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BREVE STORIA DELL'ACQUA SAMMARINESE

  

L’aqua la infreida i pèll (l’acqua infradicia i pali).

Questo tipico aforisma romagnolo, simile nella sua sostanza a tanti altri detti locali, tutti tesi a lodare il vino e a svilire l’acqua stessa, può, nella sua semplicità, riassumere bene ciò che era in passato, nella coscienza collettiva sammarinese, che solo da pochi decenni non è più contadina, l’atteggiamento dell’uomo verace e macho (ma anche della donna) nei confronti di questa sostanza fresca e provvidenziale, ma terribilmente insapore e priva di potenzialità inebrianti.

Ancora oggi sopravvive tra molti anziani la mentalità che l’acqua l’arrugnisc el budèli (arrugginisce le budella), mentre un buon bicchiere di vino viene considerato un ottimo corroborante ed anche un toccasana per tutti i mali.

D’altra parte si è già accennato al fatto che la Repubblica di San Marino fino a tutta la prima metà del Novecento era ancora un paese prevalentemente rurale, ed il vino locale, particolarmente pregiato ed apprezzato anche dagli abitanti del circondario (‘Tla repubblica u’s’ va per fe’ giuvaca, per fe’ fraja sa’ e’ vein republichen, o ti marchè per una bona vaca, o per god la funzion di Capiten Nella repubblica si va per far festa e baldoria col vino repubblicano, o per andare nel mercato a comperare una buona vacca, o per assistere alla cerimonia d’insediamento dei Capitani Reggenti – recita la prima strofa di una poesia degli inizi del Novecento scritta da Addo Cupi di Rimini), che provvedevano ad esportarne periodicamente in quantità, per secoli ha rappresentato un alimento basilare quotidiano per la nostra poco opulenta civiltà, tant’è che la colazione tipica dei più era proprio un goccio di vino ed un pezzo di pane, così come spesso rappresentava il pranzo o la cena.

Countra i pensir un gran rimédi l’ è e bicìr (contro i pensieri un gran rimedio è un bicchiere), recita un altro detto che ci fa capire quali ulteriori virtù venissero attribuite al vino (all’acqua ovviamente no!), e che ci permette anche d’intuire perché l’alcolismo è stato in passato una piaga tanto diffusa tra la nostra gente.

L’aqua la fa mel, e’ vein e’ fa cantè (l’acqua fa male, il vino fa cantare). L’aqua la fa marcì el budèli (l’acqua fa marcire le budella). L’aqua l’è bona da lavess la facia (l’acqua è buona da lavarsi la faccia), recitano altri proverbi tutti concordi nel reputare questa pur indispensabile sostanza in netto subordine rispetto al vino, vero e proprio nettare degli dei per i Sammarinesi e per i romagnoli in genere.

Ma l’amore per il vino e la diffidenza verso l’acqua erano nei secoli passati, in particolare fino al XIX secolo, assai diffusi, soprattutto perché s’imputava paradossalmente proprio all’acqua di essere la principale causa di numerose malattie gastroenteriche, ma anche del cretinismo, del gozzo e delle febbri miasmatiche.

Ancora nel 1856, all’interno di un testo sull’uso ed abuso dei bagni di mare, che proprio in quel periodo cominciavano ad essere consigliati e fatti per motivi terapeutici, si dice: La bevanda poi che si deve usare ordinariamente nei pasti sarà di acqua vinata. (…) L’acqua pura per bevanda (…) sconviene, perché è questa troppo poco stimolante, mette troppa mollezza e rilassatezza nei corpi, e troppi sudori facilita. (…) Il vino poi unito a più o meno acqua, oltre che meglio estinguere la sete, meglio ancora aiuta allo smaltimento nello stomaco della massa cibaria.

Al vino si attribuivano dunque precise funzioni di ristabilimento degli equilibri interni, nonché la capacità di mantenere costante la temperatura corporea e di salvaguardare, fin dai primissimi mesi di vita (anche ai bambini molto piccoli veniva dato qualche sorso di vino periodicamente), da tutta una serie di malattie, perché secondo la coscienza collettiva il vino eliminava i cattivi umori corporei e, dopo le scoperte di Pasteur, era in grado di uccidere persino i microbi.

Questi rigidi stereotipi, che sono spesso giunti fino a noi, condizionavano ovviamente la vita quotidiana e il bisogno di acqua. Oggi ci si raccomanda di non sciupare l’acqua, perché ne usiamo quantità industriali in continuazione; ma in passato, fino ad anni non lontani da noi, né per l’alimentazione, né soprattutto per l’igiene rivestiva una particolare importanza, visto che, come si dirà fra breve, anche in campo igienico è stata considerata per lunghi secoli più un pericolo che una panacea.

L’acqua era importante per l’agricoltura, ma anche qui solo in dosi giuste, perché se era poca vi era siccità, quindi l’esigenza di richiamarla tramite precisi riti; se era molta, invece, era ugualmente un danno, perché ovviamente andava ad intaccare la qualità e l’abbondanza dei raccolti.

Una credenza popolare assai diffusa sosteneva che non bisognava portare acqua (nemmeno da bere) sul luogo della mietitura, perché l’acqua della terra avrebbe richiamato quella del cielo con possibili danni per il raccolto. Si capisce dunque con facilità da dove nascesse il grave alcolismo che nei secoli passati dominava un po’ tutte le classi sociali.

Per quanto riguarda l’uso dell’acqua per motivi igienici, si può senz’altro sviluppare un discorso altrettanto importante di quello svolto fin qui per gli usi alimentari. La medicina come la conosciamo noi è scoperta piuttosto recente. Fino a poco più di un secolo fa vi erano intorno al corpo e alle sue malattie convinzioni e stereotipi assai diversi di quelli che abbiamo noi, derivati da teorie sviluppate in antico da personaggi come Aristotele, Ippocrate, Galeno.

In maniera molto sintetica si può affermare che la salute dipendeva dall’equilibrio perfetto tra i quattro umori che erano considerati tipici del corpo umano (bile gialla, bile nera, sangue, fiele), mentre la malattia dipendeva solo dal loro squilibrio. Da qui l’esigenza costante nelle cure mediche di succhiare sangue agli ammalati, con salassi o sanguisughe, per ristabilire l’equilibrio perduto. Com’è facile intuire, questa pratica invece li indeboliva ulteriormente, contribuendo il più delle volte a peggiorare il problema piuttosto che risolverlo.

In una simile concezione medica le nozioni di pulizia, lavaggi, depurazione erano assolutamente marginali quando non del tutto assenti. Anzi, diffuso era il credo che l’acqua spesso fosse veicolo di malattia. Infatti si pensava che, facendosi un bagno completo, i pori della pelle si dilatassero a tal punto da diventare un nugolo di porte spalancate alle malattie provenienti dall’esterno, perché si credeva che il maggiore veicolo delle patologie fosse proprio l’aria.

Quando dal 1348 in poi l’Europa venne percorsa in lungo e in largo ciclicamente dalla peste bubbonica e polmonare, la convinzione che lavarsi fosse pericoloso e sconsigliabile divenne diffusa ovunque. Infatti a lungo gli uomini non capirono bene da dove derivasse questo flagello, ma agli inizi del XVI secolo si cominciò a sostenere che fosse causata dai seminaria, minuscole particelle viventi in grado di riprodursi da una persona ad un’altra, e di trasmettersi proprio passando attraverso i pori della pelle, che ovviamente erano tanto più resistenti quanto più erano occlusi.

Non solo la peste poteva trovare questo percorso per contaminare l’uomo, ovviamente, perché più in generale si pensava che il bagno debilitasse sempre e comunque il corpo ed esponesse al rischio di ogni tipo di malattia. Ma sicuramente fu soprattutto la paura della morte nera che frenò immensamente l’uso dell’acqua per lavarsi, perché prima dei periodi in questione l’acqua era assai più utilizzata dalla gente per lavarsi.

Ciò non toglie che per alcuni tipi di malattia la medicina dell’epoca consigliasse di fare abluzioni totali; tuttavia, sempre per la logica dell’indebolimento corporale, in seguito era sconsigliato uscire di casa per qualche giorno, per evitare il rischio di esporsi all’aria malsana col fisico predisposto ad ammalarsi per i suoi pori troppo aperti, e per starsene in assoluto riposo così da permettere al corpo fiaccato e svigorito dal bagno di ritornare in forze.

Prima della peste i lavaggi facevano molto meno paura, tanto che era consigliato fare il bagno ad un neonato tre o quattro volte al giorno. Esistevano inoltre molti locali che avevano a che fare con acqua e bagni, appunto, servendo in realtà come postriboli e luoghi di prostituzione o d’incontro di natura erotica e sessuale. D’altronde è conosciuta l’importanza che i bagni pubblici avevano per i romani, importanza che sopravvisse a lungo anche dopo il crollo dell’impero romano, nonostante che la vita venisse ovviamente modificata in profondità a causa delle continue invasioni cui era sottoposta la penisola italiana. Ma dal XIV secolo in poi le cose cambiarono, la sporcizia aumentò e l’acqua divenne un bene meno prezioso e ambito.

Si pensi che, stando ai documenti che ne fanno fede, il re di Francia Luigi XIII non fece un bagno completo fino all’età di sei anni. Pure il Re Sole pare ne facesse rarissimamente, tanto che abbiamo notizie di uno solo, fatto precisamente nel 1665, almeno stando alle annotazioni che i suoi medici scrissero all’interno del suo Journal de la santé fra il 1647 e il 1711.

Ovviamente queste pratiche, che sicuramente a noi igienisti a volte fin troppo fanatici fanno accapponare la pelle, portavano ad un insieme di odori a cui bisognava abituarsi; ma gli odori, come i sapori, hanno tutta una loro storia sociale altrettanto interessante di quella dell’acqua, per cui quello che a noi oggi sembra nauseabondo, in passato non lo era, così come sarebbero per i nostri antenati repellenti odori e sapori che per noi invece sono quotidiani.

Queste pratiche poco salubri facevano del corpo un luogo perennemente infestato dai parassiti, come le pulci, che erano una presenza costante ma non sgradita degli uomini del passato. Per secoli non vennero fatti collegamenti tra presenza di pulci e malattia. Anzi, vi era la convinzione che le pulci contribuissero a togliere i cattivi umori dal sangue succhiandolo, ovvero a purificarlo. Spidocchiarsi reciprocamente, poi, come lo è ancora per le scimmie, era un rito preciso che sottintendeva spesso anche un premuroso rapporto affettivo.

Il concetto di igiene, dunque, per lunghi secoli non è stato legato all’acqua, ma ad altri fattori. Si parlava infatti di “pulizia secca” in quanto si pensava che una camicia pulita ed un abito cambiato spesso corrispondessero al sistema più efficace possibile per tenere linda la propria persona.

Inoltre sulla parsimonia nell’uso dell’acqua incideva anche una morale assai più rigorosa di quella che caratterizza la nostra mentalità. Il corpo era considerato un oggetto peccaminoso, che non occorreva assolutamente né guardare, né toccare e quindi stimolare per non cadere in tentazione e in grave peccato. La nudità era quanto più possibile da evitare sia per gli uomini, sia soprattutto per le donne. L’igiene intima era classificata come del tutto oscena, riservata al massimo alle prostitute, a cui veniva sempre associata, ma non alle donne per bene.

Il bidet, che fece le sue prime apparizioni all’inizio del XVIII secolo, rimase a lungo una rarità avversato dalla morale dominante come oggetto indecente assai pericoloso per la sessualità femminile, ovvero peccaminoso. Gl’inglesi poi lo etichettarono come una “sconvenienza continentale”, evitando proprio di dargli alcun tipo di considerazione, tanto che ancora oggi è per loro pressoché sconosciuto. 

C’è poi da aggiungere che gli uomini sono stati a lungo convinti che, senza odori forti addosso, l’attrazione sessuale esercitata sulle donne sarebbe stata scarsa e mediocre.

Questa realtà così poco pulita rimase viva circa fino a tutto il XVIII secolo, che si può considerare l’epoca in cui gli uomini iniziarono ad intrattenere con l’acqua un rapporto assai diverso di prima. Fin dal 1743, infatti, grazie a un testo di Alexis Claude Clairaut (La théorie de la figure de la terre, tirée des principes de l’hidrostatique) si cominciò a capire di più sull’acqua, passando dalla concezione platonica della teoria del ciclo sotterraneo delle acque a quella della teoria atmosferica. Secondo la teoria fino a quel momento in auge, le acque avrebbero avuto origine dal contatto del mare, creato fin dai primordi dell’universo da Dio o dalla natura, con il centro surriscaldato della terra. Per evaporazione e capillarità, l’acqua si sarebbe poi infiltrata nelle caverne che solcano il sottosuolo, dando luogo ai fiumi e alle sorgenti, e giungendo così al consumo umano purificata dal fuoco del nucleo centrale della Terra. Con Clairaut si abbandona tale teoria e prende vita invece quella atmosferica, già abbozzata però anche da Aristotele, dell’evaporazione e delle precipitazioni.

Dalla fine del secolo, poi, gli uomini iniziarono ad intrattenere con l’acqua rapporti completamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato, considerandola come vapore capace di muovere le macchine, come elemento indispensabile per le nuove fabbriche della prima rivoluzione industriale secondo il principio più l’acqua è abbondante, più l’industria si sviluppa, come merce da vendere, come forza da cui produrre elettricità, come sostanza basilare per certe cure terapeutiche. Cominciarono cioè a guardarla sia come scienziati che come imprenditori.

Fin dal Medioevo, per la verità, l’acqua era stata usata per la lavorazione della seta, della carta, delle pelli e come forza motrice dei mulini, ma nel XIX e nel XX secolo essa diventò sempre più appannaggio dei sapienti, laicizzandosi nel sapere di geologi, ingegneri, chimici, fisici che la studiarono da un punto di vista prettamente scientifico. Basti dire che, nonostante i Romani fossero stati grandi costruttori di acquedotti, solo nel XIX secolo si ritornò a costruirne dei nuovi o a ripristinare, spesso ampliandoli, quelli antichi.

L’Ottocento fu poi il secolo in cui iniziò a diffondersi l’uso del bagno periodico fatto in casa. Fu anche l’epoca in cui lentamente cominciarono a sostituirsi i water closet (letteralmente “stanzino dell’acqua”, inventato in Inghilterra nel 1778) ai vasi da notte, il cui contenuto veniva spesso gettato dalle finestre da chi non possedeva un pezzetto di terra attorno alla sua abitazione dove scaricarlo (è facile incontrare anche nell’archivio giudiziario sammarinese cause intentate da chi subiva docce involontarie di fetido materiale organico).

I water, tuttavia, inizialmente poterono essere sfruttati più che altro come grandi vasi da notte, perché finché non si è sviluppato un adeguato sistema fognario, e finché non è stato inventato il sifone (presentato per la prima volta all’Esposizione Universale di Parigi nel 1889), il loro utilizzo era alquanto simile, così come i miasmi che ne derivavano. Non a caso l’Ottocento fu ancora secolo di grandi epidemie di colera, malattia causata da un bacillo che si sviluppa nelle acque di scarico, propagandosi poi nei cibi e nell’acqua che si beve, perché in passato tutti gli scarichi finivano nei corsi d’acqua naturali, o nelle falde acquifere.

Inoltre anche il sistema di attingere acqua, coi secchi o con pompe azionate da innumerevoli mani, era una facile possibilità di contagio, visto che non vi erano particolare prevenzione, né conoscenze scientifiche tali da evitare il contagio a priori. Solo nel 1876, infatti, l’ingegnere francese Pierre Mille lanciò l’ipotesi, accolta con diffidenza e contrarietà, che fosse necessario un trattamento depurativo delle acque nere prima che queste fossero scaricate nei corsi d’acqua naturali. Qualche anno dopo Eberth individuò il germe del tifo, anche questo abituale frequentatore dell’acqua, e solo nel 1883 Koch scoprì il bacillo del colera. 

Queste innovazioni e scoperte, insieme alla nuova cultura idroterapica che stava crescendo di giorno in giorno, portarono gradualmente ad un amore sempre più marcato e ad un uso più costante dell’acqua, anche di quella di mare. Fino alla fine del Settecento il mare non fu considerato luogo di svago o di benessere. Anzi, lo si guardava con parecchia diffidenza, come elemento temibile e pericoloso per l’uomo. La stessa spiaggia, abitualmente sporca e piena di detriti lasciati dal mare, era considerata ricettacolo degli escrementi marini, ovvero luogo malsano e insicuro da cui era meglio stare lontani. Bagnarsi nelle acque marine era del tutto straordinario, e veniva fatto solo per necessità. Solamente nella seconda metà del Settecento e nella prima metà del secolo successivo si iniziò a guardare il mare con occhi diversi, ovvero come luogo adatto a curare vari tipi di malattia. I primi a promuovere la balneoterapia furono inglesi e francesi; l’Italia, con Trieste, arrivò solo dopo il 1820 a creare le prime strutture per bagni marini. Rimini avrà il suo primo stabilimento nel 1843. Anche i sammarinesi cominceranno nella seconda metà dell’Ottocento a fornire qualche aiuto economico ai bambini scrofolosi per recarsi a fare terapie marittime sulla riviera, essendo la scrofola una delle principali malattie che si pensava potesse essere curata con la balneoterapia.

Questa nuova attrazione verso l’acqua in genere e l’acqua potabile in particolare, indusse gli uomini a grandi mutamenti di mentalità ed infrastrutturali, così come stimolò l’esigenza di costruire acquedotti in grado di trasportarla nelle case o almeno nei pressi delle medesime, anche se l’Italia arrivò a simili innovazioni igieniche e tecnologiche più tardi della maggioranza degli stati europei. Gli acquedotti, poi, non diminuirono subito il pericolo di contagi infettivi: infatti, se non si prevedeva subito anche la costruzione di fognature in grado di incanalare le acque nere, le acque chiare continuavano a rischiare di essere inquinate da scarichi che finivano a caso dove potevano.

Inoltre XVIII, XIX, XX secolo furono periodi di forte sviluppo demografico (a San Marino alla fine del 1700 gli abitanti di tutto il territorio erano appena 3.500 circa, mentre alla fine dell’Ottocento quasi 10.000), ed anche questo fatto incise ovviamente sull’aumento del bisogno e conseguentemente del consumo dell’acqua.

Naturalmente, dopo secoli di relativo immobilismo, queste trasformazioni incisero non poco sulle diverse società, anche se occorre dire che solo in tempi piuttosto vicini a noi si è giunti a capire pienamente l’importanza d i avere abbondante acqua pulita e incontaminata, quindi quanto fosse fondamentale creare infrastrutture fognarie capaci di evitare l’inquinamento delle acque potabili.

 

Con quanto si è detto finora si può facilmente comprendere perché in passato il fabbisogno di acqua potabile fosse quantitativamente molto inferiore a quello odierno, a San Marino come altrove. Tuttavia è fuor di dubbio che anche per i nostri antenati l’acqua fosse un’esigenza quotidiana, seppur in dosi molto minori di quelle che utilizziamo noi, essendo un bisogno primario per l’alimentazione, l’allevamento e l’agricoltura.

A questo proposito si può aggiungere che fin dal XIV secolo possediamo testimonianze che, lungo i pochi corsi d’acqua sammarinesi, funzionassero mulini per macinare il grano. Il catasto del 1823 ne censisce addirittura 24, numero notevole per il fabbisogno locale, dovuto probabilmente al loro utilizzo anche da parte dei contadini delle zone limitrofe per motivi di risparmio sui costi.

Da tutti questi motivi la necessità di tutelare, anche con leggi draconiane, i pozzi, le cisterne, le condutture, i torrenti e le fonti idriche della comunità.

Gli statuti trecenteschi di Rimini, per esempio, prevedevano il taglio della mano destra per chi danneggiava i condotti dell’acqua. Anche San Marino nello stesso periodo provvide a formulare le prime norme statutarie a tutela delle sue non abbondanti possibilità idriche. Infatti negli statuti del 1317, precisamente nelle norme XXIV e XXV, fu stabilito che non venissero gettate bruturam, ovvero sporcizie, né che fossero messi a mollo attrezzi od oggetti capaci d’inquinare le acque, né che si lavassero panni all’interno della principale cisterna pubblica dell’epoca, chiamata “dei fossi”, che era stata costruita e collocata a ridosso della prima torre, ovvero dentro il primo villaggio sorto sul monte Titano tanti secoli fa, verosimilmente prima del Mille.

Di sicuro dovevano esservi anche svariati pozzi privati, scavati per raccogliere neve e acque pluviali, o altre cisterne più piccole, ma il minuscolo villaggio, composto da non più di qualche decina di famiglie, ovvero da poche centinaia di individui, dipendeva prevalentemente dalla cisterna suddetta che aveva una capienza, piuttosto bassa, di appena 270 metri cubi. Come pena erano previste multe in denaro.

Per il resto del territorio, che comunque non aveva l’estensione attuale, raggiunta solo nel 1463 con l’acquisizione dei castelli di Serravalle, Faetano, Fiorentino e Montegiardino, non erano previste norme né pene negli statuti del XIV secolo e nemmeno in quelli immediatamente successivi, segno che in questi secoli il problema dell’acqua, al di fuori del castello principale, era considerato personale, non comunitario.

Nel XIII secolo San Marino si diede organi istituzionali propri e in seguito venne gradualmente liberandosi dall’autorità vescovile, che fino a quel momento aveva dominato la piccola comunità. Ugualmente iniziò a svilupparsi demograficamente ed economicamente, perché è dello stesso secolo il potenziamento del mercato del Borgo, importante luogo d’incontro collocato tra mare ed entroterra, quindi adatto a favorire un cospicuo scambio di merci.

Tutti questi fattori fecero espandere il piccolo villaggio collocato sul Monte Titano, che dovette proprio in questi secoli ampliare il suo centro abitato e le sue mura difensive.

Ovviamente questo significò anche maggiore bisogno di acqua potabile: infatti nella seconda metà del XV secolo, epoca in cui il centro storico ormai aveva raggiunto l’estensione perimetrale odierna, si sentì l’esigenza di edificare nuove cisterne più capienti. Il meticoloso capitolato per tale imponente infrastruttura venne sottoscritto nel 1476 tra le autorità sammarinesi e il piemontese mastro Michele di Giovannino, che negli anni successivi costruì l’opera composta da due grandi cisterne collocate sotto il Pianello di 800 e 600 metri cubi di capienza totale, ma di 600 e 450 mc. reali, capaci dunque di ampliare enormemente le riserve idriche della comunità, il cui numero si aggirava tra i 350 e i 400 residenti, numero che rimarrà pressoché invariato fino alla seconda metà dell’Ottocento.

L’acqua confluiva all’interno delle cisterne attraverso condutture in grado di raccogliere la pioggia convogliandola prima in pozzetti di depurazione riempiti di ghiaia e carbone, chiamati cisternelli, che servivano appunto a filtrarla. Questo sistema di filtraggio era quello utilizzato ovunque nelle località del territorio sammarinese dove, non essendoci fonti o fiumi, si era costretti a servirsi prevalentemente di acqua pluviale.

All’interno delle cisterne venivano comunque fatte albergare colonie di pesciolini d’acqua dolce, nella convinzione che servissero a tenerla ancora più pulita perché si nutrivano dei microrganismi che vi penetravano. Inoltre i pesci erano un bel segnale di pericolo d’inquinamento, perché la loro morte era un chiaro indicatore dell’esigenza di svuotare e ripulire le cisterne. I documenti di archivio attestano che ogni tanto simile operazione si rendeva necessaria, molto probabilmente perché i cisternelli erano filtri insufficienti, o anche perché l’acqua piovana, scorrendo liberamente per i tetti e attraverso il selciato del Pianello, parte superiore delle cisterne stesse, riusciva a penetrare al loro interno senza venir filtrata da nulla. Questo pare il senso di alcune petizioni della cittadinanza inoltrate al Consiglio negli ultimi anni del XIX secolo con cui si richiedeva l’installazione di grondaie sulle case attorno al Pianello proprio per evitare che la pioggia s’insinuasse liberamente ovunque.

Non sappiamo se fin da subito la cisterna dei Fossi venisse collegata con un sistema di canalizzazione con quella del Pianello, anche se appare improbabile. Ad un certo punto, comunque, questo collegamento venne fatto, così come si collegarono con lo stesso sistema le cisterne di Città con il cosiddetto Fontanone del Borgo attraverso due tubazioni, del diametro di circa 50 millimetri, che scendevano lungo la Costa. Inoltre dal Fontanone ripartiva una conduttura che arrivava fino a Serravalle. In seguito una derivazione dello stesso impianto portò l’acqua alle fontanelle di Ca’ Rigo e Faetano.

Per secoli attingere l’acqua alle fontanelle sparse nei vari villaggi del territorio, ovviamente lontani da fonti o fiumi, o dove le cisterne ed i pozzi locali erano insufficienti, fu il principale sistema per garantirsi quei pochissimi litri quotidiani di cui si aveva necessità.

Altro sistema era quello di comperarla da chi campava vendendola in tempi di sua carenza. Ci è rimasto il ricordo di un certo Marat, probabilmente Marat Casali di Borgo, figlio di Ercole, che agli inizi del Novecento, con botti e carretto trainato dal fedelissimo somaro Marin, vendeva alla popolazione per due soldi all’orcio la sua preziosa merce.

Accanto alle grandi cisterne pubbliche di Città, il comune sammarinese era dotato anche di svariati altri pozzi e cisterne privati. Per i secoli più remoti non abbiamo dati precisi, ma per il Settecento si possono ricavare informazioni dal catasto Pelacchi del 1777, che censisce 58 pozzi privati, di cui 24 in Città e Borgo, e gli altri sparsi in quantità diverse lungo il territorio, e tre pozzi pubblici (2 a Montegiardino e 1 a Faetano). Inoltre c’informa che vi erano 5 fonti pubbliche (3 nel distretto della Pieve, 1 a Serravalle e 1 a Faetano), più tre private. A queste sono da aggiungere 4 fonti pubbliche con lavatoio (2 per la Pieve, 1 a Chiesanuova e 1 ad Acquaviva), e una privata, sempre nel distretto della Pieve. Infine ci dice che c’erano 30 cisterne nella zona della Pieve (22 pubbliche e 8 private), 3 a Serravalle (2 pubbliche, 1 privata), e 1 cisterna pubblica a Montegiardino.

Un altro importante censimento molto più recente di fonti, pozzi e cisterne è quello fatto da Marino Bollini una trentina di anni fa che elencava la presenza di 43 fonti per tutto il territorio, di cui la maggior parte molto piccole e destinate a servire solo poche famiglie, 15 cisterne, anche queste di dimensioni diversissime, e una quindicina di pozzi.

E’ un peccato non poter sapere in alcuna maniera come nei secoli precedenti si sia giunti alla creazione di queste infrastrutture per la conservazione delle acque, anche se è ipotizzabile che scavare un pozzo o costruire una cisterna dovesse rappresentare una delle prime preoccupazioni di qualunque villaggio, o di qualunque comunità rurale o di altro genere decisa a stabilirsi in una località. Tuttavia i dati che si riportano sono chiari indicatori di come alcune zone del territorio non potessero fare a meno di raccoglitori più o meno ampi di acqua.

D’altronde il suolo sammarinese è sempre stato caratterizzato da distribuzione disomogenea delle falde acquifere, essendovene concentrazione in alcune zone, come quella compresa tra Chiesanuova e Montegiardino, e assenza in altre.

In pratica, anteriormente alla creazione dei primi acquedotti edificati all’inizio del Novecento, solo un terzo del territorio sammarinese disponeva di fonti idriche, e ne erano del tutto privi centri abitativi importanti come Città e Serravalle, o castelli minori come Montegiardino, Faetano, Falciano.

C’è una norma contenuta all’interno del Libro III dello statuto quattrocentesco di Serravalle che ci permette di capire quanto fosse preziosa l’acqua nei castelli privi di fonti. Sebbene sia nell’italiano dell’epoca, è ben chiara:

 

Che el cortile dove e la citerna se tenga serrado cap.o lxij.

 

Ancora statuimo e ordenamo che lo cortile dove e la citerna del comuno se debba tenere serrado per lo capitaneo del dicto castello cum la chiave et neguno ardischa ne presuma intrare in lo dicto cortile altroe che per lusscioo et la chiave staga apicada al banco del comuno. Et si alcuna persona torra de la citerna del comuno acqua piu de uno bocale per caxone de bere solamente paghe per pena s. cinque de denari. Salvo che per caxo de grande necesitade et excepto che el capitaneo etiam per caxone de bere per se e per la sua fameglia possa cum lo boccale torre de lacqua de la dicta citerna et si cum altro vaxo o per altra caxone torra acqua o vero la fara torre siagli del suo sallario rettenudo per zascuna volta s. cinque de denari et per zascuno vaso tolto de lacqua de la dicta citerna. Et se alcuno gettara bructura in la dicta citerna o vero in lo suo cortile sia punido de la medezema pena et zascuno possa essere accusatore et habbia la mita de la pena et sia tenudo credenza.

 

In sintesi veniva vietato a chiunque di entrare senza permesso nel cortile dove era collocata la cisterna pubblica, e di prelevare più di un boccale d’acqua.

Nei secoli successivi i Sammarinesi approntarono norme statutarie sempre più dettagliate e rigorose legate all’acqua. Negli statuti del Seicento, che per lunghi secoli rimasero il codice legislativo unico e fondamentale della Repubblica, si stabiliva che non dovesse essere deviata l’acqua dal suo corso naturale, pena una multa da dieci a quaranta soldi (Libro V, rubrica XV), e che nessuno dovesse guastare in qualche modo, distruggere, o devastare, le fonti esistenti nella Curia di San Marino, od i pozzi dentro, o fuori della Terra, o la cisterna del Comune, sotto pena di cento soldi, né di lavorare vicino a dette fonti, sotto pena di venti soldi ogni volta. Ancora nessuno ardisca, o presuma di lavar panni, né altre cose presso le dette fonti, per lo spazio di una pertica, né gettare, fare, o immettere in essi, o presso di essi, alcuna immondizia, sotto pena di cinquanta soldi per ognuno, ed ogni volta. Ed alla stessa pena sottostiano quelli, i cui cavalli, asini, porci, ed altre bestie di qualunque genere saranno trovate nella piazza volgarmente chiamata “il Pianello”, e nell’altra detta “le Cisterne dei fossi”, per la conservazione delle quali cisterne ed acque i Signori Capitani pro tempore siano tenuti a porre ogni diligenza (Libro V, rubrica XVI)

Lo scrupoloso controllo delle fonti e delle cisterne era dunque sotto la diretta responsabilità dei Reggenti. Tuttavia la rubrica LXI del Libro I stabiliva anche l’elezione semestrale di due Soprastanti Generali delle vie e delle acque, preposti soprattutto all’ispezione delle strade del territorio, e al loro ripristino in caso di danneggiamento, ma con l’impegno di verificare, nei periodici controlli svolti lungo il territorio, pure le acque sammarinesi.

Occorre dire, comunque, che per quel che riguarda le cisterne del territorio, l’attenzione maggiore era riservata a quelle di Città, tant’è che nelle rubriche XXXII e XXXIII del Libro V si stabilisce con rigore che nessuno dovesse sporcare le acque al loro interno, che non si lavassero panni nei loro pressi, che non fossero portati animali sul Pianello o  lino e simili, che sogliono mandare o generare, o causare puzzo, ed immondizie, sotto la pena predetta (50 soldi), affinché detto Pianello debba rimanere sempre pulito. Ma per le cisterne e i pozzi del contado non vennero formulate norme specifiche al di là di quelle già messe in evidenza.

Invece una cura più attenta venne riservata dagli stessi statuti alle fonti. La rubrica XXXV del Libro V stabilisce, infatti, che a tutti i terreni, che sono intorno alle fonti della curia, e distretto di S. Marino, siano posti i termini dai sovrastanti alle vie della Repubblica, e poscia di là da quei termini nessuno ardisca di porre, o lavare alcuna immondizia, e cosa putrida, e chi contravverrà paghi ogni volta venti soldi.

Nella rubrica XXXVI si fa poi divieto a tutti di lavare cuoi o pelli nei pressi delle sorgenti, pena una multa di dieci soldi.

Insomma, sebbene la cultura e la mentalità dell’epoca non favorissero l’igiene, i bagni e l’uso abbondante dell’acqua, gli statuti sammarinesi in ogni caso dimostravano una certa preoccupazione per la preservazione delle scarse risorse idriche del territorio. Anche perché tali risorse non erano illimitate ed il più delle volte dipendevano esclusivamente da condizioni atmosferiche ottimali, dato che, in caso di periodi siccitosi, come quello che si sviluppa a partire dagli anni ’40 del Settecento, per esempio, per un generale rialzo delle temperature climatiche, tutto il sistema andava in crisi o comunque diveniva fortemente sofferente e deficitario.

Pur nella carenza di documenti o informazioni che ci permettano di capire dettagliatamente la storia di queste risorse, per lunghi secoli la Repubblica di San Marino è rimasta in una fase di equilibrio, quasi di congelamento, che le ha permesso di avere in genere l’acqua necessaria per i suoi cittadini. Questo perché per molto tempo la popolazione sammarinese si è mantenuta numericamente stabile, con pochi incrementi in alcuni periodi, e qualche decremento in altri. E’ stato calcolato, infatti, che nel 1772 la popolazione complessiva presente sul territorio fosse circa di 3.000 residenti, numero non molto diverso da quelli precedenti, anche se si è quantificato che nel 1627 fosse di qualche centinaio superiore, arrivando ad essere di circa 3.540 persone.

Questa stasi demografica ha permesso di non doversi preoccupare più di tanto di reperire nuove risorse idriche, anche perché è verosimile che la cultura e la mentalità consolidatesi attraverso i secoli avessero insegnato ai sammarinesi ad accontentarsi dell’esistente, ovvero del minimo indispensabile per la loro sopravvivenza e necessità ordinarie.

 Sul Titano, anch’esso abitato per lunghi secoli da non più di 3/400 residenti, ovvero senza che si registrassero eccessivi sbalzi demografici, le cisterne presenti furono, fino alla seconda metà dell’Ottocento, sufficienti a soddisfare il bisogno locale di acqua.

Vennero costruite altre due cisterne molto più piccole, a Porta della Ripa verso metà Settecento, e a Porta Nuova; però finché la popolazione rimase stabile nei numeri di sempre l’acqua non fu un grosso problema, eccetto nei ciclici momenti di siccità eccessiva, quando si faceva fronte alla carenza portando fin sopra il monte acqua supplementare con carri e buoi.

Questa situazione di relativa tranquillità idrica cominciò ad incrinarsi con lenta gradualità a causa dell’innalzamento demografico che caratterizzò soprattutto il XIX secolo, ed anche della nuova mentalità legata all’igiene e all’uso dell’acqua potabile a cui si è accennato, mentalità individuabile tra i sammarinesi a partire dalla fine dello stesso secolo.

Esaminando gli atti del Consiglio del periodo, infatti, in cui o tramite istanza d’arengo o in altra maniera ancora si presentavano al locale governo le petizioni relative a qualunque tipo di problema della comunità, quindi anche quelli di natura idrica, risulta che per buona parte del secolo grossi dilemmi non vi dovettero essere intorno a questo problema, perché di lagnanze intorno all’acqua se ne registrano pochissime.

Ogni tanto emergeva qualche polemica, o qualche richiesta, come quelle legate alla deviazione dei corsi d’acqua. Nel 1802, per esempio, dei non meglio definiti forestieri avevano impiantato una risaia e per farlo avevano deviato un corso d’acqua, cosa proibita categoricamente dagli statuti.

Un altro ricorso simile lo fa nel 1812 Alessandro Righi contro Ettore Tini, ed altri ancora sono reperibili occasionalmente lungo tutto il secolo. In tali situazioni il Consiglio di solito ordinava un sopraluogo dei Soprastanti alle strade ed alle acque, e il ripristino totale della situazione precedente.

Un’altra richiesta periodica era quella dell’esposizione della teca con le reliquie del santo fondatore, fatto che nella coscienza collettiva doveva servire a scongiurare siccità, maltempo e anomalie varie. Nell’aprile del 1803, sempre per fare un esempio, il Consiglio ordinò di portare in processione la teca per implorare la tanto necessaria pioggia, stabilendo inoltre che fosse anticipato a quella settimana il triduo che abitualmente si faceva la quinta settimana dopo Pasqua.

Qualche altro fatto storico legato all’acqua, ricavabile sempre dalle stesse importanti fonti storiografiche, era legato al ripristino di greti o fossi che, per il maltempo o per la cattiva cura degli uomini, erano soggetti a creare disagi alle comunità. Per tutto il secolo Serravalle ebbe grossi problemi col cosiddetto Fosso da Tarì, e dovette periodicamente pulirlo e sistemarlo, arrivando anche a deviare le acque che vi scorrevano o ad incanalarle, per evitare che accadessero rupine, come si  diceva allora, e danni all’abitato.

Dagli atti consiliari, comunque, la carenza di acqua potabile non appare per tutto il secolo una grossa preoccupazione del piccolo Stato, salvo in qualche anno d’estate e limitatamente ad alcuni castelli, come Borgo che è spesso alla ricerca di nuove fonti idriche. Già tra il 1809 e il 1811 sente il bisogno di dotarsi di una nuova Fonte o Pozzo da costruirsi a benefizio della Popolazione. Questa fonte inizialmente venne costruita male, cosicché per un afflusso di acqua troppo ingente crollò nel luglio del 1811, ma venne ricostruita subito, tanto che nell’ottobre del 1811 risultò essere di una perfetta solidità.

Per qualche anno la nuova fonte dovette soddisfare le esigenze del Borgo che, essendo sede di mercato e di fiere, doveva avere maggiore necessità di acqua di altri luoghi. Tuttavia nel 1846 i suoi abitanti tornarono a farsi vivi in Consiglio per lamentare la scarsità d’acqua in estate, e nel 1858 per chiedere la riapertura di un antico pozzo onde sopperire alla deficienza dell’acqua primo necessario elemento. Nel 1879 di nuovo si rifecero risentire in Consiglio per chiedere acqua più abbondante e più pulita.

Nel 1881 riemerse lo stesso problema, questa volta dalle pagine di uno dei primi giornali locali, Il Giovane Titano del 21 agosto: E’ una cosa vergognosa, vi si legge, che in un paese come il nostro, col commercio quotidiano che abbiamo, colle fiere frequentatissime che vi si tengono, venga a mancare nell’estate l’acqua necessaria all’economia domestica. E’ una vergogna, ripeto, e conviene porvi riparo. In Borgo, specialmente; vi è un pozzo, munito di una pompa onde attingere l’acqua, il quale è a dir molto, se in due anni si è preso l’incomodo di dare tre secchi d’acqua. Non sarebbe obbligo di un Governo che si rispetta il fare un sistema di condottazione tale che fosse sufficiente per il mantenimento continuo dell’acqua, senza costringere i cittadini a farla venire da lontano e con grave dispendio?

Negli stessi anni anche altri castelli avanzarono richieste di fonti o pozzi, come Serravalle, che nel 1845 decise di tassare tutti i suoi residenti di uno scudo per costruire una nuova fonte con cui sopperire alla carenza d’acqua in estate, o San Giovanni sotto le Penne, che nel 1856 richiese, tramite istanza d’arengo, una fonte di acqua potabile.

Nel 1878 Serravalle tornò a lamentare la carenza di acqua durante il periodo estivo e a richiedere un aiuto al governo per farvi fronte.

A parte queste scarne richieste, però, negli atti consiliari del XIX secolo non è possibile trovare altro sull’insufficienza di acqua, che doveva essere quindi assai limitata e circoscritta, legata soprattutto al periodo estivo, o a cui la gente era talmente abituata da non darci troppo peso, eccetto che nei periodi straordinariamente siccitosi. Infatti mentre lungo tutto il secolo, soprattutto nella sua seconda metà, vi sono numerosissime petizioni, richieste e istanze d’arengo di costruzione o sistemazione delle strade, solo molto raramente i cittadini avanzano suppliche legate alle acque che, è bene ricordarlo, erano controllate dallo stesso funzionario governativo preposto alla verifica periodica delle vie di comunicazione.

Anche per quanto concerne il castello più popoloso, quello di Città, non emergono richieste particolari fino alla fine del secolo, segno evidente che le cisterne pubbliche o private che vi erano dovevano essere più che sufficienti al modesto fabbisogno locale. Le istanze che vengono presentate al Consiglio riguardano solo la scarsa qualità e potabilità dell’acqua, non la quantità. Infatti si possono rintracciare petizioni per pulire le cisterne nel 1824, nel 1845 e nel 1866.

A partire dagli anni ’70 cominciano invece ad essere presentate petizioni per dotare i tetti delle case del Pianello di grondaie, così da incanalare le acque direttamente nelle cisterne evitando che s’inquinassero penetrandovi in maniera non canalizzata.

Nel 1879 è il direttore del Collegio Belluzzi che si lamenta col governo per la scarsa pulizia delle acque delle cisterne. Che questo fosse il problema principale in questi anni ce lo dimostra pure la discussione che avviene all’interno del Congresso Economico nel settembre del 1897, quando si constata che le cisterne dovevano essere immediatamente svuotate e ripulite perché i pesci che vi venivano tenuti dentro come depuratori naturali erano tutti morti.

A testimonianza che la quantità di acqua dentro le cisterne non doveva essere il problema principale della comunità può essere portato anche il seguente episodio accaduto nel 1818. Si legge negli atti consiliari, in data 3 maggio: S.E. il Sig. Capitano Malpeli espose, come l’abitazione sua era priva del comodo dell’acqua per suo uso; nella costruzione di una cisterna la spesa sarebbe stata molto grave, ed ancora era privo del luogo adattato all’uso indicato, Laonde porgeva le sue fervorose istanze a questo Principe per il permesso di poter aprire un condotto per prendere l’acqua dalle Cisterne del Pianello. Dal Generale Consiglio le concesso il richiesto permesso per l’uso soltanto suo proprio come doverla sotteraneamente conduttarla per evitare qualunque pericolo che accader potesse in contrario.

Probabilmente Giuliano Malpeli, la cui abitazione era proprio di fronte alla parte inferiore delle cisterne, nella zona dove oggi sorge la sede centrale della Cassa di Risparmio, fu il primo sammarinese che poté godere di acqua corrente in casa. Il suo ruolo politico e la nobiltà del suo casato dovettero essere un buon aiuto nell’ottenimento di un permesso tanto unico, ma se l’acqua fosse stata abitualmente insufficiente o comunque scarsa, anche a lui di certo non sarebbe stato consentito tanto, se non altro per l’ostilità che avrebbe avuto da parte degli altri ottimati del paese.

Il problema della scarsa qualità dell’acqua sammarinese lo ritroviamo invece di nuovo agli inizi del secolo, all’interno di un articolo del Titano del 23 giugno 1907, da cui comprendiamo che le autorità sammarinesi avevano fatto fare per la prima volta analisi di laboratorio sulle acque sammarinesi.

E’ bene ricordarsi che, grazie alle scoperte di Eberth nel 1880, che individuò il bacillo del tifo, di Koch nel 1883, che isolò il vibrione del colera, e di Pasteur negli stessi anni, alla fine del XIX secolo divenne ormai chiaro quanto fosse fondamentale per l’igiene e la salute pubblica un’acqua batteriologicamente pura, concetto che in precedenza non faceva parte della coscienza collettiva. Da qui senz’altro queste analisi che diedero risultati pessimi: infatti l’acqua delle cisterne di Città e di quella di Borgo risultò inquinata; solo quella dell’ospedale e delle sorgenti di Fiorentino era pienamente potabile, e in minor misura quella della cisterna di casa Valloni, anche se non veniva giudicata di grande qualità.

Sul discorso della qualità più che della quantità è incentrato anche un articolo di Pietro Franciosi del dicembre 1908 in cui richiedeva alle autorità l’impianto del primo acquedotto locale. Col progresso di un paese, anche indipendentemente dall’aumento della sua popolazione, deve migliorarsi la qualità dell’acqua, accrescersi la quantità disponibile per i pubblici e privati servizi, disse al suo interno. (…) Potendo il nostro paese divenire stazione climatica e crescere di popolazione, sia pure per certi mesi dell’anno, ed avere la fortuna dell’impianto di qualche industria, dobbiamo far di tutto perché provvedendoci al più presto di acqua di sorgente a mezzo di condottazione, sia essa sana ed abbondante e sufficiente per tutti gli usi della vita moderna.

Per l’acqua, così poco potabile fra noi, avvengono sconci abbastanza deplorevoli – sentenziava pure Il Titano del 6 agosto 1911. Alla fonte del Pianello, per mancanza di buona pompa, si attinge acqua col sistema delle luride orciole e cappelle. Chi ha più sozzura ha più diritto d’immergerla, in pieno sol leone, nelle pubbliche cisterne. In Borgo si fa bere l’acqua inquinata e verminosa. A Chiesanuova si dissetano alla stessa fonte uomini e bestie. A Montegiardino è guastato il condotto recente fatto e non si fa accomodare. Ma perché tanta trascuratezza dell’elemento primo e maggiore?Ma che ci stanno a fare e gli Edili, e l’Ufficio Tecnico, e la Commissione di vigilanza ed altri organi burocratici e inutili in questi tempi di decantata igiene e di minacciante epidemia?  

Sul primo acquedotto locale, inaugurato solo nel 1915, torneremo. Ora invece è bene finire il discorso intrapreso sull’Ottocento, perché anche a San Marino fu questo il secolo in cui cambiarono mentalità e abitudini verso il bisogno e l’uso dell’acqua, non tanto per le necessità alimentari, quanto per quelle di natura igienica.

Infatti per tutto il centennio è possibile rintracciare nelle istanze dei cittadini, ed anche in alcune leggi varate nei suoi ultimi decenni, il desiderio di uscire da una situazione sanitaria precaria e priva di troppe regole. Frequenti sono, ad esempio, le richieste di creazione di chiaviche in cui far confluire le acque, per evitare che scorressero liberamente per le strade provocando danni e miasmi, ma anche dove convogliare le deiezioni dei cittadini, che in precedenza venivano scaricate ovunque senza troppe attenzioni. Istanze simili, che portarono anche a miglioramenti della rete di scolo, sono rintracciabili a partire dal 1818 per Città, e dagli anni ’50 per Borgo.

Dagli atti consiliari risulta che qualche chiavica fosse già esistente dai secoli precedenti, ma insufficiente al fabbisogno dei residenti, che scaricavano i rifiuti organici dove potevano, negli anfratti, negli orti, quando vi erano, spesso dalle finestre nottetempo provocando denunce e contese in tribunale da parte di chi subiva bagni fetidi non desiderati. Sono facilmente rintracciabili, infatti, istanze tese a chiedere il miglioramento di situazioni di grave sporcizia per la strada, dove periodicamente e non di rado scorrevano liberamente i liquami provocando pericolo di scivolamento per uomini e bestie, soprattutto lungo la ripidissima strada nelle vicinanze della cosiddetta Porta del Collegio, ovvero presso quella che era stata la principale porta d’ingresso al paese quando non c’era ancora il terzo girone delle mura (oggi visibile murata all’interno del Hotel Titano).

Inoltre nei mesi più caldi o in assenza prolungata di pioggia, la puzza diveniva insopportabile, ed anche di questo problema ci sono giunte diverse testimonianze.

Questa nuova sensibilità verso l’igiene, su cui comunque meriterebbe svolgere uno studio specifico, portò nel 1865 ad un regolamento per i pubblici macelli, e nel 1871 all’istituzione di due pubblici Scopatori per Città e Borgo, che avevano il compito ovviamente di tenere pulite le strade di questi centri abitati, mansione che prima era demandata ai singoli cittadini che risiedevano ai bordi delle vie. Essi venivano a percepire 30 centesimi al giorno ciascuno, più si potevano tenere lo sterco raccolto, ed avevano diritto anche alle multe elevate contro chi avesse commesso infrazioni relative alla nettezza urbana. Prima della loro nomina si decise di incaricare addirittura la Reggenza di fare un sopralluogo alle vie di Città per accertarsi delle condizioni generali della pubblica igiene.

Nel 1884 fu promulgato un importante e piuttosto innovativo Regolamento di igiene pubblica che in parte riprendeva, ampliandole ed adattandole ai tempi, alcune norme sanitarie già presenti negli statuti precedenti, ma in parte ne introduceva di nuove legate soprattutto ai pozzi neri, alle norme da seguire per il loro svuotamento, all’obbligo di tenerli ad una distanza minima di quattro metri dai pozzi o dalle fonti di acqua potabile ed altro ancora, segno certo di una nuova mentalità che stava maturando, in grado di comprendere quanto fosse importante evitare qualunque rischio di inquinamento delle acque per uso domestico da parte delle acque nere, rischio che per noi è ovvio, ma che all’epoca era piuttosto nebuloso.

Nel 1888, infine, venne promulgato un regolamento per sanitari e levatrici.

Alla fine del XIX secolo, in definitiva, si può affermare che la Repubblica di San Marino stava industriandosi per porsi sulla strada della modernizzazione in campo sanitario e del potenziamento della sua rete idrica, con particolare riguardo al miglioramento della qualità delle acque. C’era indubbiamente ancora parecchia strada da percorrere, tuttavia si stava cercando di fare qualcosa a livello normativo per debellare le periodiche epidemie di tifo o di colera cui erano soggetti anche i castelli sammarinesi.

Queste malattie epidemiche, che oggi sappiamo legate oltre che al semplice contagio con chi ne è ammalato pure all’inquinamento delle acque e dei cibi, ma che erroneamente in passato si pensavano dipendenti esclusivamente da cibi poco sani e da alimentazione scorretta, hanno lasciato varie tracce di sé lungo tutta la storia sammarinese, ed in particolare proprio nell’Ottocento. Infatti nel 1855 scoppiò in Repubblica un’epidemia piuttosto virulenta, con i principali focolai in Borgo e Serravalle, due dei Castelli con problemi idrici maggiori, che infettò 245 residenti facendo un centinaio di morti.

Dai documenti dell’epoca si comprende che le autorità imputassero la diffusione della malattia legata a frutta e verdura troppo o poco mature, a carne, pesce, salumi e porchetta, di cui venne proibita la vendita, alle bestie da macellare, che dovevano essere fatte visitare prima della loro uccisione, al gettito dalle finestre di liquami e residui organici, agli ammassi di letame presso gli abitati. Nulla comunque sull’acqua, a conferma che per la cultura medica dell’epoca ancora non vi erano collegamenti tra questo elemento e la malattia.

Un’altra grave epidemia di colera scoppiò a San Marino nel 1924-25, manifestandosi inizialmente a Fiorentino, arrivando poi in Città, per giungere infine a Serravalle. E’ stato acutamente notato che la diffusione di questa epidemia seguiva il percorso del nuovo acquedotto inaugurato nel 1915, per sottolineare come la distribuzione dell’acqua tramite queste nuove infrastrutture non fosse di per sé sufficiente a garantire una sua potabilità maggiore.

Anzi, chi ha studiato il problema relativamente agli acquedotti italiani ha rilevato che, finché non si è voluta creare anche una rigorosa rete fognaria capace di tener assolutamente distinte le acque nere da quelle ad uso domestico, gli acquedotti furono paradossalmente spesso più causa di malattie epidemiche, come il tifo ed il colera, piuttosto che loro prevenzione, perché distribuivano, ovviamente in quantità maggiori che in precedenza, acqua contaminata.

D’altra parte occorre dire che fino ad epoche vicinissime a noi non si è capito con chiarezza quanto fossero facilmente inquinabili le falde acquifere da comportamenti igienici inadeguati, come la creazione di fosse nella viva terra in cui scaricare materie putride o comunque di scarto, o l’utilizzazione degli anfratti o delle tante cavità naturali del monte Titano e del territorio come immondezzai, pratica durata per secoli sia in Città, sia nel contado.

Quindi si comprende facilmente da dove derivasse quel forte inquinamento dei pozzi e della maggioranza delle fonti idriche rilevato agli inizi del 1907 e di cui si è detto poco fa, ed è anche chiaro come mai il problema principale in gran parte del territorio sammarinese fosse la qualità delle acque più che la quantità.

Questa nuova sensibilità igienica venne cavalcata pure dai riformisti fautori dell’arengo del 25 marzo 1906, che sia prima che dopo della sua convocazione spinsero per miglioramenti generali della sanità sammarinese e specifici per il discorso che si sta facendo. Al punto 8 del programma politico divulgato tra i cittadini l’otto luglio 1906, infatti, il nuovo gruppo democratico misto scaturito dalle prime elezioni politiche sammarinesi evidenziò di voler riformare le leggi sull’igiene, la sanità e la sicurezza pubblica, e di voler predisporre un progetto per la conduttura dell’acqua potabile.

Anche il partito socialista locale volle inserire la soluzione del problema dell’acqua potabile all’interno del suo “Programma minimo” del dicembre del 1906.

Negli anni seguenti, aumentando per evoluzione dei tempi la cultura dell’acqua, ma anche la popolazione residente, la faccenda divenne sempre più sostenuta. Il consumo di acqua potabile in un paese, la qualità e la quantità della medesima sono senza dubbio tra i primi indici di civiltà di un popolo, e del grado di benessere da esso raggiunto –scrisse Pietro Franciosi sul Titano del 25 dicembre 1908. (…) Col progresso di un paese, anche indipendentemente dall’aumento della sua popolazione, deve migliorarsi la qualità dell’acqua, accrescersi la quantità disponibile per i pubblici e privati servizi.

Franciosi in sintesi si lamentava che, per incapacità dei vecchi governanti del defunto Consiglio oligarchico, la popolazione disponeva ancora solo di cisterne o pozzi di acqua pluviale, per lo più inquinata, con meno di 15 litri per abitante. Ma occorreva in fretta passare ad un’altra logica: Potendo il nostro paese divenire stazione climatica e crescere di popolazione, sia pure per certi mesi dell’anno, ed avere l’impianto di qualche industria, dobbiamo far di tutto perché provvedendoci al più presto di acqua di sorgente a mezzo di condottazione, sia essa sana ed abbondante e sufficiente per tutti gli usi della vita moderna.

L’acqua era dunque vista come un’esigenza generale di progresso, non solo come necessità per la pubblica sanità e per gli utilizzi domestici. In realtà uno dei motivi che fece decollare tardi a San Marino l’industrializzazione fu proprio la scarsità di acqua e di infrastrutture idonee per la sua distribuzione in quantità  adeguata anche agli usi industriali.

Era però sempre una carenza da colmare soprattutto per i mesi estivi: Si lamenta giustamente la mancanza in San Marino dell’acqua potabile - evidenziò ancora una volta Franciosi nel luglio del 1912 -  e si fa confronto con altri piccoli paesi e villaggi vicini, che non si peritano di contrarre debiti, anche vistosi, per provvedersi di acqua (…). E i lamenti si fanno sentire soltanto in questa stagione, in cui di solito vien meno l’acqua nelle cisterne. Indizio codesto dello spirito di previdenza di cui è dotato il nostro paese!  

Queste parole scaturivano dalle polemiche politiche che nel periodo si erano sviluppate intorno alla costruzione del primo acquedotto sammarinese, ma denotano chiaramente che i problemi erano sempre gli stessi, ovvero la scarsezza e la poca salubrità dell’acqua disponibile. Proprio per questo venne nuovamente inserito tra i punti programmatici del nuovo raggruppamento politico denominatosi “Blocco Democratico”, costituitosi nel mese di settembre del 1912, l’intenzione di ampliare le possibilità sul territorio di acqua potabile e di realizzare un acquedotto.

Le vicissitudini di questa prima importante infrastruttura in grado di fornire acqua a vari castelli furono complesse e travagliate, e risentirono dei gravi contrasti politici tra conservatori e progressisti degli anni che precedettero la prima guerra mondiale.

Fu grazie soprattutto ad un periodo di relativa stabilità politica ed all’attivismo di un personaggio come Olinto Amati, ben inserito in tanti ambienti importanti italiani, che si giunse dapprima, nel 1912, alla stipula di una convenzione con la Società Elettrica Adriatica per la fornitura di corrente elettrica, necessaria per far funzionare le pompe dell’acquedotto che si voleva edificare.

In seguito, nel 1913, fu sempre Amati che accompagnò alcuni tecnici italiani per verificare se le acque delle sorgenti di Canepa e Fiorentino fossero batteriologicamente idonee per essere distribuite tramite l’acquedotto che si voleva costruire. Questi sopralluoghi permisero addirittura d’individuare altre sorgenti a Fiorentino, fino a quel momento ignote, in grado di fornire alla cittadinanza acqua più abbondante e di qualità. Si valutava ottimisticamente in circa100 litri per abitante delle zone che si volevano servire, ovvero Città, Borgo e Serravalle, la quantità che ora poteva essere erogata. Tutti questi eventi positivi permisero di dar inizio ai lavori dell’acquedotto di Fiorentino negli ultimi mesi del ‘13, e di portarlo a compimento nel 1915, inaugurandolo per la ricorrenza dell’arengo, ovvero il 25 marzo.

Per obiettività storica occorre dire che non fu proprio quello di Fiorentino il primo acquedotto sammarinese. Infatti qualche anno prima, precisamente nel 1910, il castello di Montegiardino si era già dotato di un piccolo acquedotto, alimentato da tre sorgenti locali, in grado di soddisfare il fabbisogno dei suoi pochi residenti, soprattutto attraverso quattro fontanelle. Tuttavia quello di Fiorentino era ben più importante per la popolazione sammarinese.

Essendo la prima del genere ideata ed eseguita in Repubblica - sottolineò ancora una volta Franciosi, sempre attento al problema dell’acqua – ha un’importanza speciale, se si pensa che quattro quinti della popolazione Sammarinese bevono ancora acqua raccolta, contenente materie organiche, colonie di microbi e germi specifici in quantità, con grave danno e pericolo continuo per la salute pubblica.

Proprio l’esempio di Montegiardino, nonché le pressioni di Franciosi, Amati ed altri particolarmente sensibili al problema della carenza e della salubrità delle acque, portarono all’edificazione, come si è detto, di un secondo acquedotto assai più grande ed in grado di servire vari castelli e diverse centinaia di utenti.

Ma le velleità innovative nel campo dell’acqua non terminarono qui. Qualche anno dopo, nel 1918, si cominciò a pensare di creare una diga in località Gorgascura per sbarrare il fiume che qui scorre e creare un bacino idrico sia per ampliare le generali disponibilità di acqua, sia a vantaggio della cittadinanza, sia per produrre energia a vantaggio delle industrie, che ancora non riuscivano a nascere in Repubblica, nonostante gli incentivi economici che il governo prometteva, per le troppe carenze strutturali del territorio.

Negli anni successivi ci si adoperò con entusiasmo in tal senso, ma i tecnici consultati dissuasero le autorità sammarinesi con dettagliata relazione del 1920, perché la particolare conformazione del terreno dove si era ipotizzato di costruire la diga avrebbe richiesto un lavoro ciclopico e troppo dispendioso, quindi non conveniente rispetto ai vantaggi che ne sarebbero derivati.

Per vari anni, quindi, la situazione non subì innovazioni. Tuttavia la popolazione locale continuava ad inurbarsi e ad aumentare, così come il miglioramento delle vie di comunicazione portava sempre più turisti e commercio all’interno dei confini della Repubblica, insieme ai primi insediamenti industriali che presero vita proprio in questi anni.

L’acqua ricominciò per tali motivi a scarseggiare, e nei primi anni ‘30 si sentì nuovamente il bisogno di aumentarne il flusso. Per questo nel 1932 si tornò a studiare qualche soluzione: dopo analisi e progetti vari, si decise di aumentare l’afflusso di acqua nei castelli di Città e Borgo sfruttando la sorgente di Canepa. Nel luglio del 1935, dopo un paio di anni di lavoro, venne fatta l’inaugurazione del nuovo acquedotto di Canepa, infrastruttura che permise per qualche anno di acquietare le nuove esigenze emerse.

Negli anni immediatamente successivi continuarono però a registrarsi problemi di varia natura. Infatti del 1940 abbiamo precise testimonianze da cui risulta che il funzionamento della centrale di potabilizzazione di Canepa si stava dimostrando soddisfacente, ma vi era l’urgente esigenza di sistemare l’acquedotto di Fiorentino, perché l’acqua pluviale riusciva frequentemente a penetrare nei suoi pozzetti di presa creando problemi ricorrenti d’inquinamento.

Inoltre emergeva che tutta la rete di distribuzione idrica era carente, perché in molti tratti del suo percorso si avevano perdite notevoli o cospicui inquinamenti.

Anche per la rete idrica di Canepa si evidenziavano problemi analoghi, tanto che veniva registrato un discreto inquinamento alle prese di Cailungo, al serbatoio di Serravalle e, in forma ancora più grave, nell’ulteriore percorso verso Dogana. Secondo l’ufficiale sanitario compilatore del documento da cui si ricavano tali informazioni, tutti questi problemi si dovevano alle condutture fognarie che più volte s’incrociavano con quelle dell’acqua potabile o addirittura le soprastavano. Non a caso nell’estate del 1943 scoppiò un’epidemia di tifo che determinò più di 150 contagiati ed una decina di morti. Per farvi fronte vennero somministrate più di tremila vaccinazioni, si diede vita ad un servizio di disinfezione, e si provvide ad una clorazione supplementare dell’acqua.

E’ chiaro che il periodo bellico e le gravi conseguenze che provocò anche a San Marino, con migliaia di scampati provenienti dalle zone limitrofe, furono tra le principali cause della problematica situazione igienica in cui il paese versava, tuttavia  la situazione idrica rimaneva precaria pure per i motivi che si sono detti, e per questo il tifo fu costante durante tutta questa fase storica con punte più o meno elevate.

Nel 1944, in un’altra relazione dell’ufficiale sanitario, venne evidenziato che dal luglio al novembre di quell’anno si erano registrati 510 casi di tifo con 33 morti. Non tutti questi contagiati erano da imputarsi ovviamente alle locali scarse condizioni igieniche o all’acqua poco potabile. Infatti sempre l’ufficiale sanitario sottolineava che nella seconda metà di settembre si erano rifugiati in territorio notevoli quantità di sfollati, e questo, insieme alle disastrose condizioni igieniche che si avevano nelle gallerie e nei luoghi di sosta, aveva creato una situazione sanitaria insostenibile.

Durante questo periodo il sistema idrico sammarinese aveva sofferto anche per un altro motivo: nel settembre del ’44 le truppe tedesche in ritirata avevano fatto saltare la centrale elettrica sammarinese, cosicché i due acquedotti principali, le cui pompe funzionavano esclusivamente con la corrente elettrica, si arrestarono. Si riuscì comunque a rimediare in fretta e furia al grave problema con un paio di motori a scoppio reperiti a Rimini e adattati con le modifiche necessarie all’impianto di Fiorentino. L’acquedotto continuò così a svolgere il suo lavoro finché non arrivarono le truppe alleate che ripristinarono la corrente elettrica.

Negli anni successivi San Marino lentamente si riprese dalla grave situazione economica e sociale in cui il periodo bellico lo aveva precipitato. Tuttavia i problemi ed i costi legati alla ricostruzione, nonché le vicissitudini politiche causate dalla conflittualità tra Italia e locale governo socialcomunista, non permisero alla Repubblica di ampliare o migliorare più di tanto le sue ormai insoddisfacenti potenzialità idriche, che stavano dimostrandosi chiaramente inadeguate a rifornire di acqua ampie zone del territorio, in particolare Serravalle, Dogana e Falciano, costrette ad avvalersi con frequenza di un dispendioso servizio di autocisterne.

Fu così necessario attendere il periodo post Rovereta per attuare un ulteriore salto di qualità anche in questo settore, periodo in cui il paese ricevette cospicui contributi da parte degli Stati Uniti d’America, ora più amici della Repubblica grazie al cambio di governo che vi era stato. I primi contatti diplomatici per la realizzazione dell’opera avvennero alla fine del 1957, e l’annuncio della sponsorizzazione americana, consistente nella notevole cifra di 850.000 dollari, venne fatto direttamente a San Marino dall’ambasciatore americano

 

 

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