BREVE STORIA
DELL'ACQUA SAMMARINESE
L’aqua la infreida
i pèll
(l’acqua infradicia i pali).
Questo tipico aforisma romagnolo, simile nella sua sostanza a tanti
altri detti locali, tutti tesi a lodare il vino e a svilire l’acqua
stessa, può, nella sua semplicità, riassumere bene ciò che era in
passato, nella coscienza collettiva sammarinese, che solo da pochi
decenni non è più contadina, l’atteggiamento dell’uomo verace e
macho (ma anche della donna) nei confronti di questa sostanza fresca
e provvidenziale, ma terribilmente insapore e priva di potenzialità
inebrianti.
Ancora
oggi sopravvive tra molti anziani la mentalità che l’acqua
l’arrugnisc
el budèli
(arrugginisce le budella), mentre un buon bicchiere di vino
viene considerato un ottimo corroborante ed anche un toccasana per
tutti i mali.
D’altra
parte si è già accennato al fatto che la Repubblica di San Marino
fino a tutta la prima metà del Novecento era ancora un paese
prevalentemente rurale, ed il vino locale, particolarmente pregiato
ed apprezzato anche dagli abitanti del circondario (‘Tla
repubblica u’s’
va per fe’ giuvaca,
per fe’ fraja
sa’ e’ vein
republichen, o ti
marchè per tò una
bona vaca, o per
god la funzion di
Capiten – Nella repubblica si va
per far festa e baldoria col vino repubblicano, o per andare nel
mercato a comperare una buona vacca, o per assistere alla cerimonia
d’insediamento dei Capitani Reggenti – recita la prima strofa di
una poesia degli inizi del Novecento scritta da
Addo Cupi di Rimini), che provvedevano ad esportarne
periodicamente in quantità, per secoli ha rappresentato un alimento
basilare quotidiano per la nostra poco opulenta civiltà, tant’è che
la colazione tipica dei più era proprio un goccio di vino ed un
pezzo di pane, così come spesso rappresentava il pranzo o la cena.
Countra
i pensir un gran rimédi l’ è e
bicìr (contro i pensieri un gran
rimedio è un bicchiere), recita un altro detto che ci fa capire
quali ulteriori virtù venissero attribuite al vino (all’acqua
ovviamente no!), e che ci permette anche d’intuire perché
l’alcolismo è stato in passato una piaga tanto diffusa tra la nostra
gente.
L’aqua la fa
mel, e’
vein e’ fa cantè
(l’acqua fa male, il vino fa cantare).
L’aqua la fa marcì
el budèli
(l’acqua fa marcire le budella). L’aqua
l’è bona da lavess
la facia (l’acqua è buona da lavarsi
la faccia), recitano altri proverbi tutti concordi nel reputare
questa pur indispensabile sostanza in netto subordine rispetto al
vino, vero e proprio nettare degli dei
per i Sammarinesi e per i romagnoli in genere.
Ma
l’amore per il vino e la diffidenza verso l’acqua erano nei secoli
passati, in particolare fino al XIX
secolo, assai diffusi, soprattutto perché s’imputava paradossalmente
proprio all’acqua di essere la principale causa di numerose malattie
gastroenteriche, ma anche del cretinismo, del gozzo e delle febbri
miasmatiche.
Ancora
nel 1856, all’interno di un testo sull’uso ed abuso dei bagni di
mare, che proprio in quel periodo cominciavano ad essere consigliati
e fatti per motivi terapeutici, si dice: La bevanda poi che si
deve usare ordinariamente nei pasti sarà di
acqua vinata. (…) L’acqua pura
per bevanda (…) sconviene, perché è questa troppo poco
stimolante, mette troppa mollezza e
rilassatezza nei corpi, e troppi sudori facilita. (…) Il vino poi
unito a più o meno acqua, oltre che meglio estinguere la sete,
meglio ancora aiuta allo smaltimento nello stomaco della massa
cibaria.
Al vino
si attribuivano dunque precise funzioni di ristabilimento degli
equilibri interni, nonché la capacità di
mantenere costante la temperatura corporea e di salvaguardare, fin
dai primissimi mesi di vita (anche ai bambini molto piccoli veniva
dato qualche sorso di vino periodicamente), da tutta una serie di
malattie, perché secondo la coscienza collettiva il vino eliminava i
cattivi umori corporei e, dopo le scoperte di
Pasteur, era in grado di uccidere persino i microbi.
Questi
rigidi stereotipi, che sono spesso giunti fino a noi, condizionavano
ovviamente la vita quotidiana e il bisogno di
acqua. Oggi ci si raccomanda di non sciupare l’acqua, perché
ne usiamo quantità industriali in continuazione; ma in passato, fino
ad anni non lontani da noi, né per l’alimentazione, né soprattutto
per l’igiene rivestiva una particolare importanza,
visto che, come si dirà fra breve, anche
in campo igienico è stata considerata per lunghi secoli più un
pericolo che una panacea.
L’acqua
era importante per l’agricoltura, ma anche qui solo in dosi giuste,
perché se era poca vi era siccità, quindi l’esigenza di richiamarla
tramite precisi riti; se era molta, invece, era ugualmente un danno,
perché ovviamente andava ad intaccare la qualità e l’abbondanza dei
raccolti.
Una
credenza popolare assai diffusa sosteneva che non bisognava portare
acqua (nemmeno da bere) sul luogo della mietitura, perché l’acqua
della terra avrebbe richiamato quella del cielo con possibili danni
per il raccolto. Si capisce dunque con facilità da dove
nascesse il grave alcolismo che nei
secoli passati dominava un po’ tutte le classi sociali.
Per
quanto riguarda l’uso dell’acqua per motivi igienici, si può
senz’altro sviluppare un discorso altrettanto importante di quello
svolto fin qui per gli usi alimentari. La medicina come la
conosciamo noi è scoperta piuttosto recente. Fino a poco più di un
secolo fa vi erano intorno al corpo e
alle sue malattie convinzioni e stereotipi assai diversi di quelli
che abbiamo noi, derivati da teorie sviluppate in antico da
personaggi come Aristotele, Ippocrate,
Galeno.
In
maniera molto sintetica si può affermare che la salute dipendeva
dall’equilibrio perfetto tra i quattro umori che erano
considerati tipici del corpo umano (bile gialla, bile nera, sangue,
fiele), mentre la malattia dipendeva solo dal loro squilibrio.
Da qui l’esigenza costante nelle cure mediche di
succhiare sangue agli ammalati, con salassi o sanguisughe, per
ristabilire l’equilibrio perduto. Com’è facile intuire,
questa pratica invece li indeboliva ulteriormente, contribuendo il
più delle volte a peggiorare il problema piuttosto che risolverlo.
In una
simile concezione medica le nozioni di pulizia, lavaggi, depurazione
erano assolutamente marginali quando non del tutto
assenti. Anzi, diffuso era il credo che
l’acqua spesso fosse veicolo di malattia.
Infatti si pensava che, facendosi un
bagno completo, i pori della pelle si dilatassero a tal punto da
diventare un nugolo di porte spalancate alle malattie provenienti
dall’esterno, perché si credeva che il maggiore veicolo delle
patologie fosse proprio l’aria.
Quando
dal 1348 in poi l’Europa venne percorsa
in lungo e in largo ciclicamente dalla peste bubbonica e polmonare,
la convinzione che lavarsi fosse pericoloso e sconsigliabile divenne
diffusa ovunque. Infatti a lungo gli
uomini non capirono bene da dove derivasse questo flagello, ma agli
inizi del XVI secolo si cominciò a sostenere che fosse causata dai
seminaria, minuscole particelle
viventi in grado di riprodursi da una persona ad un’altra, e di
trasmettersi proprio passando attraverso i pori della pelle, che
ovviamente erano tanto più resistenti quanto più erano occlusi.
Non solo
la peste poteva trovare questo percorso per contaminare l’uomo,
ovviamente, perché più in generale si pensava che il bagno
debilitasse sempre e comunque il corpo ed
esponesse al rischio di ogni tipo di malattia.
Ma sicuramente fu soprattutto la paura della morte nera che
frenò immensamente l’uso dell’acqua per lavarsi, perché prima dei
periodi in questione l’acqua era assai più utilizzata dalla gente
per lavarsi.
Ciò non
toglie che per alcuni tipi di malattia la medicina dell’epoca
consigliasse di fare abluzioni totali;
tuttavia, sempre per la logica dell’indebolimento corporale, in
seguito era sconsigliato uscire di casa per qualche giorno, per
evitare il rischio di esporsi all’aria malsana col fisico
predisposto ad ammalarsi per i suoi pori troppo aperti, e per
starsene in assoluto riposo così da permettere al corpo fiaccato e
svigorito dal bagno di ritornare in forze.
Prima
della peste i lavaggi facevano molto meno paura, tanto che era
consigliato fare il bagno ad un neonato tre o quattro volte
al giorno. Esistevano inoltre molti
locali che avevano a che fare con acqua e bagni, appunto, servendo
in realtà come postriboli e luoghi di prostituzione o d’incontro di
natura erotica e sessuale. D’altronde è conosciuta l’importanza che
i bagni pubblici avevano per i romani, importanza che sopravvisse a
lungo anche dopo il crollo dell’impero romano, nonostante che la
vita venisse ovviamente modificata in
profondità a causa delle continue invasioni cui era sottoposta la
penisola italiana. Ma dal XIV secolo in
poi le cose cambiarono, la sporcizia aumentò e l’acqua divenne un
bene meno prezioso e ambito.
Si pensi
che, stando ai documenti che ne fanno fede, il re di Francia Luigi
XIII non fece un bagno completo fino
all’età di sei anni. Pure il Re Sole pare ne
facesse rarissimamente, tanto che abbiamo notizie di uno
solo, fatto precisamente nel 1665, almeno stando alle annotazioni
che i suoi medici scrissero all’interno del suo Journal de la
santé fra il 1647 e il 1711.
Ovviamente queste pratiche, che sicuramente a noi igienisti a volte
fin troppo fanatici fanno accapponare la pelle, portavano ad un
insieme di odori a cui bisognava
abituarsi; ma gli odori, come i sapori, hanno tutta una loro storia
sociale altrettanto interessante di quella dell’acqua, per cui
quello che a noi oggi sembra nauseabondo, in passato non lo era,
così come sarebbero per i nostri antenati repellenti odori e sapori
che per noi invece sono quotidiani.
Queste
pratiche poco salubri facevano del corpo un luogo perennemente
infestato dai parassiti, come le pulci, che erano una presenza
costante ma non sgradita degli uomini del passato. Per secoli non
vennero fatti collegamenti tra presenza
di pulci e malattia. Anzi, vi era la convinzione che le pulci
contribuissero a togliere i cattivi umori dal sangue succhiandolo,
ovvero a purificarlo. Spidocchiarsi reciprocamente, poi, come lo
è ancora per le scimmie, era un rito
preciso che sottintendeva spesso anche un premuroso rapporto
affettivo.
Il
concetto di igiene, dunque, per lunghi
secoli non è stato legato all’acqua, ma ad altri fattori. Si parlava
infatti di “pulizia secca” in quanto si pensava che una
camicia pulita ed un abito cambiato spesso corrispondessero al
sistema più efficace possibile per tenere linda la propria persona.
Inoltre
sulla parsimonia nell’uso dell’acqua incideva anche una morale assai
più rigorosa di quella che caratterizza
la nostra mentalità. Il corpo era considerato un oggetto
peccaminoso, che non occorreva assolutamente né guardare, né toccare
e quindi stimolare per non cadere in tentazione e in grave peccato.
La nudità era quanto più possibile da evitare
sia per gli uomini, sia soprattutto per le donne. L’igiene
intima era classificata come del tutto oscena,
riservata al massimo alle prostitute, a cui veniva sempre
associata, ma non alle donne per bene.
Il bidet,
che fece le sue prime apparizioni all’inizio del XVIII secolo,
rimase a lungo una rarità avversato dalla
morale dominante come oggetto indecente assai pericoloso per la
sessualità femminile, ovvero peccaminoso. Gl’inglesi
poi lo etichettarono come una “sconvenienza continentale”, evitando
proprio di dargli alcun tipo di considerazione, tanto che ancora
oggi è per loro pressoché sconosciuto.
C’è poi
da aggiungere che gli uomini sono stati a lungo convinti che, senza
odori forti addosso, l’attrazione sessuale esercitata sulle donne
sarebbe stata scarsa e mediocre.
Questa realtà così poco
pulita rimase viva circa fino a tutto il XVIII secolo, che si può
considerare l’epoca in cui gli uomini iniziarono ad intrattenere con
l’acqua un rapporto assai diverso di prima. Fin dal 1743, infatti,
grazie a un testo di
Alexis Claude
Clairaut (La
théorie de la figure de la terre, tirée
des principes
de l’hidrostatique) si cominciò a
capire di più sull’acqua, passando dalla concezione platonica della
teoria del ciclo sotterraneo delle acque a quella della teoria
atmosferica. Secondo la teoria fino a quel momento in auge, le acque
avrebbero avuto origine dal contatto del mare, creato fin dai
primordi dell’universo da Dio o dalla natura, con il centro
surriscaldato della terra. Per evaporazione e capillarità, l’acqua
si sarebbe poi infiltrata nelle caverne che solcano il sottosuolo,
dando luogo ai fiumi e alle sorgenti, e giungendo così al consumo
umano purificata dal fuoco del nucleo centrale della Terra. Con
Clairaut si abbandona tale teoria e
prende vita invece quella atmosferica,
già abbozzata però anche da Aristotele, dell’evaporazione e delle
precipitazioni.
Dalla
fine del secolo, poi, gli uomini iniziarono ad intrattenere con
l’acqua rapporti completamente diversi e
rivoluzionari rispetto al passato, considerandola come vapore capace
di muovere le macchine, come elemento indispensabile per le nuove
fabbriche della prima rivoluzione industriale secondo il principio
più l’acqua è abbondante, più l’industria si sviluppa, come
merce da vendere, come forza da cui produrre elettricità, come
sostanza basilare per certe cure terapeutiche. Cominciarono
cioè a guardarla sia come scienziati che
come imprenditori.
Fin dal
Medioevo, per la verità, l’acqua era stata usata per la lavorazione
della seta, della carta, delle pelli e come forza motrice dei
mulini, ma nel XIX e nel XX secolo essa
diventò sempre più appannaggio dei sapienti, laicizzandosi nel
sapere di geologi, ingegneri, chimici, fisici che la studiarono da
un punto di vista prettamente scientifico. Basti dire che,
nonostante i Romani fossero stati grandi costruttori
di acquedotti, solo nel XIX secolo si
ritornò a costruirne dei nuovi o a ripristinare, spesso ampliandoli,
quelli antichi.
L’Ottocento fu poi il secolo in cui iniziò a diffondersi l’uso del
bagno periodico fatto in casa. Fu anche l’epoca in cui lentamente
cominciarono a sostituirsi i water
closet (letteralmente “stanzino dell’acqua”, inventato in
Inghilterra nel 1778) ai vasi da notte, il cui contenuto veniva
spesso gettato dalle finestre da chi non possedeva un pezzetto di
terra attorno alla sua abitazione dove scaricarlo (è facile
incontrare anche nell’archivio giudiziario sammarinese cause
intentate da chi subiva docce involontarie di fetido materiale
organico).
I water,
tuttavia, inizialmente poterono essere sfruttati più che altro come
grandi vasi da notte, perché finché non si è sviluppato un adeguato
sistema fognario, e finché non è stato
inventato il sifone (presentato per la prima volta all’Esposizione
Universale di Parigi nel 1889), il loro utilizzo era alquanto
simile, così come i miasmi che ne derivavano. Non a caso l’Ottocento
fu ancora secolo di grandi epidemie di colera, malattia causata da
un bacillo che si sviluppa nelle acque di scarico, propagandosi poi
nei cibi e nell’acqua che si beve, perché
in passato tutti gli scarichi finivano nei corsi d’acqua naturali, o
nelle falde acquifere.
Inoltre
anche il sistema di attingere acqua, coi
secchi o con pompe azionate da innumerevoli mani, era una facile
possibilità di contagio, visto che non vi erano particolare
prevenzione, né conoscenze scientifiche tali da evitare il contagio
a priori. Solo nel 1876, infatti, l’ingegnere francese
Pierre Mille lanciò l’ipotesi, accolta
con diffidenza e contrarietà, che fosse
necessario un trattamento depurativo delle acque nere prima
che queste fossero scaricate nei corsi d’acqua naturali. Qualche
anno dopo Eberth individuò il germe del
tifo, anche questo abituale frequentatore
dell’acqua, e solo nel 1883 Koch scoprì
il bacillo del colera.
Queste
innovazioni e scoperte, insieme alla nuova cultura idroterapica che
stava crescendo di giorno in giorno, portarono gradualmente ad un
amore sempre più marcato e ad un uso più costante dell’acqua, anche
di quella di mare. Fino alla fine del Settecento il mare non fu
considerato luogo di svago o di benessere. Anzi,
lo si guardava con parecchia diffidenza, come elemento
temibile e pericoloso per l’uomo. La stessa spiaggia, abitualmente
sporca e piena di detriti lasciati dal mare, era considerata
ricettacolo degli escrementi marini, ovvero luogo malsano e
insicuro da cui era meglio stare lontani. Bagnarsi nelle acque
marine era del tutto straordinario, e veniva
fatto solo per necessità. Solamente nella seconda metà del
Settecento e nella prima metà del secolo successivo
si iniziò a guardare il mare con occhi
diversi, ovvero come luogo adatto a curare vari tipi di malattia. I
primi a promuovere la balneoterapia furono inglesi e francesi;
l’Italia, con Trieste, arrivò solo dopo il 1820 a creare le prime
strutture per bagni marini. Rimini avrà il suo primo stabilimento
nel 1843. Anche i sammarinesi
cominceranno nella seconda metà dell’Ottocento a fornire qualche
aiuto economico ai bambini scrofolosi per recarsi a fare terapie
marittime sulla riviera, essendo la scrofola una delle principali
malattie che si pensava potesse essere curata con la balneoterapia.
Questa
nuova attrazione verso l’acqua in genere e l’acqua potabile in
particolare, indusse gli uomini a grandi mutamenti di mentalità ed
infrastrutturali, così come stimolò l’esigenza di costruire
acquedotti in grado di trasportarla nelle case o almeno nei pressi
delle medesime, anche se l’Italia arrivò a simili innovazioni
igieniche e tecnologiche più tardi della maggioranza degli stati
europei. Gli acquedotti, poi, non diminuirono subito il pericolo di
contagi infettivi: infatti, se non si prevedeva subito anche la
costruzione di fognature in grado di incanalare le acque nere, le
acque chiare continuavano a rischiare di essere inquinate da
scarichi che finivano a caso dove potevano.
Inoltre
XVIII, XIX, XX secolo furono periodi di
forte sviluppo demografico (a San Marino alla fine del 1700 gli
abitanti di tutto il territorio erano appena 3.500 circa, mentre
alla fine dell’Ottocento quasi 10.000), ed anche questo fatto incise
ovviamente sull’aumento del bisogno e conseguentemente del consumo
dell’acqua.
Naturalmente, dopo secoli di relativo immobilismo, queste
trasformazioni incisero non poco sulle diverse società, anche se
occorre dire che solo in tempi piuttosto vicini a noi si è giunti a
capire pienamente l’importanza d i avere
abbondante acqua pulita e incontaminata, quindi quanto fosse
fondamentale creare infrastrutture fognarie capaci di evitare
l’inquinamento delle acque potabili.
Con quanto si è detto finora si può facilmente comprendere perché in
passato il fabbisogno di acqua potabile
fosse quantitativamente molto inferiore a quello odierno, a San
Marino come altrove. Tuttavia è fuor di dubbio che anche per i
nostri antenati l’acqua fosse un’esigenza
quotidiana, seppur in dosi molto minori di quelle che utilizziamo
noi, essendo un bisogno primario per l’alimentazione, l’allevamento
e l’agricoltura.
A questo proposito si può aggiungere che fin dal
XIV secolo possediamo testimonianze che, lungo i pochi corsi d’acqua
sammarinesi, funzionassero mulini per macinare il grano. Il catasto
del 1823 ne censisce addirittura 24, numero
notevole per il fabbisogno locale, dovuto probabilmente al
loro utilizzo anche da parte dei contadini delle zone limitrofe per
motivi di risparmio sui costi.
Da tutti questi motivi la necessità di tutelare, anche con leggi
draconiane, i pozzi, le cisterne, le condutture,
i torrenti e le fonti idriche della comunità.
Gli statuti trecenteschi di Rimini, per esempio, prevedevano il
taglio della mano destra per chi danneggiava i condotti dell’acqua.
Anche San Marino nello stesso periodo provvide a
formulare le prime norme statutarie a tutela delle sue non
abbondanti possibilità idriche. Infatti
negli statuti del 1317, precisamente nelle norme XXIV e XXV, fu
stabilito che non venissero gettate bruturam,
ovvero sporcizie, né che fossero messi a mollo attrezzi od oggetti
capaci d’inquinare le acque, né che si lavassero panni all’interno
della principale cisterna pubblica dell’epoca, chiamata “dei fossi”,
che era stata costruita e collocata a ridosso della prima torre,
ovvero dentro il primo villaggio sorto sul monte Titano tanti secoli
fa, verosimilmente prima del Mille.
Di sicuro
dovevano esservi anche svariati pozzi privati, scavati per
raccogliere neve e acque pluviali, o altre cisterne più piccole, ma
il minuscolo villaggio, composto da non
più di qualche decina di famiglie, ovvero da poche centinaia di
individui, dipendeva prevalentemente dalla cisterna suddetta che
aveva una capienza, piuttosto bassa, di appena 270 metri cubi. Come
pena erano previste multe in denaro.
Per il resto del territorio, che comunque
non aveva l’estensione attuale, raggiunta solo nel 1463 con
l’acquisizione dei castelli di Serravalle, Faetano, Fiorentino e
Montegiardino, non erano previste norme né pene negli statuti del
XIV secolo e nemmeno in quelli immediatamente successivi, segno che
in questi secoli il problema dell’acqua, al di fuori del castello
principale, era considerato personale, non comunitario.
Nel XIII secolo San Marino si diede organi istituzionali propri e in
seguito venne gradualmente liberandosi dall’autorità vescovile, che
fino a quel momento aveva dominato la piccola comunità. Ugualmente
iniziò a svilupparsi demograficamente ed economicamente, perché
è dello stesso secolo il potenziamento
del mercato del Borgo, importante luogo d’incontro collocato tra
mare ed entroterra, quindi adatto a favorire un cospicuo scambio di
merci.
Tutti questi fattori fecero espandere il piccolo villaggio collocato
sul Monte Titano, che dovette proprio in questi secoli ampliare il
suo centro abitato e le sue mura difensive.
Ovviamente questo significò anche maggiore bisogno
di acqua potabile: infatti nella seconda
metà del XV secolo, epoca in cui il centro storico ormai aveva
raggiunto l’estensione perimetrale odierna, si sentì l’esigenza di
edificare nuove cisterne più capienti. Il meticoloso capitolato per
tale imponente infrastruttura venne
sottoscritto nel 1476 tra le autorità sammarinesi e il piemontese
mastro Michele di Giovannino, che negli anni successivi costruì
l’opera composta da due grandi cisterne collocate sotto il Pianello
di 800 e 600 metri cubi di capienza totale, ma di 600 e 450
mc. reali,
capaci dunque di ampliare enormemente le riserve idriche della
comunità, il cui numero si aggirava tra i 350 e i 400 residenti,
numero che rimarrà pressoché invariato fino alla seconda metà
dell’Ottocento.
L’acqua confluiva all’interno delle cisterne attraverso
condutture in grado di raccogliere la
pioggia convogliandola prima in pozzetti di depurazione riempiti di
ghiaia e carbone, chiamati cisternelli,
che servivano appunto a filtrarla. Questo sistema di
filtraggio era quello utilizzato ovunque nelle località del
territorio sammarinese dove, non essendoci fonti o fiumi, si era
costretti a servirsi prevalentemente di
acqua pluviale.
All’interno delle cisterne venivano
comunque fatte albergare colonie di pesciolini d’acqua dolce, nella
convinzione che servissero a tenerla ancora più pulita perché si
nutrivano dei microrganismi che vi penetravano. Inoltre i pesci
erano un bel segnale di pericolo d’inquinamento, perché la loro
morte era un chiaro indicatore dell’esigenza di svuotare e ripulire
le cisterne. I documenti di archivio
attestano che ogni tanto simile operazione si rendeva necessaria,
molto probabilmente perché i cisternelli
erano filtri insufficienti, o anche perché l’acqua piovana,
scorrendo liberamente per i tetti e attraverso il selciato del
Pianello, parte superiore delle cisterne stesse, riusciva a
penetrare al loro interno senza venir filtrata da nulla. Questo pare
il senso di alcune petizioni della
cittadinanza inoltrate al Consiglio negli ultimi anni del XIX secolo
con cui si richiedeva l’installazione di grondaie sulle case attorno
al Pianello proprio per evitare che la pioggia s’insinuasse
liberamente ovunque.
Non sappiamo se fin da subito la cisterna dei
Fossi venisse collegata con un sistema di canalizzazione con
quella del Pianello, anche se appare improbabile. Ad un certo punto,
comunque, questo collegamento venne
fatto, così come si collegarono con lo stesso sistema le cisterne di
Città con il cosiddetto Fontanone del
Borgo attraverso due tubazioni, del diametro di circa 50 millimetri,
che scendevano lungo la Costa. Inoltre dal
Fontanone ripartiva una conduttura
che arrivava fino a Serravalle. In seguito una derivazione dello
stesso impianto portò l’acqua alle fontanelle di
Ca’ Rigo e Faetano.
Per secoli attingere l’acqua alle fontanelle sparse nei vari
villaggi del territorio, ovviamente lontani da fonti o fiumi, o dove
le cisterne ed i pozzi locali erano insufficienti, fu il principale
sistema per garantirsi quei pochissimi
litri quotidiani di cui si aveva necessità.
Altro sistema era quello di comperarla da
chi campava vendendola in tempi di sua carenza.
Ci è rimasto il ricordo di un certo Marat, probabilmente
Marat Casali di Borgo, figlio di Ercole, che agli inizi del
Novecento, con botti e carretto trainato dal fedelissimo somaro
Marin, vendeva alla popolazione
per due soldi all’orcio la sua preziosa merce.
Accanto alle grandi cisterne pubbliche di Città, il comune
sammarinese era dotato anche di svariati altri pozzi e cisterne
privati. Per i secoli più remoti non abbiamo dati precisi, ma per il
Settecento si possono ricavare informazioni dal catasto Pelacchi del
1777, che censisce 58 pozzi privati, di cui 24 in Città e Borgo, e
gli altri sparsi in quantità diverse lungo il territorio, e tre
pozzi pubblici (2 a Montegiardino e 1 a Faetano). Inoltre c’informa
che vi erano 5 fonti pubbliche (3 nel distretto della Pieve, 1 a
Serravalle e 1 a Faetano), più tre private. A queste sono da
aggiungere 4 fonti pubbliche con lavatoio (2 per la Pieve, 1 a
Chiesanuova e 1 ad Acquaviva), e una privata, sempre nel distretto
della Pieve. Infine ci dice che c’erano 30 cisterne nella zona della
Pieve (22 pubbliche e 8 private), 3 a Serravalle (2 pubbliche, 1
privata), e 1 cisterna pubblica a Montegiardino.
Un altro importante censimento molto più
recente di fonti, pozzi e cisterne è quello fatto da Marino Bollini
una trentina di anni fa che elencava la presenza di 43 fonti per
tutto il territorio, di cui la maggior parte molto piccole e
destinate a servire solo poche famiglie, 15 cisterne, anche queste
di dimensioni diversissime, e una quindicina di pozzi.
E’ un peccato non poter sapere in alcuna maniera come nei secoli
precedenti si sia giunti alla creazione
di queste infrastrutture per la conservazione delle acque, anche se
è ipotizzabile che scavare un pozzo o costruire una cisterna dovesse
rappresentare una delle prime preoccupazioni di qualunque villaggio,
o di qualunque comunità rurale o di altro genere decisa a stabilirsi
in una località. Tuttavia i dati che si riportano sono chiari
indicatori di come alcune zone del territorio non potessero fare a
meno di raccoglitori più o meno ampi di
acqua.
D’altronde il suolo sammarinese è sempre stato caratterizzato da
distribuzione disomogenea delle falde acquifere, essendovene
concentrazione in alcune zone, come quella compresa tra Chiesanuova
e Montegiardino, e assenza in altre.
In pratica, anteriormente alla creazione
dei primi acquedotti edificati all’inizio del Novecento, solo un
terzo del territorio sammarinese disponeva di fonti idriche, e ne
erano del tutto privi centri abitativi importanti come Città e
Serravalle, o castelli minori come Montegiardino, Faetano, Falciano.
C’è una norma contenuta all’interno del Libro III dello statuto
quattrocentesco di Serravalle che ci
permette di capire quanto fosse preziosa l’acqua nei castelli privi
di fonti. Sebbene sia nell’italiano
dell’epoca, è ben chiara:
Che
el cortile dove e la
citerna se tenga
serrado cap.o
lxij.
Ancora statuimo e
ordenamo che lo cortile dove e la
citerna del comuno
se debba tenere serrado per lo
capitaneo del dicto
castello cum la chiave
et neguno
ardischa ne presuma
intrare in lo dicto cortile
altroe che per
lusscioo et la chiave
staga apicada
al banco del comuno.
Et si alcuna
persona torra de la
citerna del comuno acqua
piu de uno bocale
per caxone de bere solamente paghe per
pena s. cinque de denari. Salvo che per caxo
de grande necesitade
et excepto
che el capitaneo
etiam per caxone
de bere per se e per la sua fameglia
possa cum lo boccale torre de
lacqua de la dicta
citerna et
si cum altro vaxo
o per altra caxone
torra acqua o vero la fara torre
siagli del suo
sallario rettenudo per
zascuna volta s. cinque de denari
et per zascuno
vaso tolto de lacqua de la
dicta citerna.
Et se alcuno
gettara bructura
in la dicta citerna
o vero in lo suo cortile sia punido de
la medezema pena et
zascuno possa essere accusatore
et habbia la
mita de la pena et
sia tenudo credenza.
In sintesi veniva vietato a chiunque di
entrare senza permesso nel cortile dove era collocata la cisterna
pubblica, e di prelevare più di un boccale d’acqua.
Nei secoli successivi i Sammarinesi approntarono norme statutarie
sempre più dettagliate e rigorose legate all’acqua. Negli statuti
del Seicento, che per lunghi secoli rimasero
il codice legislativo unico e fondamentale della Repubblica, si
stabiliva che non dovesse essere deviata l’acqua dal suo corso
naturale, pena una multa da dieci a quaranta soldi (Libro V, rubrica
XV), e che nessuno dovesse guastare in qualche modo, distruggere,
o devastare, le fonti esistenti nella Curia di San Marino, od i
pozzi dentro, o fuori della Terra, o la cisterna del Comune, sotto
pena di cento soldi, né di lavorare vicino a dette fonti, sotto pena
di venti soldi ogni volta. Ancora nessuno ardisca, o presuma di
lavar panni, né altre cose presso le dette fonti, per lo spazio di
una pertica, né gettare, fare, o immettere in
essi, o presso di essi, alcuna immondizia, sotto pena di
cinquanta soldi per ognuno, ed ogni volta. Ed alla stessa pena
sottostiano quelli, i cui cavalli, asini, porci, ed altre
bestie di qualunque genere saranno trovate
nella piazza volgarmente chiamata “il Pianello”, e nell’altra detta
“le Cisterne dei fossi”, per la conservazione delle quali cisterne
ed acque i Signori Capitani pro tempore
siano tenuti a porre ogni diligenza (Libro V, rubrica XVI).
Lo scrupoloso controllo delle fonti e delle cisterne
era dunque sotto la diretta
responsabilità dei Reggenti. Tuttavia la rubrica LXI del Libro I
stabiliva anche l’elezione semestrale di
due Soprastanti Generali delle vie e delle acque, preposti
soprattutto all’ispezione delle strade del territorio, e al loro
ripristino in caso di danneggiamento, ma con l’impegno di
verificare, nei periodici controlli svolti lungo il territorio, pure
le acque sammarinesi.
Occorre dire, comunque, che per quel che
riguarda le cisterne del territorio, l’attenzione maggiore era
riservata a quelle di Città, tant’è che nelle rubriche XXXII e
XXXIII del Libro V si stabilisce con rigore che nessuno dovesse
sporcare le acque al loro interno, che non si lavassero panni nei
loro pressi, che non fossero portati animali sul Pianello o lino
e simili, che sogliono mandare o generare, o causare puzzo, ed
immondizie, sotto la pena predetta (50 soldi), affinché detto
Pianello debba rimanere sempre pulito. Ma per le cisterne e i
pozzi del contado non vennero formulate
norme specifiche al di là di quelle già messe in evidenza.
Invece una cura più attenta venne
riservata dagli stessi statuti alle fonti. La rubrica XXXV del Libro
V stabilisce, infatti, che a tutti i terreni, che sono intorno
alle fonti della curia, e distretto di S. Marino, siano posti i
termini dai sovrastanti alle vie della Repubblica, e poscia di là da
quei termini nessuno ardisca di porre, o lavare
alcuna immondizia, e cosa putrida, e chi contravverrà paghi
ogni volta venti soldi.
Nella rubrica XXXVI si fa poi divieto a tutti di lavare cuoi o pelli
nei pressi delle sorgenti, pena una multa di dieci soldi.
Insomma, sebbene la cultura e la mentalità
dell’epoca non favorissero l’igiene, i bagni e l’uso abbondante
dell’acqua, gli statuti sammarinesi in ogni caso dimostravano una
certa preoccupazione per la preservazione delle scarse risorse
idriche del territorio. Anche perché tali risorse non erano
illimitate ed il più delle volte dipendevano esclusivamente da
condizioni atmosferiche ottimali, dato che, in caso di periodi
siccitosi, come quello che si sviluppa a partire dagli anni ’40 del
Settecento, per esempio, per un generale rialzo delle temperature
climatiche, tutto il sistema andava in crisi o
comunque diveniva fortemente sofferente e deficitario.
Pur nella carenza di documenti o
informazioni che ci permettano di capire dettagliatamente la storia
di queste risorse, per lunghi secoli la Repubblica di San Marino è
rimasta in una fase di equilibrio, quasi di congelamento, che le ha
permesso di avere in genere l’acqua necessaria per i suoi cittadini.
Questo perché per molto tempo la popolazione sammarinese si è
mantenuta numericamente stabile, con pochi incrementi in alcuni
periodi, e qualche decremento in altri.
E’ stato calcolato, infatti, che nel 1772 la popolazione complessiva
presente sul territorio fosse circa di
3.000 residenti, numero non molto diverso da quelli precedenti,
anche se si è quantificato che nel 1627 fosse di qualche centinaio
superiore, arrivando ad essere di circa 3.540 persone.
Questa stasi demografica ha permesso di non doversi preoccupare più
di tanto di reperire nuove risorse
idriche, anche perché è verosimile che la cultura e la mentalità
consolidatesi attraverso i secoli avessero insegnato ai sammarinesi
ad accontentarsi dell’esistente, ovvero del minimo indispensabile
per la loro sopravvivenza e necessità ordinarie.
Sul Titano, anch’esso abitato per lunghi secoli da non più di 3/400
residenti, ovvero senza che si registrassero eccessivi sbalzi
demografici, le cisterne presenti furono, fino alla seconda metà
dell’Ottocento, sufficienti a soddisfare il bisogno locale
di acqua.
Vennero costruite altre due cisterne
molto più piccole, a Porta della Ripa verso metà Settecento, e a
Porta Nuova; però finché la popolazione rimase stabile nei numeri di
sempre l’acqua non fu un grosso problema, eccetto nei ciclici
momenti di siccità eccessiva, quando si faceva fronte alla carenza
portando fin sopra il monte acqua supplementare con carri e buoi.
Questa situazione di relativa tranquillità idrica cominciò ad
incrinarsi con lenta gradualità a causa dell’innalzamento
demografico che caratterizzò soprattutto il
XIX secolo, ed anche della nuova mentalità legata all’igiene e
all’uso dell’acqua potabile a cui si è accennato, mentalità
individuabile tra i sammarinesi a partire dalla fine dello stesso
secolo.
Esaminando gli atti del Consiglio del periodo, infatti, in cui o
tramite istanza d’arengo o in altra
maniera ancora si presentavano al locale governo le petizioni
relative a qualunque tipo di problema della comunità, quindi anche
quelli di natura idrica, risulta che per buona parte del secolo
grossi dilemmi non vi dovettero essere intorno a questo problema,
perché di lagnanze intorno all’acqua se ne registrano pochissime.
Ogni tanto emergeva qualche polemica, o qualche richiesta, come
quelle legate alla deviazione dei corsi d’acqua. Nel 1802, per
esempio, dei non meglio definiti forestieri avevano
impiantato una risaia e per farlo avevano deviato un corso d’acqua,
cosa proibita categoricamente dagli statuti.
Un altro ricorso simile lo fa nel 1812 Alessandro Righi contro
Ettore Tini, ed altri ancora sono reperibili occasionalmente lungo
tutto il secolo. In tali situazioni il Consiglio di solito ordinava
un sopraluogo dei Soprastanti alle strade ed alle acque, e il
ripristino totale della situazione precedente.
Un’altra
richiesta periodica era quella dell’esposizione della teca con le
reliquie del santo fondatore, fatto che nella coscienza collettiva
doveva servire a scongiurare siccità,
maltempo e anomalie varie. Nell’aprile del 1803, sempre per fare un
esempio, il Consiglio ordinò di portare in processione la teca per
implorare la tanto necessaria pioggia, stabilendo inoltre che
fosse anticipato a quella settimana il
triduo che abitualmente si faceva la quinta settimana dopo Pasqua.
Qualche
altro fatto storico legato all’acqua, ricavabile sempre dalle stesse
importanti fonti storiografiche, era legato al ripristino di greti o
fossi che, per il maltempo o per la
cattiva cura degli uomini, erano soggetti a creare disagi alle
comunità. Per tutto il secolo Serravalle ebbe grossi problemi col
cosiddetto Fosso da Tarì, e
dovette periodicamente pulirlo e sistemarlo, arrivando anche a
deviare le acque che vi scorrevano o ad incanalarle, per evitare che
accadessero rupine, come si
diceva allora, e danni all’abitato.
Dagli
atti consiliari, comunque, la carenza di
acqua potabile non appare per tutto il secolo una grossa
preoccupazione del piccolo Stato, salvo in qualche anno d’estate e
limitatamente ad alcuni castelli, come Borgo che è spesso alla
ricerca di nuove fonti idriche. Già tra il 1809 e il 1811 sente il
bisogno di dotarsi di una nuova Fonte o Pozzo da costruirsi a
benefizio della Popolazione. Questa fonte inizialmente
venne costruita male, cosicché per un
afflusso di acqua troppo ingente crollò nel luglio del 1811, ma
venne ricostruita subito, tanto che nell’ottobre del 1811 risultò
essere di una perfetta solidità.
Per
qualche anno la nuova fonte dovette soddisfare le esigenze del Borgo
che, essendo sede di mercato e di fiere, doveva avere maggiore
necessità di acqua di altri luoghi.
Tuttavia nel 1846 i suoi abitanti tornarono a farsi vivi in
Consiglio per lamentare la scarsità d’acqua in estate, e nel 1858
per chiedere la riapertura di un antico pozzo
onde sopperire alla deficienza dell’acqua primo
necessario elemento. Nel 1879 di nuovo si rifecero risentire in
Consiglio per chiedere acqua più abbondante e più pulita.
Nel
1881 riemerse lo stesso problema, questa volta dalle pagine di uno
dei primi giornali locali, Il Giovane Titano del 21 agosto:
E’ una cosa vergognosa, vi si legge,
che in un paese come il nostro, col commercio
quotidiano che abbiamo, colle fiere frequentatissime che vi si
tengono, venga a mancare nell’estate
l’acqua necessaria all’economia domestica. E’ una vergogna, ripeto,
e conviene porvi riparo. In Borgo, specialmente; vi è un pozzo,
munito di una pompa onde attingere
l’acqua, il quale è a dir molto, se in due anni si è preso
l’incomodo di dare tre secchi d’acqua. Non sarebbe obbligo di un
Governo che si rispetta il fare un sistema di
condottazione tale che fosse sufficiente per il mantenimento
continuo dell’acqua, senza costringere i cittadini a farla venire da
lontano e con grave dispendio?
Negli stessi anni anche altri castelli avanzarono richieste di fonti
o pozzi, come Serravalle, che nel 1845 decise di tassare tutti i
suoi residenti di uno scudo per costruire una nuova fonte con cui
sopperire alla carenza d’acqua in estate,
o San Giovanni sotto le Penne, che nel 1856 richiese, tramite
istanza d’arengo, una fonte di acqua potabile.
Nel 1878 Serravalle tornò a lamentare la carenza
di acqua durante il periodo estivo e a richiedere un aiuto al
governo per farvi fronte.
A parte queste scarne richieste, però,
negli atti consiliari del XIX secolo non è possibile trovare altro
sull’insufficienza di acqua, che doveva essere quindi assai limitata
e circoscritta, legata soprattutto al periodo estivo, o a cui la
gente era talmente abituata da non darci troppo peso, eccetto che
nei periodi straordinariamente siccitosi.
Infatti mentre lungo tutto il secolo, soprattutto nella sua
seconda metà, vi sono numerosissime petizioni, richieste e istanze
d’arengo di costruzione o sistemazione delle strade, solo molto
raramente i cittadini avanzano suppliche legate alle acque che, è
bene ricordarlo, erano controllate dallo stesso funzionario
governativo preposto alla verifica periodica delle vie di
comunicazione.
Anche per quanto concerne il castello più popoloso, quello di Città,
non emergono richieste particolari fino
alla fine del secolo, segno evidente che le cisterne pubbliche o
private che vi erano dovevano essere più che sufficienti al modesto
fabbisogno locale. Le istanze che vengono
presentate al Consiglio riguardano solo la scarsa qualità e
potabilità dell’acqua, non la quantità. Infatti
si possono rintracciare petizioni per pulire le cisterne nel 1824,
nel 1845 e nel 1866.
A partire dagli anni ’70 cominciano invece ad essere presentate
petizioni per dotare i tetti delle case del Pianello di grondaie,
così da incanalare le acque direttamente nelle cisterne evitando che
s’inquinassero penetrandovi in maniera
non canalizzata.
Nel 1879 è il direttore del Collegio Belluzzi
che si lamenta col governo per la scarsa pulizia delle acque delle
cisterne. Che questo fosse il problema
principale in questi anni ce lo dimostra pure la discussione che
avviene all’interno del Congresso Economico nel settembre del 1897,
quando si constata che le cisterne dovevano essere immediatamente
svuotate e ripulite perché i pesci che vi venivano tenuti dentro
come depuratori naturali erano tutti morti.
A testimonianza che la quantità di acqua
dentro le cisterne non doveva essere il problema principale della
comunità può essere portato anche il seguente episodio accaduto nel
1818. Si legge negli atti consiliari, in data 3 maggio: S.E. il
Sig. Capitano Malpeli espose, come
l’abitazione sua era priva del comodo dell’acqua per suo uso; nella
costruzione di una cisterna la spesa sarebbe stata molto grave, ed
ancora era privo del luogo adattato all’uso indicato,
Laonde porgeva le sue fervorose
istanze a questo Principe per il permesso
di poter aprire un condotto per prendere l’acqua dalle Cisterne del
Pianello. Dal Generale Consiglio le
fù concesso
il richiesto permesso per l’uso soltanto suo proprio come doverla
sotteraneamente
conduttarla per evitare qualunque pericolo che accader
potesse in contrario.
Probabilmente Giuliano Malpeli, la cui
abitazione era proprio di fronte alla parte inferiore delle
cisterne, nella zona dove oggi sorge la sede centrale della Cassa di
Risparmio, fu il primo sammarinese che poté godere di acqua corrente
in casa. Il suo ruolo politico e la nobiltà del suo casato dovettero
essere un buon aiuto nell’ottenimento di un permesso tanto unico, ma
se l’acqua fosse stata abitualmente insufficiente o
comunque scarsa, anche a lui di certo non
sarebbe stato consentito tanto, se non altro per l’ostilità che
avrebbe avuto da parte degli altri ottimati del paese.
Il problema della scarsa qualità dell’acqua sammarinese lo
ritroviamo invece di nuovo agli inizi del
secolo, all’interno di un articolo del Titano del 23 giugno
1907, da cui comprendiamo che le autorità sammarinesi avevano fatto
fare per la prima volta analisi di laboratorio sulle acque
sammarinesi.
E’ bene ricordarsi che, grazie alle scoperte di
Eberth nel 1880, che individuò il
bacillo del tifo, di Koch nel 1883, che
isolò il vibrione del colera, e di Pasteur
negli stessi anni, alla fine del XIX secolo divenne ormai chiaro
quanto fosse fondamentale per l’igiene e la salute pubblica un’acqua
batteriologicamente pura, concetto che
in precedenza non faceva parte della coscienza collettiva. Da qui
senz’altro queste analisi che diedero risultati pessimi:
infatti l’acqua delle cisterne di Città e
di quella di Borgo risultò inquinata; solo quella dell’ospedale e
delle sorgenti di Fiorentino era pienamente potabile, e in minor
misura quella della cisterna di casa Valloni, anche se non veniva
giudicata di grande qualità.
Sul discorso della qualità più che della quantità
è incentrato anche un articolo di Pietro
Franciosi del dicembre 1908 in cui richiedeva alle autorità
l’impianto del primo acquedotto locale. Col progresso di un
paese, anche indipendentemente dall’aumento della sua popolazione,
deve migliorarsi la qualità dell’acqua,
accrescersi la quantità disponibile per i pubblici e privati servizi,
disse al suo interno. (…) Potendo il nostro paese divenire
stazione climatica e crescere di popolazione, sia pure per certi
mesi dell’anno, ed avere la fortuna dell’impianto di qualche
industria, dobbiamo far di tutto perché provvedendoci al più presto
di acqua di sorgente a mezzo di
condottazione, sia essa sana ed
abbondante e sufficiente per tutti gli usi della vita moderna.
Per l’acqua, così poco potabile fra noi,
avvengono sconci abbastanza deplorevoli
– sentenziava pure Il Titano del 6
agosto 1911. Alla fonte del Pianello, per mancanza di buona
pompa, si attinge acqua col sistema delle luride
orciole e cappelle. Chi ha più sozzura
ha più diritto d’immergerla, in pieno sol leone, nelle pubbliche
cisterne. In Borgo si fa bere l’acqua inquinata e verminosa. A
Chiesanuova si dissetano alla stessa fonte uomini e bestie. A
Montegiardino è guastato il condotto recente fatto e non si fa
accomodare. Ma perché tanta trascuratezza dell’elemento primo e
maggiore?Ma che ci stanno a fare e gli
Edili, e l’Ufficio Tecnico, e la Commissione di vigilanza ed altri
organi burocratici e inutili in questi tempi di decantata igiene e
di minacciante epidemia?
Sul primo acquedotto locale, inaugurato solo nel 1915, torneremo.
Ora invece è bene finire il discorso intrapreso sull’Ottocento,
perché anche a San Marino fu questo il secolo in cui cambiarono
mentalità e abitudini verso il bisogno e l’uso dell’acqua, non tanto
per le necessità alimentari, quanto per quelle di natura igienica.
Infatti per tutto il centennio è
possibile rintracciare nelle istanze dei cittadini, ed anche in
alcune leggi varate nei suoi ultimi decenni, il desiderio di uscire
da una situazione sanitaria precaria e priva di troppe regole.
Frequenti sono, ad esempio, le richieste di creazione di chiaviche
in cui far confluire le acque, per evitare che
scorressero liberamente per le strade provocando danni e
miasmi, ma anche dove convogliare le deiezioni dei cittadini, che in
precedenza venivano scaricate ovunque senza troppe attenzioni.
Istanze simili, che portarono anche a
miglioramenti della rete di scolo, sono rintracciabili a partire dal
1818 per Città, e dagli anni ’50 per Borgo.
Dagli atti consiliari risulta che qualche
chiavica fosse già esistente dai secoli precedenti, ma insufficiente
al fabbisogno dei residenti, che scaricavano i rifiuti organici dove
potevano, negli anfratti, negli orti, quando vi erano, spesso dalle
finestre nottetempo provocando denunce e contese in tribunale da
parte di chi subiva bagni fetidi non desiderati. Sono facilmente
rintracciabili, infatti, istanze tese a
chiedere il miglioramento di situazioni di grave sporcizia per la
strada, dove periodicamente e non di rado scorrevano liberamente i
liquami provocando pericolo di scivolamento per uomini e bestie,
soprattutto lungo la ripidissima strada nelle vicinanze della
cosiddetta Porta del Collegio, ovvero presso quella che era
stata la principale porta d’ingresso al paese quando non c’era
ancora il terzo girone delle mura (oggi visibile murata all’interno
del Hotel Titano).
Inoltre nei mesi più caldi o in assenza prolungata di pioggia, la
puzza diveniva insopportabile, ed anche di questo problema ci sono
giunte diverse testimonianze.
Questa nuova sensibilità verso l’igiene, su cui
comunque meriterebbe svolgere uno studio specifico, portò nel
1865 ad un regolamento per i pubblici macelli, e nel 1871
all’istituzione di due pubblici Scopatori
per Città e Borgo, che avevano il compito ovviamente di tenere
pulite le strade di questi centri abitati, mansione che prima era
demandata ai singoli cittadini che risiedevano ai bordi delle vie.
Essi venivano a percepire 30 centesimi al
giorno ciascuno, più si potevano tenere lo sterco raccolto, ed
avevano diritto anche alle multe elevate contro chi avesse commesso
infrazioni relative alla nettezza urbana. Prima della loro nomina si
decise di incaricare addirittura la Reggenza di fare un sopralluogo
alle vie di Città per accertarsi delle condizioni generali
della pubblica igiene.
Nel 1884 fu promulgato un importante e piuttosto innovativo
Regolamento di igiene pubblica che in
parte riprendeva, ampliandole ed adattandole ai tempi, alcune norme
sanitarie già presenti negli statuti precedenti, ma in parte ne
introduceva di nuove legate soprattutto ai pozzi neri, alle norme da
seguire per il loro svuotamento, all’obbligo di tenerli ad una
distanza minima di quattro metri dai pozzi o dalle fonti di acqua
potabile ed altro ancora, segno certo di una nuova mentalità che
stava maturando, in grado di comprendere quanto fosse importante
evitare qualunque rischio di inquinamento delle acque per uso
domestico da parte delle acque nere, rischio che per noi è ovvio, ma
che all’epoca era piuttosto nebuloso.
Nel 1888, infine, venne promulgato un
regolamento per sanitari e levatrici.
Alla fine del XIX secolo, in definitiva,
si può affermare che la Repubblica di San Marino stava
industriandosi per porsi sulla strada della modernizzazione in campo
sanitario e del potenziamento della sua rete idrica, con particolare
riguardo al miglioramento della qualità delle acque. C’era
indubbiamente ancora parecchia strada da percorrere, tuttavia si
stava cercando di fare qualcosa a livello normativo per debellare le
periodiche epidemie di tifo o di colera cui
erano soggetti anche i castelli sammarinesi.
Queste malattie epidemiche, che oggi sappiamo
legate oltre che al semplice contagio con chi ne è ammalato pure
all’inquinamento delle acque e dei cibi, ma che erroneamente in
passato si pensavano dipendenti esclusivamente da cibi poco sani e
da alimentazione scorretta, hanno lasciato varie tracce di sé lungo
tutta la storia sammarinese, ed in particolare proprio
nell’Ottocento. Infatti nel 1855 scoppiò
in Repubblica un’epidemia piuttosto virulenta, con i principali
focolai in Borgo e Serravalle, due dei Castelli con problemi idrici
maggiori, che infettò 245 residenti facendo un centinaio di morti.
Dai documenti dell’epoca si comprende che le autorità
imputassero la diffusione della malattia
legata a frutta e verdura troppo o poco mature, a carne, pesce,
salumi e porchetta, di cui venne proibita la vendita, alle bestie da
macellare, che dovevano essere fatte visitare prima della loro
uccisione, al gettito dalle finestre di liquami e residui organici,
agli ammassi di letame presso gli abitati. Nulla
comunque sull’acqua, a conferma che per la cultura medica
dell’epoca ancora non vi erano collegamenti tra questo elemento e la
malattia.
Un’altra grave epidemia di colera scoppiò a San Marino nel 1924-25,
manifestandosi inizialmente a Fiorentino, arrivando poi in Città,
per giungere infine a Serravalle. E’ stato acutamente notato che la
diffusione di questa epidemia seguiva il
percorso del nuovo acquedotto inaugurato nel 1915, per sottolineare
come la distribuzione dell’acqua tramite queste nuove infrastrutture
non fosse di per sé sufficiente a garantire una sua potabilità
maggiore.
Anzi, chi ha studiato il problema relativamente
agli acquedotti italiani ha rilevato che, finché non si è
voluta creare anche una rigorosa rete fognaria capace di tener
assolutamente distinte le acque nere da quelle ad uso domestico, gli
acquedotti furono paradossalmente spesso più causa di malattie
epidemiche, come il tifo ed il colera, piuttosto che loro
prevenzione, perché distribuivano, ovviamente in quantità maggiori
che in precedenza, acqua contaminata.
D’altra parte occorre dire che fino ad epoche vicinissime a noi non
si è capito con chiarezza quanto fossero facilmente inquinabili le
falde acquifere da comportamenti igienici inadeguati, come la
creazione di fosse nella viva terra in cui scaricare materie putride
o comunque di scarto, o l’utilizzazione
degli anfratti o delle tante cavità naturali del monte Titano e del
territorio come immondezzai, pratica durata per secoli sia in Città,
sia nel contado.
Quindi si comprende facilmente da dove derivasse
quel forte inquinamento dei pozzi e della maggioranza delle fonti
idriche rilevato agli inizi del 1907 e di cui si è detto poco fa, ed
è anche chiaro come mai il problema principale in gran parte del
territorio sammarinese fosse la qualità delle acque più che la
quantità.
Questa nuova sensibilità igienica venne
cavalcata pure dai riformisti fautori dell’arengo del 25 marzo 1906,
che sia prima che dopo della sua convocazione spinsero per
miglioramenti generali della sanità sammarinese e specifici per il
discorso che si sta facendo. Al punto 8 del programma politico
divulgato tra i cittadini l’otto luglio 1906, infatti, il nuovo
gruppo democratico misto scaturito dalle prime elezioni politiche
sammarinesi evidenziò di voler riformare
le leggi sull’igiene, la sanità e la sicurezza pubblica, e di voler
predisporre un progetto per la conduttura dell’acqua potabile.
Anche il partito socialista locale volle
inserire la soluzione del problema dell’acqua potabile
all’interno del suo “Programma minimo” del dicembre del 1906.
Negli anni seguenti, aumentando per evoluzione dei tempi la cultura
dell’acqua, ma anche la popolazione residente, la faccenda
divenne sempre più sostenuta. Il
consumo di acqua potabile in un paese, la
qualità e la quantità della medesima sono senza dubbio tra i primi
indici di civiltà di un popolo, e del grado di benessere da esso
raggiunto –scrisse Pietro Franciosi sul Titano del 25
dicembre 1908. (…) Col progresso di un paese, anche
indipendentemente dall’aumento della sua popolazione, deve
migliorarsi la qualità dell’acqua, accrescersi la quantità
disponibile per i pubblici e privati servizi.
Franciosi in sintesi si lamentava che, per incapacità dei vecchi
governanti del defunto Consiglio oligarchico, la popolazione
disponeva ancora solo di cisterne o pozzi
di acqua pluviale, per lo più inquinata, con meno di 15 litri per
abitante. Ma occorreva in fretta passare ad un’altra logica:
Potendo il nostro paese divenire stazione climatica e crescere di
popolazione, sia pure per certi mesi dell’anno, ed avere l’impianto
di qualche industria, dobbiamo far di tutto perché provvedendoci al
più presto di acqua di sorgente a mezzo
di condottazione, sia essa sana ed
abbondante e sufficiente per tutti gli usi della vita moderna.
L’acqua era dunque vista come un’esigenza generale di progresso, non
solo come necessità per la pubblica sanità e per gli utilizzi
domestici. In realtà uno dei motivi che fece
decollare tardi a San Marino l’industrializzazione fu proprio la
scarsità di acqua e di infrastrutture idonee per la sua
distribuzione in quantità adeguata anche agli usi industriali.
Era però sempre una carenza da colmare
soprattutto per i mesi estivi: Si lamenta giustamente la mancanza
in San Marino dell’acqua potabile - evidenziò ancora una volta
Franciosi nel luglio del 1912 - e si fa confronto con altri
piccoli paesi e villaggi vicini, che non si peritano di contrarre
debiti, anche vistosi, per provvedersi di acqua (…).
E i lamenti si fanno sentire soltanto in
questa stagione, in cui di solito vien
meno l’acqua nelle cisterne. Indizio codesto dello spirito di
previdenza di cui è dotato il nostro
paese!
Queste parole scaturivano dalle polemiche politiche che nel periodo
si erano sviluppate intorno alla costruzione del primo acquedotto
sammarinese, ma denotano chiaramente che
i problemi erano sempre gli stessi, ovvero la scarsezza e la poca
salubrità dell’acqua disponibile. Proprio per questo
venne nuovamente inserito tra i punti
programmatici del nuovo raggruppamento politico denominatosi “Blocco
Democratico”, costituitosi nel mese di settembre del 1912,
l’intenzione di ampliare le possibilità sul territorio di acqua
potabile e di realizzare un acquedotto.
Le vicissitudini di questa prima importante infrastruttura in grado
di fornire acqua a vari castelli furono complesse e travagliate, e
risentirono dei gravi contrasti politici tra conservatori e
progressisti degli anni che precedettero la prima guerra mondiale.
Fu grazie soprattutto ad un periodo di relativa stabilità politica
ed all’attivismo di un personaggio come Olinto Amati, ben inserito
in tanti ambienti importanti italiani, che si giunse dapprima, nel
1912, alla stipula di una convenzione con
la Società Elettrica Adriatica per la fornitura di corrente
elettrica, necessaria per far funzionare le pompe dell’acquedotto
che si voleva edificare.
In seguito, nel 1913, fu sempre Amati che accompagnò alcuni tecnici
italiani per verificare se le acque delle sorgenti di
Canepa e Fiorentino
fossero batteriologicamente
idonee per essere distribuite tramite l’acquedotto che si voleva
costruire. Questi sopralluoghi permisero addirittura d’individuare
altre sorgenti a Fiorentino, fino a quel momento ignote, in grado di
fornire alla cittadinanza acqua più abbondante e di qualità. Si
valutava ottimisticamente in circa100 litri per abitante delle zone
che si volevano servire, ovvero Città, Borgo e Serravalle, la
quantità che ora poteva essere erogata. Tutti questi eventi
positivi permisero di dar inizio ai
lavori dell’acquedotto di Fiorentino negli ultimi mesi del ‘13, e di
portarlo a compimento nel 1915, inaugurandolo per la ricorrenza
dell’arengo, ovvero il 25 marzo.
Per obiettività storica occorre dire che non fu proprio quello di
Fiorentino il primo acquedotto sammarinese.
Infatti qualche anno prima, precisamente nel 1910, il
castello di Montegiardino si era già dotato di un piccolo
acquedotto, alimentato da tre sorgenti locali, in grado di
soddisfare il fabbisogno dei suoi pochi residenti, soprattutto
attraverso quattro fontanelle. Tuttavia quello
di Fiorentino era ben più importante per la popolazione sammarinese.
Essendo la prima del genere ideata ed eseguita in Repubblica
- sottolineò ancora una volta Franciosi,
sempre attento al problema dell’acqua – ha un’importanza
speciale, se si pensa che quattro quinti della popolazione
Sammarinese bevono ancora acqua
raccolta, contenente materie organiche, colonie di microbi e germi
specifici in quantità, con grave danno e pericolo continuo per la
salute pubblica.
Proprio l’esempio di Montegiardino, nonché
le pressioni di Franciosi, Amati ed altri particolarmente sensibili
al problema della carenza e della salubrità delle acque, portarono
all’edificazione, come si è detto, di un secondo acquedotto assai
più grande ed in grado di servire vari castelli e diverse centinaia
di utenti.
Ma le velleità innovative nel campo
dell’acqua non terminarono qui. Qualche anno dopo, nel 1918, si
cominciò a pensare di creare una diga in località
Gorgascura per sbarrare il fiume che qui
scorre e creare un bacino idrico sia per
ampliare le generali disponibilità di acqua, sia a vantaggio della
cittadinanza, sia per produrre energia a vantaggio delle industrie,
che ancora non riuscivano a nascere in Repubblica, nonostante gli
incentivi economici che il governo prometteva, per le troppe carenze
strutturali del territorio.
Negli anni successivi ci si adoperò con entusiasmo in tal senso, ma
i tecnici consultati dissuasero le autorità sammarinesi con
dettagliata relazione del 1920, perché la particolare conformazione
del terreno dove si era ipotizzato di costruire la diga avrebbe
richiesto un lavoro ciclopico e troppo dispendioso, quindi non
conveniente rispetto ai vantaggi che ne sarebbero derivati.
Per vari anni, quindi, la situazione non subì innovazioni.
Tuttavia la popolazione locale continuava ad
inurbarsi e ad aumentare, così come il miglioramento delle vie di
comunicazione portava sempre più turisti e commercio all’interno dei
confini della Repubblica, insieme ai primi insediamenti industriali
che presero vita proprio in questi anni.
L’acqua ricominciò per tali motivi a scarseggiare, e nei primi anni
‘30 si sentì nuovamente il bisogno di aumentarne il flusso. Per
questo nel 1932 si tornò a studiare qualche soluzione: dopo analisi
e progetti vari, si decise di aumentare l’afflusso
di acqua nei castelli di Città e Borgo
sfruttando la sorgente di Canepa. Nel
luglio del 1935, dopo un paio di anni di
lavoro, venne fatta l’inaugurazione del nuovo acquedotto di
Canepa, infrastruttura che permise per
qualche anno di acquietare le nuove esigenze emerse.
Negli anni immediatamente successivi continuarono però a registrarsi
problemi di varia natura. Infatti del
1940 abbiamo precise testimonianze da cui risulta che il
funzionamento della centrale di
potabilizzazione di Canepa si
stava dimostrando soddisfacente, ma vi era l’urgente esigenza di
sistemare l’acquedotto di Fiorentino, perché l’acqua pluviale
riusciva frequentemente a penetrare nei suoi pozzetti di presa
creando problemi ricorrenti d’inquinamento.
Inoltre emergeva che tutta la rete di
distribuzione idrica era carente, perché in molti tratti del suo
percorso si avevano perdite notevoli o cospicui inquinamenti.
Anche per la rete idrica di Canepa si
evidenziavano problemi analoghi, tanto che
veniva registrato un discreto inquinamento alle prese di
Cailungo, al serbatoio di Serravalle e,
in forma ancora più grave, nell’ulteriore percorso verso Dogana.
Secondo l’ufficiale sanitario compilatore del documento da cui si
ricavano tali informazioni, tutti questi
problemi si dovevano alle condutture fognarie che più volte
s’incrociavano con quelle dell’acqua potabile o addirittura le
soprastavano. Non a caso nell’estate del 1943 scoppiò un’epidemia di
tifo che determinò più di 150 contagiati ed una decina di morti. Per
farvi fronte vennero somministrate più di
tremila vaccinazioni, si diede vita ad un servizio di disinfezione,
e si provvide ad una clorazione supplementare dell’acqua.
E’ chiaro che il periodo bellico e le gravi conseguenze che provocò
anche a San Marino, con migliaia di scampati provenienti dalle zone
limitrofe, furono tra le principali cause della problematica
situazione igienica in cui il paese versava, tuttavia la situazione
idrica rimaneva precaria pure per i motivi che si sono detti, e per
questo il tifo fu costante durante tutta
questa fase storica con punte più o meno elevate.
Nel 1944, in un’altra relazione dell’ufficiale sanitario,
venne evidenziato che dal luglio al
novembre di quell’anno si erano registrati 510 casi di tifo con 33
morti. Non tutti questi contagiati erano da imputarsi ovviamente
alle locali scarse condizioni igieniche o
all’acqua poco potabile. Infatti sempre
l’ufficiale sanitario sottolineava che nella seconda metà di
settembre si erano rifugiati in territorio notevoli quantità di
sfollati, e questo, insieme alle disastrose condizioni igieniche che
si avevano nelle gallerie e nei luoghi di sosta, aveva creato una
situazione sanitaria insostenibile.
Durante questo periodo il sistema idrico sammarinese aveva sofferto
anche per un altro motivo: nel settembre del ’44 le truppe tedesche
in ritirata avevano fatto saltare la centrale elettrica sammarinese,
cosicché i due acquedotti principali, le cui pompe funzionavano
esclusivamente con la corrente elettrica, si arrestarono. Si riuscì
comunque a rimediare in fretta e furia al
grave problema con un paio di motori a scoppio reperiti a Rimini e
adattati con le modifiche necessarie all’impianto di Fiorentino.
L’acquedotto continuò così a svolgere il suo lavoro finché non
arrivarono le truppe alleate che ripristinarono la corrente
elettrica.
Negli anni successivi San Marino lentamente si riprese dalla grave
situazione economica e sociale in cui il periodo bellico lo aveva
precipitato. Tuttavia i problemi ed i costi legati alla
ricostruzione, nonché le vicissitudini
politiche causate dalla conflittualità tra Italia e locale governo
socialcomunista, non permisero alla
Repubblica di ampliare o migliorare più di tanto le sue ormai
insoddisfacenti potenzialità idriche, che stavano dimostrandosi
chiaramente inadeguate a rifornire di acqua ampie zone del
territorio, in particolare Serravalle, Dogana e Falciano, costrette
ad avvalersi con frequenza di un dispendioso servizio di
autocisterne.
Fu così necessario attendere il periodo post
Rovereta per attuare un ulteriore
salto di qualità anche in questo settore, periodo in cui il paese
ricevette cospicui contributi da parte degli Stati Uniti d’America,
ora più amici della Repubblica grazie al cambio di governo che vi
era stato. I primi contatti diplomatici per la realizzazione
dell’opera avvennero alla fine del 1957, e l’annuncio
della sponsorizzazione americana, consistente
nella notevole cifra di 850.000 dollari, venne fatto direttamente a
San Marino dall’ambasciatore americano
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