Cucco e
altre alle squadre di soldati più o meno numerose distribuite
nelle zone considerate più a rischio, quindi bisognose di
particolare vigilanza.
Da un documento di qualche mese dopo, che ci fornisce
informazioni su come venivano presidiate le mura di Città, ormai
complete nel loro terzo girone corrispondente alla cinta muraria
che è giunta fino a noi e che attornia il centro storico, si
evince che non vi erano balestrieri dislocati sulle mura, ma
solo artiglieri con le loro armi da fuoco strategicamente
distribuite lungo tutto il percorso delle mura stesse e a difesa
delle tre porte che permettevano l’accesso al paese.
Le balestre e le armi bianche erano state invece distribuite ai
vari manipoli o “cernoni” di militi che stazionavano all’interno
di Città per difenderla in caso di sfondamento delle altre linee
di difesa..
Molti di questi militi/balestrieri probabilmente furono quelli
che qualche anno dopo parteciparono al palio del 3 settembre.
Infatti sappiamo da un altro documento di archivio che nel 1537,
nella tradizionale gara di tiro al bersaglio che si disputava da
tempi imprecisabili nel giorno celebrativo del Santo fondatore,
gareggiarono 52 tiratori armati di balestra o arco, come da
tradizione, e 58 di archibugio, l’arma che sempre più
soppianterà la balestra anche nella gara in questione.
I premi che potevano vincere erano: “panno da le calze”,
“pignolato”, “beretta”, “trinchetti”, “stringhe”. Nel bando
erano indicate anche alcune regole da rispettare: nessuno poteva
tirare più di un colpo, tranne gli arcieri che potevano scoccare
due frecce; vi era un segno per terra ad indicare il punto in
cui doveva stare chi tirava, segno che non poteva essere
oltrepassato per nessun motivo; il bersaglio degli archibugi,
chiamato “rodella”, doveva essere più grande di quello riservato
a balestra ed arco, armi che all’epoca verosimilmente
possedevano ancora una maggiore precisione di quelle a fuoco; in
caso di parità si doveva procedere ad un tiro di spareggio.
Per chi si volesse divertire a leggere direttamente il documento
nell’italiano dell’epoca, lo si riporta integralmente:
I° Che nisiuno possa tirare altro che una volta cum uno
instrumento et che non vaglia più
de una volta excepto l'archo che po tirare doi frezze.
Item che nisiuno possa tirare sé prima non è descripto lo
strumento et verreta et chi farà altramente la sua botta sia
nulla.
Item che nisiuno possa passarli signi posti a tirare sotto
pena de soldi 5 et la sua botta sia nulla.
ltem che nisiuno possa passare li signi a vedere le botte
excepto li deputati sotto pena de soldi 5.
Item che la rodella grande sia de quelli da li archibusi et
schioppi et la mezzana sia de le balestre.
Item che qualunque sarà più
presso al signio o deluno o de l'altra rodella habia el
panno da le calze et l'altro da botta di poi la prima più
appresso habia il pignolato et berretta di chiarando la
prima botta o de li archibusi et schioppi o de balestra et la
seconda de laltro instrumento cio è se le balestre ha il panno
li archibusi il pignolato et berretta et e converso.
Et se doi botte fosser pari de balestra in suo loco si debba
ritirare et el medesimo de archibusi.
Et de li putti el primo de quello che sia più
appresso al signio habbia li strinchetti et lo secondo le
stringhe.
Seguiva un lungo elenco di nomi che in quel giorno parteciparono
al palio:
Archibusi
El Capitano Girolimo
El Capitano Silvestro
Marco de santa...
Marcante de salverio 3
baldo de parro 1
Betto de vone
Marco de berardo
Vincentio de gioanne
marino 3
Marino de paulo de
giagnolo
Cedrino 2
Paulo de ser camillo 1
Ciccho mateo de marino 1
Mario de maestro paulo 1
Vincentius martini 2
Víncentius muracii 1
Mateus antoni lazarini 2
Augustinus le .....
.... marino proposto 1
Turcho 2
Iohannes antonius de
veruculo
Paulus berti betini 1
Petrus marci betini 3
Simon cichi rusi de
sancto leone
Cechus antonio de sonzino
Dionisio de rusciolo 2
Serafino de betino R
Renzino de andrea 1
Carlo de bonífacio 1
Antonio de pierantonio 1
Pierantonio dalbareto
Iohanne evangelista de
montegiardino
Bonvincentius ser
bartolomei S1 ar 1
Marinus Gabrielis S1
Giohanne andrea de
berardino de brandano 1
Francisco de maso dal …
Ventura garzotto ar. 1
Alexander magistri lucii
1
Iohanne iacobus serafini
1
Tomas pasquini 2
Michael florentini
Laurentius bartolucii de
zaninis
Franciscus paulini 1
Tomas
íuliani pasquini 1
Iohannes de veruculo 1
Alenxius pasquini 1
Bastianus christofori
giangii 1
Franciscus venturicii 1
Marcus tintor
Anestasius magistir pauli
ar. 1
Baldo de parro 1
Cichus lancilocto 1
Cangio de Zocho 1
Piermarino de iacopo
laurentio 1
Piermarino de maestro
antonio
Hitrus venturini 1
|
Balestre et Archi
Sante de arcangelo Arch.
1
Gianinus Lancilotti B 1
Franciscus martolus 1
Magister mateus murator B
2
Petrus laurentius B 2
Ludovicus mazochetti B 1
Iohannes tomas de
Montezardino B 1
Christoforus filippi de
monzardino B 1
Iulianus matei gabrielis
de mongiardino 1
Mengus blaxii de
monzardino B 1
Iohannes... agate de
monte B 1
Mateus fabriani
de vallis 1
Doninus blondi
de telio
Iohannes marini primi
archi 1 f 2
Iohannes primi mucili Ar.
1 f 2
Santes Iacobus
sabatini Ar. 1 f 2
Iohannes blaxi
magistri Iohannis Ar. 1 f 1
Iohannes
christofori paulini Ar. 1 f 2
Vincentius Iohannes
marini
Marinus primi tome B 1
Frater leo de santo
francisco 1
Iohannes batista
bartolomei B 2
Menghinus antoni 1
Fabritius pierleonis 1
Christoforus picii 1
Híeronimus marini
magistrí iohannis Ar. 1 f 1
Michele de
mateo de biase B 1
Changio de Zoco B 1
Marinus pierpauli
martelli B 1
Piermarino de marcantonio
B 1
Fra augustino B 1
Cesar mariani B 1
........... Cangius Zochi
B 1
Archibusi
Chicus Iuliani pasquiní
El Bene 1
Christoforus Iohannes
batiste
Tomasus Cimator S 2
Balestre
Christoforus Iohanne
batiste 1
Marinus francini
Balestre
Maso de mazochetto
Marinus Iohannis
Iohannes batista
venturinus
Petrus marini francini B
2
Chicus Iulianí pasquini 1
Bonettus
Alexander
marini
Mariano 1
Iacobus de
Zaninis
Ludovicus de
Gianinis
Marcus de
Zaninis
Iohannes
Antonii pasquini 2
Batista Antonii pasquini
2
Benedetto de maso de
Gianinis
Berardino de Minghino
Vangelista de Gianinis
........... Iohannis
Antoni pasquini 1
|
Balestre de
piculi
Piermateo de
marchionne 1
Girolimo de ser antonio 1
Cesare de Iacopo 1
Vincentio de Serafino 1
|
(Archivio di Stato della RSM, Busta 301, Massaria
Governativa)
La documentazione dell’Archivio di Stato della Repubblica di San
Marino ci permette di tanto in tanto, purtroppo in maniera
troppo sporadica e frammentaria, di avere ulteriori informazioni
sull’uso delle balestre. Sappiamo che nel 1439 ai sammarinesi
vennero richiesti da parte degli uomini di Montemaggio alcuni
“molinelli” adatti a caricare le balestre.
Nel 1440 la comunità del Titano commissionò ad un maestro d’armi
di Urbino e in seguito acquistò sei balestre con molinello.
Nel 1462 i sammarinesi fornirono a Federico d'Urbino 12
“taragoni”, che erano scudi dietro i quali il balestriere si
riparava mentre caricava la sua arma, e cinquecento
“verrettoni”.
Nel 1516 venivano forniti dall’armeria sammarinese al Castello
di Serravalle numerosi verrettoni, chiamati però in
quell’occasione “passaduri”.
Dello stesso anno ci è giunta testimonianza di una sfida di tiro
con i balestrieri di Rimini, così come nel 1588 sappiamo che si
svolse un’altra gara di tiro con quelli di Santarcangelo.
Pur venendo dunque gradualmente soppiantata dalle armi da fuoco
nella prima metà del ‘500, la balestra rimase come arma privata
e da caccia presso diversi sammarinesi che dovevano usarla
abitualmente a loro vantaggio o per loro diletto ogni volta che
potevano.
Purtroppo non è ancora emersa documentazione su palii, o gare, o
tecniche di allenamento nel tiro nei secoli in cui la balestra
era maggiormente in uso, sempre che esista ancora. Il primo
riferimento documentale ad un palio è quello del 1537 di cui si
è detto. Altri scarni riferimenti a palii in cui il vincitore
riceveva come premio un panno (palio oggi è sinonimo di gara, ma
nel Medioevo significava proprio “drappo” o “panno”) si hanno
nel 1578 e nel 1588.
La conferma, comunque, che a San Marino ci fossero ancora
balestrieri e la consuetudine di tirare e gareggiare con
quest’arma anche a fine ‘500, in epoca cioè in cui ormai era
stata esclusa dalle possibili armi da guerra della comunità da
inventariarsi periodicamente, ci viene sia da un bando datato 3
settembre 1578, sia dagli statuti editi nel 1600 in cui esiste
un’intera rubrica, la numero XXXVIII del libro I, con cui viene
regolamentato il palio del 3 settembre.
Il bando del 1578 dice:
Die 3 7bris 1578
Per parte et comissione delli mag.ci sig.ri cap.ni et sig.r
comissario della terra di s. marino si notifica ad ogni et
qualunq. persona tanto terriera quanto forastiera qualm.te
dovendosi tra un' hora o due tirare il palio secondo il solito,
sera lecito ad ogn'uno tirare a detto palio tanto con scioppo
quanto con balestra una volta per o sola per ciascuna persona et
che quello che con il scioppo fara migliore botta et più vicina
al brocco havera per premio la metta del palio et l'altra metta
sera di chi fara miglior botta con la balestra medesimamente con
questo pero che chi intende tirare o con scioppo in una lista et
quelli delle balestre sopra la veretta che intendono tirare (et
medesimamente quando si apresentaranno per tirare debbiano fare
motto al medesimo canciliero accio li venga scancelando),
altrimenti tirando senza essere prima scritti la loro botta non
valera cosa alcuna ne havera premio alcuno si come anco non
havera quello che ardira di tirare più di una volta la botta
seconda delli quali sera al tutto nulla Prohibendo espressamente
che persona alcuna di qual si voglia e conditione non ardisca
apressarsi alle rotelle mentre si tirera sotto pena di dieci
scudi a chi contrafara da aplicarsi alla camera di detta terra
di fatto.
(Archivio di Stato, R.S.M., busta
73, Bandi e notificazioni
sec. XVI)
Per quanto concerne la norma statutaria del ‘600, invece, è
logico ipotizzare che si sia sentita la sua esigenza solo con
questi statuti (quelli precedenti infatti non ne hanno una
simile) per il forte sviluppo registrato dalle armi da fuoco,
che anche nel tiro al bersaglio si andarono ad affiancare
inizialmente alle armi in uso nei secoli anteriori, palio che in
precedenza, da tempi immemorabili e per consuetudine inveterata,
come ci dice la stessa norma, era riservato alla balestra e
presumibilmente all’arco. Non a caso la nuova disposizione
statutaria prevede la possibilità di sparare con entrambi i tipi
di arma come nel bando del 1578, ma non prevede l’arco, forse
perché già da anni non partecipava più nessuno alla gara con
quest’arma. Questa è la sua traduzione dalla versione originale
in latino:
Del palio dei balestrieri ed archibugieri
Volendo seguire le vestigie, e l’inveterata consuetudine dei
nostri maggiori, stabiliamo ed ordiniamo che i Signori Capitani
pro-tempore ogni anno nel giorno della festa di San Marino
nostro Protettore ed Avvocato, per maggiormente celebrarlo ed
onorarlo, nonché per esercizio ed utilità dei Militari, debbano
comperare a spese pubbliche qualche palio di panno, o di altra
materia non eccedente il valore di quattro scudi, e proporlo, e
donarlo a quello, o a quelli degli archibugieri della nostra
giurisdizione, o forestieri, del quale, o dei quali gli
archibugi caricati di una palla di piombo nella piazza nominata
il Pianello, od in altro luogo, ad arbitrio dei Signori
Capitani, abbiano vinto e superato i tiri degli altri per
vicinanza al segno proposto. Ed altro simile palio i detti
Signori Capitani debbano proporre e donare anche a quelli che
fanno la prova delle balestre grandi, cioè a colui, la saetta
della cui balestra colpirà più vicina al segno proposto.
Il palio dunque veniva svolto sul Pianello e pare che l'antica
torre campanaria della “Parva Domus”, che in antichità era una
torre di vedetta per vigilare sul secondo girone delle mura,
prima del suo restauro del 1932 recasse sui suoi muri ancora ben
evidenti le tracce delle punte dei verrettoni che andavano fuori
bersaglio. Tuttavia vedremo che il palio venne in seguito
disputato nella zona della “Fratta”, ovvero tra la prima e la
seconda torre, dove fino a tempi abbastanza vicini ai nostri vi
era solo boscaglia disabitata e spazi dove si poteva sparare
senza rischiare di colpire per disgrazia qualcuno.
Gli archibugi, comunque, ormai erano l’arma del momento e del
futuro, e ce ne dà testimonianza anche qualche rubrica degli
statuti: la numero XXXVII del libro I, per esempio, sancisce che
tutti i militi dovevano accorrere all’adunata in fretta e muniti
di polvere da sparo per la loro arma, di palle di piombo e di
una corda da usarsi come miccia; la numero LIV, invece,
obbligava i Reggenti a comperare a spese del comune una volta
ogni semestre non più balestre, come in passato, ma “archibugi a
cavalletto”, sempre “sotto pena di perdere il loro salario”.
Le balestre, quindi, non vennero considerate più utili
militarmente, ma solo per uso privato, come poteva essere la
caccia ed il palio del 3 settembre, quindi non vi era obbligo di
portarle appresso ai periodici raduni delle milizie cittadine.
In effetti già a partire dall’inventario delle milizie e delle
armi del 1539 non c’è più traccia di balestre, così come in
quelli successivi, mentre gli stessi documenti testimoniano la
graduale ma costante crescita del numero delle armi da fuoco e
degli addetti specializzati nel loro uso.
Nel 1606, però, il capitano delle milizie si lamentava con le
autorità politiche che non tutti i militi disponevano di un
archibugio: il Consiglio, comunque, si limitò a dare un laconico
ordine al capitano stesso per far “trovare archibugi a quelli
che hanno il modo”.
Nel 1643 il Consiglio giunse addirittura a sancire che tutti i
cittadini ancora senza moschetto provvedessero a comperarne uno
o due in base a quanto avrebbe stabilito il capitano delle
milizie. Non sappiamo se tale prescrizione sia andata a buon
fine, anche se è improbabile, vista l’impossibilità economica di
molti sammarinesi di spendere denaro in fucili, tuttavia basti
qui evidenziare che le armi da fuoco erano considerate strumenti
fondamentali per la comunità, armi che dovevano
obbligatoriamente essere presenti nelle singole case, così da
esserlo in numero cospicuo in tutto il territorio.
Purtroppo non abbiamo cognizione esatta di quanto sia andato
avanti l’uso di tirare al bersaglio per il 3 settembre sia con
balestra, sia con archibugio. Le notizie in merito sono quasi
inesistenti, ma sembra, e la cosa sarebbe anche molto logica
vista la propaganda pro - archibugio di cui si è detto, che ben
presto si tirasse prevalentemente con armi da fuoco,
accantonando parzialmente o forse in qualche anno totalmente il
tiro con la balestra, anche se abbiamo tracce di tiro al
bersaglio con questo tipo di arma sicuramente fino al 1740. Da
un’annotazione contenuta dentro il verbale della seduta
consigliare del 20 marzo 1617, infatti, pare già che per la
festa del Santo Patrono di quell’anno si sparasse solo con
l’archibugio, tra l’altro non sul Pianello, ma nella zona della
Fratta.
Un’altra annotazione del 1644, però, c’informa che il premio
della gara di tiro al bersaglio venne elevato a 10 scudi, e tale
somma più consistente fu messa in palio perché “tirino dette
balestre, per essere il compimento di detta festa et antichità,
et che molti vengono più per vedere quella curiosità et
antichità che per altro”.
Da queste scarne parole si evince che il tiro con le balestre
doveva essere andato quasi in disuso, tuttavia lo si voleva
mantenere in vita a tutti i costi perché già a metà Seicento
rappresentava una forte attrazione, diciamo così “turistica”,
per chi si recava alla festa del 3 settembre, essendo già
considerato una “curiosità” ed una “antichità”.
Un decreto del 4 settembre 1648 ci comunica, invece, che chi in
futuro avesse voluto tirare con l’archibugio durante il palio
del 3 settembre aveva a disposizione un solo colpo, facendoci
indirettamente comprendere che nel palio del giorno prima
dovevano essere sorte polemiche proprio per questo motivo.
Altri rari documenti del periodo ci permettono però di intuire
che presso qualche famiglia perdurava la consuetudine della
balestra. Infatti in un bando emesso il 18 dicembre del 1613 si
vietava di andare a caccia con archibugio o balestra o altri
mezzi quando per terra vi era la neve.
Del 5 luglio 1615 esiste un altro decreto proibitivo della
caccia ai colombi e ai piccioni con le stesse armi, divieto che
verrà puntualmente rinnovato anche negli anni e addirittura nei
secoli successivi, a volte nominando le balestre a volte no.
Non sappiamo, quindi, se effettivamente nel Settecento e
nell’Ottocento qualcuno continuasse a sparare agli animali anche
con la balestra, perché la stragrande maggioranza dei tanti
bandi e dei divieti emessi per regolamentare la caccia parla di
archibugi, lacci, reti, quasi mai d balestre. Non possiamo però
escluderlo del tutto, perché qualche raro bando anche di questi
secoli fa preciso riferimento a tale arma.
Non si può dunque escludere nemmeno che cultori di un’arma tanto
antica partecipassero puntualmente al palio del 3 settembre,
com’era d’altra parte consentito loro dagli statuti secenteschi.
Carlo Malagola all’interno del suo volume sul cardinale Alberoni
pubblicato nel 1886 ci dice che per festeggiare la liberazione
della Repubblica dalle armate del cardinale, nel 1740 fu fatto
un solenne triduo di ringraziamento al Santo Protettore nei
giorni del 12, 13 e 14 settembre, ed in tale occasione si
organizzò “sulla piazza del Pianello, appositamente addobbata,
un divertimento allora in gran voga, cioè il tiro dei
balestroni”, che avvenne tra “una infinità di populo concorso
per godere di tale divertimento”.
Malagola ricava tali informazioni soprattutto da una lettera da
lui reperita di un contemporaneo ai fatti narrati, tuttavia
anche nella documentazione di archivio, precisamente nei verbali
della Congregazione Generale, esiste la prova, risalente al 3
agosto di quell’anno, dell’organizzazione di questo solenne
triduo, che venne preparato dalle autorità in maniera che ogni
giorno previsto di festa, dopo messe, processioni, esposizione
del reliquiario del Santo, spettacoli teatrali e altre
celebrazioni ancora, si svolgesse sempre il tiro con la
balestra.
Se nel 1740 venne dato tanto spazio al “tiro dei balestroni” ci
è lecito ipotizzare, in assenza di documenti precedenti e
successivi in grado di confermarlo con sicurezza, che il tiro
con la balestra fosse considerato uno spettacolo particolare
degno della massima attenzione da parte delle autorità civili,
da favorire in occasioni eccezionali e quando si voleva fornire
al pubblico una manifestazione speciale ed esclusiva.
Tuttavia, a parte quella appena menzionata, non abbiamo altre
prove documentali che tale spettacolo, o anche il tiro con gli
archibugi, venisse organizzato direttamente dallo Stato
sammarinese per il 3 settembre o per altre ricorrenze.
Infatti nei documenti di archivio si parla spesso di
“solennizzare” o no la festa di San Marino, fatto che avveniva
se vi erano a disposizione abbastanza denari, o comunque se non
si stava attraversando un anno di particolare penuria, ma non si
specifica mai se col concetto di “solennizzare” s’intendesse
anche l’organizzazione del palio del 3 settembre, o se questo
invece venisse preparato direttamente a livello popolare, cioè
se per rispettare la tradizione i tiratori di archibugio o di
balestra si ritrovassero spontaneamente in Città il 3 settembre
per gareggiare fra loro e vincere il premio che comunque veniva
messo in palio da qualcuno, probabilmente dallo Stato stesso.
D’altra parte per i secoli che stiamo esaminando non sono
rintracciabili bandi o decreti pubblici che regolamentino o
semplicemente notifichino al pubblico l’attuazione del palio
del 3 settembre, mentre invece vi è qualche scarna testimonianza
che c’informa dello svolgimento periodico del palio, per cui è
probabile che avvenisse per consuetudine e in base alla rubrica
che lo sanciva ufficialmente all’interno degli statuti
secenteschi, senza necessità di bandirlo o comunque annunciarlo
in maniera solenne.
Può avallare questa ipotesi l’annotazione che si trova
all’interno dei verbali della Congregazione Generale, in data 6
settembre 1742, con cui veniva stabilito che, dopo aver fatta
una “ricognizione del colpo migliore, e legittimo in conformità
allo Statuto”, il vincitore del “Palio dello Schioppo” di
quell’anno era da considerarsi Pasquino di Pietro Tabarrini
delle Muriccie.
Nel 1766, invece, non si riuscì a definire il vincitore del
“Palio dello Schioppo”: “Perché in quest’anno non era stato dato
a veruno il premio del Palio dello Schioppo, a mottivo
dell’ambiguità de colpi, avendo uno di essi supplicato, e
preposte le ragioni di dovere essere preferito coll’intesa, che
il denaro fosse impiegato in un Officio di messe all'anime del
Purgatorio. Al memoriale fu fatto un lectum per ciò che si
richiedeva. Ma bensì fu data facoltà di fare un Officio Generale
all’Anime del Purgatorio per pura divozione, ed a nome publico”.
Tornando al discorso relativo all’organizzazione della festa del
3 settembre, negli atti del Consiglio del 23 aprile 1726 si
legge: “Non avendo questo Sig.r Arciprete l’anno passato fatto
la Festa del Santo, e desiderandosi di veder troncato un tal
abuso fù perciò proposto di trattare qualche aggiustamento, a
fine sia fatta la detta Festa con tutto il decoro possibile a
gloria di detto Santo nostro Protettore, sopra di che fù
risoluto di sentire quali siano li sentimenti del detto Sig.r
Arciprete, per potere communicari che saranno in altro Conseglio
maturatamente risolvere e ciò a viva voce”.
In genere i denari per le celebrazioni del 3 settembre si
rimediavano in parte dall’arciprete, che per l’anno in questione
donò 15 mastelli di grano a vantaggio della festa, in parte da
una questua svolta lungo tutto il territorio e organizzata da
rappresentanti nominati dal Consiglio, o dai massari del Santo.
In base ai soldi rimediati si facevano venire dai dintorni
musicisti e cantori, si organizzavano parate, celebrazioni
civili e religiose, e la festa riusciva più o meno importante.
Il 3 agosto del 1727 sempre in Consiglio si dice: “Fù poi
dagl’Ill.mi SS.ri Capitani fatta proposta come dovevasi
contenere nella prossima Solenità del Glorioso Nostro
Prottettore S. Marino sopra di che tenuto discorso fu risoluto
di fare la Festa con il decoro possibile in conformità dell’anno
decorso, e questa dal Publico istesso per non defraudare il
Santo di detta solenità, ordinandosi una questua da farsi da’
Sig.ri Massari, e per compimento di ciò occorerà di spesa si
dovesse mettere il Publico della sua Cassa regolandosi li SS.ri
Massari in maniera che riesca la spesa decorosa sì, ma non
disorbitante”.
Vi sono testimonianze precise, tuttavia, che per periodi anche
lunghi la festa non venne solennizzata affatto. Il 21 luglio del
1771 nel Consiglio si dice: “Fù proposto, che per onore del
Santo Nostro Protettore, e per decoro della Republica sarebbe
stato bene ritrovare modo di solennizzare la Festa di esso
Santo, giacchè da molti anni era stata tralasciata, tantopiù che
il Sig.r Arciprete avrebbe contribuito scudi venti per sua
parte. Fù applaudito il pensiero, e per l’effettuazione fù data
la facoltà alla Generale Congregazione di formare il piano”.
Altre volte si dice di fare la festa “con economica decenza” (12
luglio 1784), “colla possibile decenza”(22 giugno 1788), “a
misura delle questue e offerte” (29 luglio 1797) e con la
preghiera ai consiglieri di dare il buon esempio (29 luglio
1787), oppure, negli anni migliori, “con Musica Forestiera”
pregando i “Deputati per i Castelli, Ville, Borgo e Città” di
darsi molto da fare al fine di rimediare i soldi necessari
questuando porta a porta (5 luglio 1790).
Non è però possibile dire se il palio si svolgesse comunque a
prescindere dai soldi che vi erano a disposizione e della
solennità che si riusciva a fornire alla festa del 3 settembre.
Anche nell’Ottocento abbiamo precise testimonianze che, per
carenza di mezzi, non sempre il giorno di San Marino veniva
celebrato con solennità. Nel giugno del 1804, per fare un
esempio, il Consiglio decise di “solennizzare la Festa del
Nostro Glorioso Protettore S. Marino con quella maggior decenza
possibile. Fù approvata la celebrazione della Festa in
contrasegno di tanti benefizj ricevuti, e per implorare vi è più
la sua protezione nelle nostre occorrenze, e fù rimessa all’EE.
Loro l’Elezione de Deputati, e il modo di farla”.
Due anni dopo sempre negli atti del Consiglio si legge: “Di poi
significarono di avere avute dell’istanze dalli Devoti del
Nostro Glorioso Protettore S. Marino, acciò fusse in qualche
maniera solennizzato la sua Festa, e a tale effetto l’EE. Loro
avevano dato ordine di fare la questua a Grano per servirsene in
questa occorrenza”, parole che ci permettono di comprendere che
i cittadini contribuivano come potevano a favore della festa.
Nel 1808, invece, il Consiglio stabilì “di unanime sentimento
(…) di tralasciare le pompe, e che la Festa consisti in Messe,
ed’altre opere pie”.
Per lunghi anni non si parla più in Consiglio delle celebrazioni
del patrono, fino al 1820, quando si stabilisce che la festa
dovesse essere fatta, ma attenendosi ad un “decente e mediocre
dispendio”.
Nel 1824, invece, si dice che “si dovesse fare nei trè giorni
avanti alla Festa un devoto Triduo in ringraziamento al nostro
Santo per le tante segnalate grazie distribuiteci con uffizio
generale di Messe, e la sera l’esposizione del Sacro Capo e
Benedizione, onde vieppiù pregarlo con fervorose preci della
continuazione del suo valido Patrocinio, commettendone
all’Ecc.ma Reggenza l’esecuzione”.
Altre testimonianze dei decenni seguenti ci dicono chiaramente
che anche in questo secolo a volte si “solennizzava” il 3
settembre, a volte no, sempre in base al denaro che si riusciva
a racimolare per farlo. Per la seconda metà del secolo, volendo
citare qualche altro caso ancora, sappiamo che negli anni ’59 e
’60 la festa fu ridotta ai minimi termini “stante le politiche
vicende”, come fu stabilito in Consiglio. Negli anni successivi,
invece, la festa del 3 settembre fu a volte “solennizzata” con
sparo di mortai e fuochi di artificio, come accadde nel 1877, e
tramite l’utilizzo, dietro pagamento di qualche cifra, di
musici, “Professori di Suono e di Canto” e strumentisti locali e
non.
Quando si riusciva ad organizzare una festa con la presenza di
un’orchestra completa e cantanti i costi naturalmente
lievitavano ed i soldi spesso raccolti tra i sammarinesi, perché
ancora vi era la consuetudine di andare per tutto il territorio
a rimediare denaro, non bastavano. Allora in qualche occasione
interveniva lo Stato, come nel 1865 o nel 1874, quando diede
mille lire e la festa ne costò 1.378,40.
Oggi può apparire strana questa grande parsimonia anche in
occasione di una festa importante come quella del 3 settembre,
tuttavia bisogna costantemente tener conto, quando ci si rivolge
al passato di San Marino, dell’estrema precarietà economica in
cui versava sempre il paese, che aveva un’economia
esclusivamente agricola, con anni in cui il raccolto era
soddisfacente, quindi circolava qualche denaro in più anche per
fare una festa, e anni di raccolto scarso, che significavano
immediatamente per i più poveri fame e miseria, ripercuotendosi
negativamente anche sulle casse pubbliche, che gestivano
comunque continuamente bilanci assai meschini, ed entrate appena
sufficienti a garantire una gestione elementare e ridotta ai
minimi termini dell’apparato statale.
Chi osservando i festeggiamenti odierni del 3 settembre si
aspettasse lo stesso sfarzo, gli stessi colori, la stessa
vistosità o qualcosa di analogo anche per le feste del passato,
rimarrebbe per forza di cose assai deluso, perché la Repubblica
fino ad anni vicini a noi non si è mai potuta permettere nulla
di simile, o anche di meno fastoso.
La festa del Santo patrono, al di là delle celebrazioni
religiose e civili, era per la maggioranza dei sammarinesi una
sorta di grande ritrovo in Città per mangiare le proprie cose,
quelle cioè portate da casa, incontrare gente, fare quattro
chiacchiere, partecipare alle celebrazioni religiose,
presenziare alle parate della milizia e degli altri corpi armati
locali ed assistere al tiro al bersaglio con gli archibugi che
si faceva durante le ore pomeridiane nella Fratta, ovvero nel
bosco tra la prima e la seconda torre.
Se in qualche occasione si svolgesse ancora il tiro con la
balestra, o qualcuno si cimentasse anche con tale arma, magari
solo per un’esibizione, non si può dire con certezza.
Sicuramente però si sparava con l’archibugio: leggiamo una
testimonianza in proposito grazie ad una breve ma interessante
cronaca scritta da Oreste Brizi nel 1856:
“Bello è il vedere la Fratta nel giorno di S. Marino perdurante
il tiro al bersaglio; mentre lo si vede popolata di molta gente
cittadina e campagnuola parte spettatrice, parte attrice, e la
maggior parte armata di fucili e intenta a caricarli o
ripulirli. Bellissimo poi si era vedere la Fratta il dì 3
settembre 1840, epoca della festa centenaria, giacché, oltre i
sammarinesi, assistevano al tiro molti forestieri, e parecchi
aggregati alla Cittadinanza e alle milizie della Repubblica. Fra
questi vi era io pure, ed io pure sparai il mio colpo, che
sfiorò il bersaglio, ma non colse la rosetta”.
Il centenario di cui parla era quello legato alla liberazione
della Repubblica dall’occupazione del cardinale Alberoni,
festeggiato con uno stanziamento straordinario da parte del
Consiglio di 100 scudi già per organizzare la festa di Sant’Agata.
Continua Brizi:
“Il pezzo di legno rotondo che serve di bersaglio è della
larghezza di due terzi di braccio, e la cusetta o rosetta
centrale stà nel mezzo di altro pezzo di legno sporgente in
fuori, e corrispondente in dimensione al fondo di un bicchiere
comune da vino. Tutti indistintamente possono col proprio fucile
prender parte al tiro, e questo continua finché si presentano
tiratori e non è colpita la rosetta. Quando niuno l’ha colpita e
cessa il tiro per difetto di concorrenti, il vincitore del
premio è quegli che ha messo la palla sul cerchio bianco, e nel
concorso di varii, quegli la cui palla è più vicina alla rosetta
stessa.
Ultimamente non ha avuto luogo il tiro al bersaglio nel giorno
di S. Marino, ma riteniamo che la sospensione di esso fosse
transitoria e cagionata da speciali circostanze, e che non avrà
punto seguito; altrimenti non lasceremmo di condannarla in un
coi suoi Autori”.
Il bersaglio era “un pezzo di legno nero di forma circolare,
avente nel mezzo un punto egualmente nero circondato di bianco.
Contro quel bersaglio ciascuno, standone distante cento passi,
può alla sua volta tirare un colpo di fucile, e se la palla
coglie il punto centrale di esso, un tamburo annunzia la
vittoria, chi ha colpito nel segno riceve dall’uffiziale
soprintendente al tiro il premio di quattro scudi, cessa il
fuoco, e tutti abbandonano in un col vincitore la Fratta”.
Nel 1856 già da qualche anno il tiro al bersaglio non si
svolgeva più, perché dopo l’uccisione del Segretario di Stato
Gianbattista Bonelli, avvenuta il 14 luglio 1853 per mano di
fanatici seguaci delle dottrine rivoluzionarie risorgimentali,
in una sua seduta successiva, precisamente quella del 23 agosto,
il Consiglio vietò per quell’anno lo svolgimento del
tradizionale palio con queste parole: “La stessa Reggenza non
trovando prudente, che nelle attuali circostanze si empie il
paese d’Armati, come accade a motivo del premio al tiro degli
archibugi solito a proporsi nella festività del nostro
Protettore S. Marino opina che in quest’anno resti sospeso il
pallio predetto, nel che da tutti unanimemente si conviene”.
In realtà anche gli anni successivi rimasero molto turbolenti,
tanto che nel 1854 vennero uccisi altri due ottimati
sammarinesi: il medico condotto Annibale Lazzarini, ed il
giovane avvocato Gaetano Angeli.
Nel Consiglio del 31 agosto 1857 si tornò a parlare del palio:
“Interpellato il Consiglio se si dovesse, o nò nella vicina
Festa del S. Protettore fare il consueto tiro del Palio da varj
anni sospeso - vi si legge – Fù risposto unanimemente che si
continuasse a tener ferma la sospensione del predetto tiro, fino
a che il Comando Superiore delle Milizie avesse stabilite delle
norme per regolarlo, richiamando un tale esercizio puramente
militare alla primitiva sua istituzione”.
D’altronde il paese nell’Ottocento era pieno di armi private.
Più volte venne rinnovato il divieto di andare a caccia senza
licenza o di circolare con armi da fuoco, pugnali, stiletti,
come d’altronde succedeva in continuazione anche nei secoli
addietro, divieto che veniva però in genere puntualmente
disatteso, almeno per ciò che riguarda le armi più piccole ed
occultabili.
Il palio del 3 settembre poteva per alcuni divenire un pretesto
per disattendere i bandi proibitivi anche con le armi più
voluminose, per cui si scelse di evitare questo pericolo e di
lasciarlo congelato per un periodo indefinito.
Non sappiamo con certezza se negli anni successivi il palio del
3 settembre venisse resuscitato. Purtroppo ancora una volta
occorre fare i conti con la poca ufficialità che veniva data a
tale manifestazione, e la sua probabile organizzazione o
comunque gestione di stampo popolare. Non esistono deliberazioni
del Consiglio che ci dicono con chiarezza del suo ripristino, ma
da una relazione finanziaria di Domenico Fattori datata 5 marzo
1884 pare proprio che il palio, dopo qualche anno di
sospensione, fosse tornato miracolosamente in vita. Infatti per
attuare economie nel pubblico bilancio, Fattori elenca tra le
varie possibilità di risparmio anche quella di “abolire il tiro
al bersaglio del 3 Settembre”, possibilità che ovviamente non
avrebbe avuto senso individuare se effettivamente il palio era
ancora congelato dal 1853.
“Discusso il suddetto rapporto detagliatamente in ogni sua
parte, il Consiglio Sovrano approvò i singoli provvedimenti sul
resecamento dei diversi titoli di spese”, ci dice il verbale
consigliare del 27 marzo 1884.
Venne dunque approvata anche l’abolizione del palio del 3
settembre, che in effetti nei decenni successivi, fino al 1956,
non ci fornisce più traccia di sé.
Storia della Federazione Balestrieri
1956 – 2006
Per lungo tempo, dunque, il palio del 3 settembre rimase solo
una tradizione perduta nel tempo e dimenticata dai più, finché
nel 1956 il professor Giuseppe Rossi, cultore di cose
sammarinesi e profondo amante delle tradizioni e del passato
della piccola Repubblica, ebbe l’azzeccata idea di ripristinare
l’antico e statutario palio delle balestre.
Perché lo fece? Utilizziamo direttamente le sue parole
pronunciate nel 1985, momento in cui, dopo ben 30 anni di
presidenza della Federazione, decise di lasciare il suo
incarico:
“L'ho fatto con uno scopo molto preciso. Ho inteso porre
l'accento su quel fattore rievocativo che, se adoperato a
proposito, illustrato con chiarezza ed asserito con convinzione,
diventa elemento educativo per i giovani
sammarinesi.
Essere Balestrieri costituisce un atto culturale veramente
nostro ed io sono stato il restauratore di questa tradizione con
la piena coscienza di ciò che stavo facendo e degli scopi cui
tendevo.
Nessuno può esimersi dal constatare desolatamente che la
mentalità dei nostri giorni si distanzia progressivamente da
tutto ciò che è tradizione. I Sammarinesi stanno voltando le
spalle al passato. Né vi è alcuno che tenti di opporsi a questa
tendenza che assume ogni giorno di più l'aspetto di un fenomeno
storico ormai irreversibile.
Tutti noi leggiamo giornali che non sono nostri, vediamo
immagini televisive che non sono nostre, veniamo investiti da
una somma di problemi che non ci riguardano, rincorriamo
suggestioni nate altrove, prendiamo viva parte a un processo
evolutivo che ci porta sempre più lontano dalle nostre origini.
Ci stiamo maturando come cittadini del mondo, ma
contemporaneamente dimentichiamo le origini, perdiamo il senso
delle nostre proporzioni e omettiamo ogni giorno di più quell'atto
di fede nei valori che hanno fatto la nostra Repubblica, con la
sua umanità, con la sua giustizia, con le sue virtù.
Virtù, ho detto, quella principalmente dei nostri antenati,
ai quali il bene della Repubblica appariva come lo scopo più
alto dell'esistenza, cui era giusto sacrificare ogni altra
prospettiva. In tale clima, la gara civile per il «cursus
honorum» era riguardata come doverosa e il cittadino si
sobbarcava i vari compiti amministrativi a puro titolo gratuito;
né accadeva che improvvisi, inopinati e indebiti arricchimenti
addensassero sul capo degli amministratori il grave sospetto che
al pubblico vantaggio si fosse anteposto l'utile particolare.
Perduti così di vista i costumi spartani del passato, ecco la
Repubblica cedere alla suggestione della ricchezza, ecco i
cittadini inseguire a gara il benessere, eccoli sottovalutare i
valori morali; ed ecco il malo esempio degli adulti insinuarsi
nelle coscienze dei giovani ai quali l'agone politico appare
come la scala più agevole per l'arrampicata sociale e per il
privato arricchimento.
In questo desolante aspetto della morale del nostro tempo,
quando sembra ormai fatale il comune atteggiamento di volgere le
spalle al passato, si evidenzia, si distingue e risplende la
Federazione Balestrieri Sammarinesi, la quale ha richiamato i
giovani al culto dei valori della tradizione. E se la balestra
costituisce il simbolo della difesa delle nostre mura contro gli
attacchi esterni degli usurpatori, essa, all'interno del nostro
territorio, stimolando costanza, fedeltà e dedizione, è divenuta
elemento moralmente utile alla formazione dei Cittadini. Quale
in definitiva la ricompensa a chi si adopera nella Federazione?
Il solo merito di essere ed essere stato fedele a questo ideale
di rigoroso rispetto per i valori storici della Repubblica”.
Facendo rinascere un gruppo di balestrieri a San Marino, la
volontà del professor Rossi era dunque quella di ripercorrere il
passato per restituire ai giovani la consapevolezza di cosa
volesse dire essere sammarinesi e da dove storicamente si
provenisse:
“Quanta strada è stata percorsa dai tempi antichi quando noi
Sammarinesi, per tutelare il nostro buon diritto all'autonomia,
eravamo indotti a chiuderci nei nostri confini, «noti a noi e
ignoti ad ogni altro». Sarebbe amaro constatare che,
contemporaneamente al riconoscimento esterno della nostra
sovranità, noi stessi dovessimo perdere giorno per giorno la
coscienza della nostra identità statuale.
Nell'alternarsi e succedersi delle stagioni che danno il
ritmo ad ognuno degli anni della nostra vita, notiamo come il
nostro Paese, invaso nella grande estate da un'immensa folla
cosmopolita, soffra del male del disordine e del
disorientamento. Profittiamo quindi dell'inverno per ritrovarci
fra di noi, per riconsiderare i nostri doveri, per ripassare la
nostra vicenda storica e per mettere a fuoco i principi
ispiratori della nostra evoluzione futura. Adoperiamoci con ogni
mezzo a nostra disposizione per fortificare la nostra coscienza
nazionale che sta divenendo ogni giorno più gracile. E sia anche
la balestra uno dei fattori atti a tonificare la nostra identità
di Sammarinesi”.
In definitiva per Rossi essere balestrieri costituiva senza
dubbio “un atto di cultura sammarinese”, in grado di preparare i
giovani “ad essere cittadini sammarinesi”.
L’idea di far rinascere un gruppo di tiratori con la balestra
gli era venuta leggendo la rubrica che è stata riportata in
precedenza, la numero XXXVIII degli statuti del 1600.
Inizialmente l’ipotesi non ebbe un grande seguito, poi però
qualcuno incominciò ad entusiasmarsi ed a pensare che fosse
realizzabile, per cui si cercarono sponsorizzazioni e ci si
diede da fare per passare dall’idea alla concretizzazione del
gruppo.
Nel 1956 l'Ente Governativo per il Turismo comprese che
l’iniziativa era meritevole di appoggio, per cui stanziò una
somma destinata a creare una Federazione Balestrieri.
Lo studio degli abiti dei balestrieri venne affidato alla
pittrice Giulia Mafai che, tramite una precisa indagine storica
ed iconografica, cercò di far rivivere i costumi tipici del XV e
XVI secolo con una particolare varietà di fogge e di colori
dovuta al fatto che i balestrieri, divisi in nove squadre,
dovevano rappresentare i nove Castelli in cui è suddiviso il
territorio di San Marino. Ciascuna squadra quindi doveva avere i
colori della propria bandiera distribuiti negli elementi
essenziali dell'abbigliamento di quei secoli. Questi costumi
vennero utilizzati fino al 1967, quando vennero ridisegnati dal
sammarinese Rosolino Martelli.
Il 31 luglio 1956 i Balestrieri sammarinesi fecero, dopo secoli,
la loro prima uscita pubblica per le vie di San Marino salendo
alla Cesta, ovvero la seconda torre, dove si schierarono lungo
la scale di accesso, ai lati delle porte, tra i merli, nelle
stanze interne. Qui attesero ed accolsero gli studenti di San
Marino di California in visita alla Repubblica.
Le nove squadre, corrispondenti ai Castelli di San Marino, erano
composte da cinque balestrieri ciascuna, più il portabandiera,
cui si aggiungevano l'ufficiale, l'araldo, il paggio, due
tamburini, due trombettieri per un totale di 61 uomini in tutto.
L'ufficiale dei balestrieri diede il benvenuto agli ospiti
californiani con un saluto in latino scritto per l’occasione:
Vobis omnibus qui visum antiquissimam Rempublicam a Sancto
Marino Dalmata tempore Diocletiani Imperatoris fundatam venire
voluistis, salutationem amplissimam porrigimus et delectationem
in oppido nostro et reditum secundum optamus. Valete semper.
Rectores, Magistri et Discipuli Terrae Sancti Marini.
Un mese dopo, per la festa del Santo Patrono del 3 settembre, i
balestrieri fecero la loro seconda uscita pubblica per
ripristinare l’antico e tradizionale Palio di San Marino.
Grazie a tale occasione, ci si accorse però della necessità di
apportare perfezionamenti alle balestre, che erano state
ricostruite affrettatamente, per cui non avevano sufficiente
gittata, ai bersagli, che erano una specie di taragoni di
castagno alti da terra un metro e mezzo, al cerimoniale.
Si studiarono quindi il funzionamento delle vecchie balestre
reperite nei musei, l'equilibrio dei verrettoni per i quali si
forgiarono punte nuove, un diverso tipo di bersaglio fatto a
rotella recante al centro il corniolo da porsi ad un'altezza di
metri 2,50 e ad una distanza di 35 metri dal cavalletto del
balestriere, gli antichi cerimoniali. Furono anche presi
contatti con artigiani e con chi in Italia sapeva costruire
ancora balestre, ma vari sammarinesi impararono con passione a
creare e assemblare balestre.
Nel maggio del ’57 i balestrieri sammarinesi parteciparono al
Corteo Matildico di Quattro Castella presso la Rocca di Canossa
e al palio della balestra di Gubbio.
Il 3 settembre dello stesso anno, dopo che nel giorno precedente
la Reggenza aveva emanato un decreto apposito che si richiamava
esplicitamente alla rubrica XXXVIII degli statuti secenteschi,
ebbe luogo nella cosiddetta “Cava Antica”, con inizio alle ore
18, il primo Palio di San Marino rivisto e migliorato in base
alle esperienze acquisite, ed in questa forma fu celebrato in
tutti gli anni successivi, anche se l’orario d’inizio fu in
seguito portato alle ore 15.
Nei loro primi anni di attività i balestrieri utilizzarono il
palazzo dell’Ente Turismo come sede dove depositare costumi,
attrezzi e le prime 10 balestre acquistate nel 1958;
successivamente venne loro affidato invece il piccolo locale
sopra la Porta della Ripa, inadatto comunque alle loro esigenze,
per cui si trasferirono in un locale affittato in via Giacomini,
dotato anche di banco da lavoro dove curare e riparare le
balestre.
Dopo qualche tempo, tuttavia, lo Stato affidò alla Federazione i
locali posti davanti all’ex convento delle monache clarisse in
Città, locali ancora sede dei balestrieri e del museo che è
stato allestito con i cimeli, i costumi e le attrezzature
utilizzate negli ultimi cinquant’anni, ma ormai smesse, ed
inaugurato nel 1981.
I balestrieri negli anni si sono esercitati in varie località:
nel campo di tiro di Murata, in quello della Baldasserona, a
Fiorentino e a Valdragone, ma dal 1965 il loro campo di
allenamento è divenuto una cava allora abbandonata e ricoperta
di sterpi in Città, l’attuale “Cava dei Balestrieri” che,
ripulita e adattata alle necessità dei tiratori e del pubblico
che assisteva alle gare, venne inaugurata ufficialmente il 3
settembre del 1971, subendo riattamenti e perfezionamenti negli
anni successivi.
Nel 1974 vennero affissi su una parete della cava gli stemmi
delle cinque città (San Marino, Gubbio, Sansepolcro, Massa
Marittima, Lucca) componenti la Federazione Italiana
Balestrieri, fondata il 13 febbraio 1966 ed il cui primo torneo
nazionale individuale si svolse il 10 luglio dello stesso anno
proprio a San Marino. Primo presidente di questa Federazione fu
proprio il sammarinese Giuseppe Rossi.
Queste città, ad eccezione di Lucca, nel maggio del 1971 si
accordarono anche per creare un campionato nazionale a squadre,
la cui prima edizione si svolse il 18 luglio di quell’anno a
Gubbio e vide trionfare proprio la squadra sammarinese, che
mantenne il titolo di miglior squadra italiana di tiro con la
balestra per ben otto anni consecutivi a testimonianza della
grande abilità acquisita dai balestrieri che la componevano.
Nei primi anni della loro vita i balestrieri si allenarono,
parteciparono ai pochi palii che si disputavano in giro per
l’Italia, perfezionarono le loro armi e la loro tecnica.
Riuscirono ad ottenere un secondo posto nel palio del Castello
Sforzesco di Milano il 20 maggio 1962, parteciparono in luglio
al primo palio svolto al Castello di Gradara, in settembre al
palio di Sansepolcro e sfilarono qualche giorno dopo al Corteo
della Vendemmia di Lugano, e finalmente il 18 giugno 1964 si
affermarono per la prima volta in un torneo contro i balestrieri
di Sansepolcro, vincendo il palio che in quel giorno venne
disputato a Caprese Michelangelo in onore del grande artista
rinascimentale.
Un mese dopo, precisamente il 12 luglio, risultarono ancora una
volta vincitori contro lo stesso gruppo di balestrieri in una
gara disputata nel castello di Poppi in occasione del settimo
centenario della nascita di Dante Alighieri.
Il 20 settembre dello stesso anno, invece, i balestrieri
sammarinesi si recarono in Francia, a Vichy, per disputare un
palio locale di cui risultarono vincitori.
Ormai la Federazione stava dando ampia dimostrazione di essere
competitiva ed in grado di gareggiare a testa alta con chiunque,
per cui fu deciso di ampliare il numero delle balestre a
disposizione, che in quel momento era di venti in tutto, così da
fornire ad ogni balestriere un’arma personale.
L’interesse verso la balestra crebbe gradualmente anche in
paese, tanto che vari insegnanti delle scuole elementari vollero
incontri tra i loro studenti ed i balestrieri per avere
informazioni sulle loro armi, le tradizioni, la storia di cui
erano continuatori.
D’altronde nel 1972 nacque il campionato sammarinese
individuale, nel ’76 quello a squadra, mentre nel ’74 vi fu il
riconoscimento giuridico della Federazione Balestrieri da parte
del Consiglio dei XII, tutti fattori che contribuirono a
consolidare la Federazione ed a renderla una presenza sempre più
costante all’interno della società e del folclore sammarinese.
Nel 1975, inoltre, i balestrieri diedero alle stampe anche un
loro periodico, il “Passaduro”, che oltre a fornire informazioni
sulla vita della Federazione, fu indubbiamente un importante
veicolo per reclamizzarsi tra la gente della piccola Repubblica.
Uscì per diverso tempo, poi si decise di cessarne la
pubblicazione.
Oltre ad affermarsi a livello locale ed italiano, la Federazione
ebbe importanti riconoscimenti anche in Europa, e partecipò a
tornei o manifestazioni in Germania, Belgio, Svizzera ed altre
nazioni ancora, così come nel mondo, tanto che recentemente i
suoi balestrieri hanno sfilato e dato dimostrazione della loro
maestria perfino in Brasile.
Nel settembre del 1975, dopo aver partecipato all’Oktoberfest di
Monaco, i balestrieri vennero calorosamente accolti al loro
ritorno dai commercianti e dagli operatori turistici sammarinesi
come promotori “di un messaggio pubblicitario di grande
portata”, in grado di tener vivo a livello internazionale
l’interesse della gente verso la Repubblica di San Marino.
Nel 1977 giunse un altro importante riconoscimento: la Reggenza
appuntò al Gonfalone della Federazione la medaglia d’oro al
merito, importante onorificenza decretata dal Gran Magistero di
Sant’Agata il 5 febbraio in quanto i balestrieri avevano saputo
portare “la bandiera sammarinese con onore in Patria, in Italia
ed in Europa, destando entusiastica eco folcloristica,
riportando grandi successi agonistici, promuovendo la conoscenza
di San Marino con grande vantaggio per il consolidamento delle
tradizioni avite, per l’educazione patriottica della gioventù e
per lo sviluppo dell’industria turistica sammarinese”.
La Federazione negli anni successivi non si accontentò comunque
dei traguardi raggiunti e dei contatti stabiliti, ma, ampliando
il numero dei suoi aderenti, volle accrescere ulteriormente la
proposta folcloristica e lo spettacolo che già poteva fornire al
pubblico: per tale motivo nel 1982 decise di costituire al suo
interno un gruppo di sbandieratori, cosa resa possibile dalla
collaborazione e dall’amicizia offerte dai valenti sbandieratori
di Sansepolcro, che istruirono nella difficile arte delle
bandiere alcuni giovani sammarinesi.
Merita evidenziare che la Federazione Italiana ed Internazionale
dei giuochi e sports antichi della bandiera era stata creata
proprio a San Marino il 22 e 23 ottobre del 1966 durante un
convegno internazionale qui svolto a tale scopo a cui
presenziarono 15 associazioni italiane ed europee di
sbandieratori.
La prima esibizione dei giovani sbandieratori sammarinesi
avvenne nello stesso anno, poi come successe per i balestrieri,
nelle stagioni successive il loro numero aumentò gradualmente
fino a divenire una componente essenziale e ormai irrinunciabile
del pittoresco spettacolo che la Federazione Balestrieri è
attualmente in grado di offrire ai tanti spettatori che
accorrono alle manifestazioni che organizza o a cui partecipa,
grazie anche all’apporto dei musici, dei nobili e dei diversi
personaggi in costume che oggi compongono abitualmente le sue
sfilate, tutte figure di cui la Federazione Balestrieri si è
dotata negli anni successivi per rendere sempre più
scenografiche e ammirevoli le sue uscite pubbliche.