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L’occupazione del cardinale Alberoni 

La situazione di declino politico in cui si trovava San Marino agli inizi del XVIII secolo fu tra le cause principali dell’invasione attuata dal cardinale Giulio Alberoni nel 1739, insieme naturalmente alla chance colta al volo dallo Stato Pontificio di poter finalmente rimettere le mani su un territorio che, contrariamente a quanto pensavano i suoi residenti, da sempre aveva considerato suo, e che gli dava non pochi fastidi come enclave su cui fin lì aveva potuto avere scarsa giurisdizione e controllo.
Indicativo della degenerazione oligarchica in atto in quegli anni è il fatto che, quando l’Alberoni occupò San Marino, erano solo ventisette i consiglieri viventi. Ovviamente questa situazione accontentava quei pochi uomini forti che tenevano le redini della Repubblica, ma lasciava molto amaro in bocca agli esclusi, tra i quali vi erano personaggi appartenenti a clan familiari potenti che rivendicavano maggiore spazio nella gestione politica dello Stato e meno strapotere degli appartenenti all’elite nobile che gestiva il paese.
Nel 1737 Marino Belzoppi, in combutta con membri delle famiglie Lolli, Ceccoli e Centini, ordì una congiura con lo scopo di ripristinare l'antica assemblea dei capifamiglia dell'Arengo, non più riunita dal 1571, ed esautorare il Consiglio per farne uno rinnovato. La congiura venne però scoperta nel settembre del 1738; i principali responsabili (Vincenzo Belzoppi, Marino Ceccoli, Pietro Lolli e Marino Belzoppi) furono tratti in arresto e incriminati per ribellione, accusa passibile di pena capitale. Pietro Lolli, tuttavia, era personaggio che godeva di appoggi sia dentro che fuori il territorio sammarinese: infatti apparteneva a famiglia importante, tanto da essere stato Reggente tra il 1723 e il 1724. Inoltre fin dal 1727 gli era stata rilasciata la patente di “Denunziante dei Legati Pii” dal Santuario di Loreto, che gli forniva privilegi e protezioni da parte dello Stato Pontificio. Questo documento darà il pretesto al cardinale Giulio Alberoni, importante funzionario del papa a Ravenna, per invadere la Repubblica di San Marino nel 1739.
Quando infatti inizierà il processo, l’avvocato di Lolli sosterrà che egli doveva essere considerato a tutti gli effetti un suddito del papa, quindi doveva essere giudicato da un tribunale della Santa Sede: San Marino era tenuto dunque a scarcerarlo per consegnarlo a Roma. Ovviamente questa richiesta serviva solo ad evitare che Lolli fosse processato da un tribunale sammarinese, ma venne respinta senza indugio perché, consegnandolo, la Repubblica avrebbe ammesso di non essere Stato autonomo e di riconoscere al Vaticano non solo la benevola protezione pattuita agli inizi del XVII secolo, che secondo il punto di vista sammarinese non aveva la facoltà di ledere l’autonomia sacra e secolare della Repubblica, ma la possibilità d’interferire a discrezione nelle sue vicissitudini interne.
La volontà sammarinese di processare in assoluta indipendenza Lolli e gli altri congiurati infiammò la vicenda scatenando una polemica sempre più avvelenata tra il Titano e Roma, che incaricò alla fine il cardinale Giulio Alberoni di provvedere a dare una lezione a quei fieri montanari “superstiziosi della loro libertà”, come ebbe in seguito a dire.
Le prime vendette nei confronti dei sammarinesi vennero perpetrate sul suolo dello Stato Pontificio, con molestie sistematiche a chi si recava fuori territorio, o impedimenti d’importazione di prodotti e merci. Nel marzo del 1739, poi, mentre stavano lavorando un loro podere a Savignano, furono arrestati, senza motivo apparente, Marino Enea Bonelli e il figlio Costantino, che in seguito vennero trattati alla stregua di ostaggi da barattare con Lolli.
Per alcuni mesi la faccenda rimase in ebollizione, ma si cercò di risolverla per vie diplomatiche. Non potendosi però conciliare le posizioni, nel mese di settembre l'Alberoni, spronato ed autorizzato dal papa in persona, si portò sui confini di San Marino, e qui attese che i suoi simpatizzanti all’interno di San Marino sensibilizzassero la popolazione ad accoglierlo come un liberatore dalla tirannia dominante, e non come un invasore. Infatti Roma temeva critiche e ripercussioni da parte di altri Stati qualora tutta l’operazione fosse apparsa come un’usurpazione, e non come un aiuto ai sammarinesi oppressi da un potere oligarchico e dispotico. Quest’opera di sensibilizzazione diede qualche frutto: infatti sabato 17 ottobre, quando il cardinale varcò i confini sammarinesi, una folla festante, capeggiata dal parroco di Serravalle, lo accolse con acclamazioni ed evviva.
Per non dare l’impressione di un’invasione in piena regola, il cardinale Alberoni non volle portarsi appresso armate, ma solo qualche accompagnatore personale,  perché la sua intenzione, maturata in base alle informazioni che possedeva, era quella di accogliere la spontanea dedizione dell’intero popolo sammarinese, com’era già accaduto a Serravalle, stufo di sottostare al dominio di un manipolo di nobili, e bramoso di darsi totalmente al papa.
Dopo avere sostato per qualche ora a Serravalle ed aver ricevuto l’atto di sottomissione ufficiale dei suoi residenti, il cardinale si recò in Città, senza però ricevere altri segni di asservimento lungo il tragitto. Si sistemò a palazzo Valloni dove nel pomeriggio dello stesso 17 ottobre venne acclamato dal parroco di Fiorentino, e da un nugolo di suoi parrocchiani che sottoscrissero un atto di sottomissione sull’esempio dei serravallesi.
Fino a questo momento i governanti non avevano ben compreso i reali intenti del cardinale; quando fu loro chiaro, iniziarono ad inviare uomini per il territorio a radunare le locali milizie. A questo punto nella serata e durante la notte Alberoni fece giungere in tutta fretta da Verucchio e Rimini alcune centinaia di soldati che presero facilmente possesso di Città. Il giorno 18 la Repubblica era completamente nelle mani dell’inviato di Roma.
Nei giorni successivi il cardinale con l'aiuto dei suoi uomini iniziò a gestire lo Stato sammarinese come se fosse un territorio del papa, liberando d’autorità dal carcere anche quel Pietro Lolli per cui era iniziato tutto. Per avere un’ulteriore legittimazione a quanto fatto, Alberoni organizzò per domenica 25 ottobre, presso la Pieve, una riunione di tutti i consiglieri e rappresentanti dei Castelli affinché facessero atto formale di sottomissione alla Santa Sede tramite giuramento solenne, così da poter legittimare e porre conclusione alla faccenda. Giunto il giorno prestabilito, il cardinale dovette rendersi conto in realtà che la questione non era affatto al suo termine: infatti solo una parte di sammarinesi si dimostrò propensa a giurare fedeltà allo Stato Pontificio, rinunciando così all’indipendenza della loro Repubblica; altri invece bollarono tutta la vicenda come un sopruso, confermando di riconoscere come principe della Repubblica solo il santo fondatore e nessun altro.  Fallita la cerimonia e vanificate le intenzioni dell'invasore, l'Alberoni fece saccheggiare come punizione varie case di coloro che avevano respinto sdegnosamente la sottomissione da lui pretesa, obbligandoli alla fine a ritrattare quanto affermato e, nella serata dello stesso giorno, a prestare giuramento di fedeltà allo Santa Sede.
Con la forza il cardinale alla fine l'aveva spuntata, ma la forza, si sa, non è sufficiente a soffocare in tempi brevi le consuetudini, la cultura e la mentalità di chi da secoli era abituato diversamente. Inoltre a Roma ed anche in Europa lo Stato sammarinese godeva di amicizie e simpatie di cui probabilmente nessuno s'immaginava  pienamente, e cosi, vuoi per l'intercessione di potenze straniere a favore della Repubblica, vuoi per i dubbi dello stesso Papa, timoroso che la questione potesse ritorcerglisi politicamente contro, venne inviato a San Marino un altro  rappresentante del Vaticano, monsignor Enrico Enriquez, governatore di Perugia, per verificare come stessero realmente le cose, e per vedere se i Sammarinesi erano effettivamente contenti dell'annessione del loro Stato a quello della Chiesa, come Alberoni continuava a sostenere nelle lettere inviate a Roma, oppure no. 
Il nove gennaio del 1740 l'Enriquez giunse sul Titano dove nel frattempo l'Alberoni aveva provveduto a fare profonde rettifiche alle locali istituzioni politiche riportando a sessanta il numero dei membri del Consiglio, abolendo la Reggenza, sostituita con un gonfaloniere e due conservatori, creando un governatore nominato direttamente dal rappresentante romagnolo dello Stato Pontificio, sottomettendo, in definitiva, totalmente la Repubblica all'autorità politica del papa e dei suoi funzionari.
Appena arrivato, l’Enriquez assunse provvisoriamente il governo, e iniziò a interrogare i residenti per conoscere se preferivano rimanere sotto il dominio dello Stato Pontificio, o se volevano ritornare alla loro indipendenza. Quasi tutti gli interpellati si pronunciarono a favore del ripristino della libertà consuetudinaria. “Non vi sono dubbi - affermò in seguito l'Enriquez in una sua lettera - con verità incontrastabile esser una vera unanimità in favore della Repubblica”. Il cinque febbraio, giorno di Sant’Agata, la Repubblica tornò ufficialmente ad essere indipendente.

 

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